La pietà laicale
Don Giuseppe De Luca, nell'ormai lontano 1956, in un primo approccio con la storia di Venezia come città "spirituale", diversa eppure strettamente connessa con la città terrestre, invitava a recensire e analizzare fonti fino allora neglette, per scoprire il volto di una Venezia per buona parte ignota: la Venezia degli uomini qualificati dal comune riferimento al Dio dei cristiani piuttosto che dal rango sociale e dal peso politico (1). L'incoraggiamento è tuttora valido, anche se è doveroso riconoscere che l'impresa non è facile: quelle manifestazioni letterarie della pietà chiamate in causa dallo studioso a dar lume per tali nuove esplorazioni - letteratura agiografica, scritti di confraternite e di altri organismi devoti, relazioni e guide di pellegrinaggi, versioni e adattamenti della Bibbia - sono solo parzialmente e in qualche cospicuo esempio ancora oggi conosciute (2). Tuttavia, almeno certi temi - nel molto da fare - hanno avuto attenzione e, anche per i laici così come per i preti e i religiosi, è possibile delineare orientamenti e più concrete opere non prive di un autentico animo religioso (3). Inoltre, se non si è in grado di dare un contributo di gran momento alla storia della pietà nell'accezione datale dal De Luca, né le fonti permettono di penetrare con sicurezza (ma potrà mai questo avvenire?) nel "caldo segreto del cuore" dove si deve cercare quella pietà cristiana che non deve essere confusa né "con le stramberie piuttosto paurose del cosiddetto sentimento religioso individuale e collettivo" e neppure - secondo il parere dello studioso - con la beneficenza (4), alcune ricerche recenti (5), unite alle grandi ma vecchie imprese della tradizione erudita veneziana (6) e a qualche sondaggio archivistico (7), consentono di conoscere almeno alcuni tratti della religione di individui e di gruppi vissuti nella Venezia del Duecento.
Si deve a tempi piuttosto recenti l'accendersi dell'interesse storiografico riguardo agli uomini che danno vita alle istituzioni ecclesiastiche e religiose medioevali, includendo in questi 'uomini' coloro che sono preposti ai vertici delle strutture - e che per la loro posizione inducono facilmente a visioni più di carattere politico che religioso -, ma anche i chierici, in particolare i preti incaricati della cura d'anime, i religiosi e i laici. In tale prospettiva, proprio il 'quotidiano' delle istituzioni trova il suo giusto rilievo e le relazioni tra gli individui, nonché le loro autonome e peculiari esperienze, si trasferiscono dal piano del diritto a quello della realtà: la quale, per quanto approssimativamente conosciuta, è sempre più mossa e varia del dover essere.
V'è da dire innanzitutto che a Venezia - forse più che altrove - è impossibile parlare dei laici senza discorrere sui preti. Nella città lagunare, infatti, sembra immobile la figura del prete accanto al laico attraverso i secoli. Si pensi al chierico-notaio: egli, prete o chierico soltanto, accompagna un buon numero di persone negli atti più svariati dell'esistenza, così come altrove - ad esempio nel Veneto di terraferma - fa più spesso il notaio laico. E il monopolio dell'esercizio del notariato durerà a lungo, dato che - è noto - ancora in pieno secolo XV un papa veneziano come Eugenio IV si proverà a interdire tale professione ai chierici della sua città (8). Se si vuole ribadire la peculiarità del caso veneziano ancora meglio, si può ricordare che già all'inizio del Trecento un vescovo di terraferma quale fu Altegrado Cattanei da Lendinara, ordinario della diocesi di Vicenza dal 1303 al 1311, utilizza un interessante questionario per la visita pastorale del clero urbano, in cui tra le professioni vietate ai chierici è immesso proprio il notariato (9). Mentre nella Chiesa andava diffondendosi il criterio della "clericalizzazione" del clero, dai concili - in particolare dal concilio-cardine Lateranense IV - ai sinodi provinciali e diocesani, Venezia sembra sfuggire alla linea di tendenza generale, nonostante la sua conclamata cattolicità (10).
Gli è che la vicinanza del prete e del laico ha nella storia della città lunga tradizione e largo impiego. Così come il chierico-notaio, ma con più densa partecipazione alla vicenda umana dei laici, è visibile infatti nelle testimonianze documentarie già in tempi precedenti al secolo XIII il prete come pater spiritualis o patrinus (11). Si ricordi il noto testamento di Pietro Enzio, del novembre 1123; il "pater spiritualis" - che è anche il pievano della parrocchia del testatore - è a fianco del suo filiolus nel momento in cui questi detta le ultime volontà, e il suo figlioccio puntualmente ricorda il padrino con un lascito di dieci lire. Per converso, l'esempio del testamento di un prete, del 1151 - è prete Romano cappellano di S. Marco -, dimostra il legame tra il padrino e il figlioccio nella concretezza dei regali di oggetti familiari come un letto con addobbi, un armadio, un tavolo (12).
Tali eventi, non rari neppure nella terraferma (13), si infittiscono nella documentazione lagunare; si può dunque affermare che nel 'entire' religioso dei Veneziani l'immagine del prete è bene incisa. Ma quale prete? Innanzitutto, stando a quanto le testimonianze documentarie lasciano vedere - e in prima posizione si situano ancora una volta i testamenti - è il prete-uomo; colui che ha diviso le fatiche di un viaggio e ha assistito il figlio spirituale durante le infermità - mi riferisco al noto e sempre eloquente caso di Giovanni Natale, che testando ad Acri nel 1227 cita con palese e concreta riconoscenza queste benemerenze del suo padrino (14) -; è qualche volta il prete della parrocchia attuale, ma anche di quella d'origine (15), legato al figlioccio da una probabile attività d'affari che lo rende adatto a dare meglio di altri indicazioni opportune per riparare agli illeciti guadagni, non dovendosi ritenere casuale quanto avviene nel 1270, quando il mercante Costanzo Barastro, del confinio di S. Giovanni in Luprio, chiama il padrino e lo incarica di segnalare i destinatari delle elemosine "pro maleablatis", rimettendogli insieme un debito (16); è infine più comunemente un prete della parrocchia-contrada: il prete conosciuto e visto nel domestico spazio della vita d'ogni giorno (17). Che il padrino fosse il sacerdote al quale si ricorreva per l'amministrazione dei sacramenti in punto di morte doveva appartenere alla tradizione, non solo quella canonica, ma quella dei fatti, secondo quanto attestano i patres spirituales di un Domenico Canal nel 1204, e - perfino molto lontano dalla laguna - quello di un muranese in anni anteriori (18).
Tra questa testimonianza, del 1164, e i tempi oggetto del nostro interesse - specialmente il più maturo Duecento - corrono molti anni. Non si deve dimenticare che, ora, gli ordini mendicanti, e primi tra tutti i minori e i predicatori, sono ben piantati nella città e nella laguna; che la pratica religiosa ha subito, di conseguenza, impulsi nuovi specialmente riguardo alla direzione delle anime (19). E proprio nel versante del padrinato qualche sintomo di cambiamento esiste. In alcuni casi, infatti, il padrino diventa un frate appartenente o all'uno o all'altro ordine mendicante (20), e v'è da immaginare che il padrino-frate abbia svolto il suo compito in maniera consona al programma di cura d'anime dell'istituzione cui apparteneva, puntando decisamente sulla formazione e sulla guida delle coscienze (21). Ancora nello scorcio del secolo, tuttavia, la paternità spirituale resta assunta dal clero secolare in maniera predominante, in forme probabilmente tradizionali e comprensive degli interessi dell'anima non solo, ma anche di aspetti materiali dell'esistenza, e in misura più massiccia di quanto non appaia nel Veneto di terraferma (22).
Il padrino, come abbiamo appena visto, è molto di frequente un prete della parrocchia d'appartenenza dei testatori, e talora il parroco. Senza ripercorrere qui le vicende della parrocchialità in Venezia - altre ricerche sono a questo scopo indirizzate (23) - v'è almeno da ribadire l'importanza della chiesa parrocchiale per il veneziano di ogni ceto. Se si attinge ancora ai testamenti, si può notare che il ricordo della chiesa parrocchiale è spesso presente, anche quando il luogo della sepoltura è altrove, ad esempio - in particolare per le casate illustri - presso i monasteri di più antica o recente fondazione o presso le più giovani ma prestigiose sedi degli ordini mendicanti (24). E non si tratta sempre di una memoria convenzionale, ché della chiesa del proprio confinio si ricordano, talora con puntiglio, le necessità materiali e il clero, ovviamente in forme e generosità rapportate alla capacità economica o al rango sociale del testatore.
Tale 'memoria' non è costante nella documentazione finora sondata o conosciuta, ma non si può considerare povero di significato un testamento come quello del ricco Uberto Zanasi, del confinio di S. Martino, che vuole - il testamento è dettato a Tripoli di Siria il 19 ottobre 1287 - sia speso il guadagno di un capitale di 300 lire per rimettere a posto muri, tetto, pareti e campanile della chiesa della sua contrada e prevede, qualora si giunga ad una completa ristrutturazione, l'investimento di tutta la somma all'uopo (25); oppure il più tardo caso di un Francesco Minio, anch'egli dotato di notevoli beni, il quale destina 100 lire alla sua chiesa di S. Angelo da spendersi in paramenti, libri e calici, e si preoccupa inoltre che, per un periodo di tempo limitato, dai fitti delle sue numerose case di S. Stefano sia tratto il compenso annuo di 25 soldi grossi per un sacerdote "qui continue missam et alia divina cotidie more solito [...> celebrare debeat" (26). I due esempi possono essere utili: tanto più se si aggiunge che ambedue i testatori sono orientati per la loro devozione personale verso istituti di recente impianto e di buona 'presa' come il convento dei predicatori di Castello e S. Maria di Nazareth degli eremitani (27).
Ma proprio il testamento appena citato dello Zanasi mostra qualche incrinatura nell'adesione alla parrocchia, laddove precisa che il lascito non riguarda il clero ("plebeanos sacerdotes et clericos"), bensì le opere edilizie soltanto; l'analisi di un buon gruzzolo di testamenti come quello raccolto dall'Arbitrio per gli anni 1285-1299 indica d'altronde come sia complessivamente più modesto l'aiuto dato al clero parrocchiale che agli edifici sacri (28). Insomma, più sensibilmente nel secondo Duecento sembra verificarsi un certo tentennamento tra i poli d'attrazione religiosa tradizionali e i nuovi centri di irradiazione del messaggio, cosicché qualcuno suddivide equamente la beneficenza tra clero regolare e clero secolare (29), e qualche altro travasa le sue speranze di un'adeguata funzione riparatrice completamente sui frati (30).
Si tratta di fenomeni non nuovi e non esclusivi dei fedeli veneziani. Eppure, anche in questo contesto si deve sottolineare che il ruolo del prete lagunare, forse scosso, gode tuttavia di una buona capacità di resistenza. La città ha una numerosa popolazione clericale (31): si può attuare allora un superamento della parrocchia anche senza l'esclusivo ricorso agli ordini nuovi. Non sappiamo quali chiese diverse dalla parrocchiale frequentasse il Leonardo Viviano del confinio di S. Severo che nel suo testamento del 12 agosto 1296 mostra chiari rimorsi per non aver frequentato adeguatamente la parrocchia e per non aver compiuto le offerte dovute (32); ma certamente esistevano preti capaci di attirare i fedeli in concorrenza con quelli preposti alle chiese parrocchiali: gli stessi testamenti ne indicano la presenza (33).
A tale riguardo, si può almeno per un cenno ricordare la vicenda di una beata, ancora non sufficientemente e criticamente studiata, Contessa Tagliapietra. La Vita, sebbene sia tarda e 'costruita' sui resti della tradizione, presenta aspetti degni di nota: Contessa, nata nel 1282 e morta nel 1308, tutta dedita alle opere di carità e alla contemplazione tra le pareti domestiche - non appartiene infatti a nessun ordine religioso - deve essere considerata un buon esempio di scelta penitenziale volontaria, secondo modelli diffusi in quel momento storico. Al di là dei fatti meravigliosi che le si attribuiscono, come l'attraversamento del Canal Grande sul proprio grembiule per raggiungere nella chiesa di S. Maurizio il direttore spirituale, resta il fatto che la giovane donna attuava la vocazione di laico-religiosa con la guida di un prete secolare, e che tale paternità era ritenuta tanto essenziale da suscitare l'evento miracoloso (34). Il miracolo, appunto, fu provocato dalla necessità, per raggiungere la perfezione dell'unione di Dio, di un prete e non di un frate. L'episodio può essere considerato emblematico degli orientamenti non univoci dei laici veneziani e del persistente loro legame con il clero secolare anche dopo il fortunato ingresso degli ordini 'nuovi'?
Il prete, quindi, nell'orizzonte della pietà laicale, mantiene viva la sua presenza anche in pieno Duecento, nonostante la concorrenza dei mendicanti tutt'altro che trascurabile qui come altrove. Pure i riti della morte ne sono fortemente segnati. Sebbene la scelta del luogo della sepoltura sia per lo più legata alla tradizione, che lo identificava con un monastero, e, quando si edificarono le sacre dimore di minori, predicatori, eremitani, carmelitani, si orientò verso queste (ma non si dimentichi che le osservazioni compiute da me si appoggiano su una documentazione proveniente da ceti di buon e ottimo rilievo sociale la quale scarsamente rappresenta la gente comune) (35), il momento del suffragio ha ancora come protagonista il prete in quanto persona unica capace di compiere azione salvifica attraverso la celebrazione di messe.
Su tale versante in verità i testamenti veneziani duecenteschi si differenziano dai contemporanei analoghi documenti veneti: innanzitutto per la quantità delle messe richieste (36). Infatti, è piuttosto frequente la domanda di un migliaio di messe (37), e in qualche caso la cifra va oltre: 2.000, 3.000 e perfino 4.000 messe. È ben vero che i testatori così previdenti per l'aldilà sono persone dai nomi illustri - a volere 4.000 messe è la vedova di Marino Navager (38) e a chiederne 3.000 è Giovanni Grimani (39), mentre tra la più folta schiera di coloro che domandano 1.000 messe troviamo un Semitecolo, un Gritti, una Marcello -, ma verso la fine del secolo anche un veneziano non nobile e non eccessivamente dotato patrimonialmente come Filippo da Grado o un calzolaio ricco raggiungono la ragguardevole quota di 2.000 messe (40), e non rara lungo il corso del secolo, con qualche significativo antecedente nel secolo XII(41), è la destinazione di lasciti per 1.000 messe anche da parte di Veneziani di media statura sociale (42); perfino nella piccola isola di Corone nel 1292 la vedova di un certo Ventura Zubano ordina 1.000 messe (43), adeguandosi probabilmente a un costume non generalizzato ma abbastanza diffuso nella madrepatria Venezia.
Ebbene, tale dovizia di sacrificia (44), che non trova riscontri - come si è detto - in città pure importanti come la vicina Padova e la non lontana Verona, è consegnata per lo più al clero secolare e a quello della parrocchia in ispecie (45), così come alle congregazioni del clero il veneziano affida azioni di suffragio per l'anima quasi di norma secondo una linea continua che parte da lontano (46). Tuttavia, anche nel modo di pensare all'intercessione liturgica del prete si verificano alcuni cambiamenti, dei quali reca traccia la documentazione pure parziale di cui disponiamo. Può non essere infatti casuale quanto Stefano Calbo, esponente di una nota famiglia ricca di beni immobiliari e non, precisa nel suo testamento dettato il 7 settembre 1290: che cioè siano distribuite "honestis presbiteris et religiosis" 125 lire - la cifra è cospicua - perché preghino per la sua anima (47). Il Calbo va dunque alla ricerca di intercessori che siano prima di tutto degni e accosta ai preti i religiosi, come d'altronde abbiamo visto fare già alcuni anni prima il mercante Gabriele Marignoni (48).
L'esigenza del buon prete per la celebrazione di efficaci riti di suffragio - le messe appunto - sembra dunque accompagnarsi a un più attento riguardo alle figure dei portatori del sacro nella loro soggettività, e ben s'accorda con la designazione di celebranti che siano anche testimoni di un cristianesimo ritenuto autentico: persone insignite dei caratteri del sacerdozio ma in contatto con i laici attraverso il filo della devozione. Può essere allora illuminante ripercorrere alcune scelte: quella, ad esempio, di Maria Sisinulo moglie di Raniero Miglani, la quale frammenta la non grande somma di 36 lire destinata alle messe in undici porzioni che vanno dai venti soldi alle cinque lire e coprono un arco di istituti espressivo degli orientamenti religiosi della testatrice piuttosto complesso, in cui sono accostati frati predicatori, minori, carmelitani, eremiti di Murano, canonici regolari, preti della parrocchia (49); oppure l'articolata divisione operata da un Filippo da Grado tra il clero della parrocchia, i canonici regolari del monastero di S. Maria della Carità, luogo del suo sepolcro, e i frati predicatori, minori, eremitani di S. Agostino, carmelitani (50); oppure ancora la significativa assegnazione delle messe più urgenti - quelle del giorno della morte - ai predicatori e agli eremitani della chiesa di S. Stefano operata dalla vedova del nobile Marino Zane (51). Pur permanendo l'indicazione dei preti parrocchiali, la scelta devozionale di questi testatori fa coincidere i 'buoni'intercessori con i portavoce di messaggi religiosi più o meno recenti, ritenuti capaci di incidere sulla vita dell'uomo in maniera particolarmente 'salvifica'.
In effetti, l'offerta religiosa nella città e nella laguna è molto varia e complessa, attaccata a lontane radici eppure sensibile alle novità che nel corso del Duecento andarono diffondendosi in Europa (52); ne consegue che gli stimoli alla pietà personale furono molteplici e di stampo vario. E ancora una volta i testamenti possono offrire qualche esempio di tale asserita pluralità proprio riguardo alle messe di suffragio per l'anima, nel manifesto legame istituito dai testatori con i propri 'gusti' devoti. Vediamo così una Maria Marcello che, nel 1296, vuole 60 messe "de apostolis, de sancta Maria, de angelis, de s. Spiritu, de cruce"; un Simeone Gradelon che l'anno dopo lega 100 lire veneziane alla celebrazione quotidiana di messe in onore dello Spirito Santo, della Vergine e dell'arcangelo Michele e altre 25 lire lascia per messe da morto; due mercanti come Iacopo Greco e il noto Francesco Minio che, nel 1293 e nel 1299, chiedono messe mariane (53).
Queste testimonianze si situano tutte nello scorcio del XIII secolo, probabilmente non solo a motivo della frammentaria e irregolare conoscenza delle fonti. Si sa infatti come sulla diffusione delle messe votive abbiano influito gli ordini di recente impianto e come a questi in buona misura sia dovuta l'impronta vieppiù devozionale data al rito eucaristico, peraltro già da tempo qui come altrove per lo più piegato a significati funerari (54). Si può ribadire ad ogni buon conto il tenore della risposta del fedele veneziano: certamente non di ogni fedele, ma di alcuni individui rappresentativi della società lagunare di fine secolo.
Del resto, essendo le statistiche fuori di luogo pure se basate su un censimento completo delle fonti medievali, i casi singoli hanno per l'epoca un significato emblematico anche se non valutabile con esattezza. Ed è in base a tale considerazione che al già detto si può aggiungere un'ultima testimonianza del comportamento dei cives di Venezia nei confronti delle messe assicuratrici di una buona vita ultraterrena. Mi riferisco alle ultime volontà di Adamo Cortese, un commerciante fornito di una discreta capacità finanziaria, il quale - siamo nel 1298 - destina 50 lire "bonis mulieribus per contratas civitatis Rivoalti" perché offrano messe ogni giorno nelle loro chiese (55). Il gesto potrebbe essere interpretato come fiducia nella mediazione delle donne allo scopo di realizzare la migliore azione di suffragio possibile: di quelle donne che si distinguevano per pietà personale e forse per uno stato di vita improntato alla penitenza volontaria (56).
I testatori veneziani, dunque, sembrano più che in altri luoghi dello stesso Veneto preoccuparsi della vita oltre la morte, immaginando e definendo i tempi dei viatica (57) per l'anima in modo dettagliato e immettendo in tale disegno la pluralità delle loro devozioni: la dimensione religiosa del momento d'attesa della fine e dell'inizio di un'altra vita appare ricca di motivi diversi e carica di una tensione che si può spiegare solo con il riferimento alla complessità e alle tensioni di un'intera società, a quanto pare fortemente travagliata, proprio in quel secondo Duecento da cui abbiamo tratto le più numerose testimonianze (58), oltre che con il peso di una tradizione peculiare, con il largo e diversificato panorama di centri religiosi - vale a dire di stimoli devozionali -, e con la massiccia presenza di un clero secolare direttamente e attivamente immesso nella vita cittadina.
L'incidenza del clero veneziano sulla religiosità del laicato testé descritta, combinata con l'influenza dei nuovi ordini religiosi duecenteschi, s'accoppia ad altre 'presenze' sulle quali almeno qualche cenno deve essere compiuto. Nella lettura delle fonti testamentarie, ad esempio, balza subito agli occhi il gran numero di monasteri realtini e della laguna destinatari di lasciti. È questo il retaggio di una tradizione universalmente riconosciuta, e quindi un fatto di costume privo di anima religiosa (59)?
In realtà, la mappa delle istituzioni monastiche veneziane risulta assai variegata. Innanzitutto, va considerato a sé il ruolo dei monasteri femminili, più rispondente a necessità e problemi dei ceti nobiliari veneziani che a istanze di carattere religioso. Senza che si voglia affrontare il tema delle monacazioni delle donne, va rilevata la frequenza con cui i testatori ricordano parenti o conoscenti dei monasteri con lasciti di diversa consistenza. Sono per lo più le donne delle famiglie veneziane più note - Gradenigo, Michiel, Sisinulo, Marignoni - che vivono in monasteri di antica fondazione come S. Zaccaria o di più recente impianto ma di stampo nobiliare come S. Maria delle Vergini, donne alle quali va l'appoggio del gruppo parentale di origine o delle casate amiche (60). Le motivazioni del ricordo in questi casi sono scarsamente ispirate dalla religione, anche se non si può escludere che le monache aiutate e gli istituti di appartenenza fossero capaci di alimentare e guidare la devozione di familiari e conoscenti.
Tuttavia, nelle nutrite liste dei monasteri beneficati non a caso emergono alcuni istituti dove si sperimenta un rinnovamento della vita monastica. Tale è, ad esempio, il monastero dei SS. Biagio e Cataldo, anch'esso a caratterizzazione nobiliare ma pure centro di una esperienza di rigorismo di cui fu sprone Giuliana di Collalto, dopo un periodo di vicinanza a un'altra "santa nobile" come Beatrice d'Este: un monastero spesso presente nelle ultime volontà dei testatori che andiamo recensendo anche dopo la morte della fondatrice in quanto espressione di ascetismo monastico e insieme - è da pensare - di quegli orientamenti politici 'guelfi' verso i quali la Venezia del secondo Duecento era ormai decisamente incamminata. Tale può considerarsi anche il monastero cistercense di S. Maria de Celestia dove concluse la sua esistenza il noto Giordano Forzatè (61).
Con i monasteri femminili, tuttavia, il legame sembra avere per lo più l'indole della beneficenza, per la preoccupazione di una povertà che si indovina pesante specialmente verso la fine del secolo: così una Anfelise Badoer, nobile, dispone numerosi legati in favore di monache e poi ricorda con 50 lire i monasteri poveri; la segue Simeone Gradelon, il quale si preoccupa dei monasteri indigenti che circondano Venezia ("de circa") e delle loro abitanti "bone domine"; mentre un Domenico Baffo informa che è sua consuetudine fare "caritates" - ci torneremo sopra "tam monasteriis quam pauperibus" inglobando in un unico stato di bisogno istituti (non solo femminili) e persone (62).
È piuttosto sul versante dei monasteri e conventi maschili che si possono individuare propensioni benefiche e tuttavia devozionali. Si vedano ad esempio gli elenchi delle fondazioni beneficate. Qui alcuni indirizzi emergono con una certa nitidezza e mostrano non di rado la coesistenza del vecchio con il nuovo: una nobile come Maria Giusti raggruppa per dei lasciti più simbolici che materialmente consistenti gli antichi monasteri femminili di S. Lorenzo e S. Zaccaria con i più recenti S. Maria de Celestia e S. Maria delle Vergini, e con il 'nuovo' SS. Biagio e Cataldo; un ricco mercante fornito di un cospicuo patrimonio immobiliare divide gli affitti della vicina Poveglia in 24 parti, contemplando tra i beneficati i poveri ma anche - in ordine decrescente - i predicatori, i minori, le clarisse, SS. Biagio e Cataldo, S. Maria de Celestia, S. Anna e, seguendo una tendenza non inconsueta, i monasteri dell'episcopato torcellano; e, infine, Uberto Zanasi, un opulento proprietario di immobili, si collega sì ai predicatori, ma fornisce anche un nutrito elenco di monasteri che si stringono intorno alla città realtina, a Mazzorbo, Torcello, Ammiana, Costanziaca, Zampenigo, Burano, nei quali, dopo la morte degli eredi, dovrà essere celebrata con periodicità quindicinale una messa per lui e per i suoi congiunti, e di tutti dovrà essere serbato perpetuo ricordo nelle matricole come se lì avessero sepoltura (63).
Complicità delle strutture tradizionali e degli istituti nati dai nuovi messaggi religiosi convivono dunque nella soggettività del laicato veneziano, in una dimensione - è bene rilevarlo ancora - che trascende la città e abbraccia la laguna e i confini del Ducato (64), non solo per la conservazione di antichi e consolidati legami, ma anche per l'opera di rinnovamento in atto, almeno in alcuni casi, con varianti di intensità e di disposizione nel tempo connesse con la graduale sempre più completa affermazione degli ordini mendicanti. E se a tal proposito già il monastero dei SS. Biagio e Cataldo è stato più volte citato, mi sia consentito aggiungere, come esempio di fondazione fortunata e precedente all'ingresso dei predicatori e dei minori, S. Andrea del Lido: una fondazione promossa da un prete secolare e confortata dal vescovo castellano nel 1199 per l'attuazione di un programma di vita cenobitica regolare, la quale, nel 1238 si distingueva per le pratiche ascetiche tanto da richiedere il temperamentum pontificio e richiamava un numero così grande di persone "quod non possint eos loca capere que nunc habent" (65). Che l'istituto sia citato con ritmo frequente nella documentazione testamentaria pur parziale qui esaminata non sorprende (66).
Maggiormente chiaro, in un contesto devozionale che - come si vede - ripete la sua complessità anche per le istituzioni monastiche e conventuali, appare il ruolo giocato dall'eremitismo, presente nei testamenti in proporzioni certamente maggiori di quanto non avvenga in altri luoghi della terraferma. Per la vedova di Guido Michiel è l'eremitismo organizzato in ordine di S. Maria di Nazareth, ma è anche - siamo nel 1258 - un frate Diotisalvi eremita di S. Trinità; per altri sono gli eremiti di S. Mattia di Murano e quelli di Pellestrina; per la vedova di Marino Badoer è una suor Aylise eremita del confinio di S. Giovanni Battista; per il già ricordato Francesco Minio è ancora una eremita di Pellestrina, una certa suor Agnese legata alla chiesa di S. Vito. A completare un quadro appena abbozzato eppur significativo è il caso di ricordare infine il testamento di Giovanni Grimani, del 1275, che cita, attraverso un piccolo lascito (40 soldi), una eremita di S. Nicola, probabilmente una di quelle penitenti attestate più tardi, cui venne attribuito il nomignolo di "pizzocare"; donne laiche e religiose insieme ancora poco conosciute per il Duecento veneziano (67).
Da quanto siamo andati sommariamente esponendo risulta che il laicato della città lagunare nel XIII secolo godeva di molteplici e variati stimoli nel suo modo di vivere la religione e che tali stimoli recepiva intrecciando passato e presente in maniera peculiare, per così dire 'veneziana', senza per questo estraniarsi da movimenti e dinamismi presenti nella terraferma o nel più vasto teatro europeo. Che per tale laicato si debbano intendere alcuni individui emergenti per posizione sociale e ricchezza è manifesto ampiamente - credo - nella avvertenza più volte ripetuta riguardo alla natura delle fonti usate, che ad ogni modo sono di una certa ampiezza e non rappresentano certamente soltanto i picchi della società realtina.
Ai grandi dei grandi - a un Pietro o a un Marco Ziani (68) - abbiamo rinunciato, dato che sono ampiamente conosciuti e sono troppo protagonisti in un mondo dove interessi statuali e religiosi si congiungono per poter figurare tra gli attori più normali, pur essi non esenti da contaminazioni tra religione e altri aspetti dell'esistenza, in modi tuttavia largamente diffusi e quindi espressivi di comportamenti della 'gente'comune.
A proposito della quale, un ulteriore tratto 'veneziano' è da aggiungere: la tensione verso una Crociata che s'ha da fare e sulla cui effettiva esecuzione c'è qualche dubbio.
Tale preoccupazione per il recupero del sepolcro del Signore, che si configura anche nel secondo Duecento come recupero di una terra e di una supremazia perduta, coinvolge individui di casate illustri quali un Grimani, una Badoer e una Zane, ma anche persone agiate del ceto mercantile - è ovvio -, e perfino una donna di modeste condizioni come una certa Smeraldina remendera, la quale lega la piccola somma di due soldi grossi "passagio generali ituro contra Saracenos in sosidium Terresancte", limitando i tempi dell'esecuzione del lascito entro il termine ragionevolmente largo di sei anni (69).
Il motivo di fondo che ispira tali gesti sembra ormai essere non tanto o non solo la riappropriazione in nome della cristianità del luogo del Cristo morto e risorto, ma il desiderio di godere della pienezza di grazie promessa dalla Chiesa; e vi è un momento nel quale l'idea del servizio alla Chiesa impronta in maniera preponderante l'immagine della Crociata: quando, negli anni 1255-1256, un Marino Pino ricorda i crociati che vanno "tam ultra mare quam ad alium locum" oppure in modo più esplicito la vedova dell'aristocratico Giovanni Michiel, alla vigilia della Crociata antiezzeliniana che avrebbe portato alla riconquista di Padova ordina che, se la Chiesa romana o il suo legato organizzerà la spedizione contro Ezzelino, i fedecommissari arruolino un uomo per due mesi (70). Il tema dell'evoluzione dell'ideale della Crociata è ben più ampio di quanto non appaia in questi cenni ed è tema ampiamente dibattuto dalla storiografia dei nostri giorni (71); ed è pure pensabile che la voce della donna di un uomo appartenente a una schiatta come quella dei Michiel non fosse accompagnata da molte voci simili. Ad ogni buon conto, gli sparsi relitti documentari qui rievocati possono rivelare almeno un clima, in cui la posizione centrale viene assunta, in una visione ecclesiologica dalle molte facce, dalla Chiesa romana unica dispensatrice di salvezza e polo di riferimento di una christianitas alla ricerca di realizzazione terrena.
Don Giuseppe De Luca, dal quale ha preso le mosse questo tentativo di delineare la pietas veneziana duecentesca, mostrava una chiara diffidenza nell'inserimento in essa degli atti di aiuto al prossimo bisognoso, considerando un errore la confusione tra la storia della pietà e la storia della carità e vedendo quest'ultima piuttosto come un aspetto della storia economica e sociale di un paese (72). Eppure, se si bada alla voce di quei vari personaggi che più sopra abbiamo chiamato in causa, si nota come non sia rara la convinzione che messe ed elemosine siano di ugual valore ed efficacia (73), secondo - del resto - la catechesi usuale che aveva reso del tutto familiare la capacità redentrice del gesto caritativo: basti pensare all'uso del versetto biblico "charitas operit multitudinem peccatorum" (1 Petr. 4, 8), così abituale tra le confraternite devote. È operazione giustificata, quindi, ripercorrere le scelte dei testatori anche rispetto al problema della povertà pur tenendo conto del diverso peso degli atti caritativi: è perfino banale ricordare che altro è la condivisione della vita con il povero e l'emarginato in nome del Vangelo - esperienza tutt'altro che sconosciuta nei tempi qui esaminati (74) - e altro è il soccorso più o meno misurato dato agli indigenti con animus penitenziale. E le fonti testamentarie sono eloquenti soltanto riguardo a tale secondo tipo di carità. Senza contare che l'intreccio tra ispirazione religiosa e motivazioni sociali ed economiche è al riguardo inevitabile.
Alcuni canali nei quali si indirizza l'azione caritativa dei testatori hanno tutta l'apparenza dell'abitudinario e suggeriscono l'idea che a indicarli potesse essere la stessa pratica testamentaria attraverso il prete-notaio: è quanto avviene in particolare per l'aiuto prima ai cinque e poi ai sei ospedali nati per l'accoglienza di poveri ed infermi, tra cui deve comprendersi anche il lebbrosario di S. Lazzaro (75). Solo due tra gli istituti ospedalieri si distinguono per una maggiore 'presa' sui cives veneziani: la domus Dei e la domus Misericordie, ambedue nella seconda metà del secolo in corso di costruzione, e forse per questo in qualche caso accomunati nel ricordo benefico in maniera esclusiva (76). Una volta, in particolare, la loro importanza per il laicato veneziano appare evidente, ed è quando, nel 1285, il ricco mercante Pietro Sisinulo decide per i suoi funerali l'accompagnamento di sei preti con cotte, ma prevede una importante e innovativa sostituzione nel caso che questi non accettino, chiamando "illos de domo Dei" oppure "illos de domo Misericordie" ed equiparando in tal modo le due fondazioni ospedaliere ai conventi ("habituros tantum per hoc quantum datur uni conventui ad obsequium mortuorum") (77).
Su questo terreno non si sviluppa in maniera originale la beneficenza, se non in alcuni casi, come quello piuttosto tardo - siamo nel 1298 - di un Tommasino Tron, il quale lascia ai lebbrosi di S. Lazzaro un vigneto perché lo coltivino e ne godano il frutto, mostrando di voler dare a questi malati condannati alla reclusione perpetua non solo la consolazione della bevanda energetica ma anche un'occupazione e un po' di senso di proprietà (78). Un modo ancora particolare di gestire la carità è quello dell'ormai noto Francesco Minio, anch'egli non casualmente esponente della ricca borghesia, improntato com'è a una certa diffidenza verso le istituzioni e al desiderio di 'personalizzazione': secondo le sue ultime volontà è la moglie che deve fisicamente accostare gli infermi di tutti gli ospedali di Rialto per distribuire le cinque lire loro destinate (79).
Che l'aiuto alle fanciulle da marito e a quelle chiamate alla vita religiosa fosse comune nella Venezia duecentesca è noto, ed altrettanto chiaro è il significato sociale di tale consuetudine maturata nella città lagunare in notevole anticipo rispetto alle vicine città di terraferma; è quindi del tutto ovvio trovare frequentemente inserito nei testamenti tale forma di beneficenza, per la quale, semmai, è da far risaltare solo qualche accentuazione particolare. Non pare, ad esempio, dovuta solo alla penna del notaio l'aggettivazione imposta alle orfane bisognose di una dote per sposarsi o entrare in convento: è probabilmente il testatore, che istituisce un gran numero di legati specialmente nei loro confronti - trattasi di Simeone Gradelon, un ricco mercante che siede anche nel maggior consiglio - a suggerire allo scriba attraverso l'insistenza delle citazioni l'idea della "desolazione" caratterizzante queste fanciulle, lasciate appunto sole ad affrontare la vita (80).
Se si va invece a guardare più precisi indirizzi impressi al soccorso ai poveri e collegamenti maggiormente visibili con la religiosità individuale, nella linea di quella consuetudine largamente affermata di cui abbiamo appena sopra parlato può essere messo in rilievo il nesso tra il rito di suffragio per l'anima e l'attenzione al povero proprio di un Gabriele Marignoni - ancora un facoltoso mercante - che nel 1279, in un abbondante insieme di lasciti in favore di ospedali e persone indigenti, vuole siano distribuite elemosine nei tempi fissi di un aldilà ancora controllabile, cioè nel settimo, nel trentesimo e nel centesimo giorno dopo la morte; oppure val la pena ricordare un'altra volta il Gradelon per l'equivalenza numericamente definita tra vesti per i poveri e messe, non apparendo privo di senso che i 100 bisognosi da coprire siano accostati alle 100 messe da celebrare (81). I casi citati riguardano due mercanti di spicco. A un altro esponente di famiglia di nuovi magni appartiene un testamento che si distingue per concretezza e precisione nell'azione benefica verso uno stato di precarietà e di bisogno vieppiù pressante nella seconda metà del secolo. A Francesco Minio si deve infatti un legato consistente (500 lire) ai poveri di Rialto, commisurato alla grandezza delle parrocchie e alla miseria ivi esistente, così come la previsione di un allargamento delle sovvenzioni in denaro al territorio diocesano da Murano al Lido Maggiore dove più consistente sia l'indigenza (82).
Realismo, precisione del definire fino al dettaglio, volontà di dominare il proprio destino anche al di là della inevitabile frontiera della morte quasi a compenso di una coscienza dubbiosa e incerta (83) distinguono quindi questi cives veneziani appena citati, ricchi di beni e di un prestigio sociale di non lunga tradizione, secondo modi di comportamento dopotutto comuni al ceto che rappresentano (84), ma con talune note 'locali'tanto più interessanti se si pensa alle contemporanee simili attestazioni di area veneta. Qualche cenno ancora più individuante è bene trarre dal gruppo di testimoni qui considerati. Mi riferisco in particolare alle ultime volontà di Costanzo Barastro e di Uberto Zanasi, dettate rispettivamente il 9 marzo 1270 e il 19 ottobre 1287: il primo impegna due sorelle a battezzare tre bimbe povere con i beni loro destinati; il secondo concede la casa d'abitazione alla moglie se essa "solempniter voverit castitatem secundum morem patrie nostre" e la obbliga alla sola compagnia delle serve, prevedendo inoltre che, alla morte della donna, la domus vada a un'altra vedova di cui puntualmente enumera i requisiti: sia di Rialto, di un'età superiore ai 40 anni, nobile, orfana, onesta, casta, senza figli o discendenti e vincolata solempniter alla castità(85).
I due lasciti non sono apparentemente eccezionali, dato che, specialmente per le vedove, è del tutto comune l'obbligo di una vita casta a ricambiare l'abbondanza di elargizioni maritali. Tuttavia, l'accentuazione degli aspetti sacrali della condizione vedovile sembra assimilare questa moglie a una religiosa domestica, e la clausola annessa alla destinazione della casa nel futuro a donne vedove che vi abitino solo con le servitrices o con le congiunte - figlie o sorelle - analogamente votate alla castità fornisce l'immagine di una comunità possibile solo su fondamenti di parentela. Si potrebbe pensare a uno stravagante disegno dello Zanasi, che in altri punti del suo testamento - come è stato anche da altri sottolineato (86) - mostra qualche singolare opinione nelle relazioni con il suo prossimo (gli artifices e i textores non sono nella sua mente honesti e boni); sennonché, il richiamo alla consuetudine veneziana, che trova preciso riscontro in un rito raccolto nel Liber sacerdotalis confezionato dal veneziano Alberto Castellano nel 1537, pare indicare che tale rito non fosse raro nella realtà (87), e che la spinta verso forme di vita religiose fosse nella città realtina più pressante che altrove anche dentro l'ambito della famiglia. In maniera simile, l'obbligo fatto alle eredi di battezzare è segno di quell'importanza data alle relazioni interpersonali sotto il segno del sacro da più parti visibile nelle fonti: la parentela spirituale istituita dal rito battesimale - un rito complesso e molto più articolato di quello comunemente attestato altrove come lo stesso Liber sacerdotalis insegna - instaura dei legami reali e una protezione concreta e materiale, che il lascito testamentario appunto prevede (88).
La veste sacra sembra in effetti imporsi a Venezia ai momenti salienti dell'esistenza con forza maggiore che altrove. Basti un ultimo appunto su un rito benefico, certamente non sconosciuto altrove, ma testimoniato nella città lagunare con una intensità in altri luoghi meno chiara. Il facoltoso Domenico Baffo, che abbiamo già avuto occasione di citare, nel 1294, ordinando due caritates annue "tam monasteriis quam pauperibus" vuole perpetuare una personale consuetudine. Alcuni anni prima la vedova di Remondino de Albasiis aveva previsto una caritas nella sua contrada, di pane, vino e carni. E interesse alle caritates è attestato altrove (89). Il banchetto, che doveva essere assistito da un rituale anch'esso resistente nel tempo (90), era dunque un'altra occasione per dare al gesto caritatevole una dimensione umana e sacrale insieme; non a caso è un evento promosso dai singoli ma pure, come vedremo, con maggior ragione dai gruppi associati, cioè dalle scole (91).
7. L'associazionismo devoto
Fu proprio dei grandi veneziani l'agire da protagonisti nelle traslazioni dei corpi sacri e nella promozione di chiese. Sul fenomeno, già preso in considerazione da altri, non è il caso di soffermarsi qui (92); ma si deve tuttavia sottolineare come nel corso del Duecento, anche soltanto analizzando le fonti testamentarie note, sia possibile cogliere qualche segno della permanenza di privatizzazione del religioso non per caso proveniente da persone di rango sociale elevato. Così vediamo una Anfelise Badoer lasciare a un prete della sua parrocchia i paramenti e il calice confezionati per la celebrazione liturgica nella sua casa; oppure un Andrea Zeno trasferire agli eredi maschi "nullo modo alienandas vel imprestandas sub pena paterne benedictionis" le reliquie lasciate dal padre (93).
Il 'protagonismo' devozionale dei magni è del resto noto e ha radici lontane, ma i processi di imitazione in questo Duecento non mancano. Non mi pare infatti dovuto al caso che Andrea Dandolo riferisca a due "plebei", Andrea Balduino e Angelo Drusiaco, il trasporto a Venezia del corpo di s. Simeone profeta dall'oratorio di S. Maria presso la chiesa di S. Sofia di Costantinopoli (94). Siamo al momento successivo alla conquista della città e il cronista trecentesco vuole fare risaltare la coralità dell'acquisizione da parte di Venezia degli attributi sacri appartenuti alla vecchia capitale dell'impero. Sta di fatto che vediamo in azione due "plebei".
La vicenda dei "plebei", appunto, nel corso del secolo si impone all'interesse di chi voglia capire la società lagunare. È la vicenda delle arti e degli artigiani: una vicenda di istituti e di gruppi umani tanto più interessante in quanto dotata di scarsa o nulla risonanza 'pubblica', secondo la legge comune da cui è regolata la vita dei parvi. Che questi parvi abbiano conosciuto nella prima metà del Duecento un periodo di affermazione economica e sociale fino allora ignota è da più parti ammesso; contemporaneamente gli studi più recenti tendono a sottolineare come, nell'ambito della crisi generale sofferta da Venezia negli ultimi tre decenni del secolo, dopo il faticoso dogado di Lorenzo Tiepolo (1268-1275), le conseguenze maggiormente pesanti siano ricadute sul ceto degli artigiani e dei mercanti medio-piccoli (95). Ma quali i risvolti di tali dinamiche nel versante religioso?
Se guardiamo agli artifices, non riusciamo se non per qualche eccezione a cogliere la voce degli individui, mentre più agevole risulta incontrarli nei raggruppamenti associativi. Agli artigiani appunto lo stare insieme era familiare: la scola li aveva abituati, nell'arte che li aggregava, a operare collettivamente per andare incontro alle difficoltà della loro categoria ma anche per le azioni di culto nei riguardi dei santi patroni e nei momenti cruciali dell'esistenza, in particolare della morte. Sebbene tale organismo, sul quale in maniera più esaustiva e pertinente si intrattiene in questo volume la Bonfiglio Dosio (96), avesse un carattere preminentemente assistenziale, si deve concordare con il Mackenney nella osservazione che inesistente doveva essere la distinzione tra l'ambito della devozione e quello del sostegno al prossimo (97). Quantunque, inoltre, poco si conosca della nascita e dei primi passi delle Scuole puramente devozionali, è certo che esse esistevano ancora nei secoli precedenti e che nei primi decenni del secolo XIII non dovevano essere poche. A dimostrare tale tradizione confraternale sta qualche sparsa attestazione documentaria, come quella riguardante una Scola S. Valentini vivente nel lontano 1116 (98) o l'altra ancora precedente ma di maggior difficoltà interpretativa pertinente a una confraternita in onore di S. Stefano che sarebbe sorta in occasione della traslazione del santo nel monastero di S. Giorgio Maggiore nel 1110 (99); sta ancora la frequente coscienza nell'ambito delle confraternite del pieno Duecento di essere eredi di istituzioni più antiche, la quale, pur rispondendo al vezzo ricorrente di cercare degli antenati, e degli antenati illustri, in qualche caso sembra scaturire da un reale passato.
La storia di tali premesse è tutta da vagliare, reggendosi per ora sulla valida e però non sempre attendibile colonna del poderoso lavoro di Flaminio Corner (100). L'impressione, tuttavia, è che alle soglie del secolo sul quale fermiamo la nostra attenzione l'intelaiatura confraternale fosse in Venezia in qualche misura già disegnata e la devozione dei singoli vi trovasse nutrimento così come il senso della sicurezza personale. Vi è almeno una voce, tra quelle già prese in considerazione, eloquente a tal proposito: quella di un certo Giacomo della Scala, cittadino facoltoso in grado di concedere prestiti su pegno in buona quantità, che nel suo testamento rogato nel settembre del 1211 lega a ciascuna delle ben otto Scuole di cui è frater cinque soldi (101).
L'ingresso degli ordini mendicanti nella città lagunare, favorito - come si sa - dall'autorità dogale stessa e il successivo loro impianto, non soggetto alle difficoltà proprie degli insediamenti di terraferma compresse dal dominio ezzeliniano in coordinamento con l'intensificazione della lotta tra pars Ecclesie e pars Imperii (102), dovettero accelerare il movimento associativo laicale. Non ne conosciamo né i tempi né le modalità. È noto invece che un'autentica svolta nell'evoluzione delle confraternite proviene dalla grande devotio dei flagellanti del 1260.
Esiste al riguardo divaricazione tra le fonti cronachistiche e le testimonianze delle associazioni devote scaturite dal grande evento religioso. L'arrivo dei battuti non è da quelle rilevato né a Venezia né verso le zone limitrofe, anche se comuni sono la registrazione della fine della 'tirannia' di Ezzelino e di Alberto da Romano e della parte giocata da Venezia nella definitiva liquidazione dei due fratelli: cioè di avvenimenti che nelle fonti cronachistiche della Marca sogliono aprire il discorso sulla verberatio penitenziale e pacificatrice (103). Una tradizione interna alle confraternite di battuti di S. Maria della Carità, di S. Giovanni Evangelista, di S. Maria della Misericordia, di S. Marco (di quelle che saranno le Scuole Grandi), collega l'origine di tali istituti ai tempi immediatamente successivi all'arrivo dei flagellanti nell'area veneta. È la tradizione comunemente accolta sulla scorta di ciò che ne riferì il Corner, secondo la quale a pochi mesi di distanza sarebbero sorte in diverse parti della città le quattro compagnie accomunate nell'ispirazione ma diverse "tum in ceris, quas in sacrificiis adhibebant, tum in insigniis" (104).
L'antica cronaca di anonimo da cui Flaminio Corner attinge collega impropriamente la nascita delle confraternite appena ricordate con la venuta degli ordini mendicanti in Venezia e si sforza di dare significato ai differenti attributi di queste - al colore delle cere e ai simboli del vessillo in particolare - con l'intento di dimostrare la completezza del quadro della religiosità confraternale veneziana, comprensiva delle tre virtù teologali e dell'altrettanta importante virtù civica di fedeltà al doge e al comune. L'operazione è senza dubbio tardiva e proviene da un momento storico diverso da quello della reale fioritura delle Scuole di battuti veneziane. Tuttavia, possiamo tenere per buona la collocazione al 1260 della confraternita di S. Maria della Carità, testimoniata dalla mariegola con l'indicazione del mese di dicembre, che ben s'accorda con la data di penetrazione a Padova della verberatio (105), e, ancora con l'appoggio della rispettiva mariegola, possiamo situare nel 1261 l'origine della Scuola di S. Maria della Misericordia e di S. Francesco (106), mentre per le altre si può genericamente accettare un tempo di nascita non molto lontano dal grande evento della devotio dei disciplinati, secondo la successione indicata dall'anonimo.
Ma il movimento dei disciplinati influì sull'associazionismo veneziano in modo ancora più ampio di quanto questo gruppo di Scuole manifesti. Vi è infatti almeno un'altra confraternita che rivendica la sua origine a tempi vicini alla flagellazione del 1260: è la Scuola di S. Teodoro che appunto pratica la disciplina almeno fino alla data in cui furono confezionati gli statuti ancora esistenti (107). Pure in questo caso, tuttavia, la datazione d'avvio della Scuola presenta qualche problema, non essendo attendibile il 1258 dichiarato quale momento di inizio negli statuti, e per la mancata corrispondenza con l'indizione, la quale sarebbe più correttamente pertinente al 1261, e per le contraddizioni cronologiche interne allo stesso racconto della traslatio, avvertite anche dal secondo redattore, il quale pone nel 1247 il viaggio a Mesembria di Iacopo Daurio e la trasferta delle reliquie a Costantinopoli, a correzione del 1257 della prima narrazione, per raccordare i dieci anni di permanenza nella città del corpo del santo con la data dell'ingresso a Venezia, che fu il 14 giugno 1257 (108). Per questa Scuola, inoltre, i problemi della cronologia vanno oltre tali questioncelle, data la sua pretesa di collegarsi a un'antichissima Scuola stabilitasi nella chiesa ducale, la quale sarebbe rimasta intitolata per 361 anni dopo la fondazione della città lagunare a s. Teodoro. Il vaglio critico di una nascita così illustre e in qualche modo concorrenziale rispetto al patrono s. Marco è contestuale all'analisi della mariegola, che presenta al suo interno elementi di datazione non anteriori al 1333; esso deve essere ancora esaurientemente compiuto e ci condurrebbe peraltro a tempi e situazioni esulanti dall'ambito temporale qui considerato (109).
Per gli ultimi decenni del Duecento, in ogni modo, già con le conoscenze attuali si può delineare almeno qualche tratto della incidenza delle Scuole di battuti veneziani nella pietà dei fratres che vi aderirono e della loro configurazione, in attesa che le fonti - specialmente le ricchissime mariegole - vengano analizzate e date alla luce (110). Alcune osservazioni, dunque, sono possibili. Innanzitutto, si deve sottolineare che i centri di riferimento dei disciplinati lagunari non furono solo gli ordini mendicanti: quando questi si associarono in gruppi di cui ignoriamo l'entità, in seguito a un contagio che ci sfugge nella sua concretezza, scelsero quale sede di incontro chiese come S. Leonardo, S. Apollinare, S. Croce di Luprio (111). Anche la Scuola di S. Maria della Misericordia, che è l'unica legata chiaramente a un ordine mendicante - ai minori appunto di S. Maria - si riuniva per le assemblee capitolari nella chiesa di S. Giovanni di Rialto, secondo quanto attestano alcune delibere riportate nella mariegola (112). Se si torna alla Scuola di S. Maria della Carità, si può inoltre ricordare come l'originario legame con la chiesa plebana di S. Leonardo sia stato ribadito con una visita annuale preceduta dalla solenne processione attraverso la città con le reliquie del santo; visita il cui significato di ricognizione dei diritti della chiesa è chiaramente espresso dalle offerte (113).
All'origine, dunque, delle confraternite di battuti veneziani troviamo multiformi appoggi e simpatie; anche quando le loro associazioni primitive dalla prima fase informale passano a un più preciso assetto e si trasferiscono presso un istituto religioso, con il quale stabiliranno legami ma anche definiranno ambiti di competenza reciproci per la volontà di autonomia che li caratterizzerà - del resto non diversamente che altrove -, noi vediamo una Scuola insediarsi presso i canonici regolari di S. Maria della Carità e da questa istituzione denominarsi, un'altra presso il priorato di S. Giovanni Evangelista di giuspratronato della famiglia Badoer. Perfino la 'francescana' confraternita di S. Maria della Misericordia andrà vicino al priorato di S. Maria della Valverde (114).
In effetti, le Scuole disciplinate veneziane, non diversamente dalle loro consorelle di altri luoghi vicini e meno vicini, assumono una dimensione di orizzonte devozionale che supera la parrocchia, ma supera anche i singoli ordini religiosi e perfino la città, attuando aggregazioni numerose a garanzia della salvezza personale e collettiva. Si vedano ad esempio le lettere di fraternità spirituale elencate nella mariegola della Scuola di S. Maria della Carità: è ben vero che esse riguardano il generale dei predicatori e dei minori, ma si estendono anche ai canonici portuensi, agli eremitani di S. Agostino, ai camaldolesi; più ovviamente ai monasteri lagunari di S. Giorgio in Alga, di S. Andrea di Ammiana, di S. Salvatore, di S. Cataldo e a un gran numero di fondazioni monastiche femminili (115); in maniera significativa alle Scuole di disciplinati di Trieste e di Pirano. Anche la Scuola di S. Maria della Misericordia e di S. Francesco presenta nella sua prima mariegola dei privilegi di indulgenza emanati dal vescovo di Castello - che è Bartolomeo Quirini - non solo, ma pure dal vescovo di Zara Lorenzo Periandro, oltre che dal ministro generale dell'ordine al quale si ritiene collegata (116).
V'è anche da dire che, come già è stato osservato in altre occasioni, le stesse mariegole risentono di contatti con realtà non veneziane. Se l'asserzione da più parti ripresa che una regola di S. Domenico sia stata alla base degli statuti della Scuola di S. Maria della Carità come di altre confraternite pisane resta tutta da dimostrare - ed è dubbio che sia mai possibile provarla (117) -, è invece evidente l'impronta di una stessa mano nella stesura di questa mariegola, di quella di S. Giovanni Evangelista e degli statuti della confraternita padovana di S. Maria dei Colombini, più propriamente "servorum Dei et sancte Matris ecclesie maioris", nonché degli statuti della confraternita della S. Croce di Chioggia. Così come la stessa denominazione che si danno i fratres di S. Maria della Carità "Sancte Marie servorum Dei" risulta perfettamente assonante con quella assunta dai disciplinati padovani (118).
La questione di tali parentele formali degli statuti di queste confraternite (119), qui appena sfiorata, deve ancora essere approfondita e abbisogna di analisi attualmente solo avviate; basti per ora sottolineare come anche queste relazioni testuali ribadiscano per i battuti veneziani un'area di interesse larga e in qualche misura sovralagunare. Verrebbe allora da dire che l'introduzione del modello delle Scuole disciplinate, preparata dall'ingresso degli ordini religiosi extradiocesani, abbia rappresentato per l'associazionismo devoto realmente una svolta, talché si potrebbe con questo particolare significato emblematico assumere come data di tutto rilievo quel 1260-1261 voluto dalla tradizione, in sintonia con quanto avviene nella storiografia politica di un Martin da Canal (120). Il reale - come si sa - è frantumato in settori solo dalla nostra inadeguatezza alla sua globale comprensione.
Ma, in tale larghezza prospettica, quali furono gli apporti agli esistenti indirizzi della pietà associativa e individuale del movimento dei flagellanti? In una struttura di fondo permanente, la quale non poteva dimenticare il mutuo aiuto nella malattia, nel bisogno, nella morte, così come le azioni di culto più comuni, sembra risaltare, già a una prima lettura delle mariegole per quelle parti risalenti con maggiore probabilità ai primi decenni di vita delle istituzioni, un modo nuovo di attuare i vecchi riti. Il banchetto, ad esempio, che è momento tradizionale delle Scuole artigiane e di quelle comuni, assume un rilievo particolare negli statuti della confraternita di S. Maria della Carità: esso è celebrato la domenica di passione e coinvolge tanti poveri quanti sono i fratres, acquista cioè un significato di memoria nel segno della penitenza e della caritas - è questo appunto il termine usato per caratterizzarlo - certamente nuovo, secondo quanto, del resto, avviene nella vicina Padova (121). Ancora più accentuatamente aperto ai poveri è il prandium caritatis che la Scuola di S. Maria della Misericordia organizza annualmente per i pauperes della domus Misericordiae, un ospizio di contemporanea erezione con il quale la confraternita ha stabilito regolari rapporti di frequentazione e aiuto, su cui peraltro abbiamo già visto cadere spesso l'attenzione del laicato veneziano (122).
Sull'aspetto penitenziale, che costituisce il fulcro originario di queste confraternite, le mariegole di S. Maria della Carità, di S. Maria della Misericordia e di S. Francesco permettono di avvertire modalità e aggiustamenti peculiari dell'area veneziana fin dall'ultimo Duecento. Innanzitutto si deve avvertire come già nei primi decenni della vita delle Scuole di battuti - per i tratti delle mariegole sicuramente databili al secolo qui considerato - si avvertono difficoltà e contraddizioni nell'uso generalizzato della flagellazione. Da una parte infatti ha preso avvio l'estensione della pratica collettiva per le vie della città processionaliter, in una serie di feste che si infoltisce vieppiù nel tempo; dall'altra, ancora nel 1270, a un decennio circa dalla nascita, la Scuola di S. Maria della Misericordia deve riconoscere che "valde diminuebatur et deficiebat omnino propter homines qui nolebant se percutere" e quindi con il consiglio di uomini "sapientes et spirituales" decide che "percussiones non debeant fieri nisi fiant de propria voluntate sine obligatione alicuius ordinamenti" (123). A questo punto la stratificazione del corpo sociale viene inesorabilmente avviata e non mancherà molto tempo all'apparizione degli esenti, dei nobili e dei disciplinati vale a dire di diverse categorie di fratres - all'interno dei gruppi che aspiravano ad accogliere persone le più diverse, compresi i chierici e in misura sia pure molto marginale le donne (124).
L'analisi della configurazione sociale di queste associazioni devote ha colpito fin - si può dire - dalle celebri note di Gasparo Contarini chi si è interrogato sulla peculiarità dell'assetto politico veneziano e non è qui il caso di riprendere una problematica alla quale valide energie sono state dedicate di recente - penso a un Brian Pullan (125) -, anche perché a queste prime battute della storia delle Scuole veneziane si intravedono appena quei fenomeni che risulteranno evidenti in prosieguo di tempo, e le stesse fonti sulle quali andiamo operando qualche assaggio - le mariegole appunto - debbono essere viste come un'unità viva e dinamica maggiormente comprensibile se situata oltre questa fine del secolo: in quel Trecento che vide la vera fioritura dell'associazionismo devoto, e di quello ispirato dal movimento disciplinato in particolare, a Venezia come altrove (126). Più pertinente al tentativo di delineare almeno taluni aspetti della pietà laicale veneziana del Duecento è la questione se e quanto il movimento della disciplina incanalato nelle confraternite abbia inciso sul modo di vivere la religione del fedele.
Il successo della forma d'associazionismo proposta dalle Scuole di battuti è indubbio e visibile presto: nel 1294 i fratres di S. Maria della Misericordia sono 350, mentre quattro anni prima la Scuola aveva deciso di fissare la quota massima a 320 soci; e già vi sono persone in attesa di una formale iscrizione (127). La modifica del numero chiuso stabilito sarà un'operazione ripetuta nel corso del tempo: ma è ancora una volta una storia trecentesca complicata dal controllo degli organi statali, come le ricerche di Lia Sbriziolo hanno dimostrato (128). La partecipazione al cumulo di grazie ottenuto attraverso le indulgenze o le carte di fraternità, la struttura ben delineata e non solo locale, la pubblicità dei riti penitenziali, il taglio caritativo: tutti questi aspetti - e altri ancora difficilmente elencabili - dovettero far sentire 'strette' le vecchie Scuole artigiane e parrocchiali e spingere un gran numero di persone a un'esperienza associativa nuova certamente, ma non tanto da richiedere cambiamenti totalizzanti. Nel clima penitenziale impresso dalla catechesi delle grandi predicazioni mendicanti la formula, insomma, dava buone promesse di salvezza senza costringere a 'conversioni' impegnative come quelle volute dall'ordo penitentie, con la sua richiesta di uno stile di vita religioso e l'accostamento ormai maturo a una delle istituzioni mendicanti (129).
Nuovi spazi, allora, furono aperti ai laici? Vi è un punto nella mariegola della Scuola di S. Giovanni Evangelista, di redazione trecentesca, ma importante tanto da invitare a ricordarlo: in esso si dice che uno dei fratres nei capitoli deve predicare affinché "sparso semine verbi Dei" si favorisca la devotio della confraternita (130). Su tale sermoneggiare dei laici - a suo tempo sottolineato dal Meersseman come innovativo (131) - poco sappiamo, e del resto si deve essere cauti nel valutarne la possibile realizzazione. Tuttavia è interessante ritrovarne la citazione anche sul piano delle cose desiderate e non sempre compiute come sono gli statuti. Nella mariegola di S. Maria della Carità è poi possibile vedere una qualche accentuazione della pratica sacramentale (due volte all'anno la confessione e la comunione eucaristica), mentre è chiaramente espresso negli statuti veneziani - come nella maggior parte delle regole dei flagellanti - l'intento di contribuire alla moralità dei soci attraverso la correzione dei peccati 'mortali' e l'opera pacificatrice (132).
Quanto il modello sommariamente descritto sia stato operante può essere visto attraverso una Scuola piccola, la cui carta statutaria porta la data del 1288. È la mariegola della Scuola dei SS. Apostoli: una Scuola formata a imitazione di Cristo e dei suoi discepoli da 12 uomini e un prete, che pratica la disciplina con possibilità di sostituirla mediante la celebrazione di messe, e trae i suoi membri dalla Scuola di S. Maria della Carità. Il banchetto annuale è attuato con i modi già visti, la correzione fraterna segue lo stesso tipo assunto nelle confraternite maggiori; il modello cristo-centrico agisce ancora sia pure in un'accezione particolare che, considerando il Cristo insieme con gli apostoli, punta piuttosto sulla concordia, la pace e la carità della convivenza che sulla mortificazione penitente (133).
Anche questi modesti cenni sulle confraternite veneziane legate alla pratica della flagellazione possono dar conto della loro importanza nel quadro della pietà laicale della città, o addirittura in quello della pietà tout court, dato che chierici e religiosi non mancano all'interno delle associazioni in qualità non solo di cappellani, ma di soci. Di tali soci le liste sono tutte da valutare: quelle liste che, avviate solo in piccola misura negli ultimi decenni del Duecento, in un apparente e forse pretenzioso interclassismo rinviano al mondo delle Arti piuttosto che a quello dei magni di recente o vecchia nascita (134). La considerazione non è nuova ed è già servita ad aprire questi appunti; non desta allora grande sorpresa rilevare come assai scarsi siano gli echi di questa pur incisiva realtà associativa su quelle fonti testamentarie sulle quali abbiamo fermato l'attenzione per cogliere gli accenti dei comportamenti religiosi individuali, tali documenti provenendo per la maggior parte - come ho più volte avvertito - dai ceti emergenti della società lagunare.
Pure le eccezioni possono in tal luce diventare significative. Il solo testamento che ricordi una Scuola Grande di battuti è quello di Filippo da Grado, un ricco veneziano possessore di immobili in Venezia ma non nobile, il quale - siamo nel 1294 - lascia al guardiano di S. Maria della Carità un contributo in denaro per i fratelli bisognosi e una provvista di ceri, sul versante devozionale, per la elevazione del Corpo di Cristo allora considerata momento preminente nell'ambito del culto eucaristico e della messa (135). È superfluo rimarcare come la testimonianza sia rilevante puntando su due contemporanee direzioni quali la carità e l'adesione al culto eucaristico da tempo incrementato nella quotidiana informazione dei fedeli (136). Qualche altra sparsa menzione di Scuole devozionali - di una Scuola di S. Francesco, di S. Apollinare, di una Scuola dei predicatori di S. Francesco, di una dei predicatori di S. Apollinare (137) - rinvia a un tessuto associativo certamente più fitto di quanto non appaia dalle testimonianze documentarie finora note. Di tale tessuto non conosciamo molto; dobbiamo tuttavia immaginare che, sebbene il modello della disciplina non sia l'unico operante in Venezia, di questo la città abbia più o meno risentito, secondo quanto recenti informazioni sulle Scuole piccole trecentesche vanno indicando (138).
8. Una conclusione 'aperta'
La pietas veneziana, dunque, si struttura negli individui e nei gruppi con caratteri in parte comuni ad altre aree e tuttavia peculiari. Senza voler esagerare tale asserita originalità - che peraltro va temperandosi verso la fine del secolo mano a mano che fenomeni larghi e di importazione come gli ordini mendicanti o la devotio dei disciplinati si affermano anche a Venezia -, essa emerge anche dalle brevi note or ora tracciate. Mentre per quest'epoca non si avvertono ancora devianze ereticali di risalto - si ricordi che il tribunale dell'Inquisizione poté essere istallato solo nel 1289 e con scarsissimi esiti operativi (139) - i laici veneziani, e insieme i loro chierici, partecipano della nuova religiosità di un tempo che, dopotutto, nuovo deve essere qualificato, non dimenticando usi e costumi antichi. Persone e confraternite sembrano inoltre avviarsi, con più accentuata sensibilità verso lo scorcio del secolo, a comportamenti religiosi dove la carità e le opere assumono il predominio. Già nel primo Trecento, quando il controllo statale si farà evidente anche per le confraternite religiose, sarà appunto il volto della beneficenza a caratterizzarle (specialmente le grandi), mentre gli aspetti più propriamente devozionali si tradurranno (ancora specialmente nelle Scuole Grandi di battuti) nel fasto e nella pubblicità dei riti. Sarà quello il quadro più conosciuto e propagandato della religiosità laica veneziana. Ma le forme della religiosità di un popolo - degli individui e dei gruppi associati - sono molto più varie e complesse dell'immagine 'pubblica' che spesso se ne dà: questo breve tracciato dei comportamenti religiosi dei laici della Venezia del Duecento vuole esserne buon testimone.
1. Giuseppe De Luca, La letteratura di pietà, in AA.VV., La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956, pp. 207-230. Ma v. anche le note di Giorgio Cracco, De Luca studioso della pietà veneziana, "Ricerche di Storia Sociale e Religiosa", 28, 1985, pp. 35-37 (pp. 35-43).
2. Basti ricordare la recente edizione di una interessante opera agiografica: Fernanda Sorelli, La santità imitabile. "Leggenda di Maria da Venezia" di Tommaso da Siena, Venezia 1984.
3. Mi riferisco in particolare alle opere promosse dalle confraternite, per le quali insostituibili restano gli studi di Lia Sbriziolo, Le confraternite veneziane di devozione. Saggio bibliografico e premesse storiografiche (dal particolare esame dello statuto della scuola mestrina di San Rocco), Roma 1968; Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. "Scolae comunes", artigiane e nazionali, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 126, 1967-1968, classe di scienze morali, lettere ed arti, pp. 405-442; Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. Le scuole dei battuti, in Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, Padova 1970, pp. 715-763. Poco sul tema aggiunge al già noto per il '200 la grande raccolta di Gilles Gérard Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collaborazione con Gian Piero Pacini, I-III, Roma 1977. Si possono aggiungere - ma l'interesse è più proiettato verso epoche dalle caratteristiche diverse da quelle qui considerate - Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia, 1500-1620, Rorna 1982 (trad. it. di Rich and Poor in Renaissance Venice. The Social Institution of a Catholic State, to 1620, Oxford 1971); e, dello stesso, il più sintetico Natura e carattere delle scuole, in Le scuole di Venezia, a cura di Terisio Pignatti, Milano 1981, pp. 9-26; Richard Mackenney, Arti e stato a Venezia tra tardo Medio Evo e '600, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 127-143; e dello stesso, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250-c. 1650, London 1987, specialmente alle pp. 44-75. Buone suggestioni anche per la religiosità individuale vengono da Giorgio Cracco, Mercanti in crisi: realtà economiche e messi emotivi nella Venezia del tardo Duecento, in Id. - Andrea Castagnetti - Silvana Collodo, Studi sul medioevo veneto, Torino 1981, pp. 7-24; il fondamento documentario è costituito dalla tesi di laurea di Maria Cristina Bellato, Aspetti di vita veneziana del XIII secolo (sulla base di 26 testamenti trascritti e pubblicati), Università di Padova, Facoltà di Magistero, a.a. 1976-1977; alla quale si deve aggiungere Francesca Arbitrio, Aspetti della società veneziana del XIII secolo (sulla base di 37 testamenti trascritti e pubblicati), Università di Padova, Facoltà di Lettere e filosofia, a.a. 1979-1980. Sono comparsi di recente vari contributi di seria e aggiornata divulgazione in AA.VV., La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988. Si debbono infine segnalare Daniela Rando, Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII. Il dinamismo di una Chiesa di frontiera, Trento 1990 (anche se l'ambito cronologico è diverso); e, riguardo agli aspetti "pubblici" della religione, Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, Prefazione di Pierre Toubert, I-II, Roma 1992.
4. G. De Luca, La letteratura di pietà, pp. 224-225.
5. V. n. precedente: in particolare le indagini di M. C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, e F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, prendono in considerazione un numero di testamenti maggiore di quelli trascritti (rispettivamente 63 e 115 documenti), sondando un rappresentativo segmento della grande massa documentaria depositata nell'Archivio di Stato di Venezia.
6. Specialmente Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, I-XVI, Venetiis 1749, costituisce ancora la base di molta recente informazione, assieme con l'altra opera Ecclesiae Torcellanae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae, I-III, Venetiis 1749, così come sempre di massima utilità è Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, I-VI, Venezia 1824-1853.
7. V. sotto, nn. 24, 64, 70, 75, 83, 89.
8. Giorgio Cracco, "Relinquere laicis que laicorum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179-189.
9. Paolo Sambin, Il vescovo vicentino Altegrado e un questionario per la visita pastorale, in Saggi di storia ecclesiastica veneta, a cura di Id. - Federico Seneca, Venezia 1954, p. 84 (pp. 75-85), cost. VIII: "Item si sunt aliqui clerici et qui se immisseant negociis secularibus contra synodales constituciones, ut puta advocaciis, procuris, officiis tabelionatus et officiis publicis [...>".
10. Traggo l'espressione da Michele Maccarrone, "Cura animarum" e "parochialis sacerdos" nelle costituzioni del IV Concilio lateranense (1215). Applicazioni in Italia nel sec. XIII, in AA.VV., Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XV). Atti del VI convegno di storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25 sett. 1981), Roma 1984, p. 143 (pp. 81-195) (ma v. più in generale il preciso commento alla cost. 16, pp. 143-150); per la formazione del notissimo tema dell'esaltazione di Venezia baluardo della cristianità e del papato basti il rinvio a Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 69-71 in particolare.
11. I due termini nelle fonti si alternano, con la tendenza all'abbandono dell'espressione pater spiritualis, e sembrano designare la stessa persona (ma avverto che il censimento è incompleto e che conosco almeno un testamento in cui il pater spiritualis è distinto dal padrino, pure essendo ambedue preti): A.S.V., Codice diplomatico veneziano, dattiloscritto di Luigi Lanfranchi, nr. 2695, 1168 settembre. Qualche esempio del più raro uso di pater spiritualis: Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, Torino 1940: II, doc. 362, pp. 356-357, 1186 febbraio; doc. 559, pp. 102-103, 1215 giugno; Famiglia Zusto, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1955, doc. 10, pp. 29-31, 1132 luglio. Sul significato dell'istituto dei padrini in generale si veda John Bossy, Padrini e madrine: un'istituzione sociale del cristianesimo popolare in Occidente, "Quaderni Storici", 40, 1979, pp. 440-449; sulla figura del prete-padrino a Venezia Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1977, pp. 30-31 e nn.
12. Il primo notissimo atto è in S. Giorgio Maggiore, II, Documenti (982-1159), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1967, doc. 136, pp. 295-305; per il secondo v. R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, doc. 100, pp. 101-103 (analizzato anche da G. Cracco, Società e stato, p. 30 n. 2).
13. Per il prete-padrino ricordo solo la recente sistematica raccolta documentaria di Annamaria Saccomani, Le carte dei lebbrosi di Verona tra XII e XIII secolo, Padova 1989, doc. 22, pp. 36-38, 1169 marzo 29; doc. 24, pp. 40-42, 1169 dicembre 30; doc. 59, pp. 102-103, 1215 febbraio 27.
14. R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, II, doc. 636, pp. 174-177 (utilizzato anche da G. Cracco, Società e stato, pp. 30-31 n. 4).
15. Si veda, ad esempio, il testamento di Giacomina vedova di Marino Gradenigo, già del confinio di S. Paolo e ora di quello di S. Maria Formosa, del 13 luglio 1260: il padrino è un prete di S. Paolo (M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 9, pp. 234-242).
16. Ibid., doc. 10, pp. 243-249, 1270 marzo 9.
17. Alcuni esempi: ibid., doc. 1, pp. 193-196, 1223 gennaio; doc. 9, pp. 234-242, 1260 luglio 13; F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 8, pp. 64-69, 1289 aprile 27; doc. 9, pp. 70-76, 1289 luglio 21; doc. 12, pp. 110-116, 1290 settembre 7; doc. 15, pp. 131-136, 1291 agosto 6; doc. 16, pp. 137-142, 1291 dicembre 26; doc. 29, pp. 213-216, 1297 gennaio 8 m.v. La stessa Arbitrio riporta un nutrito elenco di padrini della contrada del testatore, usando anche testamenti non trascritti (pp. 118-119).
18. Maria Grazia Pastorio, S. Tommaso dei "Borgognoni" abbazia cistercense in Tortello (dalle origini al XV secolo), tesi di laurea, Università di Padova, Facoltà di Magistero, a.a. 1967-1968, doc. 1, pp. 164-165; R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, doc. 164, pp. 161-162, 1164 dicembre (ricordato anche da G. Cracco, Società e stato, p. 31 n. 1). Sulla esistenza e persistenza della figura alcune note informative dà Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche, profane ed ecclesiastiche, VIII, Venezia 1795, pp. 273, 304.
19. V. Fernanda Sorelli, I nuovi religiosi. Note sull'insediamento degli ordini mendicanti, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 135-152; e, in questo volume, il saggio della stessa, alla quale rinvio anche per la bibliografia pertinente.
20. M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 11, pp. 250-253, 1270 giugno 16; doc. 25, pp. 358-376, 1285 ottobre 22.
21. Il tema è largamente trattato; è sufficiente il rinvio all'ampia messa a punto di Roberto Rusconi, I francescani e le confessioni nel secolo XIII, in AA.VV., Francescanesimo e vita religiosa dei laici nel '200. Atti dell'VIII convegno internazionale, Assisi, 16-18 ottobre 1980, Assisi 1981, pp. 253-309.
22. È nota la partecipazione del clero all'attività commerciale e di prestito: esempi numerosi anche per il secolo XII sono reperibili in R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, doc. 36, p. 38; doc. 51, p. 53; doc. 97, pp. 98-99; doc. 137, pp. 136-137; doc. 172, p. 170; doc. 393, p. 386; doc. 457, pp. 446-447; Il, doc. 567, pp. 110-111; doc. 627, pp. 166-167; doc. 701, pp. 233-234; doc. 795, pp. 318-319; doc. 799, pp. 322-323.
23. Ricordiamo, tra queste, quella che conduce Antonio Rigon.
24. Diamo alcuni esempi di scelta della sepoltura presso vecchi monasteri: M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 1, pp. 193-196, 1223 gennaio m.v. (S. Gregorio); R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, II, doc. 661, pp. 198-200, 1232 marzo; A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 85, not. Giovanni pievano di S. Giovanni Confessore, 1259 luglio (S. Giorgio); b. 2, not. Antonio pievano di S. Sofia, 1256 aprile 21 (S. Nicolò di Lido); per qualche esempio di sepoltura presso gli ordini mendicanti v. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 8, pp. 64-69, 1289 aprile 27 (S. Maria dei minori); doc. 16, pp. 137-142, 1291 dicembre 26 (minori); doc. 20, pp. 161-167, 1293 febbraio 16 (ma il testamento è del 18 febbraio 1292; la sepoltura è presso i minori); A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 85, not. Giovanni pievano di S. Giovanni Confessore, 1266 settembre 5 (minori); not. Gumbertino prete di S. Gemignano, 1268 ottobre 13 (predicatori).
25. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 6, pp. 37-60; per la persona, p. 42.
26. Ibid., doc. 35, pp. 249-268, 1299 aprile 25; per la famiglia vedi G. Cracco, Società e stato, pp. 255, 264.
27. V. in questo volume il saggio di F. Sorelli.
28. È osservazione pertinente della stessa F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, p. 106.
29. M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 16, pp. 288-303, 1279 maggio 8: il testatore, il ricco mercante Gabriele Marignoni, divide il lascito di 100 lire per messe a metà tra regolari e secolari.
30. Ibid., doc. 25, pp. 358-376, 1285 ottobre 22: testamento di Lorenzo Belli (i frati sacerdoti sono i minori di S. Maria e S. Francesco e i predicatori dei SS. Giovanni e Paolo).
31. Significativa al proposito la limitazione del numero dei residenti effettuata nella parrocchia di S. Moisè nel 1293 "propter moltitudinem presbiterorum et aliorum clericorum inferiorum" (Nicolaus Coleti, Monumenta ecclesiae Venetae Sancti Moysis, Venetiis 1758, pp. 103-106); l'episodio è citato anche da G. Cracco, Società e stato, p. 341; alla stessa opera rinvio per il problema della corsa ai benefici ecclesiastici: pp. 29-31, 60-61, 315-316.
32. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 28, pp. 208-212.
33. Qualche esempio: Costanzo Barastro lascia una somma cospicua (l. 25) al pievano di S. Basilio per messe e preghiera e ordina un lascito di s. 40 anche per il pievano di S. Giovanni di Rialto, al di là del ricordo della parrocchia (M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 10, pp. 243-249, 1270 marzo 9); Pietro Vassano ricorda il padrino, ma anche altri tre preti di contrade diverse; Leonardo Viviano, del confinio di S. Severo, ha come padrino un prete di S. Iacopo di Rialto (F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 10, pp. 77-82, 1289 novembre 7; doc. 28, pp. 208-212, 1296 agosto 12).
34. La Vita essendo perduta, gli Acta sanctorum septembris, III, Antverpiae 1750, all'8 settembre (pp. 309-311), costruiscono la biografia in base al Corner (F. Corner, Ecclesiae Venetae, I, dec. I, pp. 107-111). La sua tomba in S. Vito è ricordata da Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, p. 82. Per questa santa veneziana (1282-1308), che godette di un buon culto popolare, v. anche Ireneo Daniele, Tagliapietra Contessa, beata, in Bibliotheca sanctorum, XII, Roma 1969, pp. 94-95 e annessa bibliografia; reputa che Contessa sia tardivo nome dato dal popolo a una Tagliapietra Silvio Tramontin, Problemi agiografici e profili di santi, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, p. 172 (pp. 153-177); a contrastare tale opinione sta l'esistenza di un testamento, dettato il 15 novembre 1262 da una Contessa Tagliapietra del confinio di S. Vito, madre di Nicola e Pietro, la quale potrebbe essere verosimilmente nonna della beata.
35. V. sopra, n. 24. Per la scelta della sepoltura presso i mendicanti, si può dare rilievo al testamento del fornaio Corradino, del 13 ottobre 1268, per il timore ivi espresso di non avere l'assenso da parte dei predicatori alla decisione di farsi seppellire nella loro sede (A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 85, not. Gumbertino prete di S. Gemignano).
36. Un buon riscontro padovano è in Antonio Rigon, Orientamenti religiosi e pratica testamentaria a Padova nei secoli XII-XIV (prime ricerche), in AA.VV., Nolens intestatus decedere. Il testamento come fonte della storia religiosa e sociale. Atti dell'incontro di studio (Perugia, 3 maggio 1983), Perugia 1985, pp. 47-49 in particolare (pp. 41-63). Una indagine sistematica condotta a Verona per il '200 sembra confermare che, anche per questa città, l''accumulo' di messe non raggiunga le quote registrate in altre aree europee (Sandra Giulietti, Testamenti veronesi del Duecento, con l'edizione di zoo documenti, 1200-1259, e Giuliana Castagna, Testamenti veronesi del Duecento, con un'appendice di 100 documenti inediti, tesi di laurea, Università di Verona, Facoltà di Magistero, a.a. 1987-1988).
37. Antonino Lombardo - Raimondo Morozzo Della Rocca, Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, Venezia 1953, doc. 79, pp. 86-87, 1222 luglio; M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 4, pp. 207-211, 1237 luglio; F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 10, pp. 77-82, 1289 novembre 7; doc. 17, pp. 143-152, 1292 gennaio 28 m.v.; doc. 18, pp. 153-156, 1293 maggio 9; doc. 20, pp. 161-167, 1293 febbraio 16 m.v.; doc. 27, pp. 203-207, 1296 giugno 19.
38. M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 22, pp. 336-340, 1285 settembre 8; sulla famiglia v. G. Cracco, Società e stato, pp. 177, 325: la famiglia sarebbe in questi anni in declino politicamente, pur appartenendo al gruppo delle casate che avevano retto lo stato economicamente e politicamente in tempi precedenti.
39. M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 12, pp. 254-266, 1275 febbraio 22 m.v.; anche il Grimani appartiene a una famiglia della ricca borghesia che aveva raggiunto forza politica dagli anni '70 e verso gli anni '80 subirà un calo nella rappresentanza agli organi di governo (G. Cracco, Società e stato, pp. 27, 116, 123, 255, 264, 325).
40. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 23, pp. 180-185, 1294 dicembre 11; doc. 31, pp. 232-236, 1298 febbraio 10 m.v.
41. Famiglia Zusto, doc. 10, pp. 29-31, 1132 luglio; R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, doc. 326, pp. 322-323, 1181 luglio.
42. Tali possono considerarsi un Pietro Vassano o un Papacicia (F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 10, pp. 77-82, 1289 novembre 7; doc. 17, pp. 143-152, 1292 gennaio 28 m.v.).
43. Pasquale Longo notaio in Corone, 1289-1293, a cura di Antonino Lombardo, Venezia 1951, doc. 108, pp. 85-86, 1292 ottobre 13.
44. Il termine si trova di frequente nelle fonti testamentarie a designare in primo luogo le messe, ma in un'accezione talora più ampia.
45. Qualche ulteriore esempio di designazione di preti secolari della parrocchia: M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 10, pp. 243-249, 1270 marzo 9; doc. 22, pp. 336-340, 1285 settembre 8 (la testatrice, vedova di Marino Navager, tiene presente anche un prete della casata); F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 10, pp. 77-82, 1289 novembre 7. L'elenco potrebbe continuare; aggiungo solo che anche Filippo da Grado (vedi n. 40), pur contemplando vari ordini religiosi per la celebrazione vuole siano vestiti "vestimentis sacerdotalibus" due preti della parrocchia che celebrino una messa quotidiana per la sua anima (p. 181).
46. I lasciti alle congregazioni sono comuni e sembrano rispondere a una vecchia consuetudine, che probabilmente si impone anche attraverso il suggerimento del notaio, il quale - si ricordi - è di norma un chierico: per tali istituti v. Bianca Betto, Le nove congregazioni del clero di Venezia (sec. XI-XV). Ricerche storiche, matricole e documenti vari, Padova 1984; utili comparazioni con altre città venete al riguardo sono in Antonio Rigon, Clero e città. "Fratalea cappellanorum", parroci, cura d'anime in Padova dal XII al XV secolo, Padova 1988, pp. 85-86 in particolare.
47. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 12, pp. 110-116 (la frase citata è a p. 113).
48. V. sopra, testo e n. 29.
49. M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 23, pp. 341-348, 1285 settembre 11.
50. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 23, pp. 180-185, 1294 dicembre 11.
51. Ibid., doc. 37, pp. 275-290, 1299 dicembre 20.
52. V. sopra, n. 19. Un buon quadro generale degli insediamenti francescani è dato da Luigi Pellegrini, Insediamenti francescani nell'Italia del Duecento, Roma 1984 (per il Veneto pp. 189-221).
53. Nell'ordine: F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 27, pp. 203-207, 1296 giugno 19; doc. 30, pp. 217-231, 1297 novembre 7; doc. 20, pp. 161-167, 1293 febbraio 16; doc. 35, pp. 249-268, 1299 aprile 25.
54. Joseph Andreas Jungmann, Missarum sollemnia, I, Torino 1953, pp. 111-112, 184-196.
55. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 33, pp. 241-244, 1298 luglio 29; per la casata vedi G. Cracco, Società e stato, p. 31, che la considera una famiglia spinta in avanti socialmente nel primo Duecento. Informazioni sull'attività commerciale e sul grado di ricchezza del Cortese si traggono dal testamento stesso.
56. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 33, pp. 241-244, 1298 luglio 29; sul fenomeno della penitenza a Venezia esistono scarse notizie: un gruppo di penitenti certo esisteva negli ultimi decenni del Duecento (Gilles Gérard Meersseman, Dossier de l'Ordre de la pénitence au XIIIe siècle, Fribourg, Suisse 19822, pp. 172-173).
57. Traggo l'efficace espressione da un testamento veronese, del 28 dicembre 1398 (Verona, Archivio di Stato, S. Maria della Scala, b. 2, perg. 80).
58. Sulla crisi del secondo Duecento, in senso più generale di quello meramente politico, si è intrattenuto di recente G. Cracco, Mercanti in crisi, pp. 11-17 in particolare.
59. Bastino i cenni al problema forniti da Id., Società e stato, pp. 126 e 316, in correlazione con momenti critici dei ceti aristocratici verso gli anni '30 e di più ampi strati della popolazione negli ultimi decenni del secolo.
60. Per i Gradenigo M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 9, pp. 234-242, 1260 luglio 13: testamento di Iacopina vedova di Marino, che ricorda con un lascito di quattro lire Agnese figlia di Marino Gradenigo monaca in S. Maria delle Vergini; per una Michiel ibid., doc. 12, pp. 254-266, 1275 febbraio 22 m.v. (testamento di Giovanni Grimani); molte monache o suore del parentado ricorda Gabriele Marignoni (doc. 16, pp. 288-303, 1279 maggio 8), come Maria moglie di Raniero Miglani (doc. 23, pp. 341-348, 1285 settembre 11) la quale benefica anche due monache Sisinulo. Un buon numero di monache è ricordato dai testamenti di Anfelise Badoer, del 26 dicembre 1291, e di Agnese Zane, del 20 dicembre 1299 (F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 16, pp. 137-142 e doc. 37, pp. 275-290). Sui monasteri lagunari benedettini autoctoni, cluniacensi, cistercensi, camaldolesi v. la recente sintesi di Giovanni Spinelli, I monasteri benedettini fra il 1000 e il 1300, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 109-133 (pp. 121-126 per i monasteri femminili); l'elenco di base è fornito da Monasteri benedettini nella laguna veneziana, Catalogo della mostra, a cura di Gabriele Mazzucco, Venezia 1983. Una utile rassegna interessante il monachesimo femminile in particolare è data da Maria Pia Pedani, Monasteri di Agostiniane a Venezia, "Archivio Veneto", ser. V., 125, 1985, pp. 35-41 per il Duecento (pp. 35-78).
61. Alcuni esempi: M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 7, pp. 223-229, 1258 gennaio 15 m.v.; doc. 15, pp. 280-287, 1277 dicembre 18; doc. 16, pp. 288-303, 1279 maggio 8; doc. 25, pp. 358-376, 1285 ottobre 22; F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 4, pp. 21-24, 1286 gennaio 5 m.v.; doc. 5, pp. 25-36, 1286 marzo 22; doc. 6, pp. 37-60, 1287 ottobre 19; doc. 30, pp. 217-231, 1297 novembre 7; doc. 33, pp. 241-245, 1298 luglio 29. Per i due monasteri vedi F. Corner, Ecclesiae Venetae, XII, dec. XVI, pars prior, pp. 452-469, e XI, dec. XIII, pars posterior, pp. 222-270; su Giuliana, inoltre, Giovanni Musolino, B. Giuliana di Collalto, in Id. - Antonio Niero - Silvio Tramontin, Santi e beati veneziani. Quaranta profili, Venezia 1963, pp. 147-155; Pier Angelo Passolunghi, I Collalto. Linee, documenti, genealogie per una storia del casato, Treviso 1987, pp. 50-51 e 199-201. Su Beatrice d'Este e l'ambiente che rappresenta il rinvio è a Antonio Rigon, La santa nobile. Beatrice d'Este († 1226) e il suo primo biografo, nel volume Viridarium floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, a cura di Maria Chiara Billanovich-Giorgio Cracco - Antonio Rigon, Padova 1984, pp. 61-87.
62. Si v. nell'ordine di citazione F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 16, pp. 137-142, 1291 dicembre 26; doc. 30, pp. 217-231, 1297 novembre 7; doc. 22, pp. 172-179, 1294 ottobre 6.
63. Ibid., doc. 4, pp. 21-24, 1286 gennaio 5 m.v.; doc. 5, pp. 25-36, 1286 marzo 22; doc. 6, pp. 37-60, 1287 ottobre 19.
64. Molti sono i casi in cui i testatori guardano ai monasteri compresi tra Cavarzere e Grado: v., ad esempio, M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 9, pp. 234-242, 1260 luglio 13; doc. 12, pp. 254-266, 1275 febbraio 22 m.v.; doc. 21, pp. 329-335, 1285 maggio 2; doc. 25, pp. 358-376, 1285 ottobre 22 (si noti che il testatore, Lorenzo Belli, indica anche luoghi connotati solo dal fatto che vi si celebra ogni giorno la messa); F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 12, pp. 110-116, 1290 settembre 7; doc. 22, pp. 172-179, 1294 ottobre 6. Si possono aggiungere, per gli anni precedenti, i testamenti di Giovanni Tinto, dell'ottobre 1221, e di Marino Pino, del 19 settembre 1255 (A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 138, copia del not. Paolo prete di S. Giovanni di Rialto, e b. 85, redazione in publica forma del not. Vanni pievano di S. Giovanni Confessore, reca la data della redazione in publica forma, 1259 luglio).
65. Notizie sul monastero si hanno in F. Corner, Ecclesiae Venetae, IX, dec. XII, pp. 135-172; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, pp. 51-52. Per l'intervento di papa Gregorio IX v. Les Régistres de Grégoire IX, a cura di Lucien Auvray, fasc. IX, Paris 1906, nrr. 4391-4392, coli. 1046-1049.
66. M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 4, pp. 207-211, 1237 luglio; doc. 12, pp. 254-266, 1275 febbraio 22 m.v.; doc. 13, pp. 267-274, 1277 giugno 29; doc. 15, pp. 280-287, 1277 dicembre 18; doc. 16, pp. 288-303, 1279 maggio 8; doc. 23, pp. 341-348, 1285 settembre 11; doc. 25, pp. 358-376, 1285 ottobre 22; F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 6, pp. 37-60, 1287 ottobre 19.
67. V., nell'ordine di citazione, M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 7, pp. 223-229, 1258 gennaio 15 m.v.; per gli eremiti di Murano e Pellestrina il doc. 16, pp. 288-303, 1279 maggio 8; doc. 23, pp. 341-348, 1285 settembre 11; doc. 25, pp. 358-376, 1285 ottobre 22; F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 1, pp. 1-10, 1285 marzo 12; doc. 22, pp. 172-179, 1294 ottobre 6; per Francesco Minio, ibid., doc. 35, pp. 249-268, 1299 aprile 25; per il Grimani, M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 12, pp. 254-266, 1275 febbraio 22 m.v. Una Sofia fondatrice del monastero di S. Croce si recò, secondo F. Corner, Ecclesiae Venetae, V, dec. VIII, p. 244, sopra il vestibolo di S. Nicolò de Mendicolis a far vita solitaria, probabilmente seguendo una tradizione consolidata.
68. I testamenti, rispettivamente del settembre 1228 e del 26 giugno 1253, sono noti attraverso l'edizione data da Silvano Borsari, Una famiglia veneziana del Medioevo: gli Ziani, "Archivio Veneto", ser. V, 110, 1978, pp. 54-72 (pp. 27-72); una accurata analisi e ampi regesti degli stessi sono dati da Irmgard Fees, Reichtum und Macht im mittelalterlichen Venedig. Die Familie Ziani, Tübingen 1988, pp. 203-230, 381-388, 403-409.
69. V., nell'ordine di citazione, M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 12, pp. 254-266, 1275 febbraio 22 m.v.; F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 16, pp. 137-142, 1291 dicembre 26; doc. 37, pp. 275-290, 1299 dicembre 20; doc. 29, pp. 213-216, 1297 gennaio 8 m.v. Sulla posizione economica, sociale e politica dei testatori e delle loro famiglie sparsi cenni si trovano in G. Cracco, Società e stato, pp. 116, 123, 255, 325, 398, 399 (Grimani); pp. 230, 237, 254, 264, 399 (Zane); pp. 114, 150, 178, 323 (Marino Badoer); per la famiglia Badoer soccorre di recente inoltre Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982.
70. A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 85, 1259 luglio (redazione in publica forma del testamento del 1255 settembre 19, not. Giovanni pievano di S. Giovanni Confessore); b. 2, not. Antonio pievano di S. Sofia, 1256 aprile 21; il testamento è di Nicolota vedova di Giovanni del confinio di S. Sofia, persona diversa dal più noto Giovanni podestà di Costantinopoli, riformatore degli stessi statuti veneziani e infine podestà di Chioggia, che è del confinio di S. Cassiano. Riguardo a Marino Pino, si può ricordare che il vescovo di Castello Pietro Pino (1235/36-1254) era suo zio: per quest'ultimo v. Antonio Rigon, I vescovi veneziani nella svolta pastorale dei secoli XII e XIII, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 36-37 (pp. 31-51).
71. Resta ovvio il riferimento a Paul Alphandéry - Alphonse Dupront, La cristianità e l'idea di crociata, Bologna 1974 (trad. it. dello studio edito nel 1954 e 1958; ma v. anche le note introduttive di Ovidio Capitani, alle pp. IX-XVI). L'importanza della Crociata a Venezia, pure in senso antiezzeliniano, è efficacemente sottolineata da G. Cracco, Società e stato, pp. 273-290, sulla scorta di Martin da Canal; per la ricostruzione degli avvenimenti è ora possibile ricorrere anche a Roberto Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, Venezia 1985 (ma scritto negli anni '60).
72. G. De Luca, La letteratura di pietà, p. 224.
73. Mettono insieme messe ed elemosine - per fare qualche esempio - Giovanni da Prata, Marchesina Papacicia, Marco Trevisano, Domenico Prevedello (F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 8, pp. 64-69, 1289 aprile 27; doc. 17, pp. 143-152, 1292 gennaio 28 m.v.; doc. 19, pp. 157-160, 1293 dicembre 3; doc. 21, pp. 168-171, 1294 agosto 21).
74. È il caso di ricordare la "véritable révolution de la charité" attribuita a questo tempo da André Vauchez, La spiritualité du moyen âge occidental, VIIIe-XIIe siècles, Paris 1975, p. 132 (in ediz. it., Milano 1978). Mi sia consentito rinviare a un esempio di area veronese in cui l'assistenza ai lebbrosi è gestita con totale impegno personale: Giuseppina De Sandre Gasparini, L'assistenza ai lebbrosi nel movimento religioso dei primi decenni del Duecento veronese: uomini e fatti, in Esperienze religiose e opere assistenziali nei secoli XII e XIII, a cura di Grado G. Merlo, Torino 19882, pp. 85-121 (già edito nel 1984).
75. Per i cinque ospedali di S. Maria dei Crociferi, di S. Lazzaro, di S. Marco, di S. Trinità, di S. Giovanni Evangelista, v., a parziale esemplificazione, A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 138, not. Giovanni pievano di S. Giovanni Confessore, 1255 settembre 19 (il doc. porta la data 1259 luglio); b. 2, not. Antonio pievano di S. Sofia, 1 256 aprile 21; b. 85, not. Giovanni pievano di S. Giovanni Confessore, 1259 maggio 14; gli ospedali sono sei nei testamenti di Giovanni de Putheo e Morgana vedova di Remondino de Albasiis (b. 85, not. Giovanni pievano di S. Giovanni Confessore), 1266 settembre 5 e 1269 giugno 28; un altro buon esempio si può vedere in Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, a cura di Alfredo Stussi, Pisa 1965, pp. 11-14 (testamento di Geremia Ghisi, dell'agosto 1282). L'informazione sugli istituti è sostanzialmente quella data dal Corner, valendo in genere le osservazioni e le referenze bibliografiche sul lebbrosario di Gian Maria Varanini, L'iniziativa pubblica e privata, in Id. - Giuseppina De Sandre Gasparini, Gli ospedali dei "malsani" nella società veneta del XII-XIII secolo. Tra assistenza e disciplinamento urbano, in città e servizi sociali nell'Italia dei secoli XII-XV. Atti del dodicesimo convegno di studi, Pistoia (9-12 ottobre 1987), Pistoia 1990, pp. 149-150 n. 20. Per gli ospedali di S. Marco e di S. Giovanni Evangelista vedi le nn. sulle omonime confraternite, in questo studio.
76. Tra le molte citazioni dei due istituti ricordo quella del testamento di Nicolò de Vivaroto, del 29 giugno 1277 per la sua eccezionalità: il testatore infatti destina 300 lire a ciascun ospedale, alla domus Dei "in reedifficatione" e alla domus Misericordie "in laborerio" (M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 13, pp. 267-274). Non chiara è la vicenda storica dei due enti; per il primo vedi F. Corner, Ecclesiae Venetae, VIII, dec. XI, pars posterior, pp. 320-325 in particolare; il secondo potrebbe essere identificato con la domus Misericordie collegata con la confraternita di S. Maria della Misericordia e S. Francesco.
77. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 1, pp. 1-10, 1285 marzo 12.
78. Ibid., doc. 32, pp. 237-240, 1298 luglio 24. Per S. Lazzaro v. sopra, n. 75.
79. Ibid., doc. 35, pp. 249-268, 1299 aprile 25.
80. Ibid., doc. 30, pp. 217-231, 1297 novembre 7. Le notizie sul suo status sociale ed economico sono tratte dal testamento. Si aggiunga che nel 1294 siede nel maggior consiglio (Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, a cura di Roberto Cessi, I, Bologna 1950, p. 350).
81. Per il Gradelon v. n. precedente; il testamento del Marignoni è in M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 16, pp. 288-303, 1279 maggio 8. L'attività commerciale del testatore ha ricche testimonianze ancora da vagliare e raccogliere: v., ad esempio, R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, II, doc. 694, pp. 227-228; doc. 701, pp. 233-234; doc. 709, pp. 239-240; doc. 711, p. 242; doc. 745, pp. 273-274; doc. 809, pp. 335-336; doc. 820, pp. 345-346.
82. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 35, pp. 249-268, 1299 aprile 25.
83. V. un chiaro esempio, oltre ai più comuni ricordi di risarcimento dei male ablata, in A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 2, not. Michele Adamo prete di S. Cassiano, 1252 dicembre 12, il testatore, Nicola Contarini, dettando a Costantinopoli le sue ultime volontà, distribuisce la bella somma di 400 iperperi per l'anima di coloro che hanno patito da lui danno nel negoziare, ma non è sicuro della reale esistenza di persone di tal fatta e prevede un'altra destinazione per l'anima sua.
84. Il tema, come si sa, è trattato di frequente; basti ricordare, oltre al saggio di G. Cracco, Mercanti in crisi, per il taglio 'veneziano' gli spunti offerti a suo tempo - anche per le fonti testamentarie ivi citate - da Yves Renouard, Mercati e mercanti veneziani alla fine del Duecento, in AA.VV., La civiltà veneziana del secolo di Marco Polo, Firenze 1955, pp. 96-98.
85. V. rispettivamente M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 10, pp. 243-249, e F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 6, pp. 37-60; una solenne promessa di castità da parte di una vedova è offerta da G. Gallicciolli, Delle memorie venete, VI, pp. 40-41.
86. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 104.
87. Liber sacerdotalis nuperrime ex libris sancte Romane Ecclesie [...> collectus atque compositus [...>, Venetiis 1807, pp. 210v-212v. Sulle 'monache domestiche' sempre utili sono le precorritrici note di G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis, I, pp. 270-271, 277-282.
88. Liber sacerdotalis, pp. 18-28: è il rito usuale nel patriarcato di Venezia, secondo la dichiarazione dello stesso autore; v. inoltre n. 11.
89. V. nell'ordine sopra, testo e n. 62; A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 85, not. Giovanni pievano di S. Giovanni Confessore, 1269 giugno 28; F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 8, pp. 64-69, 1289 aprile 27. L'analisi di buoni gruppi di testamenti duecenteschi di terraferma (v. sopra, n. 36) testimonia l'usanza con minore intensità.
90. Liber sacerdotalis, p. 217v: rito "ad benedicendum prandium caritatis".
91. V. avanti, n. 121.
92. Giorgio Cracco, Santità straniera in terra veneta (secc. XI-XII), in Les fonctions des saints dans le monde occidental (IIIe-XIIIe siècles). Actes du colloque organisé par l'École française de Rome [...> Rome, 27-29 octobre 1988, Roma 1991, pp. 447-465.
93. Nell'ordine: F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 16, pp. 137-142, 1291 dicembre 26; M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 26, pp. 377-388, 1285 novembre 21: almeno per Anfelise Badoer si può accertare che non è la moglie del noto Marino Badoer figlio di Marco (M. Pozza, I Badoer, pp. 54, 60, 64-68), ma appartiene a un ramo meno noto della famiglia.
94. Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 280; ripete la notizia la Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964, p. 142.
95. Per gli avvenimenti ricordo per tutti R. Cessi, Venezia nel Duecento, p. 265; e, con sottolineatura degli aspetti di 'crisi', la recente sintesi di G. Cracco, Un "altro mondo", pp. 102-106.
96. V. il saggio di Giorgetta Bonfiglio Dosio, in questo volume.
97. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 50.
98. Daniela Rando, Aspetti dell'organizzazione della cura d'anime a Venezia nei secoli XI-XII, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, p. 71 n. 92 (pp. 53-72): la Scola è situata nella chiesa di S. Cassiano.
99. Ne diede notizia Gennaro Maria Monti, Le confraternite medievali nell'alta e media Italia, I, Venezia 1927, pp. 73-74, che poi pubblicò il testo della traslazione del corpo del santo e dell'erezione della confraternita, traendolo dal Corner (Id., Nuovo contributo alla storia delle confraternite italiane, in Ad Alessandro Luzio gli Archivi di Stato italiani. Miscellanea di studi storici, I, Firenze 1933, pp. 161-172). Lo stesso testo è riedito da G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis, I, pp. 91-93.
100. Si veda, ad esempio, il sodalizio dell'altare maggiore nella chiesa di S. Tommaso, Scuola "tratta da una mariegola che comparse in 1187 aprile", oppure quello di S. Maria dei masculi in S. Marco, derivata da una antica confraternita (F. Corner, Ecclesiae Venetae, X, dec. XIII, pars prior, p. 139; II, dec. III, p. 329).
101. R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, II, doc. 535, pp. 74-77.
102. Fernanda Sorelli, L'atteggiamento del governo veneziano verso gli ordini mendicanti. Dalle Deliberazioni del Maggior Consiglio (secoli XIII-XIV), in Esperienze minoritiche nel Veneto del Due-Trecento. Atti del convegno nazionale di studi francescani (Padova, 28-29-30 settembre 1984), "Le Venezie Francescane", n. ser., 2, 1985, pp. 38-40 (pp. 37-47); Ead., I nuovi religiosi, pp. 136-144.
103. V. il rilievo dato al racconto della liquidazione dei da Romano da Martin da Canal, Les estoires de Venise, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 130-151 (in particolare pp. 146-151), capp. CL-CLI; e insieme le osservazioni di Girolamo Arnaldi - Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana dalle origini alla fine del secolo XIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, p. 388 (pp. 387-423). Per Padova, gli Annales Patavini, a cura di Antonio Bonardi, in R.I.S.2, VIII, 1, 1905-1908, p. 227, segnalano il legame - solo cronologico? - tra i due eventi, informando il lettore che podestà era Marco Quirini. Analoga connessione è evidente nel Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae, (a. 1207-1270), a cura di Luigi Alfredo Botteghi, in R.I.S.2, VIII, 3, 1914-1916, pp. 44-45.
104. F. Corner, Ecclesiae Venetae, VII, dec. XI, pars prior, pp. 289-293 (per la citazione p. 290). Sul problema del rapporto tra movimento e confraternite si veda G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis, I, pp. 463-475; Giuseppina De Sandre Gasparini, Movimento dei disciplinati, confraternite e ordini mendicanti, in AA.VV., I frati minori e il terzo ordine. Problemi e discussioni storiografiche, 17-20 ottobre 1982, Todi 1985, pp. 89-98 (pp. 77-114).
105. A.S.V., Scuola Grande di S. Maria della Carità, Mariegole (= S. Maria della Carità), b. 233, reg. 1, c. 1. Secondo gli Annales Patavini, p. 227 (vedi n. 103), la verberatio si sarebbe verificata a Padova "in vigilia sancti Martini".
106. A.S.V., Scuola di S. Maria della Valverde o della Misericordia, Mariegole (= S. Maria della Misericordia), reg. 1, c. 1v.
107. Venezia, Museo Correr, cod. IV. 21, Mariegola della scuola di S. Teodoro (= S. Teodoro): se ne veda la descrizione in L. Sbriziolo, Le confraternite veneziane, pp. 53-55, nr. 50.
108. S. Teodoro, c. XIIII; cf. con c. LXXXIVv. Sulla scuola v. anche Rodolfo Gallo, La scuola grande di San Teodoro di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 120, 1961-1962, classe di scienze morali e lettere, pp. 461-495: l'autore corregge le date portando al 1267 il trasporto a Venezia, volendo rispettare l'intervallo di dieci anni.
109. S. Teodoro patrono di Venezia prima di s. Marco è accettato dal Gallo (vedi n. precedente); più di recente considera il culto del "supposto patrono" privo di basi Antonio Niero, I santi patroni, in AA.VV., Culto dei santi a Venezia, Venezia 1965, pp. 92-93, 98; e Id., Questioni agio-grafiche su san Marco, "Studi Veneziani", 12, 1970, p. 24 (pp. 18-27). Sulla complessa questione della preesistenza del culto e della cappella di S. Teodoro a S. Marco rinvio all'abbondante nota bibliografica di Bianca Betto, Il capitolo della basilica di S. Marco in Venezia: statuti e consuetudini dei primi decenni del sec. XIV, Padova 1984, pp. 3-5 n. 4, pp. 14-15 n. 20.
110. L'edizione, alla quale aveva lavorato la compianta Lia Sbriziolo, è rimasta un desiderio: è attualmente avviata daccapo da un gruppo di studiosi di cui faccio parte.
111. F. Corner, Ecclesiae Venetae, V, dee. VII, p. 191; XII, dec. XIV, p. 113; VI, dec. X, p. 331; IX, dec. XII, p. 315.
112. S. Maria della Misericordia, reg. 1, cc. 4-5; S. Maria della Misericordia, reg. 2, c. 8v: riunioni capitolari del gennaio 1271 m.v. e del 21 febbraio 1313 m.v.
113. F. Corner, Ecclesiae Venetae, XII, dec. XIV, p. 113.
114. Ibid., V, dec. VII, p. 166 (nello stesso tomo notizie sul priorato, per il quale v. anche Antonio Fabris, Esperienze di vita comunitaria: i canonici regolari, in La chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 76-80 [pp. 73-107>); F. Corner, Ecclesiae Venetae, VI, dec. X, p. 332 (nello stesso torno notizie sul priorato, per il quale v. anche M. Pozza, I Badoer, pp. 50-52); XII, dec. XIV, pp. 149-156.
115. S. Maria della Carità, reg. 233, cc. 9v-12v.
116. S. Maria della Misericordia, reg. 1, cc. 11v-12.
117. G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis, II, p. 596 (da F. Corner, Ecclesiae Venetae, V, dec. VII, pp. 192-193).
118. Giuseppina De Sandre Gasparini, Statuti di confraternite religiose di Padova nel medioevo. Testi, studio introduttivo e cenni storici, Padova 1974, p. XXVI.
119. La questione è stata da me affrontata una prima volta in Movimento dei disciplinati, p. 100; e poi ripresa in Il movimento delle confraternite nell'area veneta, in AA.VV., Le mouvement confraternel au moyen âge. France, Italie, Suisse. Actes de la table ronde [...>, Lausanne 9-11 mai 1985, Roma 1987, pp. 375-378.
120. G. Arnaldi - L. Capo, I cronisti di Venezia, p. 388-390.
121. S. Maria della Carità, reg. 233, c. 4, capp. 24, 27; Cf. G. De Sandre Gasparini, Statuti di confraternite, p. 22, cap. 24 (statuti della confraternita dei servi di Dio e della S. Madre del duomo).
122. S. Maria della Misericordia, reg. 1, cc. 3v-4, capp. 16, 17.
123. Ibid., cc. 4-5: la parte è del gennaio 1271 m.v.
124. Per la posizione delle donne nelle confraternite disciplinate vedi più in generale G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis, I, pp. 498-504; per le future differenziazioni del corpo sociale v. per Venezia L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane [...>. Le scuole dei battuti, pp. 717, 726-729, 734-736 in particolare.
125. V. sopra, n. 3.
126. La constatazione è unanime: si veda, a mo' di esempio, la raccolta padovana di Statuti di confraternite, oppure il recente corpus bergamasco, oppure ancora quello perugino (Lester K. Little, Libertà carità fraternità. Confraternite laiche a Bergamo nell'età del comune. Edizione degli statuti a cura di Sandro Buzzetti. Ricerca codicologica di Giulio Orazio Bravi, Bergamo 1988; Le fraternite medievali di Assisi. Linee storiche e testi statutari, a cura di Ugolino Nicolini - Enrico Menestò - Francesco Santucci, Perugia 1988).
127. S. Maria della Misericordia, reg. 2, c. 6v, 1290 marzo 23; c. 7, 1294 dicembre 20.
128. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane. [...>. Le scuole dei battuti, pp. 716-720 in particolare.
129. In generale, per le differenze tra penitenti e disciplinati, v. G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis, 1, pp. 355-512.
130. A.S.V., Scuola grande di S. Giovanni Evangelista, Mariegole, reg. 7, c. 7-v, cap. 20.
131. G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis, III, pp. 1273-1289.
132. S. Maria della Carità, b. 233, reg. 1, c. 2, cap. 10; cc. 4-5, capp. 22, 23; c. 7, cap. 41; S. Giovanni Evangelista, reg. 7, c. 6, capp. 14-16; S. Maria della Misericordia, reg. 1, c. 4, cap. 20; S. Teodoro, cc. LXVIII-LXVIIII, capp. 28, 29.
133. S. Maria della Carità, reg. 60.
134. V. il recente studio di R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 53-56, 143.
135. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, doc. 23, pp. 180-185.
136. M. Maccarrone, "Cura animarmi", p. 159.
137. F. Arbitrio, Aspetti della società veneziana, docc. 23, 33, pp. 180-186, 241-245, 1294 dicembre 11, 1298 luglio 29; M.C. Bellato, Aspetti di vita veneziana, doc. 11, pp. 250-253, 1270 giugno 16.
138. In particolare v. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 51-61 (le Scuole piccole a partire dal 1337 sono quelle di S. Anna, di S. Cristoforo, dei SS. Apostoli, della Celestia).
139. Ilarino da Milano, L'istituzione dell'inquisizione monastico papale a Venezia nel secolo XIII, "Collectanea Franciscana", 5, 1935, pp. 177-212 (ristampa in Id., Eresie medioevali. Scritti minori, introduzione di Stanislao da Campagnola, Rimini 1983, pp. 449-482).