Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La percezione della natura nel Medioevo passa attraverso il concetto che in essa si riveli Dio: ciò che si vede è un riflesso del divino e della sua potenza. Solo col passare dei secoli, anche grazie alle illustrazioni scientifiche, ci si avvicina progressivamente alla restituzione della realtà così com’è. I cicli dei Mesi e i tacuina sanitatis sono tra le migliori occasioni di riproduzione del dato naturale.
Nel Medioevo l’emozione provocata dalla bellezza della natura porta l’uomo a rendere omaggio all’opera di Dio, suo creatore, e a glorificare la sua onnipotenza: si procede dalle realtà visibili a quelle invisibili, da quelle fisiche a quelle spirituali. La natura è specchio della Creazione, l’uomo vi ammira tutte le forme che Dio ha creato. Le piante, gli animali, i paesaggi vengono di rado descritti dall’arte in quanto tali o restituiti in maniera dettagliata, a parte eccezioni come le immagini di erbari, bestiari e poche altre tipologie, spesso derivate da una classicità non di rado reinventata.
La rappresentazione della natura, inoltre, vale talvolta anche in funzione escatologica: quello che per noi è il mondo terreno, alla fine dei tempi si aprirà alla Gerusalemme Celeste. Questo spiega anche la tendenza didascalica che si nota dal tardo XII secolo: l’arte ingloba la raffigurazione naturale come enciclopedia visiva del creato, con ovvi scopi didattici ed educativi, quasi catechistici. Si cerca quindi di creare composizioni simboliche che non riproducano la varietà della natura in modo mimetico, ma la ricostruiscano secondo schemi fissi e accettati per portare lo spettatore a ragionare sul senso religioso che vi è collegato.
Progressivamente si assiste a un lento ma costante aumento della volontà di restituzione della realtà rispetto a queste forme simboliche e allusive. In questo percorso, che si completerà nel XIII e XIV secolo, l’illustrazione scientifica gioca un ruolo importante, estendendosi addirittura alla codificazione dell’irreale. Nei bestiari troviamo spesso entità fantastiche descritte con accuratezza e precisione: la più nota è forse l’unicorno. In un atteggiamento per cui il mostro che non si trova non è quello che non esiste, ma quello che vive in un luogo non ancora esplorato.
La realtà naturale nel Medioevo può essere dunque raffigurata in modi diversi. Quello mimetico, nei casi in cui si ricerca l’esattezza per esigenze descrittive di tipo catalogatorio o enciclopedico. Quello allusivo, in cui l’immagine vale come simbolo o come categoria. Quello ri-creativo, in cui si afferma una soluzione che media spunti diversi, dove uno schema già consolidato viene ricontestualizzato.
La resa di un animale o di una pianta non si giova quasi mai di un approccio diretto: i disegni in cui, tra fine XIV e inizio XV secolo, Giovannino de’ Grassi o Pisanello riproducono le fattezze di orsi, cavalli, uccelli, conigli, leoni, appartengono a un mondo che già prelude a un naturalismo di stampo moderno. Fino al primo Trecento, invece, le forme sono attinte quasi sempre da una fonte creduta autorevole e già filtrata dai repertori artistici. I repertori botanici e animalistici degli erbari e dei bestiari tramandano un sapere che affonda le radici nel mondo dell’Antichità, in autori come Dioscoride (I sec.), o l’Anonimo del Physiologus; durante il Medioevo i loro testi, talvolta già immaginosi, vengono storpiati o adattati i modelli visivi fraintesi. Schemi acquisiti sono riproposti per secoli solo con lievi modifiche stilistiche di aggiornamento, o corruzioni.
Non occorre aver visto un leone per raffigurarlo: basta copiarlo, o derivarlo dai repertori che circolano tra gli artisti. Alla fine del 1100 i modelli iniziano a riportare nuove aperture verso la natura osservata direttamente. Il rapporto ambiguo tra realtà e schema, tra fisicità e simbolo, emerge bene da un celebre disegno dell’architetto e scultore Villard de Honnecourt (XIII sec.), in cui, verso il 1230-1240, un leone simile a quelli di animazione è detto “ “contrefais al vif ””, ““riprodotto dal vivo””; la stilizzazione fa pensare alla raffigurazione di una scultura romanica, ma non è escluso che l’artista abbia visto davvero l’animale e l’abbia reso poi col filtro codificato della tradizione artistica.
In pieno XII secolo lo scultore di inequivocabili elefanti – non un vago mostro di fantasia – che troviamo in un capitello della navata della chiesa di Aulnay non ha certo avuto un approccio diretto con tale animale, ma ha sicuramente ammirato stupito le immagini di un bestiario che riportava le fattezze di creature di terre esotiche e lontane, come avverrà nei livres des merveilles di cui Il Milione di Marco Polo è il caso più noto. Gli uccelli della Creazione nella Cappella Palatina di Palermo sono tutti uguali, bianchi, senza caratterizzazioni: sono genericamente “uccelli”, appunto. Ma già tra il 1180 e il 1190, nella vicina Monreale, il quinto giorno della Genesi si dota di pavoni, aironi, gufi, con una varietà che non dipende tanto dalla natura vera, ma da quella organizzata e, si può dire, pronta all’uso, delle enciclopedie e dei cataloghi.
A diverse forme di percezione della natura, e quindi della sua riproduzione, si accompagna però la costante scarsa autonomia figurativa: a parte i casi scientifici, un animale, un bosco o un paesaggio non possono costituire il soggetto primo di un’opera. Possono tuttavia elevarsi a simbolo (come nel caso di certi vizi e virtù, o in quello degli animali cristologici) o ad attributo iconografico; le eccezioni sono scarse.
Il senso della scansione temporale nel Medioevo è quasi sempre basato sui ritmi della fede, in base ai quali vengono ordinati il contenuto dei libri liturgici e, spesso, i programmi iconografici scolpiti all’esterno delle grandi sedi religiose.
Ma a fianco di questa realtà ne compare una seconda, composta da immagini che devono dare l’idea di un “tempo altro”, quello delle attività umane: i numerosissimi cicli dei Mesi che troviamo nell’arte medievale, uno dei rari casi in cui l’osservazione della natura appare in forma più precisa e almeno apparentemente diretta. È ben noto infatti che, a fronte di una tendenza statica delle occupazioni cittadine, è il mondo naturale della campagna, collegato più direttamente alle mutazioni del clima e del paesaggio durante l’anno, a segnare visivamente lo scorrere della vita. Sulla base di ricordi classici, di tipo naturalistico e mitologico, si innesta un nuovo sguardo, che parte senz’altro da un’osservazione diretta della realtà, ma poi si codifica in scene-tipo (con molte varianti) che assumono un vero e proprio ruolo repertoriale.
Gli storici che si occupano del paesaggio agrario e dell’alimentazione hanno usato queste immagini come fonte di studio su colture, attrezzi, e altro. Anche in questi casi però il filtro artistico degrada, in forme più o meno forti, la loro immediatezza. Lo dimostra il ricorso a raffigurazioni identiche in aree geografiche distanti, e la stabilità entro la produzione di una stessa bottega.
I cicli calendariali nella pittura monumentale pervenuta fino a noi non sono molti (per l’Italia va citato quello della Torre d’Aquila al Castello del Buonconsiglio di Trento, eseguito per Giorgio di Liechtenstein nei primi anni del Quattrocento). Ne troviamo invece molti esempi nella decorazione libraria, dove compaiono in genere prima dell’inizio dei testi liturgici o di preghiera privata. Uno dei casi più noti è il Libro d’Ore della Biblioteca Piancastelli di Forlì, già ritenuto uno degli esempi più clamorosi di inclinazione naturalistico-espressiva dell’arte bolognese, e ora spostato nell’orbita del modenese Serafino de’ Serafini, a fine Trecento. Lo svellamento delle rape dal terreno freddo, l’uccisione del maiale e la semina incarnano uno degli apici dell’interesse naturalistico nel XIV secolo, in forme almeno apparentemente realistiche. Un altro ambito preferenziale di applicazione dei Mesi è la scultura monumentale dei cicli di chiese e battisteri: i celebri casi italiani di Antelami o del Maestro dei Mesi di Ferrara seguono nei primi decenni del Duecento una linea percorsa da questa iconografia nell’area francese e inglese. La vendemmia del Settembre di Ferrara, con la cuffietta leggera, il bordo della tunica raccolto a scarsella, e il gonfiore dei grappoli, ci parla di una nuova percezione della natura: è una situazione mediata da elementi repertoriali, certo, ma che si apre a un nuovo respiro, a mutazioni di cultura e di stile ben diversi dalla rigidezza allusiva fino ad allora dominante. Ma la cosmogonia terrena delle serie dei Mesi si ritrova pure in altre forme di produzione artistica, come i mosaici: per esempio, quello pavimentale della cattedrale di Otranto, compiuto da Pantaleone nel 1165. Nel Giugno, il contadino miete il grano maturo e ammucchia le spighe ai suoi piedi. La scena è accompagnata dal simbolo dei Gemelli: il segno zodiacale è presenza molto frequente nelle serie calendariali, a ricordare i fondamenti classici del tema e il legame fra terra e cielo.
Un altro contesto privilegiato per l’osservazione diretta e la precisa raffigurazione del mondo naturale sono i tacuina sanitatis, manuali di scienza medica scritti e miniati, soprattutto in Italia settentrionale, in area lombarda, dalla seconda metà del Trecento all’inizio del Quattrocento. Essi descrivono, con brevi indicazioni, le proprietà mediche di ortaggi, frutti e altri alimenti, ma anche gli effetti sul corpo umano del succedersi di stagioni, accadimenti naturali, e addirittura moti psicologici. Il loro contenuto è fondato, talora con aggiornamenti e modifiche, su un’opera dell’arabo ibn Butlan, attivo in pieno XI secolo, che arriva in Occidente forse tramite l’area meridionale italiana. La vasta diffusione si deve probabilmente al livello non “scientifico” del testo, nel senso universitario del termine, ma più diretto, destinato a un pubblico non specialistico di alto censo.
Le copie a noi note recano ricchi corredi miniati, con una funzione non solo esornativa, ma soprattutto, almeno in origine, di accompagnamento ed esplicazione visiva del contenuto. Le immagini mostrano frutti, ortaggi e altri alimenti, quasi sempre in presentazione non asettica, da erbario, ma “vivificata” in scene di coltivazione, raccolto o preparazione del terreno: non un campionario di specie, ma uno spaccato sul mondo della produzione e della preparazione (talora pure della vendita) dei cibi, con una ricchezza e una precisione di dettagli che, se pure mediata da modelli e repertori, può servire sia come fonte per la storia alimentare sia come motivo di aggiornamento formale, in senso naturalistico. Miniatori e pittori tardogotici riversano talvolta proprio nelle opere di più comune iconografia, come quella religiosa, o nella rappresentazione dei Mesi uno sguardo più attento sul reale.
“Paese”, per molto tempo, significò “territorio”, “zona”. La rappresentazione di un paesaggio “libero” ha i suoi prodromi solo nell’inoltrato Quattrocento. I casi che si ritrovano nel Medioevo, specie tra Due e Trecento, hanno sempre motivazioni precise e funzionali, spesso di natura politico-amministrativa, e quasi sempre hanno a che fare con la conoscenza e la repertorializzazione di un territorio.
Un ritratto, per così dire, di un ambiente anziché di una persona. Può avvenire a scopo allegorico, come nel caso dei celebri affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena (1337-1340), dove la visione del paesaggio urbano e rurale corrisponde al contrasto tra città e campagna o tra buono e cattivo governo. Si devono poi ricordare le due discusse vedute con una Città sul mare e un Castello sul lago, già riferite ad Ambrogio Lorenzetti ma ora spostate dalla critica al Sassetta, pittore del Quattrocento: parti di un insieme, o, come alcuni continuano a ritenere, immagini autonome? D’altra parte, è noto che sin dall’alto Medioevo papi e imperatori posseggono, prima della moderna cartografia, figurazioni delle contrade da loro amministrate, o addirittura del mondo conosciuto.
Il concetto, che deriva dagli itineraria classici e arriva alle vere mappae mundi, definisce il paesaggio come somma di elementi riconoscibili, come nel caso del catalogo figurato dei possedimenti abbaziali che ancora si conserva negli affreschi trecenteschi frammentari di Santa Scolastica a Subiaco; per quanto riguarda la città, essa è raffigurata come sommatoria di spunti diretti ma montati in modo funzionale a una riconoscibilità, non a una resa fotografica, come si vede già a partire dai mirabilia di Roma nell’Italia di Cimabue ad Assisi, attorno al 1290. Un altro caso di grande interesse è l’inserimento di piccoli paesaggi privi di specificità evidenti nei codici miniati giuridici, che troviamo già negli anni Trenta del Trecento a Bologna con l’artista noto come l’Illustratore, e anche qui non si tratta di autonomia visiva: gli inserti compaiono infatti a fianco dei testi normativi sul possesso e la gestione delle proprietà terriere nei testi di diritto; l’assenza di un soggetto è dunque solo apparente.
A parte questi casi limite, i paesaggi di tanti dipinti, miniature e sculture svolgono invece ben più di frequente il ruolo di “contenitori visivi”, e sono spesso frutto di pura schematizzazione di pratica di bottega: metodologia abituale nel Trecento è prendere una piccola pietra, o un blocco di terra, disegnarli, e impiegarli replicati o adattati per la resa di un paesaggio montuoso. Un uso, più che una forma di percezione, che si trova ai livelli qualitativi più diversi, fino al Giotto degli affreschi di Padova. Pare quindi che a livello pittorico non vi siano vere attestazioni di quel luogo comune medievale che è il locus amoenus, la descrizione di una natura di sogno non contaminata dall’uomo, citata da Petrarca e poi da Leon Battista Alberti.
Talvolta alcune manifestazioni naturali, specie se anomale, lasciano traccia anche nelle rappresentazioni figurative. Si può ricordare la cometa della Natività di Giotto agli Scrovegni: sia davvero quella di Halley, come si riteneva un tempo, o un altro astro, come poi ipotizzato, o una rielaborazione tutta mentale, che contamina la tradizione aristotelica padovana coi vangeli apocrifi, non manca di costituire fatto rilevante nella conoscenza naturale della pittura del primo Trecento. Catturare l’evento eccezionale, o rendere eccezionale l’opera grazie a una situazione usuale nella realtà ma di rado mostrata. Come il paesaggio coperto dalla neve, repertoriale finché si vuole, ma collettore ovvio di sguardi curiosi, effetti pittorici non scontati, aneddotica discorsiva: già agli inizi del XV secolo, nel ciclo trentino del Castello del Buonconsiglio, il paesaggio innevato ospita dame e gentiluomini impegnati a giocare, mentre ovatta suoni e movimenti nel Febbraio eseguito dai fratelli Limbourg nelle Très Riches Heures del duca di Berry.