La poesia tra tradizione e rinnovamento
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dopo Alessandro, il mondo greco, esteso fino all’India, si trova proiettato in una dimensione cosmopolita che, se da un lato spinge i letterati a sperimentare ed innovare, dall’altro li induce anche a volgere il proprio sguardo all’indietro, per recuperare e salvare tradizioni e testimonianze di un mondo ormai scomparso: non è un caso che i maggiori poeti ellenistici (la cui eredità sarà perpetuata per tutta l’età imperiale) siano spesso anche filologi.
Con il termine ormai tradizionale di “ellenismo”, coniato nel XIX secolo da Johann Gustav Droysen, si indica lo sviluppo storico-culturale della grecità a partire dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) fino alla battaglia di Azio (31 a.C.) o, in una prospettiva più ampia, fino a tutta l’età imperiale, arrivando a Giustiniano.
In questo periodo il mondo greco conosce una grande espansione, spingendosi fino all’India; mentre alle tradizionali strutture politiche si vanno sostituendo i grandi regni dei successori di Alessandro, l’orizzonte della polis è soppiantato dalle metropoli come Alessandria, Antiochia e, in misura minore, Pergamo. Presso le corti dei sovrani ellenistici sono condotti importanti studi scientifici in ambito medico, matematico e ingegneristico che conducono a risultati spesso sorprendenti (in alcuni casi, come è stato mostrato di recente, eguagliati solo nell’età moderna). Il sapere circola e nell’atmosfera di cosmopolitismo che caratterizza il periodo si diffondono culti iniziatici o misterici, spesso di origine orientale o egiziana. I dialetti greci tendono a dissolversi (salvo eventuali recuperi letterari da parte di eruditi) nella “lingua comune”, la koiné. Le vecchie scuole filosofiche resistono, affiancate però da nuovi indirizzi (lo stoicismo, l’epicureismo...) che privilegiano l’individuo, e non più lo stato, come oggetto primario del loro interesse.
Dal punto di vista della letteratura, nascono nuovi generi (come l’epigramma e il romanzo), mentre quelli vecchi vengono reinterpretati e rielaborati. Il rapporto con le opere del passato, però, rimane molto stretto: l’epoca ellenistica vede lo sviluppo delle grandi biblioteche, come quella di Alessandria, e la nascita di una nuova scienza, quella filologica, dedita allo studio delle opere letterarie e alla preparazione di edizioni affidabili, che sono alla base, per esempio, del testo dell’Iliade e l’Odissea, delle tragedie e delle commedie attiche, delle opere di Erodoto e Tucidide come le leggiamo oggi. E non è un caso che molti dei più importanti autori di epoca ellenistica siano anche filologi.
Il poeta simbolo dell’epoca ellenistica è sicuramente Callimaco di Cirene, attivo ad Alessandria e in stretti rapporti con la dinastia dei Tolomei e con i circoli eruditi che gravitano intorno al Museo per tutta la prima metà del III sec. a.C.
Celebre anche come filologo, cura personalmente l’edizione della propria opera e, soprattutto, si distacca programmaticamente dalla tradizione, soprattutto da quella epica, per costruire un codice nuovo.
A Omero viene preferito Esiodo, visto anche come maestro di veridicità; i cardini della nuova poetica sono la leptotes, la “finezza”, e la ricerca dell’originalità. Nella celebre conclusione dell’Inno ad Apollo il poeta contrappone il grande fiume assiro, imponente ma dall’acqua torbida e fangosa, alle purissime gocce d’acqua stillate da una sorgente sacra; in un epigramma altrettanto famoso dichiara di non voler bere alla “fontana comune”, e di disprezzare tutte le cose popolari. Callimaco, poeta dotto, gode di grande fortuna in età romana; la sua opera, sopravvissuta a Costantinopoli fino al disastro della quarta crociata nel 1204, è oggi ricostruibile (salvo che per gli Inni e gli epigrammi) sulla base di frammenti e di riassunti papiracei.
Pur nel naufragio della produzione callimachea, quello che resta è comunque sufficiente per apprezzare le peculiarità dell’autore. Sono rimasti per intero i sei Inni, che, pur prendendo le mosse dagli Inni omerici, arrivano a differenziarsene profondamente. Gli ultimi due, ad esempio, sono in dialetto dorico; il quinto è in distici elegiaci, e anche gli altri, pur essendo in esametri, presentano una metrica che obbedisce a una serie di regole caratteristiche. Anche dal punto di vista del contenuto, il distacco dalla tradizione è evidente: si fanno notare le digressioni erudite, i quadretti di vita quotidiana (spesso ironici), l’ispirazione che si rifà anche agli inni in metro lirico e alla prassi dell’elegia. Di particolare rilievo risultano l’Inno ad Apollo (II), dove si descrive la fondazione di Cirene e I lavacri di Pallade (V), con la narrazione dell’accecamento di Tiresia, colpevole di aver visto Atena nuda mentre si bagnava.
Dei quattro libri della raccolta di elegie nota come Aitia (letteralmente “cause”, nel senso di “origini” di luoghi, tradizioni, costumi) restano un centinaio di frammenti, molti dei quali papiracei. L’opera, che si apre con un prologo in cui il poeta si scaglia contro gli avversari della sua poetica, definiti Telchini (demoni malvagi che si riteneva abitassero nell’isola di Rodi) gode di grandissima fortuna presso i poeti latini. Nel III libro è trattata la storia dei due innamorati Aconzio e Cidippe, che sarà ripresa da Ovidio; nel IV compariva la celeberrima Chioma di Berenice, in seguito rielaborata da Catullo, storia del catasterismo (trasformazione in costellazione) di un boccolo offerto ad Afrodite dalla regina Berenice come auspicio per il ritorno del marito dalla guerra.
Callimaco
Il prologo degli Aitia
Il prologo degli Aitia
Da ogni dove i Telchini gracidano contro il mio canto,
ignari della Musa, cui non nacquero cari,
perché non un unico poema continuo ho concluso
o i re in molte migliaia di versi celebrando
o gli antichi eroi, ma per breve tratto volgo il mio carme,
come un bambino, e ho non pochi decenni.
Ma ai Telchini questo io rispondo: “Razza
che sa rodere solo il suo fegato!
… andate in malora, progenie di Malocchio funesta: da ora con l’arte
la poesia giudicate, e non con lo scheno persiano.
E non chiedete a me che un canto di grande fragore
produca. Tuonare non è compito mio, ma di Zeus!
… tra quelli cantiamo che il suono acuto
della cicala amano e non degli asini il grido.
Callimaco, Aitia, giambi e altri frammenti II, a cura di G.B. D’Alessio, Milano, BUR, 1997
Nell’edizione curata dall’autore, gli Aitia sono seguiti dai Giambi, 17 componimenti in metro vario. Dai frammenti e dai riassunti che ne restano, sembra che la varietà contenutistica fosse molto grande; nel primo componimento è evocata come ispiratrice la figura del poeta Ipponatte.
Di grande rilevanza era poi l’Ecale, un “epillio” (letteralmente, “piccolo poema epico”), che costituisce una narrazione continua in esametri molto distante, però, dalla tradizione epica precedente. Lo spunto è offerto infatti da un episodio marginale della vicenda di Teseo, nel quale l’eroe, in viaggio per combattere il toro di Maratona, viene ospitato da un’umile vecchietta, Ecale, che morirà il giorno dopo. In suo onore Teseo istituisce il demo di Ecale e il tempio di Zeus Ecaleio: si tratta del consueto motivo eziologico (riferito alle origini, in questo caso di un toponimo e di un luogo di culto) così caro al poeta.
Callimaco scrive anche varie opere erudite e filologiche in prosa, come i Pinakes, le “Tavole”, in 120 libri, un immenso catalogo ragionato degli scritti conservati nella Biblioteca di Alessandria e non solo.
Tra gli altri poeti dotti alessandrini che si dedicano in particolare all’elegia occorre ricordare innanzitutto Filita (o Fileta) di Cos, più anziano di Callimaco, autore tra l’altro di una raccolta di componimenti amorosi dedicati ad una certa Bittide che si rivela molto influente per lo sviluppo dell’elegia romana. Filita è anche filologo e si dedica soprattutto all’esegesi di Omero.
Ermesianatte di Colofone scrive la Leonzio, un poema in tre libri che narra varie storie d’amore (non solo mitiche: frequenti sono i riferimenti a poeti e filosofi) finite più o meno tragicamente, con lo scopo di illustrare la potenza di Eros. I vari episodi sono intrecciati con le considerazioni personali dell’autore, che peraltro si richiama programmaticamente ad Esiodo.
Le storie d’amore, esclusivamente però nella loro accezione pederotica, sono al centro anche della produzione di Fanocle, di cui si ricorda il poema Gli amori o i belli, incentrato in particolare sui personaggi del mito. Tra i frammenti sopravvissuti è particolarmente rilevante il primo, in sé compiuto, dove vengono narrate le disavventure di Orfeo, ucciso dalle donne di Tracia perché si era innamorato del giovinetto Calai. Dopo averlo fatto a pezzi, ne gettano in mare la lira e la testa, che i flutti conducono a Lesbo, da allora divenuta l’isola del canto per antonomasia. Risulta evidente, anche in questo caso, la presenza del motivo eziologico.
L’ultimo esponente dell’elegia ellenistica è considerato Partenio di Nicea, attivo nel I secolo a.C., amico di Catullo e precettore di Virgilio. Influenzato da Callimaco, della sua produzione poetica non resta praticamente nulla, ma sopravvivono invece i Patimenti d’amore, una raccolta in prosa di 36 storie d’amore finite male, composta per il proprio patrono Cornelio Gallo e molto utilizzata in seguito dai poeti latini.
In età ellenistica e poi imperiale, nonostante le riserve di Callimaco, la produzione di poesia epica continua. Quasi tutto è andato perduto, in particolare i poemi di carattere più tradizionale che spesso avevano una circolazione limitata; sopravvivono invece le Argonautiche di Apollonio Rodio, frutto di un’estrema elaborazione e di un ripensamento profondo della struttura convenzionale dell’epos, che influiscono profondamente sullo stesso Virgilio. L’autore, attivo nell’Alessandria del III secolo a.C., probabilmente è anche direttore della Biblioteca e precettore di Tolemeo III Evergete.
Nei quattro libri delle Argonautiche, l’unica opera conservata di Apollonio (è anche autore di componimenti eziologici e riguardanti la fondazione di varie città), vengono trattate le vicende degli Argonauti a partire da un catalogo dei naviganti, per proseguire con il viaggio verso la Colchide e l’arrivo presso il re Eeta. Qui il capo della spedizione, Giasone, grazie all’aiuto di Medea (la figlia del re, che si è innamorata di lui) riesce a superare le durissime prove che gli vengono imposte e sottrae il vello d’oro, lo scopo del suo viaggio. L’ultimo libro tratta delle intricate peripezie riguardanti il ritorno a casa degli Argonauti.
Qualificano le Argonautiche come opera della prima e più feconda età ellenistica i molteplici e raffinati richiami eruditi (anche a questioni filologiche), il districarsi tra diverse varianti mitiche, la continua volontà di variazione a partire dagli stilemi omerici, gli interventi in prima persona dell’autore (forse ispirati dalla lirica), la contaminazione con generi differenti (primo tra tutti la tragedia: la stessa strutturazione in quattro libri sarebbe un richiamo alle tetralogie tragiche). Del tutto notevole anche l’approfondimento psicologico, in particolare del personaggio di Medea, e il ridimensionamento del ruolo dell’eroe, che nel caso di Giasone mostra tutte le sue inadeguatezze. Lo stesso “passo” del racconto risulta variabile e disgiunto dalla cronologia della storia: alla lentezza dei primi due libri, che descrivono l’avvicinamento degli Argonauti alla Colchide disperdendosi in varie digressioni, segue la nitida narrazione della vicenda d’amore di Giasone e Medea; la fuga e il ritorno degli eroi presentano infine un ritmo incalzante e una struttura talora ellittica.
La tradizione di una sua rivalità con Callimaco oggi viene considerata con sospetto, dal momento che un’analisi attenta dell’opera di Apollonio rivela come il suo poema sia decisamente più originale e meno dipendente dalla tradizione di quanto si era supposto.
La produzione epica prosegue lungo tutto il corso dell’età ellenistica, per spingersi fino alla fine dell’età imperiale. Risulta conservata una serie di opere, perlopiù relative all’ultimo periodo, dall’interesse assai diseguale. L’epillio, contaminato con l’elegia e probabilmente con il romanzo, viene praticato da Museo che compone Ero e Leandro, la celebre storia di due amanti divisi dall’Ellesponto e destinati a una fine tragica. Molto frequentate rimangono le tematiche omeriche: si possono ad esempio ricordare i 14 libri dei Posthomerica (letteralmente “Avvenimenti posteriori a Omero”) di Quinto Smirneo (probabilmente vissuto nel IV secolo), dove, in maniera sovente prolissa, vengono trattati gli avvenimenti che vanno dall’indomani della morte di Ettore, con l’arrivo a Troia di Pentesilea, regina delle Amazzoni, fino alla distruzione della città e alla partenza dei Greci. Quinto, che attinge a diverse fonti (cosa che talora provoca incongruenze all’interno del poema), mostra un gusto per dettagli patetici e macabri tipico della sua epoca. Sono conservati anche due poemetti di argomento omerico attribuiti a due poeti egiziani (come molti di quelli attivi nella tarda antichità): si tratta della Presa di Ilio di Trifiodoro e del Rapimento di Elena di Colluto.
Tra gli epici perduti, probabilmente aveva un’importanza particolare un altro egiziano, Soterico di Oasi, vissuto all’epoca di Diocleziano, che compone un Alessandriaco relativo alla conquista di Tebe da parte di Alessandro e poi quattro libri di Bassariche, relativi alle vicende di Dioniso. Forse costituisce una fonte di ispirazione per l’ultimo grande poeta epico dell’antichità greca, Nonno di Panopoli, vissuto con ogni probabilità nella prima metà del V secolo. L’opera principale di Nonno è costituita dalle Dionisiache, immenso poema in 48 libri (la somma dell’Iliade e dell’Odissea) incentrata sulla spedizione di Dioniso in India contro il re Deriade, ma proiettata contemporaneamente all’indietro (a partire dalle vicende di Cadmo, antenato del dio) e in avanti, con il ritorno dell’armata bacchica in occidente. La storia, peraltro, tende ad essere spesso rallentata da una grande varietà di episodi secondari, sviluppati in forma di epillio. Questo ha fatto spesso parlare di mancanza di unità del poema, ma occorre tenere presente che per l’autore una simile frammentazione costituiva in realtà un pregio. Alla base della poetica nonniana c’è, infatti, la poikilia, la “varietà di colori” che trova un esatto riscontro nella lingua lussureggiante (caratteristico l’uso dei composti) e nel ritmo sovente concitato e incalzante. Tutto ciò ha fatto spesso parlare di una cifra stilistica “barocca” e in effetti si possono riscontrare alcune consonanze con la produzione poetica seicentista, al punto che, com’è noto, dalle Dionisiache (conosciute peraltro solo in traduzione latina) trae vari spunti Giovambattista Marino per il suo Adone.
Nonno di Panopoli
Dionisiache I 11-21, 29-33
Dionisiache, Libro I, 11-21, 29-33
Portatemi la ferula, scuotete i cembali, Muse,
e datemi nelle mani il tirso di Dioniso, che ispira il canto.
Evocate per me l’immagine di Proteo multiforme…
perché appaia nella varietà
dei suoi aspetti, ché un inno variegato voglio intonare.
Se, sotto forma di serpente, striscia avvolgendosi nelle sue spire
canterò la divina battaglia in
cui col tirso avvolto d’edera
fece a pezzi le raccapriccianti orde dei Giganti dai capelli serpigni;
se, divenuto leone, scuote sul collo l’irsuta criniera,
celebrerò con grida di evoè Bacco, che fra le braccia della terribile Rea
cerca di attaccarsi furtivamente al seno della dea nutrice di leoni…
se imita l’acqua, canterò Dioniso che s’immerge
nel profondo del mare davanti all’assalto di Licurgo;
se mormora come un albero scosso dal vento,
ricorderò Icario e la danza dei suoi piedi
che a gara premono i grappoli nei tini ebbri.
Nonno di Panopoli, Le Dionisiache, a cura di D. Gigli Piccardi, Milano, BUR, 2003
A Nonno è attribuita anche la paternità di un ulteriore componimento in esametri, la Parafrasi del Vangelo di Giovanni in 21 canti, la cui ispirazione sembra apparentemente contrastare con quella delle pagane Dionisiache. I vari tentativi di risolvere questa apparente contraddizione hanno generato una vera e propria “questione nonniana”: si è ipotizzato ad esempio che la Parafrasi fosse frutto di una conversione tardiva (ma questo sembra smentito dalle analogie stilistiche tra i due poemi), oppure le Dionisiache sono state viste come frutto di un gusto antiquario; sembra comunque certo che alla figura di Nonno (per il quale è stata anche argomentata l’identificazione con un vescovo di Edessa) debbano essere attribuiti tratti di sincretismo non assenti nella religiosità dell’epoca tardo antica.
Se Omero è considerato l’ispiratore della poesia epica, Esiodo è visto come l’antesignano della poesia didascalica, nella quale gli insegnamenti sono veicolati, originariamente per favorirne la memorizzazione, in forma metrica. Si sostiene spesso, peraltro, che in epoca ellenistica l’originaria funzione didattica risulti ormai minoritaria e sia in atto una vera e propria deriva per la quale l’argomento dei poemi, spesso peregrino, è solo un pretesto per mostrare il virtuosismo esasperato del poeta. Una concezione di questo tipo è presente anche nell’antichità: un aneddoto spurio che vede protagonisti i due più celebri rappresentanti del genere vuole che il re Antigono di Macedonia incarichi Arato, esperto di medicina, di scrivere un poema sull’astronomia; a Nicandro, cultore di astrologia, commissiona invece componimenti su veleni e antidoti.
In realtà non è sempre possibile generalizzare in questo senso: almeno nel caso di Arato di Soli, attivo nella prima metà del III secolo a.C., occorre ricordare che i Fenomeni, il celebre poema astronomico, viene effettivamente utilizzato come sussidio per l’insegnamento, accompagnato, secondo l’uso antico, da ampi commentari (un parallelo più tardo può essere individuato nel fortunato poema geografico di Dionigi il Periegeta, attivo nel II secolo). Arato ricorre alla varietà stilistica e ad excursus mitologici (in genere brevi, ma talora di respiro più ampio, come nel caso della celebre digressione sulla giustizia) per alleggerire l’esposizione e il suo successo è enorme, come dimostrano le traduzioni e le parafrasi latine, nonché il fatto che i Fenomena siano citati anche negli Atti degli Apostoli: san Paolo ne riprese un verso durante la sua celebre allocuzione agli Ateniesi.
Decisamente più lambiccati, nella forma e nel contenuto, si rivelano invece i due poemi sopravvissuti di Nicandro di Colofone (II sec. a.C.), i Theriaka (“Rimedi contro gli animali velenosi”) e gli Alexipharmaka (“Contravveleni”). Curiosi per l’argomento trattato (notevoli le descrizioni dei serpenti e dei ragni), sono però estremamente ardui per il lessico e anche per l’identificazione delle varie specie animali e vegetali cui si allude: non è un caso che, nella tradizione, siano accompagnati da un cospicuo corpus di scolii.
Teocrito di Siracusa è considerato, insieme a Callimaco e ad Apollonio Rodio, il terzo grande poeta ellenistico. Attivo ad Alessandria (forse dopo un soggiorno nell’isola di Cos, dov’era attiva una scuola poetica) nella prima metà del III secolo a.C., si distingue per l’estrema varietà della sua produzione, sia dal punto di vista delle forme (pratica l’epillio e il mimo e inventa un nuovo genere, quello del carme bucolico), sia da quello della lingua (scrive in ionico omerico, in dorico, in eolico) e della metrica e pratica frequenti commistioni tra generi.
Il complesso dei suoi carmi era noto nell’antichità col nome generico di “idillio”, il cui significato letterale è quello di “piccolo componimento”. Successivamente, tuttavia, l’uso del termine è stato ristretto ai componimenti più celebri e caratteristici della produzione teocritea, ossia quelli a carattere bucolico. I pastori e la loro vita, in un contesto non artificioso ma comunque filtrato dalle reminiscenze erudite, sono al centro della poesia bucolica; non mancano veri e propri topoi come la gara di canto, che ricorre frequentemente nel corpus teocriteo. Il primo idillio della raccolta (la collocazione, per quanto non risalente allo stesso autore, è comunque significativa) descrive il canto del pastore Tirsi, che ricorda il dolore universale in occasione della morte di Dafni: si tratta di un mito solamente accennato e per noi sfuggente, ma che evidentemente doveva essere ben noto all’uditorio del poeta. Questo carme costituisce dunque una sorta di proemio di ampio respiro, pur all’interno di una rustica cornice pastorale; un ruolo decisamente programmatico sembra avere poi il settimo idillio, tradizionalmente noto come Le Talisie. L’azione è ambientata a Cos, dove sono in corso, per l’appunto, le feste Talisie in onore di Demetra. Simichida, l’alter ego di Teocrito, si cimenta in una gara di canto col capraio Licida, che probabilmente adombra una figura divina. Licida proclama, in una professione di poetica analoga a quella callimachea, di “odiare l’artefice che costruisce un edificio grande come una montagna” e, alla fine, a sancire una sorta d’investitura, dona a Simichida il suo bastone come “dono delle Muse”. Negli altri idilli bucolici propriamente detti compaiono per la prima volta temi che godranno di immensa fortuna nella letteratura latina (si pensi in particolare a Virgilio) e anche nella moderna imagerie arcadica: il canto d’amore campestre, le vicende di Polifemo e Galatea, l’evocazione della vita rurale che, contrariamente a quanto avverrà per molti imitatori successivi, è ancorata a una conoscenza effettiva.
Altri carmi del corpus teocriteo, come accennato, si rifanno invece al genere dell’epillio, del “piccolo epos”: tra i più noti, quello che tratta delle vicende di Ila (XIII), il giovinetto amato da Eracle rapito dalle ninfe, che sembra alludere al primo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio, e quello dedicato all’infanzia di Eracle (XXIV), caratteristico per l’ambientazione “borghese” della casa di Anfitrione; non mancano nemmeno carmi di gusto eolico che, anche nella tematica (l’amore pederotico, il vino, il simposio), rimandano raffinatamente ad Alceo. Nel corpus sono compresi anche componimenti che si rifanno al genere del mimo, con raffinate descrizioni di eventi di vita quotidiana, e all’epigramma, il carme breve ed incisivo che gode di immensa fortuna in età ellenistica.
Tra i seguaci della maniera teocritea emerge sicuramente il nome di Mosco di Siracusa, attivo nel II secolo a.C., del quale restano alcuni epigrammi e, soprattutto, due brevi carmi destinati a godere di una certa fortuna. Il primo, l’Europa, è un epillio dove viene descritto il celebre episodio del rapimento di Europa da parte di Zeus trasformato in toro; la grazia un po’ leziosa dei suoi 166 versi è stata assimilata, non senza ragione, a un componimento rococò. Una raffinata civetteria pervade poi l’Eros fuggitivo, un proclama in cui Afrodite chiede notizie del figlio scomparso offrendo maliziose ricompense.
Profondamente ispirato a moduli teocritei è infine l’Epitafio di Adone di Bione di Smirne, componimento artificioso che tuttavia, nei suoi ritornelli e nella riuscita narrazione dell’agonia dell’eroe raggiunge un fascino quasi ipnotico. Bione gode di una certa fama, come testimonia anche l’esistenza di un Epitafio di Bione scritto da un suo seguace ed erroneamente attribuito a Mosco.