La personalizzazione della politica
Nell’epoca attuale non esiste un uomo politico di qualche spessore che non possieda una ‘faccia’, la cui fisionomia, cioè, non sia nota a un pubblico abbastanza vasto. Il sindaco di una città o il ministro di un qualsiasi governo sono riconoscibili e riconosciuti: non solo la televisione, che ha ormai una dimensione capillare (si pensi anche al numero di emittenti cosiddette locali sparse un po’ ovunque), ma ora anche Internet utilizza, sempre in primo piano, le loro immagini (e quale politico non ha il suo blog o comunque il suo web site in cui campeggiano le sue fotografie?).
Ciò che oggi può apparire scontato è in realtà una conquista relativamente recente. Solo nel 1920 il presidente della Repubblica francese Paul Deschanel cadde accidentalmente durante la notte dal treno presidenziale che percorreva a bassa velocità la campagna francese. Avviatosi allora in pigiama alla ricerca di soccorsi bussò a una casa e, presentatosi come il presidente, venne preso per pazzo, faticando non poco a trovare poi qualcuno che lo riconoscesse. Un episodio che oggi sarebbe impensabile se accadesse all’attuale presidente francese Nicolas Sarkozy.
E che dire del presidente del Consiglio francese Henri Queuille che, ormai agli inizi degli anni Cinquanta del 20° sec., confessava che il suo obiettivo era quello di non essere riconosciuto quando girava per strada? È probabile che un politico del 21° sec., anche non di prima grandezza, sarebbe colto da una crisi depressiva se riscontrasse che quando circola per strada nessuno è in grado di riconoscerlo.
La personalizzazione della politica è entrata nella dimensione del comune sentire della gente. Persino i grandi terroristi si mostrano a viso aperto in messaggi video che cercano di far circolare nella maniera più ampia possibile: tutti conoscono le fattezze di Osama bin Laden (Usāma ibn Lādin), che sono addirittura divenute soggetto di maschere carnevalesche.
Non è più il ruolo a dominare la comunicazione pubblica, ma la personalità, che viene, come si vedrà più in dettaglio, costruita addirittura su misura. Il pubblico non vuole semplicemente sapere se il politico possiede o meno le qualità per ricoprire in maniera adeguata il ruolo cui si è candidato o la carica che già si trova ad assolvere. Vuole conoscere il suo ‘privato’, vuole sentire che anche il politico è una persona coinvolta, almeno all’apparenza, nei vizi e nelle virtù che accomunano tutti. Il fenomeno diventa particolarmente evidente con il coinvolgimento in questa dimensione di tutta la ‘famiglia’ del politico. Quella che un tempo era prerogativa solo dei re o di pochi altri, cioè l’attenzione per il consorte e i figli, oggi è estesa praticamente a qualsiasi detentore di un ruolo anche solo minimamente pubblico. In occasione dell’elezione di un sindaco in una grande città, della scelta di un ministro e via elencando, i media si occupano di fornire al pubblico notizie sul suo consorte e sulla sua cerchia familiare; e i politici si compiacciono di questi interessamenti, che anzi spesso incoraggiano, convinti che essi contribuiscano in maniera importante a creare dei flussi di simpatia nei loro confronti, salvo, ovviamente, dispiacersene, quando possono tramutarsi in operazioni a loro danno, perché mettono a nudo aspetti e momenti del privato troppo in contrasto con le pubbliche virtù richieste.
Naturalmente tutto questo è accentuato da ciò che si usa chiamare il ‘circo mediatico’, cioè il complesso di televisione, radio e stampa quotidiana e periodica che si nutre di questa spettacolarizzazione della sfera politica, trasformata in una delle componenti della più vasta e generale spettacolarizzazione di ogni ambito della vita sociale. Tuttavia va tenuto presente che la personalizzazione della politica ha una storia complessa alle spalle che, sia pure con misura e modalità diverse, la condiziona.
Da un certo punto di vista si può dire che almeno per il vertice del potere politico la personalizzazione è sempre esistita. Il re così come anche il condottiero (talvolta lo stesso uomo) sono conosciuti e presentati nella loro individualità, e la loro storia, sin dai poemi omerici, è storia di ‘persone’, ciascuna con le sue caratteristiche. Si tratta anche di figure che vengono ritratte, che hanno titolo ad avere una loro iconografia, a cui è riconosciuto il diritto di lasciare un’impronta permanente: per es., sulle monete, anche se si tratta spesso di un’immagine stereotipata, che ha un nesso tenue con la figura reale del monarca. Del resto non si può dimenticare che il termine persona indicava in origine nel teatro greco la maschera indossata dall’attore per interpretare il suo personaggio e va dunque sottolineato come la ricerca della vicinanza, quanto più stretta possibile, fra la persona-individuo e la persona-personaggio, oppure maschera, sia in qualche misura parte della rappresentazione del potere politico.
Questo aspetto è andato perfezionandosi in verità con il passare dei secoli, quando la ritrattistica si è via via affinata e l’immagine del signore si è avvicinata sempre più al suo aspetto reale, sia pure percepito attraverso la cultura dell’epoca e del pittore. È rimasta tuttavia un’immagine a circolazione molto limitata, che non ha consentito certo la riconoscibilità del signore da parte del suo popolo, una cui quota rilevante avrà avuto quantomeno difficoltà a venire in contatto con quelle immagini. In realtà ciò che può rendere un personaggio politico eventualmente identificabile è l’insegna, che va dal vestito al circondarsi di dignitari e soldati e così via. Senza la divisa non c’è ruolo.
Non si può certo dire che oggi, all’inizio del nuovo secolo, queste esigenze siano del tutto scomparse. I segni della potenza esistono anche attualmente: si pensi alla scorta e alle guardie del corpo, ai mezzi di trasporto esclusivi e blindati (l’Air force one della presidenza statunitense), sino all’attenzione per quella che si definisce l’immagine e per cui si assoldano appositi consulenti. Tuttavia, il moltiplicarsi delle possibilità di produrre immagini e l’impossibilità pratica di controllarle tutte, hanno posto in secondo piano il cosiddetto ritratto ufficiale; gli viene preferita piuttosto una pluralità di immagini che amplia e rafforza lo spettro delle esperienze dell’uomo di potere, che vanno dalla sfera di rappresentanza (che talora egli si diverte a dissacrare, per mostrarsi alla pari dei suoi concittadini) fino alla sfera della quotidianità (non di rado assolutamente costruita ad arte).
La storia di questa evoluzione della personalizzazione nell’ambito della politica abbraccia ormai due secoli, per tacere di precedenti esperienze. Il suo approdo nel 21° sec. ha portato a lidi che non sono spiegabili con la semplice evoluzione della naturale tendenza psicologica a chiedere una qualche incarnazione del potere. Innanzitutto l’attuale tendenza verso forme esasperate di ‘umanizzazione’ delle istituzioni è in controtendenza con quella che fu la rivoluzione moderna, che invece puntava, in contrapposizione all’assolutismo, a respingere ogni tipo di personalizzazione del potere: la sovranità deve appartenere allo Stato, alla legge, al popolo e mai a una persona, né singola né collettiva.
Succede invece oggi quello che, se ci è consentito un parallelo audace, accadeva con la religione del mondo classico greco e romano: gli dèi erano sì al di sopra degli uomini, erano immortali, avevano dei poteri, ma nei loro comportamenti erano eguali agli uomini (amavano, odiavano, tradivano, soggiacevano alle loro pulsioni sessuali e così via). Allo stesso modo accade in misura sempre maggiore per i leader politici, di cui si deve esaltare a un tempo la straordinarietà che viene loro dal disporre di poteri (e un certo ritorno della dimensione del ‘magico’ nella narrativa popolare televisiva non è estraneo a questo sentimento) e la loro ‘normalità eccezionale’ nel soggiacere alle tensioni e pulsioni della vita umana.
Naturalmente la rappresentazione di questa ‘normalità eccezionale’ può rispondere a logiche culturali diverse. In un modello ritroviamo l’estremo dell’esaltazione di una certa sregolatezza, che è il connotato della possibilità per il potente di porsi al di sopra della vita comune: avere stili di vita disinvolti e molto dispendiosi, ricchezza personale, farsi parte di trame di potere ecc.; in un altro cogliamo l’estremo opposto della celebrazione della esibita rinuncia ai benefici del potere, quasi come forma di punizione autoinflitta per i privilegi inevitabili della propria posizione (ed ecco allora l’esaltazione della modestia, della condivisione della quotidianità, della fedeltà coniugale, dello spirito caritatevole e così via). In mezzo si colloca lo spirito inquisitorio della ‘critica’ che si evolve spesso da ‘opinione in pubblico’ a gossip mediatico, quell’attività che spia il potente per prenderlo in fallo, per mostrare che se non riesce a resistere alle ‘tentazioni’ non ha diritto a tenere nelle sue mani l’enorme privilegio che gli è affidato.
Non è difficile vedere all’opera tutti e tre questi modelli, e le difficoltà in cui tutti si dibattono. Sarkozy, ma anche Silvio Berlusconi, potrebbero apparire come le icone del primo tipo; Angela Merkel, ma anche Romano Prodi, del secondo; Bill Clinton, e in genere i presidenti (e aspiranti tali) statunitensi, del terzo. Naturalmente si tratta di immagini che vengono proposte al pubblico e da questi recepite in una sorta di automatismo culturale, più che di reali tipologie differenti e, men che meno, di casi personali sui quali si vogliano dare valutazioni morali (che non competono agli analisti politici).
Quel che interessa è il meccanismo della personalizzazione della sfera politica, principalmente come sfera del potere. E anche questa è una precisazione importante, perché non tutta la politica rientra nella sfera del potere, ma si può dire che in questi primi anni del 21° sec. lo spazio per diverse tipologie di personalizzazione sembra quanto meno ristretto. Il militante politico che nell’ombra costruisce il futuro, il profeta che paga con l’isolamento il coraggio di dire che il re è nudo, il servitore delle istituzioni che parla solo attraverso gli atti che riesce a mettere in campo spogliandosi della sua individualità trovano una considerazione pubblica ridottissima e occasionale.
Da questo punto di vista può essere emblematico richiamare il caso della magistratura in alcuni Paesi. Il protagonismo mediatico di alcune istituzioni giudiziarie statunitensi, che non a caso sono elettive, sembrava un fenomeno che non potesse attecchire in Europa. Esso invece è arrivato anche qui, soprattutto in Italia, dove immediatamente il magistrato, specie quello che conduce la pubblica accusa, è divenuto un personaggio corteggiato dai media, che non solo lo invitano in quanto singolo (sino a trasformarlo in un eroe), ma lo raccontano anche nel suo privato, ne costruiscono una ‘maschera’ per collocarlo nella nuova commedia dell’arte che è divenuto lo spazio pubblico delle società avanzate a forte dominanza mediatica. Perché il punto di svolta nell’attuale fase della personalizzazione della politica è dato indubbiamente dal mutare dei contorni dello spazio pubblico in cui si svolgono le operazioni per la creazione e l’esercizio delle funzioni di potere. Nelle società occidentali, che sono le più mature dal punto di vista dell’applicazione del modello concettuale a cui si farà riferimento, la detenzione di una funzione di potere deriva da una radice rappresentativa. «La sovranità appartiene al popolo» è un principio registrato in tutte le costituzioni di queste società e di conseguenza si devono trovare le forme perché il popolo investa alcune sedi di questa sovranità. Come si è già detto, queste sedi avrebbero dovuto essere impersonali, salvo forse che negli Stati Uniti dove la personalizzazione delle funzioni ha una sua storia secolare. Invece è venuta crescendo attraverso tutto il Novecento una progressiva domanda di personalizzazione del potere, in quanto ciò appariva decisamente più consono al principio del giudizio sulle responsabilità politiche.
Sarà opportuno fare un esempio, che aiuti a capire. L’esercizio del trasferimento di sovranità dal popolo alle sedi di esercizio del potere avviene attraverso le elezioni, gestite in forma competitiva fra opzioni diverse. Fino a non molto tempo fa, protagonisti di questa dinamica sono stati i partiti politici: essi raccoglievano il consenso e poi, con meccanismi che qui non possiamo indagare in dettaglio, lo tramutavano nell’insediamento di loro uomini nelle diverse posizioni di potere. In questo modo il giudizio sull’operato politico di quegli uomini era sempre filtrato dal fatto che essi erano in quelle posizioni in quanto delegati del partito, rappresentanti della sua capacità di elaborazione politica: dunque se avessero fatto male il partito li avrebbe rimossi, senza che questo si riversasse completamente come un giudizio negativo sulla stessa istituzione partito. Ma in società strutturate in stabili aggregazioni subculturali, formazioni identitarie per nascita da cui era difficile uscire, contava naturalmente anche la componente dell’aggregazione. Di fatto dunque il ‘mercato politico’, come si usa dire con una formula che potrebbe anche essere discutibile, si muoveva nella competizione fra ideologie e appartenenze, non fra persone. Ciò era favorito anche dalla difficoltà, almeno per una larga parte dell’elettorato, di venire a contatto con delle ‘offerte politiche’ che non passassero attraverso i canali della subcultura di appartenenza. Certo esisteva la stampa, ma, a parte eccezioni di dimensioni non rilevanti, ciascuno leggeva la ‘sua’ stampa ed era quindi molto difficile che attraverso questi canali fosse attratto da ‘prodotti’ politici concorrenti.
Il panorama è radicalmente mutato con la televisione. Il nuovo medium è stato, come si usa dire, generalista, cioè si è organizzato per offrire tutto a tutti e di conseguenza ha creato un nuovo mercato politico che, per analogia con l’evoluzione del commercio, si potrebbe chiamare ‘supermarket politico’: uno spazio in cui non ci si rivolgeva più al negoziante (l’ideologia) per essere consigliati sul prodotto (evidentemente quello che poteva permettersi chi teneva bottega), ma si girava fra gli scaffali (televisivi) guardando e soppesando un po’ tutti i prodotti esposti e li si sceglieva per la loro capacità di attrarre l’attenzione con qualunque mezzo.
Se non si tiene a mente questa evoluzione, non si comprende il meccanismo che ha portato all’attuale esplosione di personalizzazione della politica. Innanzitutto anche per il politico, come per il prodotto commerciale, è divenuto essenziale il marketing, cioè la conoscenza delle tecniche per sfondare in un panorama di offerta ampio, concentrando su di sé l’attenzione del consumatore (in questo caso elettore) e facendo breccia sulle sue ‘motivazioni di acquisto’, che, come sanno tutti i pubblicitari, sono legate solo in parte alla qualità del prodotto e alla sua utilità reale per chi lo acquista. Peraltro, in politica non meno che nel commercio, è illusorio pensare di poter completamente e soprattutto stabilmente espungere attraverso la manipolazione pubblicitaria la componente legata alla qualità del prodotto. Il governo degli Stati Uniti tre settimane dopo l’11 settembre 2001 nominò sottosegretario di Stato alla diplomazia l’importante pubblicitaria statunitense Charlotte Beers, ma quando questa, tre mesi prima dell’attacco all’Irāq, andò al National press club a illustrare la piega che stavano prendendo gli avvenimenti, si sentì rispondere da uno degli intervenuti: «Voi cercate di venderci la guerra, ma noi ci rifiutiamo di comprarla».
Non aveva tutti i torti Charles De Gaulle, quando, nella campagna per le presidenziali del 1965, rifiutò di accettare i servizi del pubblicitario Michel Bongrand, in quanto gli ripugnava l’idea di ‘essere venduto come un detersivo’; tuttavia, visto il successo notevole, seppure relativo, del suo avversario Jean Lecanuet, che a quel pubblicitario si era affidato, altri uomini politici (e poi lo stesso De Gaulle) lo assunsero per le successive campagne.
L’immagine richiamata sopra è brutale e non risponde pienamente neppure alle tendenze attuali del marketing politico. Infatti il problema non è più soltanto quello di colpire la fantasia dell’elettore/ acquirente, di suggerirgli motivazioni specifiche per ‘acquistare’ (votare) quel certo uomo politico, come era nel caso del tradizionale marketing commerciale dei prodotti di largo consumo. Oggi il problema è, come dicono alcuni analisti, quello di fare dell’uomo politico una star fra le star, perché è proprio il fatto di appartenere almeno in modo relativo alla sfera di un mondo supposto superiore che legittima la detenzione di posizioni di potere. Tuttavia il vecchio schema non è andato completamente in soffitta. Negli anni Sessanta del 20° sec. il politologo tedesco-americano Otto Kirchheimer coniò il modello di studio del partito ‘pigliatutto’ (catch all party) per spiegare la nuova tipologia. Abbandonata l’ideologia strettamente identitaria rivolta a un ben determinato strato di ‘fedeli’ (sia pure con la speranza di convertire anche gli altri ‘pagani’), si offriva uno spazio capace di rispondere alle più diverse esigenze delle varie fasce della popolazione, garantendo che tutti potessero trovare ciò che desideravano sotto un unico tetto.
È facile riscontrare che attualmente la personalizzazione della politica punta sulla creazione di un catch all leader, cioè di una personalità che possa raccogliere su di sé le aspettative dei settori più vari e più vasti del pubblico. È però altrettanto vero che la fiducia del pubblico si indirizza per lo più su un prodotto che appaia già leader del mercato, che trasmetta l’idea che si sceglie ciò che di meglio è disponibile, in un meccanismo in cui l’acquirente/elettore si sente gratificato dalla consapevolezza di essere fra gli ‘intelligenti’ che sanno fare la scelta più lungimirante.
Questo vale, in un intreccio perverso, per tutto ciò che spicca in un mondo che è ormai un mondo dell’iperbole: in ogni campo quando si vuole giustificare la propria propensione per una persona (un medico o uno storico, un architetto o un biologo), non si dice più semplicemente che è bravo o affidabile, ma si deve dire che è di fama internazionale, il migliore della sua generazione, una celebrità; insomma, usando il linguaggio cinematografico inventato da Hollywood e impostosi come luogo comune, è una star.
La televisione è a tutt’oggi lo strumento dominante per la costruzione di queste star politiche. Alcuni dicono che Internet metterà in crisi questo dominio ed è naturalmente possibile, ma per il momento non è possibile dire quando questo accadrà. Attualmente la televisione è la nuova agorà, la piazza mediatica attraverso cui si raggiunge il grande pubblico, ossia la componente decisiva nelle elezioni, avvertendo che ormai non si tratta più soltanto di elezioni a suffragio universale (nelle quali di conseguenza il numero conta), ma di elezioni in crisi di partecipazione (sia pure con trend diversi da Paese a Paese) in cui dunque il problema non è soltanto acquisire per sé il voto di un certo elettore, ma in molti casi addirittura quello di convincerlo ad andare a votare.
Si capisce allora il chiaro senso di una nota battuta di Sarkozy: «In un’ora di grande ascolto contatto più gente di quanta ne abbia mai incontrata in una vita di comizi. E non dovrei prendere questo fatto in debita considerazione?». La domanda è ovviamente retorica, perché non esiste alcun uomo politico, di qualsivoglia taglia e statura pubblica, che non prenda in opportuna considerazione la forza di penetrazione del mezzo televisivo, ma anche, al contempo, le terribili regole che presiedono al suo utilizzo.
Siamo naturalmente molto lontani da quel rapporto formalistico fra uomini della televisione e personaggi politici per cui agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso l’intervistatore della BBC si rivolgeva al premier Clement Attlee in questo modo: «Signor primo ministro, desidera dire qualcosa al popolo britannico?». Il suo successore laburista Tony Blair, quasi mezzo secolo dopo, correva a dire al popolo britannico che la principessa Diana, separata dall’erede al trono e rimasta vittima insieme al suo nuovo compagno di un incidente avvenuto a Parigi, era da considerarsi princess of the people, entrando così in una delle più mielose e populiste favole da teleromanzo.
Nel momento in cui il leader politico sfrutta il mezzo televisivo non come semplice strumento tecnico per fare arrivare il suo messaggio a una vasta audience, ma come canale di costruzione del suo personaggio, che sarà poi ciò che lo legittimerà davanti al popolo, si impone quella che viene considerata la regola principe della nuova videocrazia: to be the nice guy, essere il tipo simpatico con cui tutti, o perlomeno moltissimi, si rapportano volentieri. Ciò è possibile facendosi vedere in atteggiamenti ‘popolari’, a suonare il sax (Clinton) o a girare in bicicletta (Prodi), o lo si può fare ricordando le umili origini, più o meno vere, da cui arriva l’uomo che si è fatto da sé (il figlio di emigranti Sarkozy, Berlusconi che inizia come intrattenitore e cantante sulle navi da crociera).
La regola è che si deve tenere il campo. La televisione impone il serial, la telenovela a puntate con i suoi personaggi fissi e prevedibili, e l’uomo politico che la vuole sfruttare deve attrezzarsi in questa direzione: costruirsi un personaggio e interpretarlo all’ossessione, avere in più una storia da raccontare che lo identifichi e che sia tale da creare ‘comprensione’ tra lui e la sua audience (anche quella che non lo voterà). Come ha detto James Carville, consigliere politico di Clinton nella campagna elettorale del 1992, per vincere il candidato deve avere una storia da raccontare, una storia che dica alla gente come è il Paese e come lo vede lui. La storia da raccontare deve essere coerente e ricorrente, ma soprattutto deve essere tale da risultare tagliata su misura sull’uomo politico.
L’immagine del potere si fonde così con il potere dell’immagine. Non è un facile gioco di parole, ma una profonda mutazione del campo della politica. Nella legittimazione dei governi il punto di partenza del costituzionalismo occidentale era stato il principio della giudicabilità dell’operato di chi deteneva quelle posizioni: alle elezioni il popolo esprimeva una scelta per la continuità rispetto a un certo lavoro fatto, oppure la condanna dei risultati che aveva sotto gli occhi e di conseguenza la scelta di nuovi responsabili della cosa pubblica. Progressivamente lo schema si è capovolto: chi aspira al governo più che presentarsi con dei risultati si presenta con delle promesse (il programma). Se si volesse fare un ragionamento raffinato, si dovrebbe ricordare che ciò deriva dall’ideologia del progresso sempre più dominante a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: il compito della politica era accelerare l’arrivo di un ‘futuro migliore’ più che garantire una buona gestione del presente. Sta di fatto che la dimensione della ‘promessa’ è dominante, ma lo diventa ancor più in momenti di transizione storica quali sono quelli vissuti all’inizio del 21° sec.: in questo caso anzi non c’è più neppure, principalmente, la promessa di un futuro migliore, quanto la promessa, in risposta a un’angoscia sottile ma diffusa, che ‘non si perderà il benessere acquisito’.
Come si possono legittimare impegni di questa natura? Se fosse possibile cavarsela con una battuta, si potrebbe dire che può promettere miracoli solo chi riesce a vestire i panni del taumaturgo, che non è semplicemente colui che sa fare i miracoli, ma anche colui che è in grado di comprendere di quali particolari miracoli ci sia bisogno in quel momento. Ecco allora che il pubblico ricerca i segni della presenza di quel tipo particolare di potere, cioè cerca il personaggio che abbia un’immagine più coerente possibile con quella che ci si è fatta dell’uomo della provvidenza.
Si pensi a come si è evoluta l’immagine del potere. Nel nostro passato c’erano due icone classiche: il tessitore e il timoniere. Il primo era colui che con pazienza e con lavoro nascosto metteva insieme i fili della Storia per dare loro un certo volto e farne appunto un certo tessuto; il secondo era colui che guidava la nave collettiva attraverso le tempeste della Storia, ma con l’avvertenza, come diceva il famoso motto di Otto von Bismarck, che unda fert nec regitur (l’onda ti porta, ma non la puoi far andare nella direzione che vuoi tu). Oggi l’immagine subliminale dell’uomo politico è quella del titano, il gigante che riesce con la sua forza sovrumana a piegare gli eventi al volere proprio.
Ecco allora che la scenografia del potere ha un aspetto molto importante nel determinare la costruzione di quell’immagine che contiene già in sé stessa una sua forma di potere. Molti analisti ricordano la famosa scenografia costruita il 1° maggio 2003 per dare modo a George W. Bush di proclamare la vittoria (presunta) nella guerra in ῾Irāq. La chiave di tutto non era tanto il discorso rituale del presidente, ma la scenografia e lo slogan. Bush avrebbe pronunciato il discorso sulla portaerei Abraham Lincoln, arrivandovi su un caccia ribattezzato per l’occasione Navy one, presentandosi in divisa da aviatore. Avrebbe parlato avendo alle spalle un grande striscione con la scritta mission accomplished e pronunciato la frase scultorea: «Le grandi operazioni di guerra in ῾Irāq sono finite. Nella battaglia d’Irāq gli Stati Uniti e i loro alleati hanno vinto». Il tutto era fatto evidentemente per la televisione e non a caso l’organizzatore dell’operazione era stato Scott Sforza, un ex produttore televisivo dell’importante catena ABC.
Del resto basterà rifarsi al caso della Chiesa cattolica per comprendere come l’evoluzione della scenografia del potere (o, se si preferiscono i termini mutuati dal linguaggio cinematografico e pubblicitario, della location) sia divenuta un fatto importante. L’emergere in primo piano delle caratteristiche del pontefice regnante, la valorizzazione della sua specifica personalità, risalgono in termini di rappresentazione già a Pio XII che aveva esaltato sia la sua ampia presenza pubblica (allocuzioni, radiomessaggi, adunate in piazza S. Pietro), sia la ieraticità della sua figura. Si era trattato però sempre di un’immagine che rappresentava il papa nel suo regno, cioè in misura assolutamente preponderante all’interno della Santa Sede. Con Giovanni Paolo II si è invece avuto il ribaltamento di questa immagine: il papa ‘mediatico’ per eccellenza era un personaggio che si muoveva fuori della Santa Sede, che girava il mondo, che rompeva la cerchia della ieraticità attraverso una continua ricerca della comunicazione diretta, che andava in vacanza in località turistiche normali, che faceva sport. E con questo lasciava una pesante eredità al suo successore, Benedetto XVI, costretto in un certo senso a non distaccarsi troppo da quel modello a cui però non è congeniale il suo ‘personaggio’ (di qui gli sforzi dei comunicatori di colmare questo gap).
Non è da credere peraltro che la gestione dell’immagine sia cosa semplice: al contrario essa presenta più di un aspetto contraddittorio. Quello più evidente è il contrasto fra la trasmissione della maschera della competenza e quella che invece fa riferimento alla dimensione della quotidianità. L’uomo politico (ma si potrebbe dire più in generale l’uomo pubblico) si ritiene debba avere nel contempo conoscenze e professionalità specifiche, nonché una capacità di rapportarsi con le abitudini della vita comune (soprattutto quelle rituali, per es. la cura della forma fisica). Il modo in cui queste due opposte tipologie di qualità interferiscono è però a volte bizzarro: per es., nel duello televisivo fra Sarkozy e Ségolène Royal per le presidenziali francesi del 2007 il nervosismo mostrato dalla seconda e il suo non completo dominio degli argomenti vennero ritenuti elementi che giocarono in misura notevole a favore di Sarkozy, apparso più padrone dei propri nervi (come dovrebbe essere un capo di Stato) e più preparato sui temi specifici. Nei molti scontri delle primarie presidenziali fra i candidati democratici Hillary Clinton e Barack Obama, invece, il tentativo della prima di far valere la sua maggiore competenza tecnica rispetto al rivale non l’ha portata a vincere la partita. In questo secondo caso è prevalsa la simpatia del candidato outsider rispetto alla percezione della Clinton come un membro dell’establishment.
Per questa via si arriva a parlare di due aspetti molto importanti legati alla personalizzazione della politica: i rischi della sovraesposizione mediatica e il dominio che l’imperativo dello sfondare il video cerca di imporre nelle regole di scelta degli uomini politici.
La sovraesposizione è un rischio ben noto, ma dal quale è difficilissimo preservarsi. L’esempio clamoroso che viene citato è ancora una volta quello di Sarkozy, che si è esposto come membro dello star system sino ad accettare l’aspetto più ‘volgare’ di quel mondo, cioè la spettacolarizzazione dei suoi rapporti sentimentali, con il rischio di subire un significativo calo di popolarità. Alcuni analisti ritengono che l’esposizione mediatica come ‘superuomo’ funzioni bene se può sposarsi con qualche buon risultato sul terreno politico, quello della competenza, mentre risulta controproducente se manca tale aspetto: scomparirebbe infatti la percezione del diritto al titolo di ‘superuomo’ come compenso per il contributo dato alla collettività, e subentrerebbe quella di qualcuno che usa la sua posizione per godersi uno stile di vita a cui non ha diritto.
In controtendenza c’è però anche la costruzione di un’immagine volutamente sottotono che mira a rappresentare il leader come uomo ‘comune’, sottolineando anzi come la posizione di potere non gli abbia fatto perdere quella caratteristica. L’esempio più chiaro in questo senso è la cancelliera tedesca A. Merkel. Coerentemente con il suo personaggio di donna che è riuscita a emergere dalla dura realtà della Germania orientale sotto la dittatura comunista, la Merkel si tiene a distanza dai media, evita i discorsi e i progetti altisonanti e fa filtrare pochissimo della sua vita privata (per esempio, il marito Joachim Sauer è a tutti gli effetti un non-personaggio, che compare assai raramente e di cui si sa altrettanto poco), fa vacanze normali in normali alberghi (e la stampa tedesca conservatrice ha subito sottolineato la differenza con Sarkozy che fa vacanze su yacht di amici miliardari). Naturalmente anche in questo caso non c’è solo una situazione di fatto, ma un’immagine che viene elaborata e presentata volutamente al pubblico come un preciso messaggio. Quando alla fine di luglio del 2007 la Merkel venne ripresa mentre faceva la coda alla cassa del supermercato della stazione della Friedrichstrasse a Berlino e mentre poi pagava di tasca sua le arance e i limoni acquistati, si era in presenza di una location non meno costruita di quella, apparentemente lontanissima, di Bush sulla portaerei. Ciò che cambiava era principalmente il contenuto dell’immagine: invece di mostrare un grande condottiero di guerra al governo del Paese, si presenta l’immagine di una donna che non ha dimenticato come vive la gente comune e che anzi sceglie appena possibile di tornare a quella dimensione.
Quale di queste due personalizzazioni è maggiormente in grado di conquistare la fiducia della gente? Una risposta univoca è impossibile: dipende dalle culture, dalle circostanze, dalle abilità personali del leader nel gestire bene il suo personaggio, senza farne una caricatura forzando i toni in modo innaturale. La convinzione diffusa che a catturare il favore dell’opinione pubblica sia più l’immagine che il contenuto sta portando al curioso fenomeno dei leader inventati a tavolino. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole, perché altre volte nella Storia, recente e non, si è assistito alla scelta di un leader in nome del personaggio che poteva immediatamente evocare agli occhi degli elettori: il tipico caso è stato quello degli eroi di guerra (dal presidente della repubblica di Weimar Paul von Hindenburg al presidente statunitense Dwight D. Eisenhower). Tuttavia in passato si trattava generalmente di personaggi che si erano già guadagnati una loro visibilità e un loro protagonismo in altri campi e che venivano semplicemente importati nella politica. Nel nuovo secolo sembra invece, talora, che nelle battaglie per la scelta del leader a guidare le selezioni ci sia una specie di predominio dell’effetto immagine: si dà per scontato che la presenza, in una certa persona, della caratteristica che secondo gli strateghi del marketing politico va per la maggiore sia una garanzia sufficiente di successo.
Da questo punto di vista, il caso più emblematico è la presunzione che un leader donna abbia grandi chance di successo in un mondo che sarebbe caratterizzato dalla riscossa dell’elemento femminile. Sino a oggi tutto sembrerebbe dimostrare il contrario. Sebbene non siano mancate personalità politiche di rilievo al femminile, basti pensare a Margaret Thatcher e alla Merkel, nessuna di queste si è imposta ‘in quanto’ donna. Quando invece ci sono state scelte in cui a tavolino si pensava che la qualità femminile dovesse costituire un punto di vantaggio (come, per es., la prima donna presidente nel caso di Hillary Clinton e di Ségolène Royal) gli eventi successivi hanno smentito la previsione, nonostante l’indubbia prevalenza dell’elettorato femminile nel pubblico che era chiamato a compiere la scelta finale.
La dominanza del requisito dell’appetibilità per quelle che si ritengono le pulsioni profonde della pubblica opinione è un dato che si riscontra in tutte le competizioni politiche. Avendo quasi ovunque sistemi elettorali che, almeno per le posizioni di vertice, puntano ormai direttamente sulla scelta della persona (il caso più tipico è quello dell’Italia che nel giro di pochi anni ha imposto questo requisito per tutte le cariche politiche, comprese quelle minori), si assiste alla continua rincorsa alla creazione del personaggio che meglio si presti a essere venduto agli elettori come sindaco, presidente di regione, premier, segretario di partito. La scelta così non cade fra chi è e chi non è in grado di fare proposte importanti, di guidare in modo efficace l’istituzione al cui vertice si candida, ma principalmente fra chi è e chi non è personaggio, capace di incarnare agli occhi della gente quella figura che, si ritiene, tutti stiano attendendo.
Ciò ha comportato per certi aspetti se non proprio la fine, comunque il declino del discorso politico, cui si è sostituito lo slogan. Anche in questo caso si potrebbe dubitare della novità della formula, ricordando quanto spesso ciò sia avvenuto anche in passato (a cominciare, per citare un caso celebre, dalla famosa riduzione del Manifesto di Karl Marx e Friedrich Engels allo slogan «proletari di tutto il mondo unitevi»). La differenza è che una cosa è compendiare un discorso in uno slogan, altra cosa è costruire uno slogan in funzione di un discorso politico che è costituito, principalmente, dalla sua immedesimazione con un determinato personaggio.
Se a questo proposito prendiamo, per es., il famoso slogan «Yes, we can» della campagna per le primarie americane di B. Obama, notiamo subito come questo non sia tanto un discorso politico, quanto un veicolo di identificazione con il personaggio. A un Paese che si trova smarrito davanti a una crisi politico-economica, il candidato non soltanto propone la tradizionale ricetta del volontarismo come risposta alla crisi (volere è potere), ma sé stesso come incarnazione della bontà della ricetta (sono nero, quindi membro di una minoranza non favorita, ma poiché l’ho voluto posso essere il vostro presidente).
Naturalmente la meccanica traducibilità dello slogan non è garantita: come dimostra lo sfortunato caso della campagna elettorale dell’ex leader del Partito democratico Walter Veltroni nel 2008, il suo «Si può fare» non ha funzionato, sia per ragioni culturali e semantiche (in Italia non c’è tradizione di volontarismo e lo slogan in questione suona piuttosto come un invito all’accordo di basso profilo tra posizioni divergenti), sia per mancanza nel leader della caratteristica personale che dimostri che «io l’ho (già) potuto fare». Insomma in questo contesto, come ha mostrato lo studioso francese Jean-Marie Cotteret, il discorso politico soggiace al nuovo modello argomentativo imposto dalla comunicazione televisiva. «Per convincere non bisogna più dimostrare. È sufficiente mostrare […]. Bisogna illustrare con le parole. Il ragionamento non è più ipotetico-deduttivo. È diventato associativo. Il discorso non funziona più con una introduzione e una conclusione, con un ragionamento. Funziona per flash». A contare è solo «l’impressione che si lascia nel telespettatore» (Cotteret 1991, pp. 38-39).
Questa impressione è fortemente legata all’immagine e alla personalità di chi pronuncia il discorso, più che al suo contenuto. La capacità di parlare bene, il dominio delle regole della retorica contano assai poco. Ci sono molti esempi di uomini politici che hanno pagato un caro prezzo per la loro incapacità non di fare discorsi, ma di comunicare in televisione. L’ex presidente del Consiglio R. Prodi è un esempio tipico. Prodi è un comunicatore efficace in piccoli gruppi e in riunioni informali: è brillante, simpatico, cattura l’attenzione del suo pubblico. In televisione è, per la maggior parte dei casi, meno efficace: non ha il tono di voce che attira, non ha il ritmo, non riesce a bucare il video, non si impone come personalità. Questo del tutto indipendentemente dal contenuto dei suoi discorsi pubblici, che sono normalmente di una certa qualità. Le stesse considerazioni valgono, per es., per Gordon Brown, il successore di T. Blair alla guida del Labour party e del governo britannico. Anche in questo caso abbiamo un politico che non ha saputo riproporre la carica di simpatia che almeno in una prima fase aveva aiutato il suo predecessore. Il fatto che Brown non sia un intrattenitore brillante e si proponga come l’espressione di una leadership radicata nell’apparato del partito è stato stigmatizzato da una parte della stampa con un’immagine in grado di sintetizzare questi aspetti presentandolo come un incrocio tra Stalin e Mister Bean. Una battuta feroce e piuttosto ingiusta, ma tale da giungere al pubblico e da incollargli addosso un certo tipo di immagine che farà fatica a scrollarsi via.
A volte si cerca di allargare il campo di penetrazione delle personalità politiche dando spazio a ciò che in altri tempi si sarebbe chiamata la corte, cioè il gruppo dei personaggi che fanno da contorno al leader e che contribuiscono, attraverso il meccanismo del ‘ritratto di gruppo’, a esaltare una certa figura politica. Anche in questo caso però si notano dei fenomeni variegati. Il caso più evidente è quello, a cui già si è fatto cenno, dei consorti. Ci sono uomini politici che hanno sfruttato il loro partner come spalla per accentuare il proprio personaggio (per es., Blair e Sarkozy, Michail Gorbačëv in tempi più remoti e più in là ancora John F. Kennedy), altri che l’hanno tenuto fuori dalla loro rappresentazione pubblica (come nel caso di Brown e della Merkel).
Un altro aspetto interessante riguarda gli amici, che sono cosa diversa dai collaboratori. Per questi ultimi si può notare che proprio la personalizzazione della politica ne ha svalutato il rango: sono in genere puri prestatori di servizi, magari molto qualificati come i cosiddetti spin doctors, che però il leader non vuole che emergano, perché teme che se il pubblico sapesse che quel che fa è, almeno in parte, suggerito da altri, gli toglierebbe la fiducia: la conseguenza, tutt’altro che rara, è la presenza di collaboratori di non alto profilo, con gli sviluppi che tutti possono immaginare. Gli amici invece sono personaggi di ambiti diversi dalla sfera politica e in quanto tali non fanno concorrenza, bensì contribuiscono a sottolineare l’importanza del leader. Come nel mercato commerciale il testimonial è un elemento importante (se quell’uomo o quella donna famoso/a usa il tal prodotto significa che ne vale la pena), così in politica il fatto di circondarsi di star (dello spettacolo, della cultura, dello sport, della musica ecc.) e di essere in rapporto di amicizia con loro conferma nel leader quella natura di star che ne fa il personaggio richiesto dal pubblico.
Insomma, la personalizzazione della politica ci ha condotto a ciò che il politologo francese Olivier Duhamel ha definito come il «bonapartismo videocratico», cioè in altre parole la ricerca di strumenti per l’autoglorificazione del leader politico, per farne appunto una star tra le star, tanto che per la situazione francese ha coniato il neologismo di starkozysmo. Come sempre poi il fenomeno è disceso a cascata: le regole che valgono per i vertici degli Stati o, più in generale, per i vertici della politica vengono replicate, su scala più ridotta (e talora in chiave caricaturale) per ogni posizione che possa ambire a definirsi, in qualsiasi modo, di vertice.
La reazione a questo stato di cose sarà solo una nuova forma di populismo dissacratorio, che esprime il rigetto del fenomeno attraverso la sua demonizzazione e il rifugio in una vaghissima utopia di ipotetico paradiso terrestre ritrovato? Questo sembra infatti mostrare il fiorire di tanti movimenti contestativi fondati su fughe dalla realtà che stanno a metà strada fra lo sberleffo irriverente e una droga ideologica a bassa intensità che fa evadere nel mondo dei sogni.
L’alternativa politica all’inizio del nuovo secolo sembra a volte ridursi a questo quadro non esaltante di varianti. Lo studioso di politica sa però che la realtà ha un suo nucleo duro che alla fine resiste a ogni manipolazione. La personalizzazione della politica risponde in sé a una domanda psicologica elementare che è tanto il desiderio di vedere incarnarsi sentimenti e speranze, quanto l’esigenza di vedere con ‘esempi’ concreti che è possibile ottenere certi risultati. La domanda di soluzioni miracolose di fronte a crisi difficili da interpretare è anch’essa un fenomeno storico ricorrente e l’attesa di un ‘messia’ che queste soluzioni le porti in dono è a sua volta un evento ricorrente.
Contro queste tentazioni e per comprendere cosa c’è davanti e come bisognerà rispondere, vale la pena di ricordare le parole che Max Weber pronunciò nella sua famosa conferenza (1917) agli studenti di Monaco sul ‘lavoro intellettuale come professione’. «E se di nuovo sorge in voi il Tolstoj a domandare: ‘Se dunque non è la scienza a farlo, chi risponde allora alla domanda: che dobbiamo fare? e come dobbiamo regolare la nostra vita?’ oppure, nel linguaggio che testé abbiamo usato: ‘Quale degli dèi in lotta dobbiamo servire? o forse qualcun altro e chi mai?’ bisogna dire che la risposta spetta a un profeta o a un redentore. Se questi non è fra noi o se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a farlo scendere su questa terra il fatto che migliaia di professori tentino di rubargli il mestiere nelle loro aule, come piccoli profeti privilegiati o pagati dallo Stato. Ciò servirà soltanto a nascondere tutta l’enorme importanza e il significato del fatto decisivo, che cioè il profeta, che invocano Tanti della nostra più giovane generazione, non esiste» (Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, 1926; trad. it. Il lavoro dell’intellettuale come professione: due saggi, 1966, p. 38).
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