La pena
Due premesse sono utili a dichiarare in limine la coordinate di fondo, entro le quali si svolgerà la seguente rassegna della cultura della penalità in Italia dal dopoguerra a oggi.
La prima consiste nella precisazione che non sarà affrontata specificamente ed ex professo la questione – pur presente nella penalistica italiana del secolo scorso – del carattere scientifico o meno dell’elaborazione di pensiero avente a oggetto la penalità e il diritto penale. La discussione sulla reale scientificità della penalistica è, da un lato, filosoficamente troppo vasta e, dall’altro, storicamente inconclusa (o forse addirittura inconcludente) per costituire un buon criterio organizzativo della nostra rassegna. Il che però non esclude affatto – come vedremo – che una sorta di tensione problematica verso la scientificità sia stata spesso uno dei fattori condizionanti, o comunque influenti, sulle scelte metodologiche e sugli orientamenti contenutistici della penalistica anche italiana.
La seconda premessa consiste nella precisazione che il nostro campo di osservazione si spingerà oltre i confini esclusivi della cosiddetta ‘dottrina’, che s’identifica per lo più con l’elaborazione teorica prodotta in sede accademica. Assumendo un punto di vista che certamente non è neutrale, riteniamo infatti che una storia della cultura penalistica – tanto più se così vicina a noi come quella che dal secondo dopoguerra giunge a oggi – sarebbe manchevole se non tenesse conto anche del contributo che all’evoluzione, non solo della penalità ma anche della riflessione sulla pena, hanno dato la produzione legislativa e l’applicazione giurisprudenziale. E ciò da un duplice punto di vista.
In primo luogo, l’oggetto della penalistica non prescinde dal dato legislativo e giurisprudenziale se non in alcune espressioni estreme della 'dogmatica' ovvero di 'giusnaturalismo' o 'giusrazionalismo', che sono minoritarie e comunque non riflettono più il complessivo orientamento della penalistica italiana sempre più incline a dedicare la propria attenzione – seppure più o meno criticamente – alla produzione legislativa e giurisprudenziale.
In secondo luogo, e in senso per così dire inverso, non è dubitabile che, specie negli ultimi decenni, proprio la legislazione e soprattutto la giurisprudenza siano state l’innesco che ha favorito la circolazione nella cultura penalistica di nuovi modelli e paradigmi o comunque ne ha propiziato la creazione o la messa a punto da parte della riflessione teorica. Gli esempi più clamorosi sono quelli della ‘dottrina’ del nesso di derivazione causale dell’evento dalla condotta criminosa, che non si sarebbe sviluppata così come è avvenuto se non vi fosse stata la forte sollecitazione della giurisprudenza della Cassazione; e della ‘dottrina’ dell’ignorantia legis che, inizialmente – negli anni Settanta – appannaggio di pochi studiosi, si è poi consolidata definitivamente sulle basi poste da una giustamente storica sentenza della Corte costituzionale (1988). Per non parlare, poi, di tutti quei contributi e dispute dottrinali originati dalla giurisprudenza sul cosiddetto concorso eventuale (o ‘esterno’) nei reati associativi (e di associazione mafiosa in particolare. Ma anche la produzione legislativa, nonostante la sua crescente caoticità e talvolta estemporaneità, non ha mancato di innescare l’approfondimento teorico e politico-criminale di categorie come quella del pericolo, e delle sue costellazioni concettuali come la colpa e oggi anche il dolo eventuale; un approfondimento resosi invero necessario per la proliferazione di interi settori normativi orientati alla prevenzione di offese a beni fondamentali.
Avvicinandoci ora a sorvolare questo sessantennio di scienza penalistica italiana, non sembra metodologicamente possibile procedere con la chiarezza necessaria se non si individuano delle chiavi di lettura di un panorama culturalmente assai vario e cangiante.
La prima chiave di lettura ha carattere statico, nel senso che mette in luce una contrapposizione, una dialettica costantemente ricorrente nella nostra penalistica del dopoguerra e che – almeno in una certa misura – finisce per prescindere dai contenuti specifici di volta in volta assunti. La seconda chiave di lettura sarà, invece, basata sui contenuti e ha carattere dinamico, nel senso che consentirà di prospettare una periodizzazione della nostra scienza proprio sulla base di quei contenuti. Dunque, un paradigma sincronico il primo, una sequenza diacronica la seconda.
Sarà forse perché, nonostante qualche recente rivalutazione, l’ombra dell’indirizzo cosiddetto tecnico-giuridico, consacrato da Arturo Rocco nella sua famosissima prolusione sassarese (1910) e aleggiante poi nel codice del 1930, si protendeva ancora densa sulla cultura dell’immediato dopoguerra, sarà forse per ciò che d’allora in poi le vicende della nostra penalistica sono caratterizzate da una costante tensione verso il superamento del rigido legalismo e dall’apertura verso componenti diverse dal 'verbo' legale statualistico.
Con sintesi forse estrema ma espressiva, si potrebbe dire che la chiave di lettura sincronica della penalistica postbellica sta in una dialettica oppositiva, e sempre alla ricerca del migliore equilibrio, tra un ‘penale’ che sta tutto entro la legge oppure che deborda anche fuori della legge. Naturalmente, è chiaro come la dialettica dentro/fuori, lungi dal radicalizzarsi verso gli estremi, rimanda a una gamma di molteplici gradazioni.
E questo ‘fuori’ sono i fatti, i valori, i dogmi. E ciascuno di essi può essere più o meno ‘fuori’, più o meno esterno o distante dalla norma legislativa.
I fatti, i dati dell’esperienza, il sapere empirico e criminologico accompagnano la parabola della scienza penale dalla grande performance della Scuola positiva della fine Ottocento sino alla rinascita del secondo dopoguerra dopo la parentesi del tecnicismo giuridico. Il ruolo svolto dal sapere empirico all’interno della scienza penale è però, di volta in volta, molto diverso. Schematizzando al massimo, si può dire che il richiamo o l’appello all’empiria può porsi su un piano epistemologico, condizionando lo statuto scientifico della penalistica, oppure può corrispondere a un’esigenza di interna razionalizzazione del sapere penalistico, ponendo così anche un argine alle tentazioni legislative di un uso troppo disinvoltamente politico dello strumento penale.
La scuola positiva andava nel primo senso, finendo nelle sue punte estreme per sostituire l’osservazione dei fatti (la ‘pericolosità’ criminale dell’individuo o della società) alla valutazione assiologica del comportamento criminale (esprimente un disvalore di antitesi soggettiva e oggettiva all’ordinamento), quali premessa condizionante l’edificio normativo della penalità.
Nella penalistica del secondo Novecento, invece, l’appello ai fatti opera prevalentemente nell’altro senso della razionalizzazione interna al sistema normativo, non avendo avuto grande seguito in Italia orientamenti estremistici che, sulla base dell’empirica ‘inutilità’ della pena, assumevano radicali posizioni ‘abolizioniste’. Costanti sono stati e sono, piuttosto, non solo il generico auspicio metodologico di una maggiore integrazione tra scienza penale e criminologia, ma anche le più puntuali prese di posizione critica verso una politica criminale – e dunque un prodotto legislativo – troppo poco attenta alla verificabilità empirica dei risultati ottenibili con lo strumento penale, per inseguire invece più immediati vantaggi di consenso sociale a costi relativamente bassi (è questo il tema, non solo italiano, della cosiddetta legislazione penale simbolica).
Non sono mancati aspetti specifici che hanno potuto beneficiare del contributo di razionalizzazione derivante dal richiamo alle scienze empiriche. E così, per es., la Corte costituzionale – molto apprezzata in questo dalla dottrina – ha enunciato il principio per cui possono essere legittimamente oggetto di previsione penale solo fatti empiricamente verificabili. E sempre la Corte costituzionale ha sviluppato una giurisprudenza contraria a presunzioni assolute, in specie di pericolosità soggettiva, in quanto contrarie alla realtà dei fatti. E ancora, la dottrina seguita dalla giurisprudenza ha definitivamente impostato il problema del nesso causale tra evento e condotta in termini scientifici e non più puramente normativi o peggio addirittura intuizionistici.
I valori sono stati sempre presenti nella penalistica italiana del secondo dopoguerra, anche se certamente le posizioni e le correnti di pensiero al riguardo sono estremamente variegate. Anche perché sotto il generico richiamo ai valori possono essere intese cose assai diverse: da entità assiologicamente indiscutibili nella loro esistenza trascendente il diritto positivo, fino ad arrivare agli interessi sociali storicamente relativi, mutevoli e molto dipendenti nella loro esistenza concreta proprio dalle tutele giuridiche, passando per la categoria in qualche modo mediana dei diritti fondamentali che, pur preesistendo al riconoscimento statuale, concretizzano la loro reale portata nella vita dell’ordinamento.
La penalistica italiana ha, nel suo complesso, manifestato una grande apertura nei confronti di questo ‘fuori’ della norma legale, potendo così recuperare un grande respiro culturale, dopo la parentesi scientificamente angusta del tecnicismo giuridico e quella politicamente plumbea del fascismo. Un’apertura mantenuta, peraltro, in un grande equilibrio con il ‘dentro’ normativo, non essendo mai stato messo in discussione quel principio di legalità che dalla grande tradizione liberale è giunto intatto fino a noi, con gli affinamenti e qualche disincanto recatigli dall’ultima generazione degli studiosi.
Solo per dare un po’ di concretezza al discorso, val la pena di proporre qualche esemplificazione senza alcuna pretesa di completezza. Il diritto penale di Giuseppe Bettiol è quello per eccellenza impregnato di valori: quei valori indiscutibili desunti dal pensiero cattolico, che vedono al centro la persona umana con il suo risvolto penalistico di responsabilità morale individuale, colpevolezza e retribuzione. Un diritto penale assiologicamente ricostruito anche a costo di qualche forzatura del 'dentro' normativo e addirittura un 'dentro' normativo che sta in costituzione: e invero il principio rieducativo della pena, posto nell’art. 27, viene da Bettiol largamente depauperato di quell’implicita premessa di corresponsabilità sociale nella criminogenesi, da cui muoveva la componente d’ispirazione marxista che pure contribuì alla formulazione di quell’allora rivoluzionario principio.
Francesco Antolisei (1882-1967), sul cui Manuale si sono formati nel dopoguerra generazioni di studiosi, è famoso per il suo ‘realismo’, oltre che per la cristallina chiarezza del suo discorso capace di rendere quasi tangibile ('realisticamente', appunto) l’istituto giuridico. Realismo significa che ogni norma, ogni istituto, ogni concetto va studiato e compreso in rapporto a quella realtà cui esso necessariamente si riferisce: una realtà costituita tanto di entità materiali quanto soprattutto di interessi e valori sociali. Nessuna trascendenza assiologica, dunque, e anche un rapporto stretto tra ‘dentro’ e ‘fuori’, posto che il realismo interpretativo di Antolisei instaura un ponte tra la norma che agisce nella realtà e la realtà in qualche modo conformata dalla norma. Solo la magistrale saggezza di Antolisei impedì che emergesse subito l’inevitabile contraddizione formale presente nel suo discorso. Una contraddizione destinata a emergere allorché gli allievi di Antolisei e della scuola torinese portarono all’estremo la contrapposizione con la cosiddetta concezione realistica del reato (Marcello Gallo, Guido Neppi Modona), secondo la quale è reato il fatto che sia non solo conforme alla descrizione legale ma anche concretamente offensivo dell’interesse sociale tutelato. E Pietro Nuvolone (1917-1985) ebbe buon gioco nell’osservare che il richiamo all’interesse protetto, con la sua apertura alla realtà sociale, può costituire una sostanziale rottura della legalità per l’intrinseca difficoltà di desumerlo compiutamente dalla legge.
Giuliano Vassalli fece dei diritti umani fondamentali uno dei Leitmotive della sua poderosa produzione scientifica e del suo impegno civile nelle più alte istituzioni dello Stato. Probabilmente acuita ‘sul campo’ dell’esperienza bellica e delle drammatiche vicende, anche personali, dell’occupazione tedesca, la sua sensibilità di penalista per i diritti fondamentali si manifestò in una duplice direzione. Prima di tutto, com’è naturale, nell’approfondimento del principio di legalità (al quale in effetti dedicò molte opere fondamentali in un lungo arco di tempo) quale baluardo contro l’arbitrio del potere punitivo. In secondo luogo, dall’immediato dopoguerra fino ai giorni nostri, sentì acutissimo il problema della punizione dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità in quanto violazioni dei più fondamentali diritti della persona da parte della legge ingiusta. Vassalli, il cui pensiero è immerso nella storicità del diritto e nella consapevolezza delle sue sempre possibili degenerazioni legalistiche, giunge alla fine ad aprire una breccia controllata nella tradizionale legalità penale ammettendo il caso estremo di una punizione retroattiva dei crimini disumani, purché pur sempre disposta con legge generale.
I dogmi esprimono una problematicità del tutto peculiare nella dialettica ‘dentro/fuori’ da cui abbiamo preso le mosse. Certamente, la dogmatica penale è oggi associata all’idea di una certa qual astoricità e rigidità concettualistica se non proprio di un formalismo deteriore. Il suo regno è la cosiddetta parte generale del diritto penale, la teoria generale del reato, in cui trovano posto i presupposti della punibilità: il comportamento umano, la sua qualificazione di antigiuridicità e la sua attribuzione soggettiva all’agente. Patrimonio comunque insopprimibile, almeno dal punto di vista metodologico, della riflessione penalistica, la dogmatica penale sembra però esibire storicamente un duplice volto.
Dogmatico è, in primo luogo, il lavoro del giurista che, muovendo dalla realtà del diritto positivo, rimane in qualche modo ‘dentro’ di esso pur salendo a gradi sempre più alti di astrazione nella costruzione degli istituti giuridici e anche nella formulazione delle ‘teorie’ esplicative della disciplina giuridica, delle sue simmetrie o contraddizioni che siano. Fino ad arrivare talvolta alla ipostatizzazione dei ‘dogmi’ così costruiti, scambiati per la vera realtà del diritto. Questa dogmatica, che pure ha avuto nell’Italia dell’anteguerra insigni cultori, è sembrata poi incapace di adeguare il diritto penale alla complessità del ‘postmoderno’. Tuttavia, questa dogmatica ha mostrato delle virtù e mantiene dei pregi. Nel momento in cui il lavoro dogmatico giunge all’astrazione di categorie che sembrano senza tempo, implicitamente le strutture fondanti della responsabilità penale sono poste al riparo dalle involuzioni del legislatore (e questo è probabilmente il ruolo da essa svolto durante il fascismo, per es. con il grandissimo Giacomo Delitala, 1902-1972). Gli attuali pregi della dogmatica (evidenti in particolare nell’opera di Antonio Pagliaro) si misurano sul piano dell’educazione metodologica delle nuove generazioni, costituendo essa il necessario addestramento per l’acquisizione e il rafforzamento degli strumenti logici necessari non solo all’utilizzazione delle norme, ma anche a fronteggiare i sempre incombenti rischi dell’intuizionismo.
Oggi si può forse dire che la penalistica italiana, mentre ha rotto da tempo il monopolio della dogmatica ipostatizzante, ne continua però ad apprezzare i pregi metodologici.
Dogmatico, in secondo luogo, è nondimeno anche il lavoro del giurista che, senza abbandonare le grandi categorie concettuali e astratte della responsabilità penale (tipicità, antigiuridicità, colpevolezza, teoria della rappresentazione o teoria della volontà, accessorietà o autonomia del concorso di persone ecc.), ne scopre e ne mette in luce il teleologismo verso i grandi obiettivi di politica criminale, rivelando come ogni figura dogmatica sia l’espressione compiuta di un’opzione politico criminale e quindi di valore. La dogmatica teleologicamente orientata, pur non essendo probabilmente mai stata assente nella penalistica italiana dall’Ottocento in poi, solo relativamente di recente è stata fatta oggetto di una riflessione manifesta – se non proprio di un programma – diretta a mettere in chiara luce nessi a lungo rimasti in ombra. La scuola napoletana, da Biagio Petrocelli (1892-1976) e Dario Santamaria (1925-1982), procede in questa direzione avvalendosi altresì del fondamentale contributo recato oltralpe alla dogmatica teleologica (specialmente da Claus Roxin).
Veniamo ora alla rassegna diacronica, non si finirà mai di avvertire in generale che le periodizzazioni sono sempre esposte al rischio di forzature e approssimazioni. Anche se, per la verità, nel nostro caso sembrano piuttosto evidenti i nessi fra le trasformazioni della vita politica e sociale italiana della seconda metà del 21° sec. e l’evoluzione della nostra cultura penalistica, intesa in quel senso molto ampio di cui si è detto all’inizio.
In una prima fase, che grosso modo va dall’immediato dopoguerra a tutti gli anni Sessanta, al clima di fervore e attivismo economico della ricostruzione materiale non corrisponde uno spirito altrettanto innovativo sul piano politico, sociale e istituzionale. La guerra fredda contribuisce probabilmente a rallentare l’adeguamento dell’ordinamento istituzionale e legislativo alla nuova Costituzione. E l’area della penalità non fa certo eccezione.
Molta parte della dottrina penalistica si attarda ad attualizzare la base di legittimazione del vecchio codice penale del fascismo nonostante l’avvento della nuova Costituzione. Forse rilegittimando così, più o meno consapevolmente, sé stessa dopo l’osservanza prestata a quel codice, di cui in effetti si metteva ora in luce la continuità con la tradizione liberale risalente alla grande penalistica ottocentesca (a differenza indubbiamente di quanto era avvenuto in Germania con la disintegrazione dello stesso principio di legalità). Non si riuscì dunque – o non si volle – cogliere l’inversione di accento che la costituzione avrebbe dovuto produrre proprio e prima di tutto sulla penalità, nella duplice direzione di un solidarismo personalistico del tutto estraneo all’impostazione invece nettamente repressiva e generalpreventiva del codice, e dell’assolutezza delle libertà civili e politiche che quel codice non esitava invece a conculcare, con l’ausilio determinante del testo unico di polizia, tutte le volte in cui le ragioni dello Stato dovevano prevalere su quelle dell’individuo.
Ebbene la cultura penalistica non ebbe la forza di cogliere tutta la portata innovativa che il nuovo personalismo costituzionale (alla duplice insegna del solidarismo e del liberalismo) avrebbe dovuto esercitare sul penale. E anche i progetti ufficiali di riforma, che pur non mancarono per superare in qualche modo il codice del ’30, furono tutti di piccolo cabotaggio (e uno addirittura regressivo), così che pare davvero condivisibile il giudizio retrospettivo di chi ritiene che nulla vi sia da rimpiangere se quei progetti rimasero allo stato di conati spesso sorretti da scarsa convinzione politica.
Tuttavia, il giudizio complessivo su quel periodo non può trascurare due elementi altamente significativi. In primo luogo, il carattere 'presbite' della nostra Costituzione, per riprendere la felice espressione di Piero Calamandrei. A ben vedere, infatti, stando sia alla formulazione delle norme costituzionali penali, sia anche allo spirito che animò in particolare i costituenti penalisti, non vi erano probabilmente in allora i presupposti culturali per una 'fondazione' costituzionale ab imis della penalità, come invece matureranno dopo in un altro clima culturale generale. E dunque non è un caso che l’unico principio penale costituzionale davvero di rottura, e cioè il finalismo rieducativo della pena, lo si deve a due costituenti che penalisti non erano: Lelio Basso (1903-1978) e Giorgio La Pira.
In secondo luogo, occorre dare atto che nel clima tutto sommato un po’ stagnante di quegli anni non mancarono personalità di penalisti dotati di una già allora spiccata sensibilità costituzionale. È del 1953 il volume di Paolo Rossi (1900-1985) sul diritto penale costituzionale, ma sono soprattutto Nuvolone e Vassalli a influenzare con la loro grande autorevolezza le nuove generazioni di penalisti verso una crescente sensibilità costituzionale. Nuvolone utilizza gli strumenti dogmatici dei limiti taciti e dei limiti scriminanti della norma penale per immettere direttamente nel vecchio tessuto normativo le nuove libertà costituzionali, sterilizzando così le punte più illiberali del codice e della legislazione fascisti. Vassalli patrocina la tesi dell’immediata operatività delle norme costituzionali contro quella del loro carattere puramente programmatico e s’impegna poi in raffinate ricostruzioni concettuali, in particolare, dei diritti di libertà personale e di difesa processuale additando con antiveggenza la via degli anni successivi.
In sintesi, si può dunque notare come questo periodo sia contrassegnato da una sorta di antinomia tra, da un lato, un clima generale di una certa qual stagnazione e, dall’altro, l’emergere invece di alcune grandi personalità di penalisti capaci non solo di ‘aprire’ il sistema penale verso il ‘fuori’ costituzionale, ma anche di gettare il seme per la successiva evoluzione della penalistica italiana.
Il periodo che coincide press’a poco con gli anni Settanta e Ottanta è quello forse caratterizzato da maggiore vivacità e anche da non poche contraddizioni nella penalistica italiana. Già nella prima metà degli anni Settanta si realizza un forte rinnovamento sia degli studi penalistici sia dell’ordinamento penale, secondo un indirizzo che potremmo chiamare del ‘costituzionalismo penale’. Negli anni Ottanta, poi, progressivamente attenuatasi la spinta – e anche l’entusiasmo – del costituzionalismo penale, prende forma un indirizzo più generico che si potrebbe dire ispirato alla ‘razionalità politico-criminale’.
Il costituzionalismo penale ha potuto vedere la luce dopo che il clima culturale italiano si era ravvivato a seguito del rinnovamento sociale innescato dai moti giovanili e del mutamento d’orizzonte politico dovuto all’ingresso nel governo di partiti più progressisti. Sul piano più specifico dell’ordinamento giuridico, il costituzionalismo ha potuto avvantaggiarsi non solo dell’entrata in funzione della Corte costituzionale e del conseguente sviluppo della sua giurisprudenza, ma anche di un progressivo rinnovamento generazionale e quindi culturale della magistratura, che cominciò a far propria l’idea del suo decisivo compito di ‘costituzionalizzazione’ del vecchio sistema codicistico, sia mediante l’interpretazione adeguatrice a costituzione sia mediante il rinvio alla Corte costituzionale delle norme sospette d’incostituzionalità.
Ma fu specialmente la dottrina a realizzare la rifondazione costituzionale della teoria generale del reato e dell’intero diritto penale. Si deve soprattutto a Franco Bricola (1934-1994), e in particolare alla sua ‘voce’ Teoria generale del reato del 1973, la tessitura di una completa trama di principi costituzionali e la delineazione di un esauriente ‘vólto’ costituzionale dell’illecito penale. Due paiono essere le caratteristiche fondamentali di questo nuovo scenario. In primo luogo, i vari principi costituzionali sono visti in un sistema di loro reciproca integrazione, in cui il risultato sinergico finale è quello di un illecito a presidio della libertà, come tale costituzionalmente sottratto a qualunque tentazione di abuso legislativo.
In secondo luogo, la Carta fondamentale non fa più semplicemente da baluardo garantistico in senso tradizionalmente liberale e ottocentesco, ma diviene il fondamento di legittimazione dell’esistenza stessa di questo tipo di illecito, dei suoi contenuti, dei suoi scopi di tutela. Insomma, la costituzione veniva non solo a tracciare i limiti esterni e in qualche modo 'formali' dell’illecito penale, ma si spingeva a delinearne gli oggetti e i contenuti di tutela, venendo così alla fine a entrare per così dire in concorrenza con la politica criminale. Massimamente espressiva di questa sorta di tensione concorrenziale con la politica criminale fu la teoria cosiddetta dei beni giuridici costituzionalmente significativi quali unici valori e interessi legittimamente meritevoli di tutela penale. Non meno rilevante va considerata l’intuizione bricoliana, destinata a essere ripresa molti anni dopo, secondo la quale anche le norme cosiddette favorevoli (quali essenzialmente le scriminanti) debbono essere coerenti con il quadro costituzionale, nonostante non pongano esigenze di garanzia del reo in quanto produttive di effetti in bonam partem.
L’operazione culturale realizzata con il costituzionalismo penale (e che vide in primo piano Ferrando Mantovani, Giorgio Marinucci, Carlo Fiore) si presentò di straordinaria rilevanza sotto il profilo della perenne, problematica dialettica tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ dell’orizzonte legale. Fermo rimanendo in Italia l’ancoraggio legalistico dell’illecito penale, la spinta verso il ‘fuori’ non poteva pertanto non essere fonte di acute tensioni. Ebbene, l’'apertura’ del sistema penale verso la costituzione sembrò dissipare quelle tensioni, in quanto, se i principi e i valori costituzionali erano da un lato in grado di spezzare la rigidità legalistica della vecchia tradizione, dall’altro lato essi si collocavano pur sempre all’interno della giuridicità dell’ordinamento complessivamente considerato; anzi al massimo grado della giuridicità.
Non può essere certo un caso se proprio in quello stesso torno di anni vede la luce la più significativa legge di attuazione dei principi costituzionali in materia penale, cioè il nuovo ordinamento penitenziario del 1975 con cui non solo si organizza un sistema di misure ‘alternative’ al carcere in chiave appunto rieducativa, ma forse ancora più significativamente si abbatte l’idea che l’esecuzione penitenziaria sia ‘affare’ esclusivo dell’amministrazione, del potere esecutivo e dunque fuori dalla giurisdizione penale. Discorso più articolato va fatto a proposito dell’altra importante riforma di quegli anni, e cioè la revisione di alcuni istituti centrali della parte generale del codice penale operata nel 1974. Vi è come un’irrisolta ambivalenza di fondo in quella legge. Da un lato, essa è sicuramente il frutto di quel clima di maggiore vivacità culturale, e a quella riforma non furono invero estranei né una certa influenza da parte della scienza penale (in particolare dell’autorevolissimo e attivissimo Vassalli), né il crescente ruolo e credito assunti dalla magistratura cui invero la riforma consegnava – sebbene quasi per necessità – un larghissimo potere discrezionale. E forse, detto tra parentesi, non è nemmeno escluso che si pongano qui, e in questa dilatazione della discrezionalità giudiziale, le premesse per quella situazione di conflittualità tra magistratura e avvocatura penale destinata a esplodere nei giorni nostri.
Dall’altro lato, si può legittimamente sostenere che quella legge costituisca già il funebre epitaffio posto ante litteram sulla riforma organica del codice penale, che in effetti non vedrà mai più la luce nonostante i tentativi, appunto inani, che furono fatti dopo. In verità, se allora – nel clima cioè tutto pervaso di tensione costituzionale e capace di produrre il nuovo ordinamento penitenziario – non si riuscì a confezionare un nuovo codice e ci si dovette accontentare di un vero e proprio escamotage per temperare il non più sopportabile repressivismo del codice Rocco, ciò non poteva che anticipatamente certificare la sostanziale incapacità o indifferenza della politica all’opera di ricodificazione. Come si sarebbero incaricati di confermare puntualmente i poco convinti conati successivi, con tutto il senso di frustrazione che essi indussero nella scienza penalistica.
I tempi mutano poi molto rapidamente. Il clima generale si fa pesante per l’irrompere delle varie emergenze criminali, da quella della delinquenza comune a quelle poi dirompenti del terrorismo e della criminalità mafiosa fino ad arrivare alla corruzione. Ne consegue che, mentre la scienza accademica tende a distaccarsi sempre più dalla quotidiana, frenetica e spesso estemporanea produzione legislativa, la magistratura prima consolida il suo ruolo protagonistico anche nell’influenzare l’attività del legislatore, finendo così per porre le premesse per l’opposta reazione di divorzio dalla politica nel momento in cui il suo accresciuto potere andrà a toccare il terreno minato della criminalità politico-affaristica. Ma andiamo con ordine.
Non c’è alcun dubbio che il costituzionalismo penetrò rapidamente e definitivamente nella scienza penale italiana, così da diventarne un carattere saliente anche rispetto al panorama internazionale (per es., rispetto alla stessa poderosa penalistica tedesca). Però, è anche vero che le punte più dirompenti del costituzionalismo penale subirono ben presto un sofferto ridimensionamento. E così, la teoria dei beni costituzionalmente significativi non solo non riuscì a convincere un legislatore ormai travolto dalle ‘perenni emergenze’, non solo trovò una Corte costituzionale adesiva solo in apparenza, ma incontrò anche il ‘disincanto’ realistico di quella dottrina che dubitava della possibilità di espropriare la politica criminale dei suoi naturali spazi di manovra per costringere le sue opzioni di criminalizzazione nel recinto precostituito della tavola dei beni costituzionali. Detto brevemente, la scienza penale degli anni Ottanta e seguenti effettuò una parziale virata dalle più rigide premesse del costituzionalismo a un più duttile impegno e attenzione per la razionalità politico criminale e l’adeguatezza normativa delle scelte legislative. Certo, questa trasformazione fu un motivo di arricchimento e di crescita della nostra scienza, che sotto la spinta e la guida di maestri pienamente padroni della dogmatica più tradizionale, aprì l’universo penale al controllo di razionalità da parte delle scienze empiriche e alla verifica della comparazione, che in effetti iniziò a circolare ampiamente nonostante la naturale vocazione nazionalistica del nostro ramo del diritto (in questo senso fu determinante il contributo in specie di penalisti quali Cesare Pedrazzi, Federico Stella, Marinucci).
E anche sul piano più strettamente dogmatico, le vecchie raffinatissime architetture dei dogmi penali cessarono di essere qualcosa di quasi metafisicamente esterno al diritto vivente nella legislazione e nella giurisprudenza; qualcosa cioè di indifferente o – nella migliore delle ipotesi – di astrattamente razionale da opporre quale argine estremo rispetto al sempre più prepotente diritto vivente. Anche la vecchia, buona dogmatica subì una trasformazione senz’altro vivificatrice. Non c’è bisogno di arrivare agli estremi, avvertiti con sospetto e rimasti minoritari, di chi teorizzava la frantumazione delle unitarie e monolitiche categorie fondamentali (condotta, dolo, colpa, la stessa causalità) nel pluralismo di ‘sottosistemi’, i quali duttilmente avrebbero dovuto plasmarsi secondo le peculiari caratteristiche ed esigenze delle varie aree di realtà sociale (criminalità dolosa tradizionale, criminalità colposa in attività altamente rischiosa, criminalità organizzata, criminalità economica ecc.). Basta sottolineare la rivoluzione – cui si è già accennato – operata stracciando il velo che copriva la vecchia dogmatica concettualistica per svelarne gli intimi significati politico criminali di cui le ‘categorie’ non possono non essere espressione.
Anche l’altra punta di diamante del costituzionalismo penale, e cioè il finalismo rieducativo della pena, andò incontro a un analogo processo di ridimensionamento e razionalizzazione. Stemperata la carica ideale di quel principio fino addirittura a parlare di ‘mito’ della rieducazione, la scienza penale finì poi per avallare la conversione legislativa (propiziata anche dalla Corte costituzionale) degli istituti rieducativi in strumenti di mero efficientismo carcerario per fronteggiare l’endemico sovraffollamento. Semmai vi fu una sorta di ripiegamento dei penalisti più attenti alla dimensione punitivo-sanzionatoria sulla linea dei diritti fondamentali del detenuto, ritenuti come l’unica vera posta in gioco per cui valesse la pena una militanza scientifica e non solo tale.
Questo processo di straordinaria apertura della scienza penale verso il ‘fuori’ di una politica criminale all’insegna di una razionalità ineluttabilmente implicante il contributo delle scienze empiriche, l’ingresso della comparazione, l’attenzione per la dimensione reale ed applicativa del diritto penale, conferiva alla penalistica italiana un atteggiamento criticamente dialogico con la giurisprudenza ma soprattutto con il legislatore. Ma fu un dialogo tra sordi. O quantomeno tra persone deboli di udito.
Certo, va dato atto che il legislatore si produsse in almeno tre interventi di razionalizzazione sistematica dell’universo penale: la legge sull’illecito punitivo amministrativo (1981), la legge sul giudice di pace (2000), la legge sulla responsabilità degli enti collettivi (2001). Al di là delle capacità di risultato di queste leggi, non c’è dubbio che il loro concepimento e gestazione risentì – più o meno – di un’ispirazione proveniente dalla scienza, e in effetti la dottrina non mancò poi di impegnarsi in un ulteriore sforzo di razionalizzazione di questi complessi normativi ispirati largamente a quell’imperativo di efficienza che sembra ormai condizionare anche il ‘filosofico’ diritto penale. Ma a parte queste leggi di sistema, per il resto la legislazione consolidò la sua schiavitù alla contingenza politica, alla estemporaneità delle soluzioni, all’indifferenza per i principi. Così che, nonostante la mutazione della penalistica di cui si è detto, la distanza con il legislatore si approfondì vieppiù e cominciarono a circolare desolanti interrogativi sull’effettivo ruolo della scienza penale: un’incipiente crisi di identità per un giurista che ormai aveva definitivamente superato lo schematismo della contrapposizione ‘dentro/fuori’?
Le delusioni serpeggianti nella penalistica, almeno in quella più ‘impegnata’, si accrebbero paradossalmente con la stagione dei progetti di riforma organica del codice penale. In effetti, nei due decenni a cavallo del millennio si sono susseguiti ben quattro progetti dotati di organicità. Larga fu la partecipazione della dottrina a quelle iniziative governative, essendo invero l’opera ricodificatoria appannaggio naturale della scienza giuridica. E per un penalista l’impegno di cimentarsi con la redazione delle norme codicistiche rappresenta certamente la massima sfida per ricondurre a unità ed equilibrio quell’inquieta dialettica tra 'dentro/fuori' ormai circolante da tempo nella scienza italiana. Ma il paradosso è solo apparente.
In primo luogo, infatti, nonostante il generoso impegno profuso non solo nella redazione dei progetti ma anche nella partecipazione – mediante congressi, scritti, dibattiti – alla discussione suscitata da essi, non poteva sfuggire alla maggioranza degli studiosi che i tempi non erano politicamente propizi alla riforma organica del codice. Come veniva spesso dimostrato per tabulas dalla contraddizione esistente su singoli punti tra gli orientamenti espressi nei progetti e i provvedimenti legislativi contemporaneamente adottati dalle forze politiche.
In secondo luogo, non può essere privo di significato il dato estrinseco che la presidenza delle due ultime commissioni governative per la riforma del codice sia stata affidata a giuristi non accademici, quasi a rendere manifesto un certo divorzio che andava consumandosi tra la scienza penalistica e la politica. D’altra parte, su ben altro terreno questo divorzio si consolida allorquando, specie nell’ultimo decennio, la legislazione penale – almeno quella più ‘appariscente’ – prende una netta piega securitaria, sospinta da un’ideologia politica marcatamente sensibile all’istanza di sicurezza di fronte alla criminalità urbana e al fenomeno immigratorio. Una linea, questa securitaria, che farà addirittura parlare di una regressione culturale dal diritto penale ‘del fatto’ a un diritto penale ‘dell’autore’, se non addirittura ‘del nemico’. E la scienza penale italiana è nel complesso sufficientemente ferma nel negare il proprio avallo a un siffatto fenomeno involutivo. Ma a prezzo, appunto, di approfondire ulteriormente il divorzio dalla politica criminale ‘in atto’. E, più in profondità e più in generale, al prezzo di subire il peso di gravi interrogativi concernenti addirittura il significato della democrazia in diritto penale e, ancora più in là, concernenti il rapporto tra democrazia rappresentativa e scienza penale. Anche se, certamente, sarebbe eccessivo pensare che tutta la penalistica italiana fosse consumata da tali interrogativi e non vi fosse invece una certa parte che, più o meno malvolentieri, prestava tuttavia i suoi buoni uffici interpretativi anche nei confronti di queste non edificanti leggi.
Vi è infine un altro terreno, naturalmente vocato a essere arato prevalentemente dalla riflessione scientifica e in cui la penalistica italiana più recente sta vivendo tensioni non indifferenti. È quello della cosiddetta crisi della legalità, che in materia penale non può non produrre grandi inquietudini. Essa si manifesta, notoriamente, in due direzioni.
Da un lato, lo sviluppo delle competenze dell’Unione europea e delle sue fonti comprime il protagonismo della legge penale statale di consolidata tradizione a vantaggio di fonti, vincolanti e per il legislatore e per il giudice, caratterizzate dall’indubbio deficit democratico degli organi e delle procedure europee che le producono.
Dall’altro lato, si tratta del sempre attuale tema dell’interpretazione e del ruolo del cosiddetto diritto giurisprudenziale in campo penale. Tanto sul piano teorico ed epistemologico dell’ermeneutica generale riferita al diritto penale, quanto su quello empirico della constatazione di un crescente contributo costruttivo della giurisprudenza, le ultime generazioni di penalisti si sono trovate non certo a mettere in dubbio il postulato della legalità, ma a guardarlo con occhi diversi. Anche qui un ‘fuori’ è precipitato nei penetrali più riposti del ‘dentro’ penalistico: quelli della legalità, in cui la penalità dovrebbe star rinserrata costituendone la cifra essenziale. Ne sono derivati, di nuovo, un interrogativo inquietante e una tendenziale conflittualità interna alla nostra penalistica.
L’interrogativo ripropone, ma questa una volta in termini addirittura teorico-scientifici, un problema di democrazia. Posto che proprio nel penale l’istanza democratica risponde a un’insopprimibile esigenza garantistica, come è possibile accettare qui a cuor leggero la massima dell’ormai diffuso giusrealismo, secondo cui «i giudici non possono non creare diritto»? Non c’è qui il rischio che, essendo privi i giudici di una qualsivoglia legittimazione democratica, si dissolva il postulato garantista del diritto penale moderno?
Una parte della penalistica si affatica su questo interrogativo muovendo dalla premessa che sarebbe scientificamente errato confondere il piano cognitivo («i giudici non possono non creare diritto») con quello prescrittivo («i giudici non devono creare diritto»), e cercando di sdrammatizzare il problema penale riconducendolo nel più vasto quadro della democrazia costituzionale (che in effetti costituisce un superamento della più angusta nozione di democrazia rappresentativa parlamentare).
Rimane però il fatto che il problema della legalità penale ha aperto qualche tensione nella scienza, forse indotta anche dal più generale clima politico e culturale dell’Italia di questi ultimi lustri. In effetti, la questione epistemologica della legalità penale ha finito per risentire impropriamente del dibattito tra ‘garantisti’ e ‘giustizialisti’. Così da diventare un’eco di quella contrapposizione ormai incancrenita tra magistratura e politica, che trova la sua causa remota nell’incremento del potere giudiziale (quarant’anni fa agevolato dal legislatore) e la sua causa prossima nelle tante inchieste sulla corruzione politico-affaristica. Né può essere del tutto escluso che le tensioni interne alla nostra penalistica siano state in qualche misura accentuate dal ruolo professionale di avvocato svolto da taluni studiosi, comprensibilmente più sensibili agli squilibri e talvolta agli eccessi dovuti al protagonismo giudiziale.
Non è nostro compito concludere stilando un bilancio complessivo sullo stato attuale della penalistica italiana. Tuttavia, è difficile sottrarsi all’impressione che la nostra scienza, ferma restando la sua notevole qualità metodologica e il suo pieno inserimento nella cultura penalistica internazionale, non disponga oggi di una bandiera nella quale riconoscere la propria identità pur nel pluralismo e nella vivacità del dibattito, come fu, per es., per la ‘penalistica civile’ dell’Ottocento o per il costituzionalismo penale della seconda metà del Novecento. Difficile negare l’esigenza di ritrovare nella ‘liquida’’ complessità dell’oggi una forte identità culturale che le consenta di riassumere un ruolo autorevole nell’esperienza penalistica dell’Italia.
G. Delitala, Postilla ad A. Santoro, Scienza giuridica e realtà, «Rivista italiana di diritto penale», 1936, pp. 534-36 (e in Id., Diritto penale. Raccolta degli scritti, 1° vol., Milano 1976, pp. 391-96).
F. Antolisei, Per un indirizzo realistico nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1937, pp. 121-64 (e in Id. Scritti di diritto penale, Milano 1955, pp. 3-41).
A. Malinverni, La scuola dogmatica del diritto penale, Vercelli 1939.
B. Petrocelli, Per un indirizzo italiano nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1941, pp. 3-26.
G. Leone, La scienza giuridica penale nell’ultimo ventennio, «Archivio penale», 1945, 1, pp. 23-28.
P. Nuvolone, I fini e i mezzi nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1948, pp. 38-55 (e in Id., Trent’anni di diritto e procedura penale, 1° vol., Padova 1969, pp. 151-65).
P. Nuvolone, Introduzione a un indirizzo critico nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1949, pp. 379-84 (e in Id., Trent’anni di diritto e procedura penale, 1° vol., Padova, 1969, pp. 166-79).
L. Pettoello Mantovani, Il valore problematico della scienza penalistica, Padova 1961 (e con il titolo Il valore problematico della scienza penalistica: 1961-1983 contro dogmi ed empirismi, Milano 1983).
M. Gallo, Dolo (dir. pen.), in Enciclopedia del diritto, 13° vol., Milano 1964, pp. 750-804.
F. Bricola, Teoria generale del reato, in Novissimo digesto italiano, 19° vol., Torino 1973, pp. 5-93 (e in Id., Scritti di diritto penale, 1° vol., Dottrine generali, teoria del reato e sistema sanzionatorio, t. 1, Milano 1997, pp. 539-809).
G. Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, «Jus», 1974, pp. 463-98.
C. Pedrazzi, Apporto della comparazione alle discipline penalistiche, in L’apporto della comparazione alla scienza giuridica. Studi di diritto comparato, Milano 1980, pp. 169 e segg. (e in C. Pedrazzi, Diritto penale, 1° vol., «Scritti di parte generale», Milano 2003, pp. 541-556).
F. Bricola, Rapporti tra dommatica e politica criminale, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1988, pp. 3-55 (e in Id., Scritti di diritto penale, 1° vol., Dottrine generali, teoria del reato e sistema sanzionatorio, t. 2, Milano 1997, pp. 1585-1624).
S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Napoli 1992.
G. Marinucci, E. Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1994, pp. 333-73.
F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano 2001, 2003³.
F. Mantovani, Stato costituzionale e diritto penale costituzionalizzato, in Lo Stato costituzionale. La dimensione nazionale e la prospettiva internazionale, in Scritti in onore di Enzo Cheli, a cura di P. Caretti, M.C. Grisolia, Bologna 2010, pp. 51-65.
G. Neppi Modona, Legislazione penale, in Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia, a cura di F. Levi, U. Levra, N. Tranfaglia, 2° vol., Firenze 1978, pp. 584-607.
E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall’800 alla riforma penitenziaria, Torino 1980.
C. Pedrazzi, in La ‘cultura’ delle riviste giuridiche italiane, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1984, 13, pp. 71-74 (e in C. Pedrazzi, Diritto penale, 1° vol., Scritti di parte generale, Milano 2003, pp. 557-61).
C. Guarnieri, L’ordine pubblico e la giustizia penale, in Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi, a cura di R. Romanelli, Roma 1995, pp. 365-405.
L. Ferrajoli, Scienze giuridiche, in La cultura italiana del Novecento, a cura di C. Stajano, Roma-Bari 1996, pp. 559-97.
F. Palazzo, Diritto penale, in Giuristi e legislatori. Pensiero giuridico e innovazione legislativa nel processo di produzione del diritto, a cura di P. Grossi, Milano 1997, pp. 311-61 (e in «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1997, pp. 694-735).
F. Palazzo, La politica criminale dell’Italia repubblicana, in Storia d’Italia. Annali, a cura di L. Violante, 12° vol., La criminalità, Torino 1997, pp. 851-90.
M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1990), in Storia d’Italia. Annali, a cura di L. Violante, 14° vol., Legge Diritto Giustizia, Torino 1998, pp. 485-551 (e in M. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), t. 1, Milano 2009, pp. 591-670).
G. Neppi Modona, Storia ed ideologia del diritto penale dall’illuminismo ai nostri giorni, in C.F. Grosso, G. Neppi Modona, L. Violante, Giustizia penale e poteri dello Stato, Milano 2002, pp. 143-205.
Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Vassalli, Napoli 2006.
G. Fiandaca, Legalità penale e democrazia, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2007, 36, t. 2, nr. monografico: Principio di legalità e diritto penale, pp. 1247-77.
M. Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale. Dalla dogmatica classica alla giurisprudenza-fonte, Milano 2011.
G. Fiandaca, Rocco: è plausibile una de-specializzazione della scienza penalistica?, «Criminalia», 2011, pp. 179-206. T. Padovani, Lezione introduttiva sul metodo nella scienza del diritto penale, «Criminalia», 2011, pp. 227-38.
D. Pulitanò, La scienza penale tra fatti e valori, «Criminalia», 2011, pp. 239-52.
Moderne italienische Strafrechtsdenker, hrsg. E. Dezza, S. Seminara, Th. Vormbaum, Berlin-Heidelberg 2012.