La poesia lirica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il VII secolo a.C. vede la nascita di nuove forme poetiche che prendono il posto dell’epica omerica e delle sue variazioni esiodee: più ricche dal punto di vista musicale e più complesse nella forma metrica, le composizioni liriche, eseguite da un singolo cantore o da un coro nel corso di cerimonie religiose o feste pubbliche, nel palazzo di un sovrano o nella casa di un privato cittadino durante un simposio, si diffondono in tutto il territorio greco, dalle coste orientali dell’Asia Minore a quelle occidentali della Magna Grecia, dalla Beozia (Tebe) all’Attica (Atene) al Peloponneso (Sparta).
A partire dalla fine dell’VIII secolo a.C., con la crescente diffusione della scrittura, le caratteristiche che avevano contraddistinto, nel periodo precedente, la letteratura greca (vale a dire la sua dimensione prevalentemente orale), subiscono alcune modifiche. L’aspetto orale della comunicazione e della trasmissione della cultura permane stabile anche nei secoli successivi, almeno fino agli inizi del IV secolo a.C., quando ormai prevale in modo definitivo la dimensione scritta – non senza alcune critiche di rilievo, come per esempio le considerazioni espresse da Platone nel Fedro.
Nella cosiddetta età arcaica, tradizionalmente collocata tra il VII e il V secolo a.C., le modalità della comunicazione non subiscono rilevanti modifiche: l’elemento decisivo è sempre la performance del poeta. Piuttosto, con la nascita delle tirannie e, in un secondo tempo, dei regimi democratici, parallelamente al mutare delle condizioni politiche mutano anche i luoghi della performance: le corti sfarzose dei tiranni e le sale da pranzo di privati cittadini, oppure le piazze dove si radunano gli abitanti delle poleis governate da sistemi oligarchici (come Sparta) e quelli che hanno la fortuna di vivere sotto regimi democratici (come Atene), ma anche gli spazi riservati a celebrazioni pubbliche e private (le feste in onore delle divinità, i trionfi di coloro che hanno riportato la vittoria in uno dei giochi panellenici, i matrimoni, i funerali). Nemmeno per quanto riguarda le modalità di trasmissione l’età arcaica propone modifiche di rilievo: in assenza di una qualsiasi forma di produzione e circolazione libraria, l’unico modo per tramandare la cultura di generazione in generazione è, e rimane, la memoria.
Differenze sostanziali si presentano, invece, per quel che concerne la composizione dei testi poetici, perché l’improvvisazione, che era alla base dei poemi epici, viene sostituita dalla stesura scritta. Indipendentemente dalle forme utilizzate, i poeti dell’età arcaica compongono e scrivono in anticipo i loro testi, li imparano a memoria e li eseguono, accompagnandosi con diversi strumenti musicali, davanti al loro pubblico. Le forme metriche diventano più elaborate rispetto all’esametro omerico: se i metri caratteristici del giambo (il trimetro giambico) e dell’elegia (il distico elegiaco, formato da un esametro e da un pentametro) non sono particolarmente complicati, quelli sui quali vengono costruite le composizioni liriche sono decisamente più variati e complessi.
Ma quali sono i diversi generi poetici che nascono e si sviluppano nell’età arcaica? Una distinzione preliminare può essere quella che separa i generi che prevedono un esecutore unico e quelli che invece vengono eseguiti da un numero più o meno ampio di persone.
Per questo secondo genere si parla generalmente di “lirica corale”: il termine “lirica” deriva dalla lira (o cetra), lo strumento abitualmente usato per accompagnare simili esecuzioni; l’aggettivo “corale” sottolinea invece un altro aspetto non secondario della performance. “Corale” deriva dal sostantivo choros, cui non rende piena giustizia – perché incompleta – la consueta traduzione italiana (“coro”). I “cori” antichi non si limitavano a cantare, ma eseguivano contemporaneamente complessi passi di danza: il termine è infatti connesso col verbo choreuein (“danzare”). Canto, musica e danza sono tre elementi imprescindibili; la “lirica corale” non sarebbe concepibile se questi tre aspetti non fossero presenti contemporaneamente.
Diversi sono i componimenti affidati a un coro di esecutori. Le liriche corali dedicate alle divinità e cantate in occasione delle cerimonie religiose sono gli inni, i peani (in onore di Apollo), i ditirambi (in onore di Dioniso), i prosòdi (canti da processione), i parteni (canti eseguiti da un coro di vergini) e gli iporchemi (canti nei quali la danza ha un ruolo di primo piano); quelle riservate agli uomini sono gli encomi (canti di lode), i treni (canti funebri), gli epinici (canti riservati ai vincitori nelle competizioni sportive), gli epitalami e gli imenei (canti nuziali). Dal punto di vista della metrica, si tratta di composizioni molto complesse, che i poeti non possono certo improvvisare; anche il compito di chi si occupa degli aspetti musicali e coreografici richiede un grande lavoro di preparazione. La struttura metrica canonica della lirica corale è costituita dalla cosiddetta triade, la serie strofe/antistrofe/epodo; le prime due sezioni hanno la medesima forma metrica, mentre la terza, che è più breve, possiede elementi metrici analoghi a quelli presenti nelle prime due sezioni, ma distribuiti in modo differente.
Poiché le composizioni corali postulano l’esistenza di una società particolarmente compatta, propensa a dare meno risalto alla dimensione del singolo individuo, e poiché l’esempio paradigmatico di una simile società collettiva è, in quegli anni (ma anche nei secoli a venire), Sparta (il capoluogo della Laconia, la più importante città dorica), la lingua della poesia corale è sempre stata un dialetto contenente una prevalenza di forme doriche (cosa che si riscontra anche nei canti corali dei poeti tragici e comici ateniesi, che pure scrivevano i loro drammi in dialetto attico).
Tra i generi che vengono eseguiti da un solo poeta è necessario fare una distinzione ulteriore. Da una parte abbiamo i poeti che, a buon diritto, possono essere definiti “lirici”, perché autori di composizioni che, dal punto di vista metrico, non sono molto diverse da quelle dei “lirici corali”; il termine usato per definirli è “lirici monodici”, che significa “poeti che eseguono da soli i loro canti (odai, canti) accompagnandosi con la cetra”. Dall’altra parte vanno invece collocati i poeti elegiaci e giambici, per i quali la definizione “lirici” risulta impropria, dal momento che le loro composizioni sono accompagnate da altri strumenti (per l’elegia, lo strumento principale è l’aulos, il flauto diritto).
Anche per i “lirici monodici” la struttura formale più consueta è la strofe (che ha però dimensioni molto più ridotte: tanto la strofe “saffica” quanto la strofe “alcaica” sono composte di soli quattro versi ciascuna). Ma le differenze maggiori rispetto alle composizioni dei colleghi corali sono il luogo della performance e, soprattutto, il contenuto dei testi. L’esecuzione avviene davanti a un pubblico molto più ristretto: le poesie di Saffo sono composte per le allieve che frequentano il tiaso, la comunità a sfondo religioso e culturale dove le fanciulle vengono educate per diventare mogli e madri; i canti di Alceo vengono eseguiti durante il simposio, alla presenza degli amici più stretti che condividono tutte le sue passioni, amorose e politiche; le liriche di Anacreonte rallegrano i personaggi invitati ai banchetti offerti dai signori di Samo e di Atene. Per quel che riguarda il contenuto, con questi poeti (ma anche con alcune composizioni di poeti giambici ed elegiaci) i sentimenti personali fanno il loro ingresso nella letteratura occidentale: l’amore (inteso come slancio travolgente, ma anche come gioco da affrontare con il dovuto distacco), l’amicizia (intesa come un sincero legame che può essere sciolto solo dalla morte), la passione politica, gli affetti familiari.
I poeti elegiaci, uniti dalla forma metrica (il distico) e dalle modalità esecutive (il flauto diritto al posto della lira), si distinguono fra loro in base ai temi trattati: la guerra – contro i “barbari”, per Callino di Efeso, o contro i popoli confinanti, per lo spartano Tirteo) –, la politica – le elegie di Solone, che ha un ruolo di primo piano nelle vicende politiche ateniesi prima dell’avvento della tirannia di Pisistrato –, il simposio–le elegie conviviali di Senofane (VI-V sec. a.C.) e di Teognide) –, l’individuo – Mimnermo, che canta le gioie dell’amore e le disgrazie della vecchiaia.
Diverse, ma soprattutto originali, sono infine le tematiche della poesia giambica. Caratterizzata da un metro che, come afferma Aristotele, riproduce il ritmo del linguaggio quotidiano, questa forma poetica è usata per gli attacchi personali rivolti a coloro che si comportano in modo scorretto, per biasimarli agli occhi della società o, più semplicemente, per far ridere il pubblico. Popolata da personaggi che rappresentano l’antitesi degli ideali eroici testimoniati nei poemi omerici, permeata da una virulenza che contrasta con l’equilibrio caratteristico della letteratura greca, sconfinante spesso nell’oscenità (e per questo vista come l’antecedente della commedia greca antica di Aristofane), costellata da forme linguistiche prese a prestito dalla lingua parlata, la poesia giambica è forse il genere poetico dell’età arcaica che più di ogni altro testimonia l’irruzione nel mondo greco di quei fermenti vivaci e moderni che avrebbero dato vita alla straordinaria produzione culturale del V secolo ateniese.
Senofane
Il “simposio perfetto”
Fr. 1 Gentili-Prato
Il simposio è uno dei centri vitali della cultura arcaica, il luogo dove si conserva e si diffonde la cultura “letteraria” che affronta i temi alternativi all’interesse ecumenico della poesia epica e all’ambientazione esclusivamente pubblica dei canti religiosi ufficiali. La più luminosa descrizione di un simposio greco si legge in un’elegia di Senofane (fr. 1 Gentili-Prato):
Ora il pavimento è pulito, così come sono pulite
le coppe e le mani di tutti i convitati presenti.
Un servo ci mette una corona intorno al capo,
un altro ci porge una boccetta di balsamo profumato.
Sulla tavola troneggia il cratere, pieno di felicità.
Ma è già stato preparato altro vino, che promette di non tradirci mai,
dolce nelle coppe, profumato di fiori.
Nell’aria si respira il sacro profumo dell’incenso;
c’è anche l’acqua, fresca, dolce e luminosa;
hanno servito biondo pane; sulla nobile tavola
sono stati posati formaggio e miele.
Al centro della stanza c’è un altare completamente ricoperto di fiori;
nella sala risuonano canti e musiche.
Per prima cosa dobbiamo cantare inni agli dèi
con parole rispettose e discorsi puri, se siamo uomini assennati,
libando e pregando di essere sempre capaci di rispettare la giustizia:
è questo il comportamento migliore da tenere, non la violenza.
Dopo, bisogna bere, ma in modo sufficiente da poter tornare a casa da soli,
senza farsi accompagnare da uno schiavo, anche se non si è più giovani.
Degno di lode è chi, mentre beve, canta nobili imprese,
degne di essere ricordate, stimolo alla virtù:
guai a chi racconta le favole inventate dagli antichi,
che parlano delle lotte dei Titani, dei Giganti e dei Centauri,
o rievocale guerre civili, perché non ne ricaveremmo nessun guadagno.
Il comportamento giusto è occuparci sempre degli dèi.
Tra i componimenti che vengono accompagnati dall’aulos, i principali sono il giambo e l’elegia. Il termine “giambo” indica una composizione di carattere aggressivo e realistico basata su un piede metrico (il giambo) formato da una sillaba breve seguita da una lunga. Queste liriche non vengono propriamente cantate: mentre un musicista suona il flauto diritto, il poeta recita i versi con un’intonazione particolare (parakatalogé), come accade, per esempio, nel recitativo del melodramma. I principali poeti giambici dell’età arcaica sono Archiloco, Semonide e Ipponatte.
Autore non solo di giambi, ma anche di elegie, è Archiloco, nato sull’isola di Paro verso la prima metà del VII secolo a.C. Figura singolare di poeta-soldato, morto in battaglia combattendo contro gli abitanti di Nasso, Archiloco è molto probabilmente un aristocratico coinvolto in prima persona nelle vicende politiche della sua patria. Nelle sue composizioni, spesso scritte in prima persona, agisce un personaggio che si comporta in modo diametralmente opposto rispetto ai canoni della società descritta nei poemi omerici: abbandona il campo di battaglia perché non teme il disonore, disprezza il potere e la ricchezza, frequenta persone che non appartengono alla sua classe sociale. Spesso si è cercato di vedere in queste affermazioni provocatorie le opinioni personali del poeta: in realtà, nella maggior parte dei casi è probabile che si tratti di un voluto ribaltamento comico; in altri, invece, la persona loquens è un personaggio diverso dal poeta, che viene preso in giro per i suoi comportamenti scorretti.
In Archiloco (giunte purtroppo in modo frammentario) sono presenti tutte le caratteristiche della poesia giambica, fondata sullo psogos e sul momos (due termini che significano “biasimo”): se un poeta giambico vuole mettere in ridicolo un avversario politico, e così screditarlo agli occhi degli amici che ascoltano le sue composizioni all’interno del simposio, le accuse legate sia alla sfera pubblica che a quella privata sono strumenti particolarmente efficaci. Ma accanto a queste composizioni aggressive (che secondo gli antichi costituiscono il suo “marchio di fabbrica”) ce ne sono alcune che presentano un carattere molto più sentenzioso e altre che descrivono le gioie dell’amore, dell’amicizia e del vino.
Non solo per quanto riguarda il contenuto, ma anche dal punto di vista stilistico si avverte una netta distanza dal mondo dell’epica: la lingua di Archiloco è molto più varia ed espressiva di quella di Omero e di Esiodo, perché non disdegna né l’uso di vocaboli crudi né la rappresentazione di scene ad alto contenuto erotico.
Contemporaneo di Archiloco è Semonide, nato sull’isola di Samo ma conosciuto col soprannome di Amorgino perché aveva guidato una colonia sull’isola di Amorgo (un soprannome che permette di distinguerlo dal lirico corale Simonide di Ceo). Tra la sua produzione giambica, giuntaci in modo molto incompleto, spicca un lungo frammento che amplifica un tema caratteristico nella letteratura greca, la misoginia: come Elena viene messa in cattiva luce dai poemi omerici per aver tradito il marito Menelao per Paride, come Pandora è per Esiodo l’origine di tutti i mali dell’uomo, così Semonide amplifica i difetti dell’indole femminile attraverso il confronto con le caratteristiche negative di alcuni animali (scrofe, volpi, cagne, gatte, asine, cavalle, scimmie); le uniche, rare eccezioni, sono le donne che si comportano come le api. Non è lecito pensare che simili convinzioni siano condivise nella stessa misura da tutti i maschi greci: dal momento che la sede più consueta per le recitazioni della lirica monodica è un luogo frequentato esclusivamente da uomini come il simposio, è più corretto leggere nel frammento una presa in giro nei confronti di un gruppo ben preciso (le donne) per far ridere la controparte (gli uomini).
Analogamente non si deve pensare che il quadro che Ipponatte traccia di sé sia un preciso autoritratto. Originario di Efeso nell’Asia Minore, vissuto nella seconda metà del VI secolo a.C., anch’egli di chiara origine aristocratica e costretto all’esilio per motivi politici, egli descrive nei suoi giambi il sottobosco di una città di frontiera, a cavallo tra l’Occidente greco e l’Oriente persiano: nei frammenti delle sue poesie compaiono ladri e morti di fame, barboni e prostitute, che vivono una vita di stenti e sopravvivono con espedienti, protagonisti di una società nuova che proprio in quegli anni turbolenti si stava formando. La sua tendenza al turpiloquio è riscattata da una prodigiosa inventiva verbale, che sfrutta molte parole d’origine straniera.
L’elegia L’altra forma poetica che viene accompagnata dal suono dell’aulos è l’elegia, formata da una serie continua di una coppia di versi (il “distico elegiaco”), composto dall’unione dell’esametro, caratteristico della poesia epica, con un pentametro. Il termine è connesso dagli antichi al sostantivo elegos, che indica una forma di “lamento funebre”; per questo motivo in origine l’elegia avrebbe trattato temi melanconici e tristi. Nell’età arcaica, però, all’elegia risultano affidate composizioni dal contenuto molto più vario, tra le quali non troviamo esempi di lamentazioni funebri, bensì esortazioni al valor militare, riflessioni sulla politica, considerazioni sulla vita, strofe da cantare nei simposi. I principali poeti elegiaci sono Tirteo, Solone, Mimnermo, Senofane e Teognide.
Vissuto nella società eminentemente guerriera della Sparta della seconda metà del VII secolo a.C., Tirteone rispecchia alla perfezione gli ideali: le composizioni che ci sono state tramandate sono canti di guerra. La morte in battaglia è considerata un segno di onore; la sconfitta e l’esilio sono visti più negativamente della morte stessa; tutti, vecchi e giovani, devono dare il proprio contributo alla salvezza della patria e alla difesa del bene comune; non c’è niente che valga più del valor militare, né le vittorie nelle competizioni atletiche, né le capacità oratorie, né tantomeno la bellezza e la ricchezza. Se dobbiamo credere a quanto riferisce l’oratore ateniese Licurgo, e cioè che gli Spartani sono obbligati per legge ad ascoltare la recitazione delle elegie di Tirteo prima di affrontare una battaglia, si comprende benissimo quale distanza separi la nostra concezione della poesia da quella degli antichi.
Anche per l’ateniese Solone la poesia è principalmente un’attività pragmatica, che non può andare disgiunta dalla vita. Nato intorno al 640 a.C. da una famiglia nobile, partecipa attivamente alla vita politica della sua città, ricoprendo nel 594 a.C. la carica di arconte con poteri straordinari, che usa per riformare la costituzione ateniese con l’obiettivo di promuovere la concordia tra tutti i cittadini e rimuovere alcune barriere che separano le diverse classi sociali. Nel suo componimento più ampio, l’elegia Alle Muse, Solone espone la sua visione della vita in una sorta di testamento spirituale; nelle sue composizioni più marcatamente politiche egli accusa i demagoghi ingiusti, difende i provvedimenti presi, critica il popolo che si lascia affascinare dalle parole dei politici di professione. Ma le incombenze professionali non gli impediscono di gustare le gioie della vita: se i suoi rivali sono persone che non sanno godere dei piaceri del simposio, egli dichiara apertamente di apprezzare le opere di Afrodite (l’amore), di Dioniso (il vino) e delle Muse (il canto e la poesia), che sono fonte di felicità per gli uomini.
A dimostrazione che gli argomenti cantati dalla poesia elegiaca sono molteplici sta la figura di Mimnermo, che gli antichi conoscono come cantore sia delle imprese militari dei Greci che hanno colonizzato le coste dell’Asia Minore, sia delle passioni d’amore. Per noi moderni, però, Mimnermo è soprattutto un poeta amoroso: i suoi tre frammenti più celebri mettono a confronto le calde gioie dell’amore con la disperazione che colora di nero la vecchiaia.
Anche Senofane, originario come Mimnermo dell’Asia Minore, è una personalità complessa: filosofo e poeta insieme, rapsodo e sapiente, esprime in alcuni frammenti la sua critica alle concezioni tradizionali – testimoniate nei poemi omerici – che attribuiscono alla divinità caratteristiche fisiche e morali proprie degli esseri umani. Ma Senofane raggiunge i suoi risultati poetici più alti quando canta i piaceri del simposio: il frammento più ampio che possediamo è la descrizione dei preparativi di un banchetto, di cui mette in risalto non solo l’atmosfera sacrale, ma anche la cornice festosa, piena di canti e di allegria.
Ed è proprio il simposio la cornice che racchiude i componimenti elegiaci pervenutici sotto il nome di Teognide, poeta di famiglia aristocratica vissuto nel VI secolo a.C. Le sue elegie affrontano tutti i temi caratteristici della poesia conviviale: l’amore, il vino, la politica. A queste riunioni simposiali partecipano infatti uomini legati dalla stessa visione della vita, uniti dai medesimi ideali. Per quanto molto eterogeneo, il corpus teognideo presenta alcuni argomenti ricorrenti: una concezione della vita rigidamente classista, che vede gli agathoi (i nobili di sangue) contrapposti ai kakoi (i ceti emergenti, che proprio in quegli anni prendono il potere e rovesciano le vecchie gerarchie); le turbolenze causate dalla strenua lotta per la conquista del potere; le sofferenze provocate dall’esilio; le norme che regolano il simposio; la necessità di bere il vino nella giusta misura.
Le elegie di Teognide hanno un destinatario: si tratta del giovane Cirno, figlio di Polipao, amato dal poeta nonostante i suoi continui tradimenti e la sua scarsa fedeltà. Insieme al tema simposiale, l’amore è il fil rouge che tiene insieme la raccolta – proprio quell’amore che, molti secoli dopo, sarà il contrassegno distintivo dell’elegia latina di Catullo, Tibullo, Properzio e Ovidio.
Tra gli autori che creano le loro composizioni per cantarle con l’accompagnamento della lira o di analoghi strumenti a corde, assai celebri sono alcuni poeti originari di Lesbo, un’isola abitata da popolazioni di lingua eolica che si trova davanti alle coste della Troade.
Di due di questi poeti, Terpandro e Arione, sappiamo molto poco: il primo, nato ad Antissa, è considerato l’inventore della cetra a sette corde ed è molto attivo a Sparta nella prima metà del VII secolo a.C., dove fonda una scuola di musica; il secondo, nato a Metimna, è un celebre citaredo professionista vissuto alla fine del VII secolo a.C., noto soprattutto per la leggenda che lo vuole gettato in mare dai pirati e tratto in salvo da un delfino rimasto affascinato dal suo canto.
Molto più conosciuti sono senz’altro Saffo e Alceo, gli altri due poeti che praticano la cosiddetta “melica” monodica, componendo poesia cantata (la parola melos significa “canto”) ed eseguendola da soli. Contemporanei, nati tra il 640 e il 630 a.C., sono entrambi membri dell’aristocrazia locale. La loro poesia è composta per due pubblici diversi e viene eseguita in occasioni e circostanze differenti.
Il centro della vita di Saffo è il tiaso, una sorta di associazione culturale e religiosa femminile che la poetessa dirige. In questa “scuola”, Saffo ha il compito di educare le sue allieve ai valori che la società aristocratica richiede alle ragazze destinate a diventare mogli e madri: l’amore, la grazia, il canto e la musica. Nelle liriche di Saffo sono descritte le tappe più significative che scandiscono la vita del tiaso: le feste comuni, le danze, le preghiere ad Afrodite, la nascita dei sentimenti d’amore tra le allieve (e la maestra), il dolore provato per la partenza delle ragazze che, divenute adulte, lasciano il tiaso per sposarsi, la celebrazione del rito nuziale. Sui sentimenti che legano Saffo e le sue allieve si è molto discusso, ma sembra davvero impossibile negare che la passione avesse risvolti solo spirituali. La precisione e la concretezza con la quale la violenza di Eros viene descritta nei frammenti che ci sono rimasti non lascia adito a dubbi: il rapporto maestra-allieva presenta caratteristiche molto simili a quelle che contraddistinguono l’analogo rapporto maestro-allievo in altre regioni della Grecia, come la stessa Atene classica, dove l’iniziazione ai riti d’amore è un momento essenziale della funzione pedagogica e, in quanto tale, accettato e condiviso dalla società antica.
La ricca produzione di Saffo, che gli alessandrini hanno diviso in nove libri, ci è pervenuta soltanto attraverso frammenti papiracei e citazioni di diversa lunghezza. L’unico componimento completo è l’Ode ad Afrodite che apre il primo libro, citata dal retore Dionigi di Alicarnasso; nelle sette strofe la poetessa si rivolge alla dea dell’amore chiedendole aiuto per guarire da un amore non corrisposto (fr. 1 Voigt).
Nelle poesie di Saffo compaiono anche alcuni riferimenti al suo mondo familiare: in un’ode supplica Afrodite di guarire le pene d’amore del fratello Carasso, perdutamente innamorato dell’etera egiziana Rodopi, e chiede alle divinità del mare di rendere meno pericoloso il lungo viaggio di ritorno che lo aspetta (fr. 5); in un’altra ricorda la sua unica figlia Cleide, “simile a fiori d’oro”, in cambio della quale Saffo non darebbe tutta la Lidia (fr. 132). Tra le altre poesie, meritano di essere ricordati gli epitalami, i canti corali che le compagne cantavano in occasione delle nozze di una di loro.
I carmi di Alceo sono invece composti per essere cantati davanti al pubblico esclusivamente maschile della cosiddetta “eteria”, il circolo aristocratico del quale il poeta fa parte; l’esecuzione avviene durante il simposio, quando il gruppo è radunato davanti al cratere colmo di vino. Dal momento che l’eteria è un’associazione spiccatamente politica, gran parte dei frammenti che ci sono rimasti consistono nelle violente accuse scagliate contro i nemici politici del poeta, che partecipa attivamente alle lotte che travagliano Lesbo tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Tra i suoi bersagli ci sono infatti tutti i personaggi che in quegli anni sono i signori assoluti dell’isola: il primo è Melancro, che viene ucciso quando Alceo è ancora un ragazzo; il secondo è Mirsilo, il tiranno contro il quale Alceo organizza una congiura (che fallisce, costringendolo all’esilio); il terzo è Pittaco, che prima cerca insieme al poeta di rovesciare la tirannia di Mirsilo e poi, con un repentino voltafaccia, diviene suo alleato, costringendo Alceo all’esilio per la seconda volta. Ma non esiste solo la passione politica nelle sue liriche: accanto all’odio per i nemici, Alceo canta anche le gioie della vita, l’amore e soprattutto il vino, consolazione delle disgrazie dell’uomo. La bevanda che Dioniso ha donato agli uomini (definita lathikades, “che fa dimenticare le sofferenze”) è l’unica medicina (pharmakon) in grado di curare le pene dell’uomo, ma anche lo strumento per verificare se l’animo di chi ci è davanti è schietto e sincero: ad Alceo risale probabilmente la prima attestazione del detto proverbiale noto con la formula latina in vino veritas (fr. 333 Voigt: “il vino è lo specchio dell’uomo”).
Come Saffo, anche Alceo ci è giunto attraverso papiri e citazioni: dei dieci libri pubblicati dai filologi di Alessandria restano circa 400 frammenti. I papiri ci hanno conservato tracce di alcune composizioni importanti, come il carme che ricorda il solenne giuramento violato da Pittaco (fr. 129); un altro testo significativo, la cosiddetta “allegoria della nave” (fr. 208a), nella quale il poeta paragona le travagliate sorti di Lesbo alle peripezie di una nave sorpresa in alto mare da una violenta tempesta, ci è stata conservata dall’autore delle Allegorie omeriche.
Il simposio è il luogo attorno al quale ruota anche la vita di Anacreonte, nato a Teo, sulle coste dell’Asia Minore, intorno al 570 a.C. Il suo contesto sociale è completamente diverso: ad Anacreonte la politica non interessa, perché la sua è la vita di un poeta “cortigiano”, che si fa ospitare presso le principali case regnanti del suo tempo. Per quasi quindici anni vive a Samo, alla corte di Policrate; alla sua morte passa ad Atene, dove regnano Ippia e Ipparco, i due figli di Pisistrato; dopo l’uccisione di Ipparco, assassinato nel 514 a.C. nel corso della celebre congiura capeggiata da Armodio e Aristogitone, Anacreonte si reca probabilmente in Tessaglia, presso la famiglia degli Alevadi. Delle sue poesie sono protagonisti affascinanti giovinetti come Cleobulo (per i quali egli dichiara la propria passione) e smaliziate ragazze come la “puledra” tracia (che lo stuzzica e gli si nega); vengono raffigurati personaggi ridicoli come il parvenu Artemone (che prima faceva una vita da poveraccio insieme ad altri disgraziati e ora si fa portare in giro in carrozza); vengono celebrati i piaceri della tavola, soprattutto se accompagnati da canti che celebrano i doni delle Muse e di Afrodite (e non le recitazioni di poemi che parlano di guerre e di contese). Come per Saffo e Alceo, anche la produzione di Anacreonte ci è pervenuta sotto forma di frammenti (non molti: poco più di 150, per un totale di circa 300 versi). A differenza di Saffo e Alceo, che scrivono le loro poesie nel dialetto eolico, Anacreonte compone i suoi carmi nel dialetto ionico (anche se sono presenti tracce di eolismi e di espressioni omeriche).
La poesia di Anacreonte gode di un grande successo, testimoniato da una serie di composizioni liriche, scritte a partire dall’ellenismo e continuate attraverso l’età romana fino al periodo bizantino, che imitano in modo convenzionale i motivi e le immagini della sua poesia: sono le cosiddette Anacreontiche, una sessantina di odi che, pubblicate per la prima volta nel 1554 come composizioni originali di Anacreonte, divengono così popolari da essere subito tradotte nelle principali lingue europee, suscitando una miriade di imitazioni.
Già all’interno dei poemi omerici compaiono numerosi accenni a canti corali accompagnati da musiche strumentali e movimenti coreutici (inni, lamentazioni funebri, imenei nuziali). Le più antiche attestazioni sicure di queste composizioni ci rimandano però a Sparta, la città che, nel corso del VII secolo a.C., ascolta i canti corali di Terpandro e Arione.
In quello stesso periodo esercita la sua attività professionale nel capoluogo della Laconia anche Alcmane, un poeta probabilmente originario di Sardi, in Asia Minore. Un papiro, ritrovato tra le sabbie dell’Egitto e conservato al Louvre, ci ha consegnato ampi resti di un partenio: se le parti meno leggibili trattavano probabilmente vicende mitiche spartane e contenevano riflessioni moraleggianti sulla condizione umana, la sezione più completa descrive, invece, lo svolgimento di una festa. In questa parte (una settantina di versi) le fanciulle cantano la bellezza delle due compagne (Agidò e Agesicora) che guidano il coro, simili a cavalli, a metalli preziosi, agli astri. La struttura del canto si svolge secondo le modalità caratteristiche della lirica corale: una prima sezione dedicata al mito, una seconda che contiene sentenziose riflessioni di carattere generale, una terza rivolta all’attualità, collegate fra loro con trapassi più o meno bruschi.
Di carattere diverso sono invece le composizioni corali di un suo contemporaneo, Stesicoro, nato a Matauro, in Magna Grecia, e vissuto a lungo in Sicilia. Suonatore di cetra e poeta professionista (il suo è un nome d’arte, che significa “colui che istituisce il coro”; il vero nome era Tisia), Stesicoro rimane per noi un autore ancora piuttosto oscuro, benché alcune recenti scoperte papiracee ci abbiano fatto conoscere ampi frammenti di carmi nei quali vengono raccontati alcuni episodi mitici (l’uccisione del mostro Gerione da parte di Eracle e la caccia del cinghiale calidonio); spesso le variazioni da lui inserite all’interno delle trame mitologiche offrono spunti interessanti ai poeti tragici ateniesi del V secolo a.C. La sua attività professionale è molto ampia: non compone solo canti corali in senso proprio (gli antichi gli attribuiscono l’invenzione della strofe triadica, lo schema metrico composto dalla strofe, dall’antistrofe e dall’epodo che è caratteristico degli epinici di Pindaro), ma anche carmi che egli esegue da solo accompagnandosi con la cetra.
Originario della Magna Grecia è anche Ibico, nato a Reggio da famiglia aristocratica intorno al 580 a.C. Gli antichi lo collocano all’interno della categoria dei poeti lirici corali – un’ipotesi che sembra confermata da un frammento papiraceo contenente un encomio a Policrate, il tiranno di Samo presso il quale Ibico vive nella seconda parte della sua vita. I due famosi frammenti che cantano l’amore del poeta per i fanciulli nell’ambito del simposio sembrano essere invece esempi di lirica monodica: nel primo (fr. 286 Page) Eros viene descritto come una condanna alla quale il poeta non riesce mai a sottrarsi in nessuna stagione dell’anno; nel secondo (fr. 287) Ibico, nonostante l’età avanzata, confessa di non saper resistere al richiamo dell’amore, come un anziano cavallo che, pur avendo già ottenuto numerose vittorie, decide di affrontare di nuovo le gare dei carri veloci.
Multiforme appare la personalità di Simonide, il poeta che per primo fa della sua abilità tecnica una vera e propria professione, offrendo i suoi servigi a chiunque sia in grado di pagarli profumatamente. Nasce a Ceo, nelle Cicladi, intorno alla metà del VI secolo a.C.; è ospite dei Pisistratidi ad Atene e degli Scopadi in Tessaglia; commemora i soldati ateniesi caduti a Maratona nel 490 a.C. con un famoso encomio funebre (fr. 531 Page); muore in Sicilia, ospite del tiranno Ierone I. Come per molti lirici dell’età arcaica, è per noi difficile farci un’idea precisa della sua arte: della sua ampia e variegata produzione, che comprendeva peani, ditirambi, epinici e treni, ci restano solo frammenti, spesso molto brevi e privi di contesto.
Siamo stati più fortunati con suo nipote Bacchilide, nato anch’egli a Ceo; grazie a due rotoli di papiri scoperti alla fine dell’Ottocento abbiamo potuto leggere resti più o meno completi di 14 epinici e di 6 ditirambi. Tra questi componimenti, il Ditirambo XVIII ha suscitato molti interrogativi per la sua struttura singolare: l’ode, che racconta il ritorno del giovane Teseo ad Atene, presenta un impianto drammatico, perché è recitata da due semicori (o forse da un solista che parla con un coro); per questo motivo la si è voluta vedere come una conferma dell’affermazione di Aristotele secondo il quale la tragedia è nata “da coloro che intonavano il ditirambo”. Se fosse così, esisterebbe un collegamento tra la poesia lirica dell’età arcaica e le forme poetiche caratteristiche del periodo classico, le cui più alte manifestazioni, i canti corali del teatro antico, non soltanto ne riproducono la struttura triadica già ricordata, ma, essendo scritte in un dialetto nel quale prevalgono le forme doriche, ne imitano anche la lingua.
La caratteristica più evidente della produzione corale di Bacchilide consiste nella maggiore semplicità rispetto alle arditezze stilistiche e contenutistiche del suo contemporaneo Pindaro, il lirico corale che noi conosciamo meglio perché i manoscritti medievali ci hanno permesso di leggere 45 epinici, i “canti per la vittoria” composti in onore degli atleti che avevano trionfato nelle principali competizioni sportive del mondo greco – nelle gare del pugilato e della lotta, nelle corse con i cavalli o col carro a Olimpia (le 14 Olimpiche), a Delfi, dove in onore di Apollo si svolgevano i giochi pitici (le 12 Pitiche), a Nemea, la località dell’Argolide dove, come a Olimpia, i giochi si tenevano in onore di Zeus (le 11 Nemee) o a Corinto, la città collocata sull’Istmo, sacra a Posidone (le 8 Istmiche).
Nato a Cinocefale, una cittadina della Beozia non lontana dalla capitale Tebe, nel 518 a.C., a soli vent’anni Pindaro esordisce come poeta professionista cantando la vittoria delfica del giovane tessalo Ippoclea nel diaulo (la “corsa doppia”) nella Pitica X, composta su commissione di Torace di Larissa, il capo della potente famiglia degli Alevadi; da allora in tutto il mondo greco, dalla Sicilia alla Tessaglia, dalle coste dell’Africa a quelle di Rodi, le famiglie dei vincitori pagano profumatamente per assicurarsi le prestazioni del poeta, perché celebri non soltanto i trionfi dell’atleta, ma anche le antiche virtù della sua stirpe. Il poeta li ricambia con le sue odi nelle quali mescola passato (le vicende mitiche) e presente (le vittorie agonali), traendone insegnamenti morali per il futuro. Col suo stile solenne e virtuosistico, seguendo un filo conduttore non sempre chiaramente visibile e passando da un argomento all’altro con quei salti logici noti col nome di “voli pindarici”, egli celebra i principi fondamentali dell’etica aristocratica, quelli di un mondo che, proprio negli stessi anni in cui il suo coetaneo Eschilo porta alla piena maturazione il nuovo genere letterario della tragedia, s’avvia inesorabilmente al declino.
Ma Pindaro non è soltanto autore di epinici. Nell’edizione del filologo alessandrino Aristofane di Bisanzio, la sua ricca produzione poetica comprende 17 libri: i quattro libri di epinici fanno parte, insieme agli encomi e ai treni, dei sei libri di canti profani; i canti religiosi (inni, peani, ditirambi, prosòdi, parteni e iporchemi) sono raggruppati in 11 libri. L’inno (perduto: ne rimane solo un breve riassunto in prosa) che apre la raccolta è dedicato a Zeus. Composto per gli abitanti di Tebe, è una solenne celebrazione della poesia: per bocca delle nove Muse, il poeta vi afferma che esse sono state create da Zeus su esplicita richiesta degli altri dèi, perché il costituirsi del nuovo ordine del mondo sotto la sua autorità indiscussa possa essere abbellito con le parole, con il canto e con la danza. Pindaro non avrebbe potuto trovare modo migliore per celebrare e nobilitare la propria arte.