La pensione di vecchiaia e quella anticipata
La riforma pensionistica prosegue, fra continuità ed innovazione, nel passaggio da un Governo all’altro, puntando il Governo tecnico ad un punto fermo. Stella polare ne è il definitivo superamento del metodo di calcolo retributivo, e con esso, ma alla fine del periodo transitorio, del tabù dei diritti quesiti. Gli effetti più concreti della manovra sono legati all’elevazione dell’età pensionabile, anche in ragione delle variazioni della speranza matematica. Sullo sfondo i settanta anni: da un lato, requisito di accesso, dall’altro, limite di flessibilità opzionale. Si rinnova altresì il meccanismo del blocco della perequazione, mentre si inasprisce il già discutibile “contributo di perequazione” sulle pensioni in essere. Una forte stretta sull’equilibrio degli enti di previdenza dei liberi professionisti completa il panorama complessivo degli interventi disposti dall’art. 24 della l. 22.12.2011, n. 214.
A ridosso della emanazione della l. 22.12.2011, n. 214, il cui art. 24 è intitolato a Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici1, nonostante le dichiarazioni governative volte a sostenere che fosse oramai chiusa la pagina delle pensioni, si ebbe subito la sensazione che – pur in presenza di una importante riforma di sistema – così non poteva essere: e così non è stato.
Ancora altre importanti parole del legislatore si sarebbero succedute: era infatti alle porte non solo la annunciata, dal co. 30 dell’art. 24, emanazione del decreto ministeriale sugli esodati oggetto di forte contestazione (v. La tutela pensionistica dei lavoratori cd. esodati), ma anche si avviava la c.d. spending review ed il provvedimento di riforma del mercato del lavoro. Il d.l. 6.7.2012, n. 95, conv. con modificazioni in l. 7.8.2012, n. 135 ha disposto l’agevolazione del processo di riduzione degli organici delle p.a. mediante slittamento dal 31 dicembre 2011 al 31 dicembre 2014 degli effetti della riforma c.d. Fornero, disponendo a carico delle p.a. l’onere della certificazione derogatoria di detta situazione; a sua volta, la l. 28.6.2012, n. 92 ha escogitato un meccanismo, gravante integralmente sul datore di lavoro, di agevolazione dell’esodo mediante finanziamento di un trattamento pensionistico che verrà comunque erogato dall’Inps con le modalità previste per l’erogazione della pensione. Due vicende normative che evidenziano una difficoltà di assestamento del sistema, nel passaggio dalle vecchie alle nuove regole.
D’altra parte, se è certamente vero che la riforma portata dalla legge “Salva Italia” si propone come una svolta nel nostro regime pensionistico, si deve prendere atto di una linea di continuità con gli interventi dell’estate del 2011 in tema di riforma pensionistica, non ancora esauriti nella loro attitudine normativa2; una continuità paradossalmente rafforzata, a volte, dalla sostituzione, in chiave acceleratoria, di talune nuove norme alle precedenti senza che queste ultime avessero avuto neppure il tempo di entrare in vigore. Per la verità, il Governo precedente, sotto la nota pressione delle Autorità economiche europee3, aveva prodotto in extremis un ulteriore sforzo normativo, disponendo e facendo approvare, previa assunzione di impegni formali in sede europea4, la l. 12.11.2011, n. 183 (cfr. specialmente l’art. 5), la cui incidenza in materia pensionistica5 è risultata assai modesta, e sostanzialmente superata dalla legge n. 214/2011. Su quest’ultima, dunque, si incentra la nostra attenzione, e non solo per una scontata cadenza cronologica, ma proprio per il segnalato carattere di svolta di sistema.
Appartiene a questa fase di preliminare approccio una breve riflessione sul contesto dell’ordinamento europeo in cui sono maturate le innovazioni portate dalla manovra complessiva, per rilevare che, seppur sotto la testé ricordata pressione economico-finanziaria esercitata ad agosto dalla Banca centrale europea e poi fra settembre ed ottobre dalle altre Autorità, è stata totalmente superata dall’ordinamento italiano l’opportunità offerta dall’art. 7 della dir. n. 7/79, secondo la quale non resta pregiudicata «la facoltà degli Stati membri di escludere dal loro campo di applicazione: a) la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia o di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni»: un superamento realizzato con tecniche che nulla hanno a che vedere con il moderatismo del metodo aperto di coordinamento (art. 156 TUE, ex 140 TCE).
1.1 Principi e criteri nell’art. 24, co. 1, della l. n. 214/20116
Diversamente dalla scelta adottata dal d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. con modificazioni dalla l. 15.7.2011, n. 111, ove il titolo dell’art. 18 è genericamente riferito alla «materia previdenziale»), il decreto “Salva Italia” titola l’art. 24 ai «trattamenti pensionistici», escludendo così dal suo ambito gli altri temi primari del sistema «previdenza», e rinviando (co. 30) il riordino del «sistema degli ammortizzatori sociali, degli istituti di sostegno al reddito e della formazione continua»7 ad una ulteriore fase legislativa, frutto della istituzione di un tavolo di confronto, che ha portato alla emanazione dei discussi decreti ministeriali sugli esodi, e per altro verso si è sviluppata nella articolata e complessa disciplina di sostegno del reddito contenuta negli artt. 2 e 3 della l. n. 92/2012, oltre che in alcuni co. dell’art. 4.
La riflessione sull’art. 24 muove dall’analisi della norma introduttiva (co. 1), che fissa obiettivi e principi cui specificamente si ispirano le nuove disposizioni sulle pensioni, sebbene essi siano riferibili all’intera manovra. In una prospettiva diacronica, vale la pena di confrontarli con le corrispondenti dichiarazioni di principio presenti nelle principali leggi dedicate in passato alla riforma pensionistica, dall’art. 3, l. 23.10.1992, n. 421, passando per la l. 3.8.1995, n. 335, per la l. 23.8.2004, n. 243 e per la l. 24.12.2007, n. 247, fino a quelle stesse della manovra estiva 20118.
Al di là delle diffusa presenza di norme di scopo, volte alla identificazione per ciascuna di esse dell’obiettivo socio-economico da conseguire e ad un tempo del presupposto dello specifico intervento, e di norme qualificatorie della fattispecie (connotati che dunque ammantano – a volte in concorso fra loro – questo o quel precetto di un più o meno vincolante valore a volte etico, a volte sociologico, a volte economico), nei testi ora richiamati è presente (esplicitamente o implicitamente) l’esigenza di contenimento del costo della spesa sociale, che vale a sottrarre (cfr. C. cost., 12.1.1994, n. 2) la materia della riforma pensionistica al bersaglio eventuale del referendum abrogativo ex art. 75, co. 2, Cost., proprio per la sua riconducibilità alla nozione di finanza pubblica9. Ulteriori indicazioni di principio e metodologiche non si spiegano solamente con la esigenza di tecnica legislativa propria della decretazione delegata: si pensi, nella l. n. 421/1992, alla enunciazione diretta della formula dei «diritti quesiti», che è stata ad un tempo criterio di delega, ma anche fondamento e limite dell’intervento10; si pensi, nella l. n. 335/1995 – ben nota per il passaggio, fin da allora, al metodo contributivo –, alla vigorosa affermazione del carattere di legislazione di principio attraverso la formula «le disposizioni della presente legge costituiscono principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica», della quale si postula il carattere di legislazione rinforzata, attraverso il divieto di eccezioni e deroghe che non siano espresse (art. 1, co. 2).
Orbene, proprio nel co. 1 dell’art. 24, è dato cogliere una significativa, e non certo casuale, rispondenza rispetto alla l. n. 335/1995: l’esigenza allora dichiarata di «mantenimento dei limiti massimi del saldo netto da finanziarie e del ricorso al mercato finanziario stabiliti dall’articolo 1, commi 1 e 2, della legge 23 dicembre 1994, n. 725» (l. finanziaria del 1995) riecheggia, con ben altra consapevolezza e drammaticità, nell’attuale richiamo agli impegni internazionali ed europei, ai vincoli di bilancio, alla stabilità economico-finanziaria, alla sostenibilità di lungo periodo. Una costante ricerca di un equilibrato bilanciamento11 fra dimensione sociale e dimensione economica, in un contesto che non può assolutamente essere isolato dalle altre componenti socio-economiche della società civile (fisco, sviluppo economico e libertà di impresa, mercato del lavoro).
Relativamente nuova è invece, nel comma iniziale dell’art. 24, la enunciazione, molto categorica, dei principi e criteri direttivi cui la manovra pensionistica stessa è autochiamata a conformarsi: testualmente, essi sono:
a) equità e convergenza intragenerazionale e intergenerazionale, con abbattimento dei privilegi e (ndr.: ammissibilità di) clausole derogative soltanto per le categorie più deboli;
b) flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici anche attraverso incentivi alla prosecuzione della vita lavorativa;
c) adeguamento dei requisiti di accesso alle variazioni della speranza di vita; oltre semplificazione, armonizzazione ed economicità dei profili di funzionamento delle diverse gestioni previdenziali.
Affermazioni tutte di grande rilievo politico, totalmente condivisibili, e capaci di orientare l’attività degli interpreti anche in sede di giudizio eventuale di legittimità costituzionale, indipendentemente dalla loro puntuale collocazione nel testo normativo, ma che proprio per questa scelta – sicuramente coraggiosa – assumono immediatamente il rilievo di parametri intrinseci di autovalutazione di congruenza delle stesse scelte effettuate, che espongono i singoli interventi al rischio di una valutazione di contraddittorietà.
Il più evidente di questi profili di contraddittorietà si rinviene nella aggiunta, in sede di conversione, del co. 31-bis, che ha aggiunto un ulteriore scaglione di prelievo solo sui trattamenti pensionistici, come identificati dall’art. 18, co. 22-bis, d.l. n. 98/2011, conv. in l. n. 111/2011. È circostanza ben nota che, successivamente alla istituzione del contributo di perequazione, l’art. 2, co. 1, d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. con modificazioni in l. 15.9.2011, n. 148 aveva – in materia di entrate – disposto un significativo contributo di solidarietà sui redditi più elevati (5% fra 90.000 e 150.000; oltre questa cifra 10%), correlandolo in ragione della intrinseca natura tributaria al contributo di perequazione del citato co. 22-bis; in sede di conversione, nella l. n. 148/2011, all’art. 2, con l’evidente obiettivo di attenuarne il rigore per la generalità dei cittadini, si era contratta la misura (3%) ed elevata la soglia in unico importo (300.000 euro) oltre la quale far gravare il contributo di solidarietà, tenendo comunque ferma la correlazione funzionale fra contributo di perequazione e contributo di solidarietà12 . Proprio la modifica apportata dal co. 22-bis squilibra il già discutibile regime di riparto dei sacrifici contingenti, senza che sia possibile individuare una ragione che – al di là della semplice connessione con il più o meno tardivo superamento del metodo retributivo, ragione peraltro del tutto sconosciuta all’originaria formulazione del contributo di perequazione nel disegno del precedente Governo – possa far ritenere il reddito da pensione come reddito comparativamente meritevole di minor considerazione, assistito anzi da una presunzione di parziale immeritevolezza.
Il punto è che un meccanismo perequativo a carico dei pensionati avrebbe dovuto saper distinguere in funzione della esistenza di una ragionevole rispondenza, seppure inevitabilmente considerata per scaglioni di valori medi, fra carriera retributiva e trattamento pensionistico nella determinazione della misura della pensione nel momento di avvio della erogazione: non rare impennate finali del trattamento retributivo foriere del consolidamento di una finanziariamente sperequata misura della pensione (è il caso, ma non solo, delle promozioni in chiusura di carriera, come avveniva per il personale militare) ovvero, e per altro verso, non infrequenti accessi alla pensione in età troppo giovane con conseguente sproporzionata ed irragionevole durata della futura prestazione pensionistica (è il caso, ma non solo, dei c.d. baby pensionamenti), hanno costituito in un passato non lontano e con effetti di spesa ancora in essere – indipendentemente dalla misura assoluta del trattamento – una fonte di appesantimento del sistema meritevole di valutazione attraverso il parametro costituzionale dell’adeguatezza dei mezzi, inteso bidirezionalmente e comprensivo della logica di corrispettività. Rispetto a questa esigenza si deve dare atto che nel co. 21 si ravvisa invece un tentativo di correggere ex post – ma in una logica esclusivamente interna a ciascun regime e per consentire il riequilibrio delle varie gestioni – la condizione di vantaggio/privilegio derivata dalla tecnica di esclusività, sostitutività o esoneratività attraverso la istituzione di un contributo di solidarietà13 correlato analiticamente alla permanenza del soggetto all’interno del regime speciale14. L’intervento, seppure piuttosto esteso, non è universale, mancando all’appello quanto meno tutta l’area del pubblico impiego; non è comparabile con il contributo di cui al co. 22 del d.l. n. 98/2011, del quale è indiscutibile la natura tributaria derivante dalla destinazione del contributo stesso all’Agenzia delle entrate; costituisce in qualche modo una ulteriore penalizzazione rispetto alla previsione dell’art. 12 , co. 12 septies, octies e novies della l. 30.7.2010, n. 12215.
Il ritocco apportato al già istituito (dal precedente Governo) contributo di perequazione – che, proprio per essere isolato ed avulso dal peculiare contesto della complessa vicenda normativa, trova difficile collocazione nello schema programmatico del co. 1 – è dunque quello di alimentare una ostilità (prevalentemente di rilievo politico, anche se non possono escludersi profili di illegittimità costituzionale16) nei confronti di un meccanismo perequativo che, nonostante le segnalate disparità di trattamento fiscale fra redditi, pur di diversa natura17, aveva finito per essere accettato, nonostante ad esso si aggiungesse l’effetto di aggravamento derivante dal regime di rinnovato blocco temporaneo della perequazione per i trattamenti superiori a tre volte il minimo (co. 25).
In evidente contrasto con l’istanza di semplificazione, efficienza ed economicità delle gestioni previdenziali risultava il co. 24, laddove – seguendo un percorso di omologazione fra enti privatizzati ai sensi del d.lgs. 30.6.1994, n. 509 ed enti direttamente privati di cui al d.lgs. 10.2.1996, n. 103 – si ipotizzava per entrambi i tipi la medesima linea di evoluzione nel senso della imposizione comunque, seppure pro rata, del sistema di calcolo contributivo; in concreto la svista è stata ovviata escludendo dall’azione del Ministero tutti gli enti nati secondo le regole del d.lgs. n. 103/1996, già operanti con quel metodo di calcolo.
1.2 Il sistema pensionistico fra vecchie e nuove scelte
Senza sminuire minimamente importanza ed efficacia dell’intervento in materia pensionistica nel contesto della intera manovra, non si può evitare di svolgere qualche riflessione anche eventualmente critica18, pur sempre in chiave positiva e per ulteriormente migliorare la portata stessa del complicato intervento, assumendo che alla comprensione della riforma giovi la visione sistematica del complesso delle norme adottate, nella rilevata continuità non solo con le disposizioni promosse dal precedente Governo nella stessa materia, ma anche con quelle risalenti fino alla citata l. n. 421/1992. Nel raggiungimento di questo obiettivo si confida sulla corretta collocazione nella griglia sopra ricordata elaborata in occasione dell’analisi dedicata alla manovra estiva in tema di previdenza19, secondo un criterio classificatorio fondato sulla distinzione fra «interventi di radicale innovazione»20, «interventi di accelerazione degli effetti di altri pregressi», «interventi estensivi o modificativi» della portata di altri precedenti – talvolta dissimulati dalla tecnica di interpretazione autentica –, oltre che di «reiterazione» delle misure di contenimento. Questa griglia viene ora completata in rapporto alla previsione di un ulteriore tipo di interventi, a carattere «istituzionale», per tener conto della decisa modificazione del panorama degli enti – in attuazione immediata, seppur forse ancora parziale, del programma solo enunciato dall’art. 1, co. 1, l. n. 148/201121 – concretatasi (cfr. art. 21) nella soppressione di Inpdap ed Enpals, assorbiti nell’Inps secondo una tecnica di incorporazione comportante la integrale successione universale nel complesso delle situazioni giuridiche attive e passive.
Seguendo questo metodo di sistemazione, si passano ora in rassegna le principali disposizioni dell’art. 24.
Il co. 2 dispone, senza alcuna specifica delimitazione del suo campo di operatività – così assumendo il valore di metodo dominante – che per le anzianità contributive maturate a decorrere dal 1° gennaio 2012 , «la quota di pensione corrispondente a tale anzianità è calcolata secondo il sistema contributivo», mentre il co. 24 crea le condizioni perché – al termine di un percorso non agevole e per taluni aspetti poco chiaro – anche le forme pensionistiche per l’area dei liberi professionisti, che già non siano sottoposte al sistema di calcolo contributivo, finiscano per essere sottoposte allo stesso.
Prospettive ulteriori di utilizzazione del metodo contributivo sono nel co. 28, fortemente programmatico e tutto da definire: ivi si ipotizzano – a determinate condizioni e con forti cautele – «ulteriori forme di gradualità nell’accesso al sistema pensionistico determinato secondo il metodo contributivo … [sempreché] … funzionali a scelte di vita individuali, anche correlate alle dinamiche del mercato del lavoro, fermo restando il rispetto del principio dell’adeguatezza della prestazione pensionistica».
Al di là della preoccupante incertezza terminologica nell’uso, volta a volta, del termine «sistema» (co. 2) e del termine «metodo» (co. 28), l’intervento di cui al co. 2 si configura come “acceleratore”, visto che fin dal 1° gennaio 1996 (per effetto della l. n. 335/1995) il nostro sistema pensionistico era già caratterizzato dal metodo di calcolo contributivo, salvo il mantenimento di un regime transitorio di particolare durata. In ciò il legislatore del 1995 era stato evidentemente condizionato dalla l. n. 421/1992, che per ragioni meramente politiche e non anche giuridiche22 qualificò come «diritto quesito» il parametro della anzianità contributiva di 15 anni al 1° gennaio 1993 – poi 18 anni dal 1° gennaio 1996 – assumendolo anzi come criterio di delega, e configurandolo in via transitoria come componente, necessaria seppur non esclusiva, della fattispecie diritto alla pensione. Questo vincolo, gravante sul legislatore delegato del 1992, ha finito per proiettarsi impropriamente ed improvvidamente sulla legislazione successiva in materia, finendo per costituire una sorta di tabù23.
Superato di slancio questo tabù, la norma in esame dispone ora l’applicazione in via (tendenzialmente) universale del “sistema contributivo”. Sebbene il termine sistema sia quello usato dal legislatore, vale la pena di sottolineare – anche per fronteggiare meglio eventuali iniziative che volessero recuperare la tesi della intoccabilità del diritto quesito – che non tanto si tratta di innovazione di sistema, quanto di diverso metodo di calcolo della prestazione. La, non certo imputabile all’attuale Governo, tardività di questo intervento, comporta un recupero finanziario piuttosto limitato, ed anzi presumibilmente addirittura esiguo nell’immediato24, cosicché l’intervento in esame finisce per proporsi soprattutto come rilevante sul piano dell’impatto psicologico, se non proprio in termini di effetto/appariscenza. Tanto più in ragione della circostanza per cui il passaggio dal calcolo retributivo a quello contributivo (pur con il suo ben noto e sicuramente originale meccanismo finanziario ed attuariale) non altera l’essenza del rapporto pensionistico, che – nella logica del disegno costituzionale espresso nel co. 2 dell’art. 38 – mantiene sul piano giuridico istituzionale il carattere di strumento giuridico di tutela sociale correlato alla condizione professionale, la cui necessaria realizzazione comporta la tecnica di accumulazione delle risorse occorrenti alla erogazione, tuttora in ripartizione, della relativa prestazione. Essa è correlata al verificarsi di uno degli eventi costituzionalmente protetti, quello fisiologico (life cycle) della vecchiaia, in quanto evento destinato presuntivamente ad incidere sulla capacità di guadagno, cioè sulla capacità di produrre – nello scambio utile con il datore di lavoro o nell’impegno produttivo autonomo/professionale – reddito da lavoro. Ne consegue che l’assetto funzionale e sistemico della protezione non viene inciso dal mutamento del metodo di calcolo, a parte ovviamente la diversa misura della pensione. Semmai si profila l’eventualità, pur marginale, che l’assolutamente generalizzata estensione pro rata del metodo di calcolo contributivo finisca per avvantaggiare coloro che vantino già quaranta anni di anzianità di servizio a regime retributivo, sforandone il limite proprio25.
2.1 I nuovi requisiti anagrafici di accesso al trattamento pensionistico
Concreti sono gli effetti finanziari delle disposizioni che hanno variamente inciso sull’età pensionabile e – più in generale – sui requisiti anagrafici di accesso al trattamento pensionistico, secondo una risalente linea di azione per le lavoratrici del pubblico impiego, sulla spinta della giurisprudenza europea26, e che continua ad essere realizzata con sistematica gradualità, attraverso il periodico adeguamento alle variazioni di speranza matematica dei parametri anagrafici di accesso (co. 10, 11 e 17), dandosi così un principio di soluzione stabile agli effetti del prolungamento della vita media, alias longevità, nella duplice componente dell’aumento della vita professionale e dell’aumento della vita anagrafica. Al termine stimato di esaurimento della vita professionale, si lega per convenzione l’accesso al trattamento pensionistico, mentre al termine della seconda componente si lega naturalisticamente la cessazione della prestazione principale e la eventuale trasformazione in prestazione indiretta. Questa, fin troppo ovvia, constatazione chiarisce la portata della normativa originaria (art. 12, co. 12-bis, 12-quater, d.l. 31.5.2010, n. 78, conv. in l. 30.7.2010, n. 122, e, prima, art. 22 ter del d.l. 1.7.2009, n. 78 conv. in l. 3.8.2009, n. 102), che mira alla continuità nel processo di elevazione del requisito di accesso secondo le variazioni della speranza matematica di vita. L’introduzione di questo meccanismo automatico è destinato ad eliminare interventi occasionali e più o meno arbitrari, quali in passato verificatisi. Ovviamente, in questo meccanismo assume rilievo determinante l’intervallo temporale ed il periodo di riferimento per il calcolo della variazione, entrambi rimessi alla discrezionalità del legislatore, cosicché in tempi successivi il legislatore stesso potrebbe variare gli elementi del calcolo, finendo così per attenuare la certezza, seppure attuariale, che l’automatismo potrebbe introdurre nel sistema27.
La nuova disciplina del requisito anagrafico di accesso alla pensione è in linea di immediata continuità – seppure con evidenti effetti acceleratori – con le scelte effettuate dalle manovre precedenti dell’anno, ed in particolare dalla l. n. 183/2011, il cui art. 5 (ora abrogato dal co. 9), secondo gli impegni assunti in sede europea, aveva già disposto, con effetto dal 2026, l’elevazione a 67 anni dell’età minima di accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia, tenuto conto del regime delle decorrenze (oramai operante solo in via transitoria: confronta il periodo iniziale del co. 14, in combinazione con il primo periodo del co. 3).
Tralasciando i dettagli della progressione di cui al co. 6, che sostituisce la progressione già adottata per il conseguimento della parità uomo-donna nel lavoro dipendente privato (ma anche per le lavoratrici autonome), che si realizzerà al 1° gennaio 2018 sul livello di 66 anni, e ferma la progressione indotta dal calcolo della speranza matematica, conta qui ricordare le due date di attivazione della misura per i lavoratori maschi, sia dipendenti sia autonomi, nonché per le dipendenti pubbliche: 1° gennaio 2012, 66 anni e 1° gennaio 2021, 67 anni, quest’ultima età con un effetto di trascinamento generale. Per i lavoratori che risultano essere a contributivo puro (individuati dalla data del primo accredito contributivo, decorrente dopo il 1° gennaio 1996), il co. 7 integra il requisito anagrafico con una articolata combinazione di requisiti contributivi (20 anni di anzianità) e di importi minimi di trattamento come condizione per l’erogazione del trattamento alle età indicate; questa articolata combinazione introduce alla erogazione del trattamento pensionistico all’età di 70 anni, al raggiungimento della quale si attenuano gli indicati requisiti mediante l’eliminazione dell’ostacolo dell’importo minimo e l’abbassamento dell’anzianità contributiva minima a cinque anni: questa soluzione crea le premesse più o meno implicite della elevazione dell’età pensionabile a 70 anni, coinvolgendo, almeno per ora, l’area dei lavoratori il cui curriculum professionale risulti largamente precario, con ciò stesso vieppiù spostandosi – nell’ottica costituzionale dell’adeguatezza dei mezzi alle esigenze di vita – il problema dalla garanzia del reddito pensionistico a quello delle misure per l’attivazione del mercato del lavoro e per il sostegno del reddito. Nella indicata prospettiva, non è certo casuale la sequenza normativa che colloca nel co. 8 la disposizione che eleva di un anno il requisito anagrafico per l’attribuzione dell’assegno sociale e di misure equivalenti.
La pensione di anzianità evolve in pensione anticipata, e si realizza – per gli iscritti ante 1° gennaio 1996, dunque a regime misto – grazie alla valorizzazione di una misura secca di anzianità contributiva: 42/41 anni ed un mese, per uomo/donna, con l’aggiunta di un mese nel corso del 2013 e di un altro mese dal 1° gennaio 2014; questo nuovo requisito di anzianità non impedisce l’accesso al trattamento per anzianità inferiori, ma assume valore parametrico per la applicazione di una riduzione/penalizzazione, applicata alle quote di trattamento maturate prima entro il 31 dicembre 2011, di un punto percentuale per il primo e per il secondo anno di anticipazione rispetto all’età di 62 anni, e di due punti percentuali a partire dal terzo anno di anticipazione in poi28: dunque, non di vero e proprio superamento si tratta, ma di restrizione significativa del meccanismo di pensionamento per anzianità.
Un diverso, forse più favorevole, meccanismo di accesso alla pensione anticipata – in ragione dell’integrale applicazione del metodo contributivo, il che esclude profili di disparità – è disposto per gli iscritti dal 1° gennaio 1996: 63 anni e 20 anni di anzianità contributiva, unitamente alla consistenza della misura del trattamento pensionistico, in misura di almeno 2,8 volte l’importo dell’assegno mensile29.
Così riepilogato il quadro dei nuovi requisiti di accesso al trattamento pensionistico, che opera per l’area del lavoro dipendente in termini generali, comprese cioè le forme esclusive e sostitutive30, non tanto deve concentrarsi l’attenzione sulla portata in successione delle due nuove età anagrafiche, oramai sufficientemente scontate come nuovi requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia, quanto, per un verso ed in prospettiva, sulle linee di ulteriore tendenza all’elevazione dell’età pensionabile e, per altro verso, retrospettivamente, sui criteri di esclusione nonché sulla definizione di eccezioni e deroghe per attenuare l’immediatezza di impatto del «rigore».
2.2 I nuovi requisiti e l’opzione verso i 70 anni
Quanto alla tendenza del nostro ordinamento pensionistico, è sintomatico che – ancor prima di dettare (co. 6 e ss.) i nuovi requisiti anagrafici di accesso – il legislatore (co. 4), scontato l’effetto di implementazione grazie all’adeguamento in funzione della speranza matematica, si sia preoccupato di fissare un obiettivo di ulteriore elevazione, seppure in via opzionale, dell’età pensionabile fino al settantesimo anno di età (sintomaticamente, lo stesso limite di cui al co. 7, v. supra, § 2.1), individuandolo come limite massimo di flessibilità, da conseguire con strumenti concorrenti di incentivazione:
a) di ordine endosistemico, attraverso la previsione di coefficienti di trasformazione correlati ad età più avanzate, fino al settantesimo anno di età, cui sovviene dal 1° gennaio 2013 la estensione del coefficiente di trasformazione «per le età corrispondenti a valori fino a 70» (comma 16); si implementerà così del tutto fisiologicamente la misura della pensione liquidata dopo il 66°/67° anno e, a ben guardare, senza che possa dirsi che vi è una vera incentivazione, visto che semmai si eliminerà una ingiustificata penalizzazione del pensionamento ad età più avanzata, insita nelle preesistenti tabelle, sviluppate solo fino al 65° anno di età;
b) di protezione esterna, attraverso la dilatazione del meccanismo di stabilità reale del posto di lavoro anche in favore degli optanti. Questa misura richiede lo svolgimento di varie riflessioni: i) sul piano sistematico, trova conferma la stretta correlazione, ed anzi immedesimazione, del diritto della previdenza sociale e del diritto del contratto individuale di lavoro, risalente all’art. 11, l. 15.7.1966, n. 604: eppure, il richiamo al solo art. 18, l. 20.5.1970, n. 300 non è in linea con la portata universale della protezione contro i licenziamenti – pur differenziata in ragione delle dimensioni aziendali, sotto forma di stabilità reale o sotto forma di stabilità obbligatoria – finora disposta in correlazione all’età pensionabile: ii) sul piano della politica del diritto, la estensione temporale – ovviamente, in favore degli optanti lavoratori dipendenti, per tener conto della circostanza che l’opzione verso i 70 anni è esercitabile anche dai collaboratori a progetto – della “efficacia” dell’art. 18 nella sua interezza, ivi comprese dunque le disposizioni sul campo di applicazione, ora operante «fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità», al di là dunque dell’età pensionabile, non può non incidere sul dibattito da subito avviatosi con il nuovo Governo in ordine ad una diversa impostazione da dare alla portata stessa dell’art. 18, conclusosi con la l. n. 92/2012; iii) l’assimilazione della disposizione in esame a quella dell’art. 6, co. 2-bis, d.l. 31.12.2007, n. 248, conv. con modificazioni in l. 28.2.2008, n. 3131 è frutto di una scorretta ed ingiustificata sovrapposizione concettuale: la norma del 2007 copre lo sfasamento imposto dalla legge fra data di maturazione dei requisiti di accesso e data di effettiva fruizione della pensione, in ragione del differimento determinato dalla operatività delle c.d. finestre (oramai superate: cfr. co. 5), laddove la nuova disciplina copre lo sfasamento conseguente alla scelta individuale (per definizione, volontaria) di differire la fruizione del trattamento pensionistico, una volta raggiunto il requisito legale.
Si aggiunga che – nel testo licenziato dal Parlamento e salva una qualche integrazione normativa, pur annunciata32 – manca ogni indicazione procedimentale: e tuttavia deve ritenersi essenziale che, trattandosi di una opzione assolutamente libera, l’interessato al differimento della pensione ed alla correlata protrazione della tutela contro il licenziamento risulti onerato della presentazione di una istanza coordinatamente indirizzata all’Inps ed al datore di lavoro. Non urta contro questa conclusione la pur fascinosa comparazione con la opzione già riservata alle donne in tema proprio di età pensionabile e di licenziamento, ove nessun onere procedimentale grava sulla donna, giacché l’eventuale silenzio della donna pensionanda fronteggia una situazione di mancanza di parità fra uomo e donna, e ad esso è dunque ragionevole attribuire il valore di comportamento concludente alla stregua di presunzione rimediale, in una situazione dunque ben diversa da quella che deriva dalla libera opportunità di protrazione dell’attività lavorativa offerta dal co. 4, ultimo periodo, ad entrambi i sessi.
Nel corso del 2012, e precisamente in correlazione con la rielaborazione ed ampliamento dei coefficienti di trasformazione di cui alla tabella A allegata alla l. n. 335/1995 (v. nt. 27), è emersa e va consolidandosi – sebbene il decreto nulla disponga al riguardo – l’ipotesi di estendere l’effetto di implementazione dei vari requisiti anagrafici di accesso contemplati dall’art. 24 della l. n. 214/2011 secondo il disposto del co. 12 anche ai 70 anni, inteso come limite massimo di flessibilità: si tratta di una lettura grossolana delle norme. La tesi della estensione del meccanismo di cui al co. 12 anche al suddetto limite di 70 anni cerca di introdurre surrettiziamente la tesi che anche nel co. 4 i 70 anni di età siano un requisito di accesso al trattamento pensionistico, ed è semplicemente il frutto a) di una forzatura sintattica: «fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita» è espressione che si riferisce al soggetto logico della frase precedente, dunque a «i coefficienti di trasformazione», e non anche all’età di 70 anni, che lungi dall’essere un requisito di accesso è espressamente definito nel terzo periodo come «limite massimo di flessibilità»; e b) di una mancata visione di sistema, visto che nel ricordato co. 12 viene ribadito che l’adeguamento è applicato ai requisiti anagrafici (ma quelli) di accesso. Il dato normativo è molto chiaro, e come tale impegna tutti, anche il Governo e la p.a. Si può discutere se valga la pena di introdurre anche per il limite di flessibilità un meccanismo di adeguamento automatico: ma se questa dovesse essere la scelta – non condivisa da chi scrive e che avverrebbe oltre tutto con una tutela rafforzata dal nuovo art. 18 della l. n. 300/1970, sub art. 1, co. 42, l. n. 92/2012, visto che il parametro età è protetto per definizione dalla normativa antidiscriminatoria – essa deve essere fatta con chiarezza e trasparenza, ed eventualmente al termine di un dibattito sulla collocazione di giovani ed anziani rispetto al mondo del lavoro ed al mondo pensionistico.
2.3 I nuovi requisiti: decorrenza, eccezioni, deroghe, esclusioni
Quanto alla delimitazione temporale dell’efficacia del nuovo regime, dispone il primo periodo del co. 3, che va letto in coordinazione – per la verità, faticosa – con l’inizio del co. 14, ove anche il richiamo al regime opzionale per le donne, di cui all’art. 1, co. 9, l. n. 243/2004; la norma, nel fissare la decorrenza delle nuove regole al 1° gennaio 2012, consolida l’applicabilità di quelle precedenti – limitatamente, peraltro, a quelle sui requisiti di accesso e sulle decorrenze, e dunque con applicazione comunque del metodo contributivo dal 1° gennaio 2012 – a tutti coloro che maturino i requisiti di età e di anzianità contributiva secondo il precedente regime entro il 31 dicembre 2011. La norma sancisce l’immediatezza del passaggio al nuovo regime33, accompagnata da una tecnica di consolidamento, suscettibile di specifica certificazione da parte dell’ente di appartenenza, secondo una esperienza risalente all’art. 1, co. 3, l. n. 243/2004, con un effetto meramente dichiarativo e non certo costitutivo.
Questa previsione, assumendo l’ipotesi di continuare a svolgere l’attività lavorativa – a parte quegli ordinamenti che configurino nel raggiungimento di una specifica età pensionabile una condizione comunque estintiva del rapporto di lavoro, secondo quella che è una caratteristica dei rapporti di lavoro con la p.a. – è essenzialmente rivolta ai lavoratori privati: per questi ultimi, dunque, la collocazione sistematica in un comma distinto da quello che attribuisce il meccanismo opzionale, nel definire compiutamente il regime confermato ivi compreso il regime delle finestre, induce a ritenere ragionevolmente esclusa l’operatività del beneficio di cui all’ultimo periodo del co. 4, consistente nella protrazione della tutela portata dall’art. 18 l. n. 300/1970 nella vigente versione.
Correlato al regime della decorrenza risulta, con la consueta particolare complessità, il panorama delle disposizioni di raccordo fra i nuovi limiti per l’accesso al trattamento pensionistico e quelle situazioni in corso, volte alla copertura dei periodi di anticipazione della cessazione del rapporto rispetto al, ritenuto prossimo, pensionamento ordinario. Qui dispone la seconda parte del co. 14, a partire dal «nonché», che stacca il periodo precedente da quello contenente l’elenco delle situazioni, non necessariamente critiche, rispetto alle quali – al di là dei vari profili procedimentali – l’accesso al trattamento pensionistico con le regole pregresse è consentito con la limitazione numerica e finanziaria rimessa alla determinazione ministeriale.
Anche qui, senza entrare nella descrizione delle singole situazioni, peraltro ben note, basta rilevare che si tratta delle ipotesi (purché definite prima del 4 dicembre 2011, con i provvedimenti del caso, e cioè mediante accordi collettivi per le ipotesi di cui infra a) e b) e nel presupposto di autorizzazioni specifiche per le altre ipotesi):
a) di raccordo fra l’accesso alle prestazioni di integrazione salariale per mobilità ordinaria o lunga;
b) di sostegno del reddito a carico dei fondi di solidarietà ex art. 2, co. 28, l. n. 662/1996, con mantenimento dell’onere prestazionale a carico dei fondi fino al 59° anno di età, in via di elevazione a 60 anni di età grazie al decreto “mille proroghe”;
c) di prosecuzione volontaria della contribuzione;
d) di esonero dal servizio per i pubblici dipendenti.
Si è appena precisato che le riferite eccettuazioni dall’applicazione delle nuove regole si fondano sulla circostanza che le varie fattispecie fossero già definite al momento della entrata in vigore del decreto legge (in omaggio alla consolidata e tutto sommato inevitabile operatività del principio tempus regit actum), ma anche che esse risultino contenute entro contingenti finanziari, definiti questi ultimi dallo stesso co. 15 (ove sono registrati gli stanziamenti delle risorse per gli anni dal 2013 al 2019) e limiti numerici di singoli beneficiari affidati alla determinazione ex post con decreto ministeriale sulla base dei risultati del monitoraggio affidato agli enti competenti: ne conseguirà che «i predetti enti non prenderanno in esame» (formula eufemistica, che sta per respingeranno) «ulteriori domande di pensionamento finalizzate ad usufruire dei benefici previsti dalla disposizione di cui al comma 14», fondandosi questa soluzione sul meno consolidato e meno inevitabile principio prior in tempore, peraltro in passato già utilizzato (v. La tutela pensionistica dei lavoratori cd. esodati), sebbene esso non garantisca minimamente il rispetto del principio della parità di trattamento. Gli effetti di questa linea riduttiva si sono manifestati nella inadeguatezza dei provvedimenti emenati dal Ministro e nella polemica fra Ministero ed Inps in ordine alla quantità di esodi previsti34.
2.4 Spunti in tema di contenimento e funzionalizzazione della spesa pensionistica
L’art. 24 è ricco di altri spunti normativi, che possono ricondursi alla soddisfazione della esigenza congiunta di contenimento e di funzionalizzazione della spesa pensionistica: fra questi, l’intervento di contenimento degli effetti della perequazione, e l’orientamento per le scelte di riequilibrio degli enti di previdenza per liberi professionisti. Nessuna prospettiva, invece, di ulteriore sostegno alla previdenza complementare si delinea, a parte il generico annuncio di un tavolo programmatico volto a realizzare misure di decontribuzione per i giovani, in quanto economicamente sostenibili (co. 28), così come nessuna attenzione a regolare in qualche modo gli effetti di rimbalzo della riforma del primo livello sul secondo livello.
Quanto al contenimento della spesa per perequazione, si è continuato a fare ricorso alla temporanea neutralizzazione dell’addendo variabile del trattamento pensionistico nella sua componente dinamica. Anche in questo caso, la disposizione della manovra invernale sostituisce quella che era stata messa a punto durante la manovra estiva, che pure aveva a sua volta già registrato varie edizioni e ripensamenti.
L’attuale co. 25 blocca, per il biennio 2012-2013, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici secondo il meccanismo a suo tempo disposto dall’art. 34, co. 1, l. 23.12.1998, n. 448 (dunque, ricomprendendo nel calcolo del trattamento da congelare anche e solo quello da prestazioni integrative e relativo adeguamento, non anche quelle da contribuzione definita) che superino tre volte il trattamento minimo Inps; questa misura è stata così ritoccata rispetto alla iniziale previsione del corrispondente art. 25 d.l. 6.12.2011, n. 201. Sul punto non resta che richiamarsi alle riflessioni indotte dalla sentenza della C. cost., 11.11.2010, n. 316, che avevano già influenzato la rielaborazione dell’art. 18, co. 3, d.l. n. 98/2011, conv. in l. n. 111/2011, ora esplicitamente abrogato dal periodo finale del co. 2535.
Fortemente pressante è l’intervento volto a conseguire il riequilibrio delle forme di previdenza per i liberi professionisti.
La convinzione del legislatore che il sistema contributivo sia in sé la soluzione dei problemi di riequilibrio delle forme pensionistiche è alla base della disposizione del co. 24, che è rimasto inalterato nella originaria stesura del decreto legge, tranne il prolungamento del tempo disponibile (fino al 30 settembre 2012) per l’autonoma adozione delle misure da parte degli enti privati(zzati) di cui al d.lgs. n. 509/1994, oltre che (inutilmente richiamati, in quanto già operanti con il metodo contributivo) di quelli istituiti in applicazione del d.lgs. n. 103/1996. Un impegno sicuramente grave, anche in relazione ai sommovimenti, quantitativi e qualitativi, cui vanno incontro gli ordini professionali, capaci certamente di incidere sulle proiezioni da assumere come presupposto delle indicate misure.
Questa misura è stata adottata sulla scia dell’intervento assunto con l’art. 14, co. 1-5, d.l. n. 98/201136, con l’attribuzione alla Covip della vigilanza sul relativo patrimonio, nel cui contesto assume un rilievo particolare la valorizzazione della componente dell’equilibrio tecnico-attuariale, tipico della previdenza di base, attraverso il richiamo nel co. 3, all’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 509/1994, destinata ad assumere un determinante rilievo anche e proprio nella prospettiva di attuazione del co. 24. Qui si impone l’adozione di «misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di cinquanta anni». Nel caso di mancata approvazione ministeriale delle delibere che adotteranno tali misure (questa è la natura dell’atto amministrativo definito, con molta approssimazione, «parere negativo») scatterebbe ex officio la misura dell’applicazione, pro rata37, del metodo di calcolo contributivo, come indicato dal co. 2, oltre l’applicazione di un contributo di solidarietà per gli anni 2012-2013 a carico dei già pensionati.
A quanto risulta, tutti gli enti interessati hanno adottato misure ritenute congrue, cosicché l’effetto previsto di consolidare l’equilibrio a 50 anni è stato formalmente conseguito, ma resta il dubbio se la norma, nell’obiettivo di reagire ai possibili eccessi e privilegi del metodo di calcolo c.d. retributivo, avesse adeguatamente considerato le specificità di quegli enti di previdenza professionale fondati su meccanismi sostanzialmente solidaristici (salvo altri, ciò vale sicuramente per notai, farmacisti e consulenti del lavoro), in cui la misura della prestazione si caratterizza per l’identità del trattamento dei singoli, a prescindere quindi dalla valorizzazione del reddito personale fruito. A questi interrogativi si aggiungono altre perplessità, legate a questioni di metodo:
a) di certo, l’adozione – spontanea o necessitata – del metodo contributivo ex nunc non riesce a riequilibrare di per sé una gestione pensionistica, se non accompagnata da altre significative misure;
b) la nozione di equilibrio di bilancio, indicata dall’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 509/1994, significativamente richiamata dall’art. 14, co. 3, l. n. 111/2011 è sicuramente più ampia, e non si esaurisce nella stretta corrispondenza fra entrate contributive e spesa per prestazioni;
c) il riferimento ai bilanci tecnici, presente nello stesso co. 24, comporta l’applicazione di criteri di calcolo che considerino tutte le componenti, finanziarie ed attuariali (tradizionalmente rispondenti allo stato di avanzamento delle scienze attuariali, con la piena considerazione proprio di tutti quegli elementi finanziari, quali gli investimenti patrimoniali, oggetto della normativa in fieri dei controlli, in assenza delle quali, si determinerebbe la situazione di uno squilibrio meramente formale, indotto direttamente, quanto paradossalmente, dal legislatore, che non ha avuto alcuna esitazione a creare – nel contesto della ricordata spending review – un del tutto anomalo, e presumibilmente illegittimo, tributo commisurato al 10% annuo del risparmio di spesa sui consumi intermedi sostenuti nel 2010 (art. 8, co. 3, del d.l. n. 95/2012, conv. con modificazioni in l. n. 135/2012).
Complessivamente, un quadro netto e definito, sebbene in alcuni passaggi forzato ed a rischio di illegittimità costituzionale, cui non dovrebbe fare scudo la conclamata funzionalizzazione al pareggio di bilancio, se vale – come non c’è ragione di dubitare – l’insegnamento della C. cost., 12.1.1994, n. 2, che nel sottrarre la manovra del 1992 al rischio del referendum abrogativo, esplicitamente dichiarò che altra cosa è la garanzia di razionalità sistemica delle scelte legislative ed il rispetto del principio di parità, riservandosi di intervenire su eventuali questioni incidentali di legittimità costituzionale.
Una definitezza di sistema, a fronte della quale – non solo da un punto di vista squisitamente editoriale – ci si può domandare se questo interessante capitolo della previdenza pensionistica nel Libro dell’anno del diritto (volto alla illustrazione delle modifiche legislative) avrà ancora spazio nei prossimi anni. Se dovesse essere corretta l’idea enunciata dal Governo in termini di “pagina chiusa” sulle pensioni, la risposta dovrebbe essere negativa.
Ma questa previsione non è ragionevole, e non tanto perché si delineano ulteriori progetti legislativi sulla flessibilità pensionistica nella transizione intergenerazionale attraverso meccanismi solidaristici (d.d.l. Treu, Ghedini, Ichino, ed altri, in www.pietroichino.it) e sono già operativi modelli contrattuali collettivi (chimici, credito) di avvicendamento generazionale, che richiedono la sponda legislativa pensionistica, quanto perché proprio sul piano editoriale occorrerà seguire con attenzione i vari momenti applicativi della complessa normativa illustrata, dalla sede amministrativa a quella giudiziaria. Un programma comunque impegnativo, al quale l’iniziativa del Libro dell’anno del diritto non potrà sottrarsi.
1 Nell’immediatezza dell’entrata in vigore della l. n. 214/2011, l’Autore ha elaborato un primo saggio di approfondimento, Il sistema pensionistico tra una manovra e l’altra. – prime riflessioni sulla legge n. 214/2011, in Riv. dir. sic. soc., 2012, I, 1 ss.; il presente saggio riprende vari spunti di quello testé citato, riesaminando ora l’intera problematica nella prospettiva dinamica dettata dal passare del tempo, di grande rilievo in materia pensionistica.
2 Temi già esaminati: v. Sanduli, P., Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012, 523 ss. A titolo di esempio, all’atto del cambio di Governo risultavano ancora in fase di emanazione i provvedimenti previsti dall’art. 26 l. 15.7.2011, n. 111 (in tema di decontribuzione) ed il regolamento degli investimenti per gli enti di previdenza privati (art. 14, co. 3).
3 Sanduli, P., Il sistema delle fonti del diritto del lavoro dopo l’art. 8 l. 148/2011, in Mass. giur. lav., 2012, III, 50.
4 Nella lettera del Premier di fine ottobre indirizzata all’UE, si dava per scontato – quanto al sistema pensionistico – il raggiungimento dell’età pensionabile a 67 anni nel 2026, grazie al meccanismo di variazione automatica collegato alla speranza matematica di vita (art. 18, co. 2, d.l. 6.7.2011, n. 98).
5 In estrema sintesi, la l. n. 183/2011 dispone in materia nei seguenti termini: nell’art. 5 si fissa una tappa intermedia di elevazione dell’età pensionabile al 67° anno di età, tenuto conto della decorrenza del trattamento stesso e degli incrementi della speranza matematica; nell’art. 16 si modifica la disciplina della mobilità dei dipendenti di pubbliche amministrazioni; nell’art. 22, co. 1, vi sono altre agevolazioni contributive per il contratto di apprendistato nell’ambito di imprese fino a nove dipendenti, e perfino l’azzeramento della contribuzione; nello stesso art. 22, co. 6, si dispone, ai fini dei benefici contributivi e fiscali, una saldatura fra i contratti collettivi di cui all’art. 26 del d.l. n. 98/2011 e quelli stipulati ai sensi dell’art. 8 d.l. n. 138/2011 e l. conv. n. 148/2011; nell’art. 33, co. 19-21, è disposto il proseguimento della gestione in deroga degli ammortizzatori sociali.
6 Salva diversa indicazione, il riferimento al numero di comma vale rinvio all’art. 24 d.l. n. 201/2011, come da l. di conv.
7 La materia è oggetto della delega di cui alla l. n. 247/2007, art. 1, co. 28 e 29, rimasta finora inattuata a causa dell’avvicendamento elettorale del maggio 2008, sebbene essa sia stata prorogata, fino a novembre 2012, dall’art. 46 della l. n. 183/2010.
8 Non si intende qui sottovalutare i ritocchi disposti con altre norme, fra le quali spicca l’art. 59 l. 27.12.1997, n. 449.
9 Su pareggio di bilancio e spesa sociale, cfr. Sanduli, P., Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011, cit., 523-524. Nel frattempo è stata emanata la l. cost. 20.4.2012, n. 1.
10 Vedi fra breve (§ 2), quanto alla generalizzata estensione del metodo di calcolo contributivo.
11 Su questa “tecnica di composizione di interessi o diritti in conflitto”, cfr. Morrone, A. , Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, 185.
12 Cfr. le riflessioni critiche in Sanduli, P., Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011, cit., 534 ss.
13 Il presupposto per l’applicazione del contributo di solidarietà ai fondi speciali sostitutivi è venuto meno dal 1° gennaio 1996 grazie alle armonizzazioni di cui alla l. n. 335/1995.
14 Il contributo di solidarietà è definito per gli ex fondi trasporti/elettrici/telefonici/Inpdai/ e Fondo volo, con riferimento all’anzianità fino al 31 dicembre 1995, suddivisa in tre scaglioni di appartenenza al regime, con diverse aliquote, da applicare alle prestazioni superiori a cinque volte il minimo, che viene comunque salvaguardato. Per il Fondo volo, concorre alla determinazione dell’imponibile anche la “quota di pensione capitalizzata al momento del pensionamento”.
15 Queste disposizioni hanno gravato di seri ed ingiustificati oneri finanziari le operazioni di ricongiunzione verso l’assicurazione generale obbligatoria dai fondi speciali, adottando – del tutto discutibilmente – un vero e proprio rovesciamento del meccanismo attuariale disposto per la ricongiunzione inversa.
16 Significativi segnali di difficoltà per la tenuta della soluzione, così aggravata dal co. 31-bis sono presenti nella sentenza C. cost. n. 223/2012, sull’art. 9, co. 2, d.l. n. 78/2010.
17 Sulla capacità, etica, del fisco di perequare, con il suo diversificato prelievo, trattamenti retributivi abnormi, si confronti il nuovo regime fiscale dei tfr c.d. eccessivi (cfr. co. 31, ove il superamento della tassazione separata per importi superiori a un milione).
18 Anche solo terminologica: nel co. 7, si noti importo soglia, come puntigliosa identificazione dell’effetto preclusivo; nel comma 6 si legge che «il requisito anagrafico di sessantacinque anni di cui … è determinato in sessantasei anni».
19 Cfr. Sanduli, P., Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011, cit., 523 ss.
20 Compresa la soppressione di alcune misure paraprevidenziali; cfr. art. 6 ed ivi soppressione dell’equo indennizzo e delle pensioni privilegiate nell’area dell’impiego pubblico – a parte il comparto, sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico – con salvezza dell’assicurazione infortuni sul lavoro.
21 Sulla portata e sui precedenti del programma di accorpamento, cfr. Sanduli, P., Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011, cit., 532.
22 La C. cost. ha chiesto gradualità nella introduzione di nuove regole pensionistiche, rimessa alla discrezionalità tecnica del legislatore, mai cristallizzando un determinato regime.
23 Sul punto, si ricordi l’invito di Ferrera, M., in Corriere della Sera, 12.9.2011, per il ridimensionamento dei diritti quesiti; ma già Persiani, M., Aspettativa e diritti nella previdenza pubblica e privata, in Argomenti dir. lav., 1998, II, 311 ss.
24 La documentazione agli atti del Senato, sull’impatto finanziario delle varie misure, disposta in termini aggregati, non consente di valutare l’effettiva portata di questa scelta.
25 Per effetto del co. 2, tutte le norme che consentivano la protrazione del rapporto di lavoro per conseguire il requisito di anzianità massima contributiva nel sistema retributivo (ancora da ultimo art. 22 l. n. 183/2010, per i dirigenti del servizio sanitario), seppur non espressamente abrogate, sono svuotate del loro originario significato, posto che l’anzianità contributiva utile per il calcolo retributivo non è più implementabile: una sorta di abrogazione implicita per esaurimento dei presupposti applicativi.
26 È emblematico l’impatto della sentenza della C. giust., 13.11.2008, C-46/07, in Riv. dir. sic. soc., 2009, 209, con note di P. Sandulli, V. Piccone, I. Corti, F. Pammolli e N.C. Salerno, 97 ss.
27 L’utilizzazione dei calcoli attuariali come elemento di automatismo del regime pensionistico risale alla l. n. 335/1995, che correlò il coefficiente di trasformazione nel calcolo della rendita da montante accumulato con il metodo contributivo alla variazione della speranza matematica di vita: donde le tabelle di cui alla lettera A, che avrebbero dovuto essere aggiornate alla scadenza dei dieci anni (art. 1, co. 6 e 11). Emblematica delle incertezze derivanti dalla manipolazione degli automatismi è la vicenda successiva alla scadenza del decennio, cui non seguì l’aggiornamento; tanto da costringere il legislatore (art. 14 l. n. 247/2007) a rielaborare esso stesso le tabelle, con decorrenza 1° gennaio 2010 (dunque con un ritardo di cinque anni rispetto al già lungo periodo di dieci anni), ragionevolmente accorciando con l’occasione il periodo di aggiornamento dei coefficienti, da dieci a tre anni. Questo non brillante precedente spiega l’addossamento della responsabilità erariale da mancato aggiornamento sul dirigente preposto (art. 12, co. 12-bis, penultimo periodo, l. n. 122/2010). L’implementazione e modificazione dei coefficienti di trasformazione, con ulteriori scaglioni fino all’età di settanta anni è stata disposta con d. interm. 15.5.2012.
28 In sede di conversione del d.l. cd. “mille proroghe” per il 2012 (d.l. n. 216/2011), è passato dalla Camera dei deputati al Senato, un testo recante modificazioni proprio sulla impostazione originaria del co. 10, terzo e quarto periodo, che escluderà i lavoratori c.d. “precoci” dalla penalizzazione ivi disposta.
29 Il diverso regime definito dal co. 17 per le attività «particolarmente faticose e pesanti» ha carattere di assoluta specialità e viene qui considerato solo per segnalare l’attenzione del legislatore a raccordare la recentissima disciplina di cui alla l. n. 183/2010, recante all’art. 1 la delega per i lavori usuranti ed il d.lgs n. 67/2011, mediante variazione dei periodi e modulazione dei parametri di riferimento.
30 Non anche le forme gestite in via di autonomia anche normativa dagli enti privati(zzati). Ciò pone delicati problemi per il trattamento pensionistico dei giornalisti, che viene così a scindersi a seconda che si tratti di dipendenti (in forma sostitutiva) o di professionisti (in forma autonoma): sintomatica è Cass., 26.1.2012, n. 1098.
31 Il co. 4, ultimo periodo, dispone che nei confronti dei lavoratori dipendenti, «l’efficacia delle disposizioni di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità», laddove la norma di cui all’art. 6, co. 2-bis, d.l. n. 248/2007 così disponeva «L’efficacia delle disposizioni … è comunque prorogata fino al momento della decorrenza della pensione».
32 Risulta non accolto un emendamento in sede di conversione del d.l. sulla semplificazione, volto ad aggiungere alla fine del co. 4, il seguente periodo: «L’esercizio della facoltà di proseguimento deve essere comunicato al datore di lavoro e all’Ente previdenziale almeno sei mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia secondo le norme vigenti a quella data. Nel caso che venga esercitata l’opzione, la cessazione del rapporto di lavoro per avvenuto raggiungimento del requisito avviene in ogni caso, senza obblighi di preavviso per alcuna delle parti».
33 Salva l’attenuazione disposta con il co. 15-bis, introdotto in sede di conversione, per fronteggiare le situazioni in corso di prossima maturazione nel corso del 2012.
34 Basta risalire all’art. 18, co. 22-quater, l. n. 111/2011, che – per situazioni analoghe – dispone il limite di 5.000 unità.
35 Sulla portata della citata sentenza vedi già, Sandulli, P., Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011, cit., 526.
36 Sandulli, P., Norme in tema di previdenza nella finanziaria 2011, cit., 532, l’analisi è necessariamente critica per l’incompiutezza dell’intervento.
37 Sull’attenuazione della rigorosità del criterio del pro rata indotta dall’art. 1, co. 763, l. n. 296/2006, cfr. Cass., 30.7.2012, n. 13607.