Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Popolazione, produzione e consumo, cresciuti in modo ininterrotto fra XI e XIII secolo, invertono le proprie dinamiche a partire dal XIV: limiti strutturali del sistema produttivo, incidenza di una fase di peggioramento climatico, diffusione di carestie ed epidemie, terremoti, guerre e rivolte contribuiscono a tratteggiare per quest’epoca un profilo eminentemente critico, all’interno del quale, però, è possibile individuare anche i segnali di una ristrutturazione di lungo periodo.
I secoli centrali del Medioevo sono contrassegnati da processi di espansione demografica, urbanistica e produttiva che rallentano, si fermano e regrediscono fra XIV e XV secolo. I dati che rivelano con maggiore immediatezza l’avvio di una fase critica sono quelli forniti dalle stime demografiche: dai 70-80 milioni di abitanti nell’Europa della fine del Duecento, si arriva a 50-55 milioni, 50 anni dopo e a 35 dopo un altro mezzo secolo. Il vuoto di popolazione richiede – a seconda delle aree geografiche – da 100 a 400 anni per essere colmato e lascia innumerevoli attestazioni, fra le quali l’abbandono di centinaia di villaggi, come in Germania (Wüstungen), Francia (villages désertés), Inghilterra (lost villages), ma anche in Spagna e in Italia.
La diminuzione di popolazione fa scendere rendite e profitti, per effetto della diminuzione della domanda e del conseguente calo dei prezzi (di derrate alimentari e di prodotti artigianali) e degli affitti (di terre, case e botteghe). La diminuzione della domanda induce inoltre a ridimensionare il sistema produttivo; la flessione dell’occupazione che ne consegue, a sua volta, incide negativamente sui consumi: la crisi economica è innescata, e richiederà oltre un secolo per essere superata.
All’origine del collasso demografico vi è la diffusione ripetuta di carestie e malattie epidemiche. Nel territorio italiano, ad esempio, fra il 1271 e il 1347 si susseguono almeno 14 carestie, diverse delle quali su scala interregionale.
Dati simili rivelano la fragilità strutturale dell’espansione pienomedievale, sorretta soprattutto da un’agricoltura di tipo estensivo, poco diversificata e minata dalla mancanza di integrazione fra coltivazione e allevamento, nonché dalla connessa carenza di concimazione. La necessità di terre coltivabili impedisce, infatti, di destinare al pascolo superfici estese (riducendo così la possibilità di procurarsi concime) e induce a impiegare anche terre scarsamente produttive (le terre marginali). Ma una volta esaurita la fertilità originaria, in assenza di concimazione, queste terre cominciano a produrre meno e a innescare le crisi di sussistenza.
Gli effetti del sovrappopolamento sono inoltre aggravati da un peggioramento climatico, individuato fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo: il susseguirsi di alcune annate di maltempo danneggia ripetutamente i raccolti; ne deriva un indebolimento complessivo della popolazione che colpisce duramente sia le campagne, dove il livello di vita è già molto basso, sia le città, nelle quali la flessione produttiva si ripercuote sotto forma di difficoltà degli approvvigionamenti.
Inizialmente, tuttavia, proprio le città diventano il rifugio di molti abitanti delle campagne, che sperano di poter beneficiare delle politiche annonarie: ne consegue un aggravamento della situazione urbana sotto il profilo della sussistenza alimentare e dal punto di vista igienico. Con popolazioni debilitate dalla malnutrizione e concentrate in spazi ristretti e malsani, diventa più facile il dilagare delle epidemie, che giungono, ripetute, fino a culminare nella peste nera del 1348, che ha il carattere della pandemia e che, a partire da quella data, diventa endemica, anche se la successione dei picchi critici rallenta, fino al Settecento inoltrato.
Causa dell’epidemia è il bacillo Yersinia pestis, trasmesso agli esseri umani dalle pulci dei ratti, che colpiscono gli uomini solo come “seconda scelta”, quando le vittime fra i topi sono già troppo numerose. Il focolaio originario è localizzabile nelle regioni himalayane; da qui inizia a diffondersi quando la creazione dell’Impero mongolo moltiplica i contatti fra le vaste regioni asiatiche e fra queste e l’Europa. Nel 1347, i Tartari che assediano la colonia genovese di Caffa catapultano al suo interno i cadaveri di alcuni appestati; gli scampati all’assedio portano con sé il bacillo prima a Costantinopoli e poi in tutto l’Occidente, a partire dalle città costiere.
Anche dopo la fase più virulenta, la popolazione europea continua a diminuire: alla prima epidemia ne seguono infatti molte altre, che spesso falcidiano quanti non avevano avuto modo di immunizzarsi durante precedenti fasi di contagio (è il caso della “peste dei bambini”, l’epidemia inglese del 1363-1364): la perdita di quote importanti di popolazione prossime all’età fertile rallenta la ripresa.
Le fonti dell’epoca interpretano la malattia come un flagello divino o come l’azione criminale di gruppi di infedeli: dalla peste ci si protegge con processioni, pellegrinaggi, flagellazioni, ma anche con scene di isteria collettiva e pogrom antiebraici. Non mancano, tuttavia, i tentativi di dare spiegazioni di carattere scientifico (come la teoria miasmatica o quella astrologica) e indicazioni di carattere profilattico (diete, salassi, allontanamento dai luoghi del contagio).
Il quadro del XIV secolo è reso più drammatico dalla compresenza di altri fattori critici che interagiscono con carestie ed epidemie.
Innanzitutto i terremoti: mentre già imperversa la peste, nel 1348 la Carinzia è devastata da un terremoto avvertito in un’area di diametro superiore ai 600 chilometri; le scosse di assestamento durano quasi due mesi. L’anno dopo, invece, è la volta dell’Appennino centrale, con due epicentri, in Molise e nell’Aquilano.
Altro tratto critico è costituito dalla guerra, che a partire dal Trecento diventa una condizione pressoché permanente in numerose aree europee: ne sono attestazioni la guerra dei Cent’anni (1337-1453), la guerra delle Due Rose (1455-1485), gli scontri dinastici che tormentano la penisola iberica, il secolare confronto angioino-aragonese e le guerre fra gli stati regionali italiani.
Proprio in Italia entrano precocemente in azione i signori della guerra, le truppe mercenarie, che contribuiscono all’impoverimento delle popolazioni europee in molti modi: con la crescente pressione fiscale, necessaria per pagarne il soldo, con le razzie se il soldo tarda ad arrivare, con le estorsioni sotto la minaccia del saccheggio, subite anche dalle popolazioni non coinvolte nei conflitti. Alcune città italiane finiscono per pagare anche con la perdita dell’autonomia, consegnandosi alla signoria dei capitani di ventura.
La seconda metà del Trecento è poi lacerata da una serie di rivolte rurali e urbane, più estese e più frequenti rispetto al passato. Le rivolte non sono solo la risposta al peggioramento che la crisi determina in modo diretto nelle condizioni di vita popolari, ma soprattutto il tentativo di resistere ai suoi effetti indiretti: proprietari fondiari e mercantiimprenditori – a propria volta colpiti dalla riduzione di rendite e profitti – cercano di compensare le perdite, imponendo ai contadini nuovi oneri, rimettendo in auge privilegi decaduti e contrastando qualunque tentativo dei salariati di organizzarsi in associazioni di mestiere. A questi tentativi, le rivolte trecentesche tentano di opporsi. A partire dal 1358, in Francia il termine jacquerie (dal nome di Jacques Bonhomme, capo dei rivoltosi) diventa un termine comune per indicare le frequenti rivolte rurali. Nel tumulto urbano dei Ciompi, a Firenze (1378), alle richieste di tipo “sindacale” si affiancano istanze politiche. Nelle rivolte fiscali inglesi, il malcontento salda in azioni congiunte le componenti popolari di città e campagna. In tutti i casi, le concessioni talvolta ottenute dai rivoltosi vengono successivamente revocate e le repressioni sono inesorabili.
Il cenno alle rivolte fiscali aggiunge ancora un dato al quadro critico della seconda metà del Trecento: si tratta di una fase importante per la riorganizzazione dei poteri pubblici, che vanno assumendo su di sé competenze in passato esercitate dalle aristocrazie locali. Perché ciò avvenga, sono necessari sistemi burocratici complessi, che – come gli eserciti professionali – hanno costi elevati: il tutto si traduce in un incremento della pressione fiscale che a sua volta, trasmettendosi ai vari livelli della società medievale e stimolandone la conflittualità, va incluso fra i fattori di aggravamento della crisi.
Le tesi depressioniste, che sottolineano gli aspetti più cupi e distruttivi della crisi, sono state di recente integrate da una prospettiva diversa, in base alla quale l’alleggerimento della pressione demografica, riequilibrando popolazione e risorse, avrebbe generato un miglioramento generale delle condizioni di vita.
Le trasformazioni innescate dalla crisi avrebbero dunque, nel periodo medio-lungo, esiti positivi: la crescita delle rese, consentita dall’abbandono delle terre marginali; l’innalzamento dei salari, reso possibile dalla rarefazione della manodopera; la maggiore diffusione del pascolo e la migliore integrazione di agricoltura e allevamento, realizzati grazie all’arretramento dei coltivi; il sostegno mecenatistico dei signori italiani alla fioritura rinascimentale, inconcepibile senza la redistribuzione di ricchezza che – assieme alla pura distruzione – emerge dalle guerre della Penisola.
Anche il nuovo modello, però, non ha retto integralmente alle analisi di dettaglio, mostrando ad esempio gli esiti negativi, sui ceti popolari, della risposta signorile al calo delle rendite. Dalla vivacità del dibattito sembra dunque emergere soprattutto una conclusione: la ricchezza interpretativa dei modelli depressionista e ottimista ha certamente illuminato sia l’indubbia natura critica del XIV secolo, sia il fatto che il riassetto dell’Europa post-trecentesca possa essere valutato anche nelle proprie luci, ma la vera chiave di lettura di questa fase storica va probabilmente differenziata caso per caso, secondo una prospettiva a carattere regionalistico.