La pena nel ventennio fascista
Una ricognizione sulla pena nell’ambito della sezione dedicata alle trasformazioni del Novecento tra le due guerre deve tener conto del dato di fatto che quel periodo coincide pressoché integralmente con il ventennio fascista, durante il quale la pena detentiva venne utilizzata anche come strumento privilegiato di prevenzione e repressione di ogni e qualsiasi forma di opposizione politica o ideologica al regime. Non è quindi un caso che nel corso del ventennio il tradizionale e ricorrente dibattito culturale su fondamento, funzioni e finalità della pena sia stato sostanzialmente vanificato dalle scelte autoritarie della codificazione e delle leggi penali del regime.
Nei primi anni Venti la contrapposizione tra la Scuola classica, basata sulla concezione retributiva della pena-castigo, e la Scuola positiva, basata sulla pericolosità sociale dell’uomo delinquente, aveva perso gran parte della sua portata dirompente, offuscata dall’indirizzo tecnico giuridico propugnato sin dal 1910 da Arturo Rocco in una famosa prolusione tenuta all’Università di Sassari (Il problema e il metodo della scienza del diritto penale). La realtà delle due scuole era peraltro ancora presente a livello accademico, legislativo e giudiziario, e la Scuola positiva aveva avuto la forza di ispirare un progetto di riforma della parte generale del codice penale, predisposto nel 1921 da una commissione ministeriale presieduta da Enrico Ferri (Relazione al progetto preliminare del codice penale). Il progetto non aveva poi avuto seguito, ed era caduto nel vuoto a seguito dell’avvento del fascismo.
La crescente penetrazione dell’indirizzo tecnico-giuridico e il dibattito formalistico sul metodo giuridico, entrambi concordi nell’estromettere dal diritto penale qualsiasi riflessione di politica criminale, in quanto estranea alla pura dogmatica giuridica della scienza del diritto penale, avevano comunque favorito la tendenza a estromettere le componenti politiche e ideologiche dal dibattito sulla natura e sulle funzioni della pena (Pelissero in Neppi Modona, Pelissero 1997, pp. 831-43). Nei primi anni Venti anche la cosiddetta Scuola umanistica, che ripropone, mediante un confuso integralismo religioso, la criminalizzazione del peccato accompagnata da forme di solidarietà per il peccatore criminalizzato, creando una simmetria tra reato e pena da un lato, peccato e castigo dall’altro (Fassone 1980, pp. 54-55), concorre a precludere una riflessione su presupposti e fini di politica criminale del diritto penale e, in particolare, della pena.
Il nascente regime fascista trova così all’interno della stessa dottrina penale un clima idoneo, nello stesso tempo, a sottovalutare e ad avallare le scelte autoritarie del codice fascista che di lì a pochi anni avrebbe modellato il nuovo sistema delle sanzioni penali.
Il vero punto di riferimento per una ricognizione sulla pena nel periodo fascista non sono dunque le elaborazioni della cultura giuridica penale, ma le scelte del cosiddetto codice Rocco, ampiamente illustrate dal ministro della Giustizia Alfredo Rocco nella relazione del 1930 che accompagna il nuovo codice (Relazione [...] per l’approvazione del testo definitivo del codice penale). È necessario precisare che la pena è quella detentiva, posto che, oltre alla pena di morte, il codice del 1930 conosce solo il binomio tra pena privativa della libertà personale e pena pecuniaria. Sono state infatti abolite le altre sanzioni presenti nel codice Zanardelli del 1889, quali l’interdizione dai pubblici uffici, la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, la prestazione di un’opera determinata a servizio dello Stato, della Provincia o del Comune, la riprensione giudiziale. Per la prevenzione e repressione di specifici comportamenti devianti si ricorre a sistemi alternativi alla giustizia penale ordinaria, quali, per l’opposizione politica, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e la misura amministrativa del confino di polizia.
Con la perentorietà che gli è consentita dal carattere totalitario del regime di cui è ministro, Rocco affronta senza mediazioni il tema del sistema sanzionatorio, sotto i due profili della natura e delle funzioni della pena detentiva e dell’introduzione per i più gravi reati comuni della pena di morte (già prevista per i reati politici dalla l. spec. 25 nov. 1926, nr. 2008, Provvedimenti per la difesa dello Stato).
Nel definire i rapporti tra il nuovo codice penale e «la generale filosofia sociale, politica e giuridica del Fascismo», nella Relazione lo Stato fascista viene rappresentato
come un organismo, ad un tempo, economico e sociale, politico e giuridico, etico e religioso [...], come la risultante [...] degli individui, delle categorie e delle classi che lo costituiscono, avente propria vita, propri fini, propri bisogni e interessi che trascendono per estensione e per durata la vita stessa degli individui [...]. A tali preminenti fini e interessi che sono i fini e interessi statuali debbono, dunque, venire subordinati [...] tutti gli altri interessi individuali o collettivi [...] che hanno, a differenza di quelli, carattere transeunte e non già immanente, come gli interessi concernenti la vita dello Stato. [Ne deriva che il diritto di punire] è un diritto di conservazione e di difesa proprio dello Stato, nascente con lo Stato medesimo [...]: difesa che si applica mediante la minaccia, l’applicazione e l’esecuzione della pena; che si esplica per via della prevenzione generale o sociale dei reati [...], per via della prevenzione speciale o individuale di nuovi reati da parte dei colpevoli, e così per mezzo dell’intimidazione o della soddisfazione del pubblico in generale, come per mezzo dell’intimidazione, dell’emenda e dell’eliminazione individuale dei rei (pp. 6-8).
Questo confuso e omnicomprensivo eclettismo, che richiama tutte le possibili funzioni della pena, apre la via per
determinare quale sia la posizione del nuovo codice penale di fronte alla così detta lotta delle scuole criminali [...] Il nuovo codice penale [...] ha ritenuto opportuno prendere da ciascuna scuola ciò che in esse vi è di vero e di buono [...], preoccupandosi [...] di foggiare un sistema che tutte le scuole componesse nell’unità di un più alto organismo atto a soddisfare i reali bisogni e le effettive esigenze di vita della società e dello Stato (pp. 8-9).
La disinvolta composizione pragmatica tra i caratteri delle due scuole è la premessa per affiancare alla tradizionale pena retributiva della Scuola classica, predeterminata nella sua durata e proporzionata all'obiettiva gravità del reato e al grado di colpevolezza, le misure di difesa sociale proposte dalla Scuola positiva, ora denominate misure di sicurezza, commisurate alla pericolosità sociale dell’autore del reato e potenzialmente indeterminate nel massimo, cioè revocabili solo se e quando venga accertato il venire meno della pericolosità sociale del condannato.
Attraverso questo vistoso esempio di strumentalizzazione, anzi di vera e propria disonestà intellettuale, viene innescato l’effetto perverso di raddoppiare il carico sanzionatorio nei confronti dei condannati dichiarati socialmente pericolosi. Le finalità di cura, rieducazione e riabilitazione sociale delle misure di sicurezza, sulle quali Rocco si diffonde molto a lungo (pp. 10-12), stanno infatti scritte solo nel codice, posto che la misura di sicurezza viene eseguita, dopo aver scontato la pena detentiva, con modalità sostanzialmente analoghe a quelle previste per quest’ultima, a partire dalla totale privazione della libertà (Neppi Modona 2007, pp. 351-58; Pelissero in Neppi Modona, Pelissero 1997, pp. 836 e segg.; Fassone 1980, pp. 53-67).
Anche le argomentazioni relative alla pena di morte (v. Tessitore 2000, pp. 172-237) sono connotate nella Relazione da spregiudicata disinvoltura intellettuale. Premesso che la società e lo Stato hanno fini propri, a cui l’individuo «deve subordinare la propria azione e la propria esistenza», la pena di morte comporta che «ai fini immanenti della società si sacrifichino, se sia necessario, i fini dell’individuo» (pp. 16-17).
Alla legittimità della pena di morte si accompagna la sua necessità, in base al presupposto che nei confronti dei più gravi delitti
nessuna pena ha l’efficacia della pena di morte, nessuna intimidisce di più, sia nel momento della minaccia, sia in quello dell’esecuzione; nessuna [...] soddisfa più completamente l’opinione pubblica indignata (p. 17).
Il ministro Rocco può infine rilevare, con una buona dose di cinismo, che anche
la funzione di prevenzione individuale [...] trova nella pena capitale uno strumento, direi quasi perfetto, in quanto nessuna pena è più di questa completamente eliminativa (p. 17).
Nell'eclettica concezione polifunzionale di Rocco c’è un piccolo neo, in quanto la pena capitale «rende impossibile l’emenda e la rieducazione del reo», ma la questione è rapidamente superata rilevando che queste non sono funzioni essenziali della pena, ma «scopi secondari od accessori» (pp. 17-18). La trionfale conclusione è che il ripristino della pena di morte
costituisce un altro felice segno del mutato spirito della Nazione italiana, della riacquistata virilità ed energia del nostro popolo, della totale liberazione della nostra cultura giuridica e politica dall’influsso di ideologie straniere, alle quali l’abolizionismo si ricongiunge direttamente (p. 21).
A fronte di una cultura giuridica succube delle preponderanti scelte legislative, presenta maggiore interesse verificare i criteri e le modalità di esecuzione della pena detentiva, così come definiti dal nuovo Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, emanato con r.d. 18 giugno 1931, nr. 787, in stretta connessione con il codice penale dell’anno precedente (Tessitore 2005, pp. 87-205; Neppi Modona 1973, pp. 1966-77). Anche qui è lo stesso Rocco a illustrare come il regime intende disciplinare la vita dei detenuti nelle carceri italiane, mediante l’ampia relazione del 1931 che accompagna il testo del regolamento penitenziario (Relazione [...] per l’applicazione del testo definitivo del regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena). Richiamandosi a quanto già espresso l'anno precedente nella relazione al codice penale, egli ribadisce che
l’Italia fascista [...] ha consacrato [...] un sistema dell’esecuzione delle pene detentive, che, superando tutti i contrasti delle scuole, conservando alla pena il suo carattere fondamentale di castigo [...], segna altresì la necessità che il regime carcerario serva alla rigenerazione del condannato, nell’interesse dell’individuo e della società (p. 582).
Il conclamato eclettismo delle funzioni della pena si riflette puntualmente in materia penitenziaria. Il primo obiettivo è di «stabilire norme di vita carceraria, che siano bensì idonee a emendare il condannato, ma non tolgano alla pena il carattere afflittivo e intimativo» (p. 583). L’emenda, la rieducazione e il recupero sociale non debbono cioè mai far venire meno «l’austero carattere dell’esecuzione penale» (p. 585).
I connotati afflittivi sono particolarmente evidenti nella disciplina delle tre leggi fondamentali della vita carceraria – lavoro, istruzione civile e pratiche religiose – e nel loro carattere tassativo, nel senso che ogni altra iniziativa o attività è non solo vietata, ma colpita con sanzioni disciplinari. Questo è per es. il caso del divieto dei «trattenimenti musicali», che potrebbero essere un «fattore di emenda dei condannati», ma
debbono essere riservati al cittadino che vive la vita onesta e libera ed essere interdetti a chi l’emenda deve conseguire attraverso l’esecuzione della pena (p. 586).
Quanto alla religione, la partecipazione obbligatoria alle pratiche religiose viene concepita essenzialmente come strumento di controllo disciplinare, in base alla regola che
ovunque [...] v’è una unione di persone, tenuta ferma da un sistema di disciplina obbligatoria, non è consentito ai singoli di astenersi dalla partecipazione alle funzioni regolamentari collettive del culto dello Stato, perché queste sono una manifestazione di quella disciplina morale, che è la base di ogni forte ordinamento [...]. Nell’organizzazione militare e nelle organizzazioni scolastiche si può trovare conferma di questa affermazione (pp. 586-87).
Quanto al lavoro, la sua indiscutibile funzione rieducativa viene strumentalizzata a fini di sfruttamento e di colonizzazione interna.
Le pubbliche amministrazioni hanno tali e tanti bisogni [...] che sarebbe strano che si insistesse nell’attuale sistema di rinunciare a servirsi di una mano d’opera che lo Stato può regolare come meglio crede nell’interesse della generalità dei cittadini. [Tuttavia] le case di lavoro per il miglioramento dei terreni non debbono [...] servire esclusivamente a una buona organizzazione penitenziaria, ma avere per finalità la preparazione all’occupazione delle terre da parte dei lavoratori liberi, concorrendo così a quella grandioso opera di colonizzazione interna, cui il Regime attende con illuminata visione dei più vitali bisogni della nostra Patria (pp. 617, 620-21).
Infine l’istruzione, destinata soprattutto a contrastare l’ancora diffuso analfabetismo, originario o di ritorno, è concepita come prima tappa di un processo di progressiva trasformazione del condannato, specie ove si tratti di minorenne, «prima in detenuto modello, poi in cittadino probo e infine in fascista perfetto» (Tessitore 2000, p. 115).
La strumentalizzazione della disciplina e delle regole carcerarie a fini propagandistici e di fascistizzazione dei detenuti è documentata con particolare evidenza in Bonifica umana, due poderosi volumi dedicati alle realizzazioni del regime nel settore carcerario, pubblicati dall’allora ministro della Giustizia Dino Grandi nel 1941, in occasione del decennale delle leggi penali e della riforma penitenziaria.
Il parallelismo tra carcere, istituti scolastici e ospedalieri – a cui Rocco aggiungeva l’organizzazione militare –, tutti destinati indistintamente, secondo Grandi, «alla grande bonifica umana perseguita in tutti i campi», va visto in un quadro generale in cui il carcere interviene come ultima istanza nei confronti di coloro che la scuola o l’esercito non sono riusciti ad allineare alle scelte politiche e sociali del regime, sino a proporre «provvedimenti di polizia a carattere eliminativo» per i soggetti pericolosi non rieducabili, e cioè il confino di polizia nell’ambito di «una opportuna collaborazione tra attività giudiziaria e attività di polizia» (Bonifica, cit., pp. 16, 45, passim).
Le condizioni della vita carceraria sono visivamente rappresentate nel secondo volume della Bonifica. La descrizione dei detenuti – minorenni e adulti, uomini e donne – rasati a zero, vestiti con casacche uniformi e spersonalizzanti, durante le lezioni di cultura fascista, nella «letizia» della mensa, a messa, nel corso di goffe esercitazioni ginniche o paramilitari, nell’attività di dissodamento dei terreni destinati ai coloni liberi, conferma la realtà di un disegno volto non solo a custodire e a emarginare il detenuto, secondo l’ideologia negativa dello Stato liberale, ma a indottrinarlo e a sottoporlo alla propaganda del regime (Neppi Modona 1973, pp. 1976-77; Tessitore 2000, pp. 112 e segg.).
La pena detentiva viene dunque a svolgere nel corso del ventennio un non secondario ruolo politico-ideologico anche nei confronti dei detenuti comuni. Ma il sistema di prevenzione-repressione delle varie forme di devianza non è affidato solo alla giustizia penale ordinaria.
Nell’introdurre il tema delle misure di sicurezza, la stessa Relazione ministeriale del 1930 sul codice penale le distingue dai «mezzi di difesa preventiva contro le cause particolari o individuali dei reati» (p. 10), disciplinati dalle leggi di pubblica sicurezza ed estranei alla sfera penale.
Si tratta in primo luogo del confino di polizia, introdotto appunto dal r.d. 6 nov. 1926, nr. 1848 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), nei confronti dei nemici interni del regime, cioè coloro che
svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un’attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello stato o a contrastare o a ostacolare l’azione dei poteri dello Stato, o un’attività comunque tale da recare nocumento agli interessi nazionale, [nonché] le persone designate dalla voce pubblica come pericolose socialmente o per gli ordinamenti politici dello Stato (art. 184).
Il confino di polizia era disposto da commissioni amministrative a livello provinciale per una durata, rinnovabile, da uno a cinque anni ed era scontato in apposite colonie, dislocate in genere nelle isole minori. Ne erano destinatari, oltre a mafiosi e camorristi, le più disparate categorie di oppositori: comunisti, anarchici, socialisti, appartenenti a Giustizia e libertà, esponenti liberali e cattolici, e anche semplici disfattisti.
Nell’arco temporale tra il 1926 e il 1943 furono 12.300 gli oppositori politici inviati al confino, a cui vanno aggiunti altri 2600 confinati che erano pubblici dipendenti autori di reati contro la pubblica amministrazione o contro il patrimonio, fascisti dissidenti, omosessuali o spie ormai bruciate, tutte persone confinate per evitare che la sia pur minima pubblicità connessa al loro processo potesse recare danno all’immagine del regime.
La repressione politica era affidata anche alla pena detentiva, che interviene in due differenti contesti. Per le forme di opposizione occasionali, ricollegabili a iniziative e manifestazioni individuali, provvede la magistratura ordinaria – preture e tribunali penali – mediante il processo, utilizzando reati comuni non particolarmente gravi che possono acquistare in concreto valenza politica. Delle forme clandestine di opposizione politica organizzata, espressione dei disciolti partiti e movimenti antifascisti, si occupa il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, organo militare di giustizia politica appositamente istituito nel 1926, avente unica sede in Roma. In tempo di pace, dal 1926 al 1940, il Tribunale speciale ha giudicato 5619 imputati, di cui 4596 condannati, per un totale di 28.000 anni di galera, e ha pronunciato 9 condanne a morte, senza tenere conto di quelle, ben più numerose, emesse successivamente contro nazionalisti e irredentisti croati e sloveni (Neppi Modona 2007, p. 349; Tessitore 2000, pp. 293-316).
Un’eccezionale documentazione sul sistema penitenziario e sulle condizioni di vita dei detenuti politici nelle carceri italiane durante il ventennio è contenuta in un numero monografico speciale de «Il ponte» del 1949, ove sono raccolte le testimonianze di numerosi antifascisti condannati dal Tribunale speciale.
Non esistono invece dati sui processi per reati comuni aventi connotazione politica; ma è presumibile che il numero sia abbastanza consistente, stante la capillare diffusione degli organi giudiziari su tutto il territorio nazionale.
L’utilizzazione della pena detentiva e del confino di polizia in funzione di repressione e prevenzione dell’opposizione e del dissenso politico, nonché il programma, parzialmente attuato negli ultimi anni del regime, di trasformare la pena detentiva in mezzo di indottrinamento filofascista dei detenuti comuni, confermano la scelta qui operata di affrontare il problema della pena tra le due guerre non tanto nell’ambito del tradizionale dibattito interno alla cultura penalistica, quanto mettendo in rilievo il preponderante ruolo di repressione politica e di condizionamento ideologico assegnato dal fascismo alla pena detentiva.
Arturo Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, «Rivista di diritto e procedura penale», 1910, pp. 497-521, 560-82.
E. Ferri, Relazione al progetto preliminare del codice penale, «La scuola positiva», 1921, pp. 1-130.
Alfredo Rocco, Relazione a S. M. il Re del Ministro Guardasigilli (Rocco) presentata nell'udienza del 19 ottobre-VIII per l’approvazione del testo definitivo del codice penale, in Codice penale e codice di procedura penale (R. D. 19 ottobre 1930-VIII) preceduti dalle rispettive Relazioni ministeriali, Torino 1930, pp. 3-137.
Alfredo Rocco, Relazione a S. M. il Re del Ministro Guardasigilli (Rocco) per l’applicazione del testo definitivo del regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, «Rivista di diritto penitenziario», 1931, 3, pp. 581-705.
G. Novelli, Il nuovo regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, «Rivista di diritto penitenziario», 1931, 3, pp. 569-77.
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B. Petrocelli, La funzione della pena, in Scritti giuridici in memoria di Edoardo Massari, Napoli 1938, pp. 139 e segg.
D. Grandi, Bonifica umana. Decennale delle leggi penali e della riforma penitenziaria, 2 voll., Roma 1941.
G. Bettiol, In tema di unificazione di pena e misura di sicurezza, «Rivista italiana di diritto penale», 1942, ora ripubbl. in Id., Scritti giuridici, t. 2, Padova 1966, pp. 565 e segg.
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