La plastica nemica dell’ecosistema marino
La plastica sta diventando un problema di grande rilevanza per l’ecosistema del pianeta, in particolare per quello marino. Le stesse caratteristiche che rendono la plastica necessaria a tante applicazioni industriali (la sua resistenza e la sua stabilità) rappresentano invece un serio problema per l’ambiente: essa è scarsamente biodegradabile e subisce attraverso la cosiddetta fotodegradazione una disintegrazione in parti sempre più piccole, monofilamenti di plastiche e fibre di polimeri che risultano molto simili nell’aspetto allo zooplancton. Questo fatto favorisce l’ingresso nella catena alimentare di pericolosi composti polimerici, come per esempio i policlorobifenili, che alla fine possono raggiungere l’uomo. Stime attendibili affermano che la quantità di plastica che arriva in mare aperto sia la metà di tutta quella presente sul pianeta; una buona parte di essa, secondo gli studiosi fino al 70%, si deposita sul fondo, mentre il restante 30% rimane a galla. L’unico modo per far diminuire la quantità di plastica nel mare è quello di aumentare il riutilizzo di questo materiale.
Nel Mediterraneo
Nell’estate 2010, una spedizione scientifica formata da biologi marini e ambientalisti dell’Istituto francese di ricerca sullo sfruttamento del mare (Ifremer) e dell’Università di Liegi (Belgio) ha monitorato per la prima volta l’inquinamento delle acque superficiali del Mare Nostrum, nell’ambito del programma di ricerca scientifico europeo denominato Expedition MED (Mediterranean EnDangered, Mediterraneo in pericolo).
Il team ha solcato, a bordo del veliero Halifax, le acque del Mediterraneo; ha percorso più di 1500 miglia nautiche prelevando e analizzando campioni delle acque superficiali in 40 siti dislocati a largo delle coste francesi, spagnole e del Nord Italia. I risultati, pubblicati nel mese di gennaio 2011, mettono in luce un fenomeno allarmante: la presenza nel 90% dei campioni analizzati di microframmenti di plastica; una forma di inquinamento quasi impercettibile e invisibile ma in grado di mettere a repentaglio la biodiversità locale e di avvelenare gli stessi esseri umani attraverso il passaggio nella catena alimentare. Estrapolando i dati raccolti si ottengono stime dell’ordine di 250 miliardi di microframmenti del peso medio di 1,8 mg, che darebbero una presenza nel Mediterraneo di circa 500 tonnellate di plastiche disperse.
La densità media di residui plastici riscontrata nel Mediterraneo è stata di 115.000 unità per km2 con un picco di 892.000 unità rilevato a largo dell’isola d’Elba, valori questi confrontabili con le densità di rifiuti presenti nei vortici di immondizia nell’Atlantico settentrionale e nel Pacifico settentrionale. Il rapporto parla di un Mediterraneo che rischia di assomigliare a una zuppa di plastica di cui si nutrono pesci e lo stesso plancton che si trova alla base della catena alimentare. Questi inquinanti mettono a repentaglio l’esistenza di circa 350 forme animali acquatiche e terrestri.
Si va dalle tartarughe e dagli uccelli che, quando non rimangono impigliati nelle reti abbandonate, si nutrono di questi contaminanti non commestibili fino a morirne, per finire con i pesci e il plancton. È stato avviato un duplice studio dai biologi marini dell’Università di Genova e di quella di Liegi.
I primi analizzano gli apparati digerenti dei cosiddetti pesci lanterna, per stabilire il livello di intossicazione da plastica di queste piccole prede predilette di tonni e delfini. L’Università di Liegi sta invece analizzando l’interazione tra plancton e microframmenti, per stabilire se esiste una correlazione tra la distribuzione spaziale dei microframmenti e la presenza di plancton stesso.
Negli oceani
Le chiamano ‘isole di spazzatura’ e sono formate da vortici di immondizia presenti nel Pacifico e nell’Atlantico. I rifiuti che vi si accumulano sono composti essenzialmente da materiali plastici che rimangono intrappolati in enormi spirali di correnti oceaniche: una volta all’interno di queste spirali, la plastica è spinta dal vento e dalle correnti superficiali verso il centro del vortice, dove si accumula. Alcune simulazioni numeriche hanno elaborato un modello fluidodinamico che prevedeva all’inizio una distribuzione omogenea dei rifiuti nelle acque superficiali; poi, in base all’evoluzione delle correnti, si sono formate ben cinque macroaree marine dove si determina una convergenza dei rifiuti. Due di queste sono effettivamente osservate (come nel caso dei vortici del Nord Pacifico e del Nord Atlantico); le altre tre zone previste teoricamente (vortici meridionali del Pacifico e dell’Atlantico e vortice dell’Oceano Indiano) non sono state ancora studiate.
Plastiki: il catamarano ecologico
Dell’inquinamento da rifiuti plastici dispersi nei mari si è parlato in occasione dell’Earth Day 2011, il 22 aprile, la Giornata mondiale della Terra: infatti, in concomitanza con questa ricorrenza il National Geographic Channel ha mandato in onda in Italia un documentario sull’avventura di ‘Plastiki’, un’originalissima imbarcazione costruita riciclando migliaia di bottiglie di plastica. L’iniziativa, promossa e finanziata da David Mayer de Rothschild, rampollo dell’omonima famiglia di banchieri, ha lo scopo di diffondere in tutto il mondo un messaggio di responsabilità ambientale che dovrebbe indurre scelte di eco-sostenibilità in tutti i settori. Il nome scelto riecheggia quello del ‘Kon-tiki’, la zattera di tronchi con cui l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl attraversò l’Oceano Pacifico nel 1947. Per costruire Plastiki sono state utilizzate 12.500 bottiglie di plastica PET da due litri, riempite di anidride carbonica a pressione (per migliorarne la resistenza) e tenute insieme da una colla organica (a base di canna da zucchero). E poi una vela in plastica riciclata, pannelli solari e una cyclette collegata a un alternatore per generare energia elettrica. Nell’estate del 2010 il curioso catamarano è riuscito ad attraversare l’Oceano Pacifico da San Francisco a Sydney, percorrendo 14.800 km in 130 giorni.
Discariche negli oceani
Nell’Oceano Pacifico nel 1997 fu scoperto per la prima volta il cosiddetto Pacific trash vortex, ossia la più grande discarica del mondo, che inizia a 500 miglia nautiche dalla costa della California, attraversa il Pacifico meridionale, oltrepassa le Hawaii per poi arrivare fin quasi al Giappone. La macchia di rifiuti ha un diametro di circa 2500 km, è profonda 30 m, ha un’estensione pari al doppio di quella dell’Italia (ma c’è chi afferma che potrebbe essere anche grande quanto gli Stati Uniti) ed è composta per l’80% da plastica e per il resto da altri materiali che giungono da aree anche molto lontane.
Questo ‘vortice di spazzatura’ si è formato negli anni Cinquanta del Novecento ed è continuamente alimentato da rifiuti che provengono per il 20% da navi e da piattaforme petrolifere e per l’80% direttamente dalla terraferma. La scia di immondizia è traslucida e galleggia sotto la superficie del mare e non è quindi localizzabile tramite satelliti. L’unico modo per studiarla è farlo da un’imbarcazione. L’area è una specie di deserto oceanico, dove la vita è ridotta solo a pochi grandi mammiferi o pesci. Per la mancanza di vita questa superficie oceanica è scarsamente battuta da pescherecci e raramente è attraversata da altre imbarcazioni.
Anche l’Atlantico ha la sua discarica galleggiante, in cui la plastica regna sovrana. L’isola dei rifiuti si trova in un’area che corrisponde all’incirca al Mar dei Sargassi, dove sono presenti correnti superficiali con una velocità di meno di due centimetri al secondo. Non sono ancora chiare le dimensioni di questa discarica oceanica che può essere paragonata, come fenomeno e come concentrazione di frammenti di plastica (mediamente circa 20.000 per km2, con punte di 200.000), a quella più famosa e studiata presente nel Pacifico.
Salvate il pesciolino Kai
L’organizzazione non-profit Ocean Voyage Institute, impegnata a ripulire gli oceani dalla plastica, lancia una campagna di raccolta fondi, Project Kaisei. Un pesciolino rosso, ‘Kai’, comparirà, ripreso da una web cam, nella rete Internet, mentre conduce una strenua battaglia contro l’inquinamento da plastica che minaccia il suo ambiente, un acquario, nel quale viene anche riprodotto in scala ridotta il ‘vortice di plastica’ che minaccia l’ecosistema marino nel Pacifico del Nord. I navigatori Internet che si collegheranno al sito dell’organizzazione potranno rendersi conto in tempo reale delle sue difficili condizioni di vita: le stesse a cui sono sottoposte ogni giorno le specie marine minacciate dall’inquinamento da plastica. Per salvare Kai e rimuovere i detriti dal suo acquario i partecipanti hanno potuto fare donazioni dal 10 maggio fino al 10 giugno: la campagna si chiude infatti subito dopo il World Ocean’s Day.
In Italia al bando i sacchetti di plastica
II ministero dell’Ambiente, recependo una norma comunitaria, ha messo al bando dal 1° gennaio 2011 l’utilizzo dei tradizionali shopper di plastica, dando avvio all’era dei sacchetti realizzati in materiali biodegradabili. L’Europa ha chiarito che il sacchetto è a norma se si degrada in un processo di compostaggio entro 12 settimane e per una quota del 90%: nulla in confronto al tempo medio di degradazione di un sacchetto di plastica tradizionale, che varia dai 10 ai 20 anni. In realtà, il provvedimento legislativo, già previsto dall’inizio del 2010 dalla finanziaria del 2007 e poi prorogato, parla di un «divieto di commercializzazione dei sacchi da asporto merci non conformi ai requisiti di biodegradabilità indicati dagli standard tecnici europei vigenti» e questo consente ai commercianti di regalare fino a esaurimento scorte i sacchetti di plastica in giacenza. Da non sottovalutare il fatto che gli italiani sono stati tra i massimi utilizzatori in Europa di sacchetti di plastica, con un consumo medio annuale di 300 sacchetti a testa per un ammontare complessivo di oltre 200.000 tonnellate annue.