La poesia epica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I primi nomi propri che si incontrano nella letteratura greca sono quelli di Omero e di Esiodo. A Omero (molto probabilmente una figura leggendaria) gli antichi attribuivano la composizione di due poemi epici, l’Iliade e l’Odissea, messi per iscritto intorno al VI secolo a.C., che raccontano vicende legate alla guerra di Troia; Esiodo è autore di due poemetti più brevi, la Teogonia (il primo tentativo di sistemazione del complesso materiale mitico relativo alle origini del cosmo) e le Opere (l’esaltazione del lavoro umano e della giustizia divina).
All’inizio della letteratura greca si ergono, come due monoliti, i poemi omerici. Delle numerose leggende che costituivano il serbatoio mitico dei Greci ci sono rimaste integralmente, sotto forma di poema epico, due vicende legate alla guerra di Troia (chiamata anche Ilio), la lunga contesa tra gli Achei e i Troiani per il controllo dello stretto dei Dardanelli: l’Iliade racconta una parte delle alterne vicende che hanno luogo durante il lungo assedio della città, durato dieci anni; l’Odissea narra il faticoso ritorno di uno dei capi greci nella sua patria.
A partire dall’VIII secolo a.C., con la crescente diffusione dell’alfabeto greco, i poemi che fino a quel momento erano circolati oralmente sono trascritti in varie località del mondo greco. La più famosa di queste redazioni risale, secondo le fonti antiche, alla seconda metà del VI secolo a.C.: stando a quel che ci racconta Cicerone nel De oratore (riportando una notizia attinta molto probabilmente dal grammatico Asclepiade di Mirlea), il tiranno ateniese Pisistrato avrebbe fatto raccogliere i “canti sparsi” di Omero e li avrebbe disposti in quello destinato a diventare l’ordine tradizionale; secondo la testimonianza che leggiamo nell’Ipparco, un dialogo attribuito a Platone, Ipparco, uno dei due figli di Pisistrato, li avrebbe fatti recitare a turno, senza interruzione, nel capoluogo dell’Attica durante la festa delle Panatenee. A stabilire un ordine definitivo fra tutte queste redazioni locali sono i filologi alessandrini, che dalla fine del IV secolo a.C. dedicano ai due poemi la maggior parte delle loro attenzioni, finendo per contribuire all’edizione divenuta canonica, pur partendo da posizioni diverse (a Senone ed Ellanico, i “separatisti” che ritengono i due poemi scritti da due autori diversi, si oppone Aristarco di Samotracia, che crede Omero autore di entrambi).
Ai due poemi è indissolubilmente legato il nome di Omero, un personaggio che appare avvolto nel mistero anche agli occhi degli antichi: molte (Chio e Smirne fra tutte) sono le città che si contendono l’onore di avergli dato i natali; molte, oltre ai due poemi, sono le opere attribuitegli. Nell’età ellenistica la sua figura è messa in discussione, dando origine a quella che, col passare del tempo, viene definita la “questione omerica “, una disputa senza fine che divide ancora oggi gli studiosi delle letterature classiche. Tra le tante ipotesi formulate dagli antichi, merita di essere ricordata quella dell’Anonimo del Sublime, lo sconosciuto autore di uno dei testi più acuti di critica letteraria: “Io credo che l’Iliade sia ricca di dialoghi e di azione perché Omero la scrisse quando il suo slancio creativo aveva raggiunto il vertice, mentre l’Odissea possiede la dimensione prevalentemente narrativa che è caratteristica della vecchiaia. Per questo motivo l’Omero dell’Odissea può essere paragonato al sole che sta tramontando: la sua grandezza è la stessa, ma il calore che emana è meno ardente”.
Il principale antefatto dell’Iliade è il giudizio di Paride: per aver attribuito ad Afrodite la vittoria nella gara di bellezza fra le tre dee, il principe troiano ha ricevuto come ricompensa l’amore di Elena, moglie di Menelao, re di Sparta. Il rapimento della bellissima principessa da parte di Paride provoca lo scoppio della guerra, perché tutti i principi greci salpano, insieme a Menelao e sotto la guida di suo fratello Agamennone, re di Micene, alla volta di Troia. Nei primi versi del poema, rivolgendosi alla Musa della poesia epica Calliope perché guidi il suo canto, l’aedo ne riassume in sintesi l’argomento: l’ira di Achille e le sue funeste conseguenze sull’esercito greco. Tra tutte le vicende militari che hanno caratterizzato i dieci lunghi anni di guerra, l’aedo punta la sua attenzione soltanto su un breve arco di tempo, una cinquantina di giorni dell’ultimo anno, il periodo che intercorre fra il volontario allontanamento di Achille dal combattimento (a causa di una violenta lite con Agamennone per il possesso di una schiava) e il suo ritorno: sconvolto per la morte dell’amico fraterno Patroclo, che era andato a combattere al suo posto ed era stato ucciso da Ettore, il più valoroso eroe troiano, Achille lo vendica uccidendo lo stesso Ettore sotto le mura di Troia. Il poema si conclude con i giochi funebri in onore di Patroclo e con la restituzione del cadavere di Ettore al padre, l’anziano Priamo.
Le peregrinazioni di Odisseo rappresentano invece il racconto di uno dei cosiddetti nostoi, i ritorni dei capi greci da Troia. Dopo aver affrontato una lunga serie di peripezie (gli incontri con popolazioni barbare e feroci, gli scontri con creature mostruose come il Ciclope, Scilla e Cariddi, le Sirene) e dopo aver suscitato la passione di diverse figure femminili (la maga Circe, la ninfa Calipso, la principessa Nausicaa), l’eroe approda finalmente alla sua isola, Itaca. Qui, dopo aver ucciso con l’aiuto del figlio Telemaco i pretendenti al suo regno, riesce finalmente ad abbracciare la fedele moglie Penelope, che è riuscita a resistere per vent’anni alle loro richieste di matrimonio. La figura dello scaltro Odisseo è il fulcro del poema: nel proemio, rivolgendosi alla Musa, l’aedo lo definisce polytropos (l’uomo “dalle molte risorse” o “che ha molto viaggiato”); più avanti, l’eroe viene chiamato polytlas (l’uomo “che ha molto sofferto”, in riferimento ai tanti patimenti subiti); più avanti ancora, gli viene attribuito l’epiteto polymetis (l’uomo “che possiede la metis”, vale a dire l’intelligenza e l’astuzia).
I due poemi hanno la stessa lunghezza (24 libri, come le lettere dell’alfabeto greco), anche se in media i libri dell’Odissea sono più corti; il metro impiegato è l’esametro (usato kata stichon, vale a dire “in sequenza”, chiamato anche eroon, “verso eroico”). La lingua è una mescolanza di forme che appartengono a diversi strati dialettali: se non molto numerose risultano le tracce del dialetto attico (derivate molto probabilmente dalla trascrizione ateniese del VI secolo), decisamente più rilevanti sono le testimonianze del dialetto ionico (la base dominante della lingua epica, che conferma lo stretto legame degli aedi e dello stesso Omero con la costa egea della penisola anatolica) e, in misura minore, di quello eolico (parlato e testimoniato in Tessaglia e, soprattutto, nell’isola di Lesbo).
Altre opere omeriche degne di nota sono la Batracomiomachia (un poemetto eroicomico di 300 esametri che descrive la “Battaglia delle rane e dei topi”), il Margite (un poemetto perduto che raccontava le disavventure di uno sciocco e che, secondo Aristotele, era un antecedente della commedia) e soprattutto gli Inni, 33 componimenti in esametri dedicati alle principali divinità del pantheon greco. I più importanti sono l’Inno a Demetra (che racconta il rapimento della figlia Persefone, la sua infruttuosa ricerca, l’ospitalità ricevuta dalle figlie di Celeo, re di Eleusi, e l’istituzione dei misteri eleusini), l’Inno ad Apollo (che narra la nascita del dio sull’isola di Delo e la fondazione del santuario e dell’oracolo di Delfi), l’Inno a Ermes (in cui si descrive il furto della mandria del fratello Apollo e l’invenzione della cetra), l’Inno ad Afrodite (incentrato sul tema dell’amore della dea per il pastore Anchise, futuro padre di Enea) e l’Inno a Dioniso (che racconta della cattura del dio da parte dei pirati e della sua fuga grazie a una lunga serie di trasformazioni).
Ma l’epica non è solo Omero. Le vicende narrate dall’Iliade e dall’Odissea sono solo una parte molto esigua delle storie che costituiscono l’universo mitico degli antichi Greci e che erano raccontate nell’ampia produzione epica che purtroppo non ci è pervenuta, con l’eccezione della Teogonia di Esiodo e di pochi frammenti (circa 100 versi). Questi frammenti provengono dai poemi del ciclo epico, che cominciano con le nozze di Urano (padre di Crono e nonno di Zeus) e Gaia (la Terra). Tra questi cicli narrativi, i più famosi sono quelli dedicati alle città di Tebe e Troia: il primo narra le vicende di Laio, di Edipo, della guerra tra i suoi due figli (Eteocle e Polinice) e della sorte dei cosiddetti Epigoni (i figli dei sette re che, guidati da Polinice, muovono guerra contro Tebe); il secondo comincia con i Canti Ciprii (gli antecedenti della guerra di Troia: le nozze di Elena e Menelao; il giudizio di Paride; la partenza dell’esercito greco), racconta i dieci anni della guerra (compresa la caduta della città per lo stratagemma del cavallo) e descrive i faticosi ritorni in patria (i nostoi) dei capi greci. L’ultimo poema del ciclo epico è la Telegonia, che racconta la morte di Odisseo, ucciso per mano di Telegono, il figlio avuto da Circe. Con la scomparsa di Odisseo finisce l’età degli eroi – e, con la Telegonia, finisce sostanzialmente anche l’epica. Le Argonautiche di Apollonio Rodio, composte in età alessandrina, sono dal punto di vista formale un poema epico, ma risultano nello stesso tempo qualcosa di completamente diverso, perché presuppongono la diffusione della scrittura: non sono composte per essere ascoltate, ma vengono scritte per essere lette.
Per i Greci dell’età arcaica, l’epica ha un valore che va al di là di quello semplicemente artistico e letterario: proprio perché la scrittura non è così diffusa da poter essere uno strumento di conservazione e trasmissione del patrimonio culturale, è la poesia ad assumersi il compito di fornire alle generazioni più giovani il sistema fondamentale di valori della civiltà. I poemi omerici sono stati definiti una “enciclopedia tribale”, perché contengono tutto quello che è necessario a un greco per comprendere la propria storia, la propria cultura e le proprie tradizioni. Una simile funzione enciclopedica non viene meno neanche quando, con la diffusione della scrittura, l’Iliade e l’Odissea cominciano a circolare come testi scritti. Omero rimane sempre l’autore più importante all’interno dei programmi scolastici, il poeta più amato e studiato, sia dai Greci che dai Latini: di lui, nel suo manuale scritto per i giovani oratori romani, Quintiliano dice che “nessuno potrebbe superarlo per sublimità negli argomenti di grande importanza e per proprietà in quelli di minore importanza: è ricco e conciso, gaio e serio, degno di ammirazione ora per l’abbondanza ora per la sintesi, superiore a tutti non solo per le sue capacità poetiche ma anche per il suo vigore oratorio. […] Non è forse andato al di là delle capacità dell’ingegno umano nelle parole, nei pensieri, nelle figure, nella struttura di tutta l’opera, al punto che solo un uomo veramente grande potrebbe non dico imitare i suoi pregi (cosa che sarebbe impossibile), ma solo apprezzarli pienamente?”
Se l’esistenza di un poeta di nome Omero, autore dell’Iliade e dell’Odissea, non è sicura, non ci sono invece dubbi sull’esistenza di un poeta di nome Esiodo, autore di due poemi in esametri (la Teogonia e le Opere e giorni), rapsodo professionista vissuto tra l’VIII e il VII secolo a.C. Non sono poche le cose che conosciamo di lui, perché Esiodo parla spesso di sé: ci racconta che suo padre è un commerciante originario di Cuma, in Asia Minore, che si è poi trasferito in Beozia, nella città di Ascra, ai piedi del monte Elicona; che suo fratello Perse litiga con lui per l’eredità paterna; che vince la gara poetica che si tiene a Calcide, nell’isola dell’Eubea, durante i giochi funebri in onore del principe Anfidamante. Per questo motivo Esiodo è il primo autore della letteratura greca fornito di una biografia che, una volta messe da parte tutte le vicende inventate dagli autori successivi (che lo vollero parente, contemporaneo e rivale di Omero), rimane senz’altro attendibile.
Nella Teogonia (la “Nascita degli dei”), dopo aver celebrato le nove Muse, ispiratrici del suo “canto divino”, Esiodo racconta l’origine delle divinità a partire dal Caos primordiale: per prima viene la Terra, poi seguono il Tartaro, Eros (“il più bello fra gli dei immortali, che scioglie le membra e doma nel petto il cuore e il senno degli dèi e degli uomini”), l’Erebo e la nera Notte. In questo primo tentativo di sistemazione del complesso materiale mitico relativo alle origini del cosmo, spiccano alcuni miti celebri: Urano evirato e spodestato dal figlio Crono; Crono spodestato a sua volta da Zeus; il dono del fuoco da parte del titano Prometeo; la creazione di Pandora, la prima donna; la Titanomachia. Ai racconti della Teogonia sono probabilmente collegate le descrizioni di personaggi femminili e della loro discendenza che fanno parte del Catalogo delle donne, un’opera perduta, della quale ci restano circa 300 frammenti.
A Esiodo viene attribuita un’altra opera di contenuto mitologico, lo Scudo di Eracle, che descrive il duello fra l’eroe e il brigante Cicno, figlio di Ares, il dio della guerra. L’autenticità dello Scudo è controversa fin dall’antichità (il filologo ellenistico Aristofane di Bisanzio non lo riteneva un lavoro esiodeo); il titolo deriva dalla parte centrale del poemetto, l’elaborata descrizione dello scudo di Eracle, modellata sulla descrizione dello scudo di Achille cesellato dal dio Efesto, che occupa il diciottesimo libro dell’Iliade.
Molto diverso è invece l’argomento delle Opere e giorni: dopo un breve proemio dedicato, come di consueto, alle Muse, Esiodo affronta subito i temi principali dell’opera, il lavoro umano e la giustizia divina. Composte come un monito al fratello Perse (che, con l’aiuto di giudici corrotti, ha sottratto al poeta la parte dell’eredità paterna che gli sarebbe spettata), le Opere raccontano il mito delle cinque età dell’uomo, che vedono, a partire dall’età dell’oro (nella quale “gli uomini vivevano come gli dèi, con l’animo tranquillo, liberi dalle fatiche e dalle disgrazie”), un progressivo peggioramento della condizione umana attraverso le età dell’argento, del bronzo e degli eroi, fino alla peggiore delle età, quella del ferro, l’età corrente, durante la quale il genere umano si logora giorno e notte per la fatica e per il dolore. Ma il lavoro non è solo una condanna: esso è anche una necessità per l’uomo, perché coloro che non lavorano e vivono nell’ozio (paragonati ai fuchi, che pigri consumano la fatica delle api) sono odiati dagli dèi, mentre attraverso il lavoro gli uomini ottengono la ricchezza, alla quale s’accompagnano il successo e il prestigio. Per questo motivo la parte successiva dell’opera (il primo esempio di poema didascalico a noi pervenuto) descrive il lavoro per eccellenza, il lavoro dei campi (senza tralasciare la navigazione, fondamento dell’attività commerciale), dall’aratura alla semina, dalla mietitura a tutte le altre occupazioni che costellano la vita del contadino durante le quattro stagioni dell’anno. Poiché il poema – che è il tentativo di costruire un racconto originale a partire da dati autobiografici, religiosi e tradizionali – non possiede una struttura organica come i poemi omerici (e come, in gran parte, la stessa Teogonia), alcune sezioni sono state ritenute non autentiche. È il caso, per esempio, dei due blocchi finali: i vv. 724-764, che contengono una serie di prescrizioni e divieti rituali (peraltro molto interessanti per gli studiosi di storia delle religioni), sono sembrati esprimere una ristrettezza di vedute in contrasto con i concetti elevati espressi nel resto dell’opera (l’alto valore della giustizia, garantita da Zeus; l’etica profonda del lavoro); analogo il destino dei vv. 765-828 (i Giorni del titolo), che elencano i giorni favorevoli o sfavorevoli per intraprendere determinate occupazioni.