La poesia
Apparso nel febbraio 1936, inserito come numero VIII nella serie dei Saggi filosofici, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura fu ideato nella seconda metà del 1934 ed elaborato nel corso del 1935, come ci informano le note dei Taccuini di lavoro: il 14 gennaio 1935 vi si accenna a già esistenti «appunti per il disegno del libro sulla Poesia», mentre il giorno successivo si nota: «Rifatto schema della Poetica, in modo che mi pare soddisfacente» (Galasso 1994, p. 368). Tra l’autunno del 1934 e l’inizio del 1935 si infittiscono le note su un’ampia e varia serie di letture funzionali alla riflessione sul nuovo libro, mentre nei mesi successivi Croce mette insieme schede e appunti di ogni genere, dando inizio alla redazione vera e propria a Meana alla fine di luglio e proseguendo nel mese di agosto. L’8 settembre cominciava la stesura delle Postille, destinate a costituire un fitto corredo ai quattro capitoli della trattazione vera e propria. Al ritorno a Napoli il 25 ottobre iniziò la definitiva sistemazione del volume, di cui il 28 novembre si avviava la correzione delle bozze, licenziate definitivamente il 25 gennaio 1936. La tempestiva uscita del libro in febbraio era peraltro preceduta di pochissimo dalla pubblicazione dei primi due capitoli sulla «Critica» (1936, 34, pp. 1-30). Una seconda edizione apparve subito nel 1937, mentre alla terza edizione, apparsa in piena guerra nel 1943, furono aggiunte 34 nuove Postille (su tutte queste vicende, cfr. Galasso 1994).
Questo libro si presenta come il punto di approdo, sistemazione definitiva di un pensiero estetico comunque aperto a ulteriori precisazioni, conferme, arricchimenti: nel cuore degli anni Trenta, mentre l’Italia era proiettata nell’avventura etiopica, La poesia.viene a riconnettersi, in una sorta di tensione ‘finale’, alla pietra fondante della filosofia e del magistero intellettuale di Croce, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902 (che era stata preceduta dalle Tesi di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1900). Questo carattere conclusivo sarebbe stato così sottolineato nell’“Appendice” del 1941 al Contributo alla critica di me stesso:
Il mio libro sulla Poesia tratta di proposito e a fondo la distinzione, che era già nei miei lavori precedenti, della poesia dalla letteratura, non rimanendo io pago alla semplice negazione della letteratura in rapporto alla poesia ma ricercando e in certo senso rivendicando il carattere positivo di essa, l’ufficio che ha adempiuto nei secoli e che ancora oggi adempie, e così dando assetto ben altrimenti solido al distacco che è da segnare e mantenere tra le due (Contributo alla critica di me stesso, 1918, a cura di G. Galasso, 1989, p. 96).
La stessa Appendice, dopo aver fatto riferimento al vicino Poesia antica e moderna (1941), definito «quasi come appendice esemplificatrice del precedente», notava come il carattere conclusivo di queste e delle altre opere degli ultimi anni avesse suscitato nell’autore «un vago senso di non aver altro ormai da fare per l’incremento degli studi»: ma poi respingeva subito l’ipotesi che potesse trattarsi «di malinconia e di tristezza» o addirittura di «desolazione». Quel «vago» turbamento così sfiorato veniva superato dalla considerazione che «l’aver terminato il compito della propria vita apporta primamente soddisfazione e insieme un pensiero di gratitudine verso la Provvidenza» (p. 96), per aver essa permesso di attuare quanto si era intravisto nella giovinezza: e da questa soddisfazione scaturiva la fiducia in un tranquillo prolungarsi del proprio «fare», in una vigile osservazione della realtà, sostenuta da un fitto susseguirsi di ulteriori studi filosofici e letterari.
La poesia si proietta comunque su una misura di compimento, come l’autore avvertiva nel corso stesso della sua elaborazione, indicandola come il suo «testamento di critico letterario» (lettere ad Ada Gobetti, 14 genn. 1935, e a Giovanni Castellano, 15 giugno 1935, cfr. Galasso 1994, p. 374): in un contesto dominato dalla «malinconia» per l’orizzonte politico, per la sempre più dura fascistizzazione della società e della cultura italiana. Nella costruzione stessa del libro, entro il sereno e pacato svolgersi della sua prosa, nel suo procedere così sicuro e tranquillo, si può scorgere il sotterraneo vibrare dell’inquietudine che in quegli anni sottende tutta l’operosità di Croce: inquietudine proiettata e superata nella convinzione della resistente razionalità della vita dello spirito, della necessità della persistenza dell’umano nella sua universalità.
Da vari documenti, oltre che dalle note dei Taccuini citate all’inizio, risulta che nelle prime fasi di elaborazione si prospettava anche il titolo Poetica, che sembra più direttamente prendere in considerazione tutto l’insieme di dati culturali, tutto l’orizzonte di gusto e di coscienza di sé che costituisce la condizione dell’operare poetico; e che in questo modo sembra rivelare l’intenzione di confronto con una categoria che assumeva particolare rilievo nella pratica poetica contemporanea, alla quale Croce aveva precedentemente guardato con una certa sufficienza. Accennando agli «estetici» che «compongono ancora trattati sull’estetica» di arti e ambiti specifici, aveva notato che le estetiche della poesia «recano […] il vecchio nome di Poetiche» (Breviario di estetica, 1913, poi in Nuovi saggi di estetica, 1991, p. 49). Del resto, la nozione di poetica stava variamente sollecitando l’esercizio critico di quegli anni, sia con l’attenzione che, anche in ambito ‘crociano’, le rivolgeva Luigi Russo, sia con l’impegno di giovani studiosi: proprio nello stesso 1936 ne avrebbero fatto ampiamente uso La poetica del decadentismo italiano di Walter Binni, allievo di Russo, e, in un diverso orizzonte fenomenologico, Autonomia ed eteronomia dell’arte: sviluppo e teoria di un problema estetico di Luciano Anceschi.
La provvisoria emergenza del titolo Poetica si lega, d’altra parte, all’intenzione centrale del libro, che risiede nella volontà di fare chiarezza sulla distinzione tra poesia e letteratura, già variamente in atto nella riflessione e nella pratica critica crociana: tutto ciò nel quadro di una sistemazione finale del proprio pensiero estetico, che, pur continuando a rivolgersi all’intero orizzonte delle arti, lo illuminasse dal punto di vista di quell’arte con cui l’autore aveva la più lunga e provata familiarità, su cui aveva esercitato il più lungo impegno di critico e interprete, rivolto insistentemente a discernere poesia e non poesia, con un lavoro infaticabile che era ancora in atto e che sarebbe proseguito anche negli ultimi anni. Nelle pagine conclusive di questo nuovo libro veniva d’altra parte sottolineato che a guidare l’autore era stata «non la Poetica, ma l’Estetica, con tutta la filosofia in cui s’inquadra» e si affermava che in esso non c’era proposizione che non fosse «proposizione estetica generale», per la coincidenza del nucleo profondo della poesia con quello delle altre arti, dato che in ogni arte valgono «i concetti medesimi dell’Estetica», pur attraverso specificazioni diverse. Nelle ultime parole della Poesia, l’assunzione del punto di vista della poesia come risolutivo approfondimento del pensiero estetico crociano veniva giustificata con questo misurato richiamo personale:
E poiché gli amatori di poesia e i suoi critici e storici sono in certa misura specificati, e delle cose della poesia e delle difficoltà che vi s’incontrano hanno maggiore pratica che non di quelle delle altre arti, da ciò è nato questo libro per parte di uno scrittore che già ampiamente ha trattato dell’Estetica in riferimento a tutte le arti, ma che anche lui, nella sua qualità di ormai vecchio e (vuole sperare) non inesperto critico e storico, ha più lunga dimestichezza con la poesia e con la letteratura (La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, a cura di G. Galasso, 1994, p. 190).
Questa «più lunga dimestichezza» ci riconduce, in fondo, al fatto che, anche nel suo presentarsi come estetica e linguistica «generale», l’estetica crociana costruisce fin dall’inizio i suoi principi di base sul modello della poesia, guarda alla poesia come scaturigine della «conoscenza intuitiva». Le sue categorie fondamentali, le distinzioni che ne scaturiscono, vengono per così dire estratte dall’esperienza della poesia, dal particolare orizzonte in cui la cultura, il gusto, la vitalità, il sentimento di Croce percepiscono la poesia: è il sentire della poesia, la sostanza umana della poesia a rivelare il senso e i caratteri, la sostanza di ogni sentire artistico. I termini che variamente e con progressive specificazioni Croce usa per definire e determinare il carattere dell’intuizione estetica, partendo dal rilievo centrale che nella prima Estetica assumeva l’immagine, si svolgono e si approfondiscono tutti a partire dal modello poetico: espressione, liricità, sentimento, bellezza, cosmicità, armonia e così via. Questi termini riconducono in ultima analisi a quella che chiamerei l’attitudine percettiva crociana verso la poesia, l’implicita spinta esistenziale, la vibrazione che sorregge l’apparentemente tranquillo procedere del pensiero, che motiva le scelte e i rifiuti dello studioso e del critico, ma ne fa anche la forza, l’assoluto rilievo. E se nella Poesia si muove verso un riconoscimento della legittimità e del rilievo culturale e storico del non poetico, verso la definizione dello spazio della letteratura, collegato alla poesia, ma anche separato da essa, Croce rivendica comunque la continuità del suo pensiero, pur nell’intenzione di superare il giovanile «estremismo» della prima Estetica, tenendo conto delle acquisizioni e distinzioni proposte nei numerosi saggi degli anni successivi e nel lungo confronto critico con la grande tradizione poetica e letteraria. Il punto centrale di questa continuità è dato proprio dalla persistenza e dall’approfondimento della fondamentale istanza legata al concetto di intuizione: la spinta a sentire la grande arte e la grande poesia come aperture verso un punto assoluto, voci di un quid irresolubile in un ambito logico e concettuale, ragione sottratta al controllo totale della ragione.
Pensiero estetico e critica di Croce tendono a percepire l’arte come espressione del nucleo di senso dell’esperienza, sentimento della vita nel suo rivelarsi aurorale, suo cuore interno, respiro del significato interno del mondo: fondo del vivere che sfugge alla ragione, conoscere che si esprime nella purezza dell’intuizione, precedendo la conoscenza logica, ma che non equivale in nessun modo a un’immersione nell’irrazionale; è istanza essenziale della vita dello spirito, quasi sua struttura fondante, da cui prendono respiro tutte le sue forme. E Croce tende a ricondurre questa individuazione delle forme artistiche a una sorta di «senso comune», come svolgimento in termini filosofici di una percezione estetica comune, di quello che appare un generale modo umano di sentire il senso dell’arte: qualcosa che egli crede di ritrovare in tutte le epoche, al di là dei limiti storici, cioè una disposizione a sentire le arti come fissazioni della vita che sfugge, finestre sul valore della vita stessa, sul suo significato essenziale che non si afferra e non si dice fino in fondo con il pensiero logico. Nell’“Avvertenza” all’edizione 1921 dell’Estetica aveva rivendicato il suo essere partito dal «semplice concetto che l’arte è espressione»: e nell’Aesthetica in nuce aveva ribadito il suo concetto dell’arte essere
in certo senso, il concetto comune, quello che luce o traluce in tutte le sentenze intorno all’arte e a cui per espresso o tacitamente ci si riporta di continuo, e che è come il punto verso cui tutte le discussioni in proposito gravitano (Aesthetica in nuce, 1929, a cura di G. Galasso, 1990, p. 206)
(questo, appunto, in tutti i tempi e nella stessa percezione popolare). Precisava nel contempo che non si trattava di idea innata, ma di un a priori, percepibile volta per volta nelle singole espressioni; ma anche per la nozione «dell’identità di intuizione ed espressione» si diceva convinto che fosse in atto «nel comune buon senso» (p. 211).
In effetti nell’intero sviluppo del sistema crociano, nella problematica articolazione delle distinzioni delle forme dello spirito, resta sempre determinante la fedeltà a questa scaturigine «semplice» e «comune» dell’esperienza estetica, radice semplice e comune del suo carattere universale: ogni forma artistica, anche quella più complessa e articolata, in cui si esprime il più ricco e vasto mondo sentimentale, rinvia sempre a quel punctum iniziale, a quel nucleo intuitivo, sintesi a priori dell’universale umano, prima modalità da cui si svolge tutta la vita dello spirito. Ed è evidente che questa prospettiva si definisce proprio sul modello della poesia, a partire da un’implicita nozione della poesia come interrogazione di quel senso dell’esistere che sempre sfugge, come proiezione inesauribile verso il punto non dicibile che fonda l’esperienza, il punto dantesco («Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinque secoli a la ’mpresa / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo», Paradiso, XXXIII, 94-96), o il quiddam inexpletum petrarchesco. Qui si riconosce d’altra parte il profondo rilievo della matrice vichiana, che Croce svolge dalla diacronia alla sincronia, disponendola entro la dialettica eterna dello spirito, trasponendola dal piano storico a quello categoriale: e qui si giustifica la stessa identificazione tra estetica e linguistica, con tutte le difficoltà teoriche che ne conseguono. Proprio entro questo ambito problematico, in questa riduzione dell’esperienza estetica al nucleo originario e di per sé non dicibile, non identificabile, di per sé semplice e comune, dell’intuizione, si colloca il presupposto della poeticità dell’umano in quanto tale. Nella prima Estetica si prospettava addirittura il paradosso di una sorta di generalizzazione della condizione poetica:
Si dice che i grandi artisti rivelino noi a noi stessi. Ma come sarebbe possibile se non ci fosse identità di natura tra la nostra fantasia e la loro, e se la differenza non fosse di semplice quantità? Meglio che poëta nascitur, andrebbe detto: homo nascitur poëta; poeti piccoli gli uni, poeti grandi gli altri (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 19509, p. 18).
Ora nella Poesia, pur entro la distinzione tra le forme dell’espressione diverse da quella poetica, nel confermare l’identificazione tra estetica e linguistica, si prospetta l’ipotesi che la poesia venga ad agire sotterraneamente nel linguaggio comune. Non solo essa «è il linguaggio nel suo essere genuino», ma viene ad animare anche tutti gli usi pratici e strumentali del linguaggio, a muoverlo verso «la propria poetica natura», a resistere e fiorire entro i suoi usi più semplici e quotidiani:
Anche nel quotidiano esprimersi e conversare, è dato vedere, se vi si fa attenzione, come di continuo, lungo il suo corso vivace, s’innovino e s’inventino immaginosamente le parole e fiorisca la poesia, una poesia dei più vari toni, severa e sublime, tenera, graziosa e sorridente (p. 30).
Restano in ombra le possibili conseguenze di questa asserzione e le difficoltà che ne scaturiscono, anche in contraddizione rispetto ad altre distinzioni e sviluppi della Poesia. Ma resta questa riconduzione dell’esperienza poetica a una radice «comune», l’intenzione di concepire il suo carattere come qualcosa di puntiforme, di semplice, in un’indeterminatezza determinata dalla sua stessa universalità: semplici e comuni sono del resto quei vari termini che la designano, espressione, liricità, sentimento e così via. E proprio da questa dimensione comune si svolge quell’affacciarsi della poesia sul senso dell’esistenza, che pure Croce non sembra voler approfondire dal punto di vista teorico: non può né vuole integrarla direttamente entro l’articolazione del suo sistema, ma viene a toccarla varie volte in bellissimi squarci, quasi pause della sua argomentazione, effusioni del proprio sentimento della poesia, della propria attitudine esistenziale verso di essa. Ecco così, già in uno dei paragrafi iniziali, una grande pagina sull’effetto psicologico della poesia (dove tra l’altro si noterà il richiamo a una celebre formula dantesca, Paradiso, XXII, 151):
A rendere l’impressione che la poesia lascia di sé nelle anime, è affiorata spontanea sulle labbra la parola “malinconia”; e, veramente, la conciliazione dei contrari, nel cui combattersi solamente palpita la vita, lo svanire delle passioni che insieme col dolore apportano non so qual voluttuoso tepore, il distacco dalla terrestre aiuola che ci fa feroci, ma è nondimeno l’aiuola dove noi godiamo, soffriamo e sogniamo, questo innalzarsi della poesia al cielo è insieme un guardarsi indietro che, senza rimpiangere, ha pur del rimpianto. La poesia è stata messa accanto all’amore quasi sorella e con l’amore congiunta e fusa in un’unica creatura, che tiene dell’uno e dell’altra. Ma la poesia è piuttosto il tramonto dell’amore, se la realtà tutta si consuma in passione d’amore: il tramonto dell’amore nell’euthanasia del ricordo. Un velo di mestizia par che avvolga la Bellezza, e non è velo, ma il volto stesso della Bellezza (La poesia, cit., p. 23).
La poesia viene così ricondotta al sottrarsi dell’esperienza, all’espressione della fuggevolezza e dell’inafferrabilità dell’esistenza e delle passioni che la costituiscono. Più avanti questa bellissima caratterizzazione del modo in cui la poesia si affaccia sulla mente del poeta che la cerca e a cui appare solo per improvvise illuminazioni (certo proprio perché in essa balena il senso inafferrabile della vita):
Ma la poesia visita le menti col fulgore del baleno, e l’umano lavoro le tiene dietro, tratto da lei, da lei affascinato, e coglie di lei quanto può e invano le chiede di sostare e di lasciarsi rimirare in ogni linea del volto, che già quella è dileguata. Ritorna talvolta e si fa guardare più compiutamente ma tal altra non ritorna; e il poeta se ne rimane con le sue parole luminose e con quelle opache, che aspettano e invocano, e forse otterranno e forse no, il raggio che le rischiari (p. 96).
Da un vuoto nasce la poesia, da quel punto di nulla che è la realtà che si sottrae, il desiderio insoddisfatto, l’inexpletum appunto; così Croce lo sottolinea, distinguendo personalità poetica e personalità pratica, vita reale dell’individuo e suo sentimento poetico:
Chiunque conosce non solo la poesia ma il cuore umano, giudica affatto naturale che l’uomo canti quel che desidera e che non ha, quel che vorrebbe e non possiede le forze e le condizioni per conseguire; e che talora dal contrasto tra una vita impura e peccatrice e l’ideale che assilla e rimprovera tragga una poesia di tanto più pura e nobile, perché la poesia, come è stato ben detto, nasce dal «desiderio insoddisfatto», e non dal desiderio soddisfatto, dal quale non nasce nulla (p. 156).
La continuità e l’approfondimento di questo senso esistenziale della poesia, di questo suo balenante e intermittente affacciarsi sul punto inafferrabile del desiderio insoddisfatto, di questo apparire e sottrarsi della bellezza, della sua essenza dileguante, sostengono peraltro il lungo impegno critico di Croce, la sua eccezionale capacità di ‘sentire’ la poesia: ne giustificano anche i limiti e le preclusioni, ma costituiscono un punto di forza che troppo disinvoltamente è stato trascurato e negato nella reazione anticrociana del secondo Novecento e che invece ha nutrito i maggiori critici del secolo, in primo luogo Giacomo Debenedetti e Gianfranco Contini, che pur per tanti aspetti si sono allontanati dall’ortodossia crociana, percorrendo nuovi territori, senza però rinunciare a cercare questo punto di silenzio da cui la grande poesia scaturisce.
Nel quadro di questa continuità, La poesia intende comunque correggere quello che lo stesso autore indica come il «giovanile radicalismo» della prima Estetica, confrontando e distinguendo l’espressione poetica da altre forme di espressione e riconoscendo la legittimità e l’interesse di tutto l’orizzonte letterario e istituzionale, di tutta la letteratura ‘minore’ che circonda l’aurorale emergere della poesia. Articolata in quattro grandi capitoli, entro cui sono distinti diversi paragrafi, e arricchita dalla fittissima serie delle “Postille”, che inverano l’orizzonte filosofico attraverso una trama di letture, di confronti e giudizi sia con i testi della tradizione letteraria sia con scritti teorici e critici contemporanei, La poesia definisce il proprio orizzonte, nel quadro della filosofia dello spirito, nel capitolo iniziale, “La poesia e la letteratura”, che – dopo una breve premessa che definisce il proposito di svolgere un’adeguata definizione della letteratura – è suddiviso in dieci paragrafi. Il discorso si costruisce subito secondo il metodo della distinzione, prendendo avvio da una successione di paragrafi dedicati ai quattro modi fondamentali di espressione, sentimentale o immediata, poetica, prosastica, oratoria, a cui si aggiunge poi un quinto modo, quello dell’espressione letteraria: e, come sottolinea un’apposita postilla, questa distinzione si colloca in un quadro di «categorismo spirituale», in corrispondenza con le quattro forme dello spirito (p. 224). Croce intende peraltro, come precisa nella prima postilla (p. 195), che non si tratti davvero di «cinque modi dell’espressione», ma solo di «cinque sensi diversi» in cui la parola espressione è adoperata: nel presupposto che la sola espressione «veramente tale» sia quella della poesia, mentre le «altre cosiddette espressioni» sarebbero «atti e fatti spirituali diversi di qualità». È insomma come se ognuna delle altre modalità dell’espressione ruotasse intorno a quella poetica, convergendo verso di essa e insieme da essa svolgendosi: a ribadire proprio il rilievo che nella filosofia crociana assume la poesia come scaturigine della stessa dicibilità dell’esistenza, origine pura della parola, produttrice assoluta di senso. Resta comunque il fatto che, pur in questa riduzione del loro stesso carattere di espressione, gli altri modi/non modi non indichino semplici sfumature dell’uso linguistico, ma configurino comunque «atti e fatti spirituali» e, pur nel loro convergere verso la poesia, mantengano una loro specificità e «qualità».
Così l’espressione sentimentale o immediata corrisponde al livello «naturale» dell’esperienza, formato in se stesso, nel suo diretto rapporto con la grezza continuità della vita, con il suo spessore fisiologico e psicologico. Croce ha buon gioco nel respingere tutte le posizioni romantiche e postromantiche, che riconducono la stessa poesia all’immediatezza del sentimento, e ogni aspirazione di tipo avanguardistico alla riproduzione della realtà nel suo stesso farsi, nella sua immediatezza sensoriale: così nella postilla Copia della realtà stigmatizza il metodo degli
odierni “cosiddetti” futuristi, che si sforzano di riprodurre gridi, strida, cigolii ed altri rumori, in simultaneità con ogni sorta d’impressioni visive e olfattive e tattili, e credono con ciò di fare non solo cosa nuova, ma poesia (p. 200).
Arriva a riconoscere la «buona fede» di alcuni di essi, ma risolvendola in «riconoscimento della loro “sottise”, la quale è grande» (p. 200).
L’espressione poetica non può essere «copia» del sentimento o dell’apparenza immediata della realtà: in rapporto a essa il sentimento non è «niente di determinato, ma è il caos e, poiché il caos è un semplice momento negativo, è il nulla»; ma questa negatività offre dialetticamente alla poesia la «necessaria materia». Questo passaggio dall’espressione sentimentale a quella poetica resta relativamente oscuro e indeterminato: Croce afferma, in base al già ricordato presupposto dell’universalità umana dell’estetico, che ciascuno può osservare «in sé la genesi delle espressioni poetiche che, per tenui che siano, sorgono sempre da una provata commozione, la quale solo nella parola si determina e riconosce se medesima» (p. 19). Ma non è chiaro dove si collochi, già in coloro che poeti non sono, questo svolgersi implicito dall’espressione immediata a quella poetica; e non è certo risolutivo il rinvio, tanto caro a Croce, alla famosa asserzione di Johann Wolfgang von Goethe sul fatto che ogni poesia è «poesia d’occasione», sulla propria abitudine a prendere avvio dalla realtà trasformandola in «immagine» (processo ora da Croce identificato con la tradizionale nozione di «catarsi»).
In ogni modo il passaggio all’espressione poetica indica lo svolgersi dell’esperienza dalla particolarità irriflessa del sentimento a una forma della «teorèsi», del «conoscere»: e qui vengono rapidamente riassunti, in riferimento alla poesia, i caratteri costitutivi della forma estetica, del convertirsi della materia in immagine, sotto il segno della «serenità», del «riportamento dell’individuale all’universale, del finito all’infinito», nell’«intera ed indivisa umanità» della visione (pp. 21-22), nella molteplicità delle singole espressioni, esemplata da un elenco di grandi personaggi e di voci poetiche, di epoche e ambiti diversi, dagli eroi omerici alle Bovary, fino a toccare perfino la ‘minore’ poesia pedantesca di Fidenzio Glottocrisio. Lo sguardo alla ricchezza dell’universo poetico culmina nell’appassionata pagina, sopra già citata, sull’impressione di «malinconia» suscitata dalla poesia.
Nel passaggio dall’espressione poetica a quella prosastica si precisa poi che la prima «sta al di qua della distinzione di reale e irreale», in «una sfera di pure qualità senza il predicato di esistenza», mentre la seconda si colloca nell’orizzonte del pensiero, della critica, del giudizio: entro l’impegno della filosofia a «discernere le immagini del reale da quelle dell’irreale» (p. 27), la cui attitudine originaria si incarna nella prosa storica. La distinzione categoriale tra ambito estetico e ambito filosofico conduce a sottrarre al primo la critica. In effetti l’idea che «dentro la poesia deve lavorare e lavora la critica» sarebbe errata e giusta allo stesso tempo: una diretta inserzione della critica vera e propria dentro la poesia la farebbe morire, mentre agisce invece una criticità interna alla poesia stessa, «che non compie l’opera sua senza autogoverno, senza interno freno, “sibi imperiosa” (per adottare il motto oraziano)», in un «sensibile reggersi e correggersi», che non si articola logicamente come il giudizio della critica (e tutto ciò conduce a ribadire «l’unità e l’identità di genio e gusto», pp. 25-26).
L’espressione oratoria si determina nel passaggio all’attività pratica, in tutte le forme miranti alla persuasione, a «suscitare stati d’animo» e ogni sorta di commozione: da tanta letteratura religiosa, all’oratoria vera e propria, alle molteplici forme «per intrattenimento», tra cui i romanzi popolari di successo. Si toccano così anche le forme di quella che sarebbe stata poi chiamata la cultura di massa (e non a caso si giunge qui ad accennare anche al «prepotente ‘sport’», alla preminenza da esso raggiunta «sull’arte e la letteratura […] che in ogni parte del mondo contrista coloro che erano usi ad altre forme di gerarchia», pp. 33-34). Con la sua funzione di produrre «impressione», l’espressione oratoria non enuncia verità, non vere e proprie «parole», ma piuttosto emette «suoni articolati» che eseguono azioni, «senza per questo cadere in colpa di falsità o di menzogna» (p. 37; ma qui naturalmente ci sarebbero da distinguere azioni positive o negative, o almeno la loro destinazione, integrando questa distinzione dell’espressione oratoria con i vari sviluppi della filosofia della pratica crociana: e d’altra parte, proiettata sull’orizzonte delle comunicazioni di massa, questa identificazione dell’oratoria come pura sonorità sembra spontaneamente adattarsi agli attuali caratteri del linguaggio mediatico, come effetto vuoto, simulacro e apparenza, puramente performativo).
La distinzione dei quattro modi di espressione si salda entro il movimento circolare dello spirito, dato che l’azione crea il sentimento, che non è che vita pratica, «quando, non essendo più attualità di azione, è sentita e riguardata nel solo aspetto di passione» (p. 39). Si dà così avvio a un nuovo ciclo, a un «ricorso». Nell’ottica della filosofia crociana, non si tratta soltanto di una successione cronologica, ma anche di un vero e proprio rifluire in ogni forma delle altre forme: così a proposito della poesia si giunge a precisare che dentro di essa, nell’intuizione del poeta, agiscono tutte le altre forme, non nella loro specifica separatezza, ma calate entro il sentimento poetico, entro la forza totalizzante dell’espressione. Su questo principio teorico si basa l’affermazione, fatta più volte da Croce, della moralità della poesia e della sua indipendenza dai comportamenti pratici del poeta:
Ma certamente egli non possiede la praxis, il pensiero, la cultura e le altre cose al modo stesso del guerriero che combatte, del politico che opera, dell’eroe che si sacrifica, del filosofo che indaga, cioè nell’atto del loro prodursi, ché, in tal caso, sarebbe guerriero, politico, eroe, filosofo, e non poeta ed artista. Le possiede nel sentimento, calate nel sentimento, come in esso dormienti: e il suo genio le risveglia, e quel mondo sommerso riemerge, simile e pur diverso, fresco e primitivo, non più pensato e attuato e non ancora risottomesso alle lotte d’azione: contemplato (p. 41).
In questa proiezione aurorale dell’attività dello spirito si esplica «l’eterna giovinezza o fanciullezza del poeta», che Croce intende vichianamente, con immediata riserva verso le «smorfie» infantili dei «cattivi poeti» (e la postilla Il poeta e il fanciullo rinvia, se ce ne fosse bisogno, alla dura critica rivolta al «fanciullino» pascoliano nel saggio raccolto nella Letteratura della nuova Italia, 1914-1915, 4° vol., 19424, pp. 79-129).
Rispetto ai quattro modi di espressione corrispondenti alle forme della vita spirituale e così collegate dal «ricorso», l’espressione letteraria emerge come una sorta di supplemento, la proiezione dell’orizzonte espressivo in istituzione: «L’espressione letteraria nasce da un particolare atto di economia spirituale, che si configura in una particolare disposizione e istituzione» (La poesia, cit., p. 42).
Il vario dispiegarsi delle forme dello spirito nei singoli individui e il loro complesso articolarsi nella vita sociale danno luogo a squilibri e conflitti che l’economia spirituale tende a riequilibrare con la civiltà, l’educazione e la cultura. L’istituzione letteraria si giustifica così con questa essenziale funzione equilibratrice:
Ora l’espressione letteraria è una delle parti della civiltà e dell’educazione, simile alla cortesia e al galateo, e consiste nell’attuata armonia tra le espressioni non poetiche, cioè le passionali, prosastiche e oratorie o eccitanti, e quelle poetiche, in modo che le prime, nel loro corso, pur senza rinnegare sé stesse, non offendano la coscienza poetica e artistica. E perciò, se la poesia è la lingua materna del genere umano, la letteratura è la sua istitutrice nella civiltà o almeno una delle istitutrici a tal fine deputate (pp. 43-44).
Questa integrazione della letteratura nel sistema appare certamente molto ingegnosa, ma resta irta di difficoltà e di possibili contraddizioni. Tra l’altro non è chiaro in che modo si dia effettivamente «l’equilibrio tra i due ordini di espressione» (cioè quello poetico e gli altri non poetici), come avvenga il loro
contemperamento nella nuova forma di espressione, che è pratica o concettuale o sentimentale in un suo momento, e poetica nell’altro. Poetica di una poesia che assume quei motivi extrapoetici a suoi presupposti, rispettandoli nell’esser loro (p. 44).
In altri termini sembra che, rispetto alla sintesi a priori di forma e contenuto propria della poesia, la letteratura venga a isolare la forma, a far vivere la forma/istituzione come civiltà, modificandone così il concetto nell’esercizio che viene a farne: e, come per la forma, essa modifica il concetto di arte (che nel suo ambito non viene più identificato con la stessa poesia, ma visto come «elaborazione dell’espressione letteraria»), quello di gusto (non più «coscienza della poesia che si fa», ma facoltà pratica, ragionevolezza del fare), quello di genio (non nel rilievo assoluto dell’intuizione poetica, ma come «pratico congegnare», a cui si attribuisce il diverso nome di «ingegno»), quello di stile (dall’unicità dell’«accento eterno inconfondibile» della poesia alla molteplicità degli stili in letteratura). Non si capisce, d’altra parte, come la letteratura, in questo suo essere ‘dopo’, venga a scaturire dal seno della sintesi originaria data dalla poesia, né in che senso essa possa trasformare i «motivi extrapoetici» in «presupposti» della poesia stessa. È vero comunque, che, al di là delle difficoltà teoriche (rilevate puntualmente da D’Angelo 1982 e 1997), questa apertura di credito alla letteratura offre un arricchimento essenziale del pensiero estetico crociano, apre una strada a varie riflessioni e svolgimenti, a nuove distinzioni, che comunque continuano ad avere come obiettivo centrale l’intuizione poetica: il concetto di letteratura conduce a riconoscere il valore e l’interesse delle indagini sulle più varie istituzioni a essa riconducibili, specialmente in prospettiva storica, ma viene nel contempo a confermare e a rafforzare la distinzione tra poesia e non poesia, ad articolarla in ulteriori e più definite direzioni.
Non va poi trascurato il fatto che, nella situazione storica e politica degli anni Trenta, la funzione di civiltà attribuita alla letteratura veniva ad assumere anche un valore polemico, che traspare appena, sotto la pacata e lucida argomentazione, quando Croce nota che
nonostante la scarsa delicatezza e urbanità dei tempi più a noi vicini, la virtù del letterario decoro sta ed opera, se pure non molto largamente, e contribuisce da parte sua, come può, a serbare le forme della civiltà (p. 50).
Dopo questa distinzione delle modalità dell’espressione e l’individuazione di quella letteraria, il primo capitolo della Poesia si svolge in una più distesa delimitazione dei “Dominii della letteratura” e in ulteriori distinzioni, che puntano sempre a isolare la specificità della poesia dai territori alla letteratura comunque riconducibili.
In quattro classi vengono distribuite le opere considerate attinenti alla letteratura:
a) «l’elaborazione letteraria del sentimento»: modi di effusività che comunque superano l’«immediatezza del sentire» e la traspongono sul piano letterario (in cui eccellono soprattutto le donne), lirismo e confessioni in versi e in prosa, poesia religiosa ecc.;
b) «letteratura di motivo oratorio»: orazioni, poemi celebrativi, opere a tesi, poesia parenetica, opere di «esortazione morale»;
c) «opere d’intrattenimento», tra gli estremi dell’orroroso e dell’umoristico, con le più varie forme di «letteratura amena» ecc.;
d) «letteratura didascalica», in tutti gli ambiti del pensiero, della scienza, della divulgazione.
Le opere che appartengono a una o più di queste quattro di classi sono generalmente orientate verso le modalità dell’espressione diverse da quella poetica, ma nel loro collocarsi nell’istituzione letteraria mantengono una sorta di proiezione verso di essa, ne coltivano in un certo senso i margini. A questi territori Croce non si perita di assegnare anche opere capitali, come I Promessi sposi, inserito tra la letteratura oratoria e definito «da cima a fondo un racconto di esortazione morale», a correzione dei critici che «si ostinano ancora ad analizzarlo come un romanzo d’ispirazione e di fattura poetica» (p. 54). Nella postilla Forme effusive recenti compare il nome di Marcel Proust, che anche in Italia aveva già attirato l’attenzione di giovani generazioni letterarie (da Debenedetti al gruppo di «Solaria»): Croce nota che nelle sue opere
si sente che ciò che domina nell’anima dell’autore è l’erotismo sensuale e alquanto perverso, erotismo che è già tutto diffuso nella bramosia di rivivere le sensazioni di un tempo lontano. Ma questo stato d’animo non si chiarifica in motivo lirico e forma poetica, come invece accade, nelle cose sue buone, al meno complicato ma più geniale Maupassant, anche lui partecipe di un simile stato d’animo (p. 236).
Tra limitazione e riconoscimento si muovono poi i due paragrafi successivi, che assegnano all’ambito della letteratura due tendenze capitali della cultura moderna, il culto dell’arte per l’arte e la ricerca della poesia pura. L’arte per l’arte viene ricondotta a una riduzione della poesia «ad oggetto di amore e di culto d’amore» (p. 58): si tratterebbe di proiezioni dell’amore per l’espressione poetica in desiderio che va oltre di essa, che esclude il suo diretto possesso. Qui Croce traccia una sintetica fenomenologia dell’amore come ‘tendere oltre’, come sogno proiettato al di là di ogni realizzazione, appoggiandosi anche su due suggestive citazioni, da Giacomo Leopardi e da Laurence Sterne: in tutte le forme di culto esclusivo dell’arte egli riconosce il manifestarsi dell’«amore per le espressioni poetiche», che dà luogo a una letteratura che si muove intorno a esse, senza ricevere la spinta di quei «contenuti extrapoetici» corrispondenti alle quattro classi letterarie prima distinte.
Nella poesia pura di matrice simbolista viene riconosciuta come un’istanza puramente teorica, che si sostiene su «false estetiche, che tutte provengono dalla confusione della poesia con la letteratura» (p. 64). Quelle assolutizzazioni della poesia (in senso ben diverso dalla purezza intuitiva che è al fondamento dell’estetica crociana) non sarebbero altro che «la negazione della poesia come espressione e la sostituzione di questo concetto con l’altro e diverso della ‘suggestione’» (p. 66): indeterminatezza semantica e fonica, oscurità, pretesa di attingere così l’«Anima universale», in una sorta di mistico sacerdozio. Vengono fatti i nomi emblematici di Stéphane Mallarmé, Jean-Nicolas-Arthur Rimbaud, Stefan George, Paul Valéry, con un deliberato rigetto delle tendenze dominanti della lirica novecentesca e delle sue poetiche, e anche con un implicito sguardo polemico alla situazione italiana: ma di grande interesse sono le postille collegate, che rivelano come anche le incomprensioni di Croce siano comunque sostenute da ampie letture in tutte le direzioni.
La conclusione di questo primo capitolo della Poesia svolge altre precisazioni, mettendo in guardia dal sentire la letteratura come mero disvalore e distinguendo il suo legittimo carattere non-poetico da quello dell’antipoesia e dal brutto (determinato dall’interferenza della volontà pratica sul processo di formazione artistica). Si afferma poi la «relativa rarità della poesia genuina», in rapporto alla «relativa abbondanza della letteratura»; e si affacciano due punti critici riconducibili, da una parte, a una prospettiva eurocentrica e, dall’altra, a un’intenzione di esclusività e di separatezza dell’esperienza poetica.
In primo luogo, nel proposito di raffrenare «gli impeti cosmopolitici» e «la esagerata esaltazione delle cose orientali», Croce invita a riconoscere «che la grande poesia, come la grande filosofia, è quasi unicamente europea»; e poi insiste a distinguere «la rarità della poesia» dal gran numero dei suoi appassionati, che corrono verso di essa, però poi non ne sentono il profondo carattere, ma si incantano per i suoi dati esteriori, per gli elementi extrapoetici. Quello che si chiama «consenso generale» sui valori poetici è in realtà «il consenso che si forma negli spiriti eletti», che li impongono all’opinione comune, alle «favelle della gente»:
alle favelle e non agli animi, perché (per parlare sennatamente) come poi la gente attenderebbe con tanta dedizione di sé stessa agli affari, come condurrebbe con tanta perfezione di abilità l’industria e la bottega, indispensabili al pratico vivere, se fosse perseguitata e agitata dagli spiriti di Dante e di Shakespeare? È provvidenziale, dunque, che la poesia, al pari della filosofia nella sua forma specifica ossia intensa, sia opera e culto di pochi (p. 72).
Questo che può sembrare uno sdegnoso riflesso aristocratico è un dato ‘realistico’, che risale alla coscienza crociana dell’inevitabile articolazione della vita sociale, della necessaria diversità delle funzioni e delle «occorrenze» umane. Il valore dell’intuizione poetica non può in nessun modo corrispondere a una sua percezione e fruizione generalizzata all’intera scala della vita sociale; limitarne l’esperienza equivale in fondo a escludere ogni sua assolutizzazione come modello sociale, in modo opposto agli irrealistici sogni di estetizzazione dell’intera vita, alle pretese di letterati e artisti di estrarre modelli della società dai principi stessi dell’arte (da cui si sono sviluppate, a partire dal giovane Karl Marx ancora fino al Sessantotto e oltre, le poco credibili immagini di una futura società senza classi, dove tutti sarebbero stati artisti, in un’universale condivisione dell’esperienza estetica). È vero però che questa ‘realistica’ istanza di separatezza, che fa della poesia «opera e culto di pochi» viene come a scontrarsi e contraddirsi con la diversa istanza dell’universalità umana dell’arte e con le conseguenti asserzioni di Croce sull’aurorale poeticità dello stesso esercizio comune del linguaggio.
Il problema della fruizione dell’esperienza estetica è comunque affrontato nel secondo e nel terzo capitolo del libro, toccando nel secondo, “La vita della poesia”, il problema più generale della vita della poesia nel tempo, sotto il segno della sua rievocazione, e nel terzo quello più ‘professionale’ della “Critica e la storia della poesia”.
La vita della poesia nel tempo si dà come un tornare dell’espressione, una sua «eterna rinascita», per la quale Croce adotta il termine di rievocazione (che a tratti si sovrappone a quello di ricreazione), la quale si definisce a partire dal modo in cui essa si riattiva nello stesso poeta, in cui essa rinasce nell’esperienza di colui stesso che l’ha formata, quando è passato del tempo e sono mutate le condizioni in cui essa è da lui sgorgata. Questo rinascere dell’espressione creativa nel soggetto creatore è come il modello del suo rinascere negli altri uomini nel corso del tempo, «negli altri che sono pur lui stesso, congiunti con lui nella comune umanità, suoi contemporanei o suoi posteri, nei secoli dei secoli» (p. 73). Insomma, quella che poi ci siamo abituati a chiamare ricezione viene ricondotta alla condivisione del genio dell’umanità: la creazione poetica si proietta in ricreazione eterna nell’unità dello spirito, che ovviamente non si identifica immediatamente con la possibilità della sua ricreazione in singoli individui o in particolari situazioni storiche. Ne consegue il paradosso secondo cui potrebbe accadere che questa continuità della poesia nella vita dello spirito rimanesse solo implicita, senza mai dar luogo alla sua effettiva presenza presso lettori reali:
Potrebbe non ritornare sulle labbra di nessun individuo al mondo, e nondimeno vivrebbe: simile alla solitaria lampada, di cui dice il Mörike, che pendeva da leggera catena in una stanza un tempo nido di piaceri e ora abbandonata, e sulla sua bianca coppa, orlata di foglie d’acanto, un’allegra schiera di fanciulli intrecciava la danza, e nessun occhio rimirava quella leggiadra forma e tuttavia essa risplendeva di bellezza, gioiva in sé stessa di sé stessa. Quante belle poesie rimasero così, per lunghi secoli, da nessuno ricantate! Quante ne rimangono ora! Quante non torneranno forse mai più dal regno delle ombre alla luce! E tuttavia anche nel regno delle ombre vivono e operano; e sentimenti gentili e pensieri forti e impeti generosi, che sorgono in noi non sappiamo dir come, vengono da loro. Vengono da quelle ideali creature, di cui non sempre rivediamo i volti, messe al mondo dalle fantasie dei poeti, dalle menti dei filosofi, dagli animi solleciti del bene, figliuole immortali di uomini mortali (p. 74).
Qui la passione di Croce per la poesia si distende in una vera e propria religione della poesia, in un’affermazione di fede nella forza della tradizione, nella sua capacità di persistere anche nell’ombra e nel silenzio, anche al di là della sua ricezione fisica, della sua disponibilità materiale. L’immagine della lampada di Mörike può essere d’altra parte collegata al diffuso motivo poetico della bellezza non visibile, del fiore non colto: motivo che con particolare anelito religioso aveva toccato tra gli altri l’Alessandro Manzoni dell’incompiuto Ognissanti, dove si evoca il «tacito fior» che «sull’inospite piagge» dispiega solo davanti a Dio «la pompa del pinto suo velo» (vv. 19, 21, 23). Ma in Croce la così suggestiva e a suo modo ‘poetica’ fiducia nella persistenza della poesia, pur non conosciuta da nessuno, si risolve nell’affermazione di una più ampia fede nella persistenza dell’umano, dei valori perenni dell’umanità (non solo le «fantasie dei poeti», anche «le menti dei filosofi» e gli «animi solleciti del bene»).
Tornando più in particolare all’effettiva ricreazione, essa si concepisce come un rimettersi nella situazione stessa della poesia, un riflettere in sé il suo nucleo profondo; e più avanti si viene a parlare addirittura di identificazione del lettore di poesia con il suo autore, di un ampliarsi e conformarsi della sua anima «all’anima di lui», elevazione spirituale che si risolve in «catarsi», in un aprirsi «alla gioia della bellezza» (pp. 93-94). Nel tentare di definire più in particolare questo processo di ricreazione si prendono ancora le mosse dall’esperienza dello stesso soggetto creatore. Ma l’indicazione degli sforzi necessari all’autore per ritrovare la parola originaria resta un po’ indeterminata; e sembra risolversi un po’ semplicisticamente nel «riacquisto del testo dell’opera sua». A questi sforzi necessari alla ricreazione da parte del soggetto viene comunque equiparato il lavoro della filologia, la sua restituzione dei dati linguistici e delle condizioni originarie della poesia: ma, nell’atto stesso di sottolineare l’importanza determinante del lavoro filologico, Croce insiste sulla sua parzialità, sulla sua funzione preparatoria, capace di condurre solo «al limitare della poesia», diffidando della chiusura specialistica di molti filologi, incapaci di «sentire la poesia», e auspicando un superamento di questa «deficienza», proprio
per il migliore governo della filologia medesima, per impedire che essa si perda nel troppo, nel vano e nel disadatto, e affinché diventi sempre più veramente “filologia”, amica del “logo” o piuttosto della poetica “parola” (pp. 77-78).
L’autentica ricreazione della poesia va comunque al di là di ogni preparazione: la si ricrea quasi facendo il vuoto sul pur necessario sapere accumulato su di essa e sulle sue condizioni, affidandosi all’impressione (termine per cui si rinvia all’uso fattone da Francesco De Sanctis), intesa come «la capacità di seguire la poesia, di vivere con lei, di rifare il suo processo creativo» (p. 79). Definita in tal modo la condizione della rievocazione, Croce respinge ogni forma di scetticismo verso la sua possibilità: essa è direttamente giustificata dall’«auctoritas humani generis», dall’impegno che in tutta la sua storia l’umanità ha dedicato alla fruizione della bellezza. Nel contempo egli si oppone recisamente all’istanza della ricostruzione totale, di chi per «rivivere la parola del poeta» pretende di ricollocarsi direttamente dentro il suo mondo, rifare l’inventario minuto della sua vita e del suo contesto culturale; e parimenti respinge l’opposta idea che ogni ricreazione dia luogo a una diversa espressione, sempre nuova per ogni lettore e in ogni lettore (che è in fondo l’idea da cui molto più tardi si sarebbe sviluppato il disinvolto decostruzionismo oggi imperversante). La possibilità della rievocazione, garantita dal naturale scambio tra la comune umanità, viene equiparata alla naturale disponibilità all’apprendimento linguistico e a quello delle lingue cosiddette straniere, dato che «nient’altro che espressione di una nuova lingua è ogni poesia che si crea e che noi ricreiamo in noi» (p. 86). Ogni rievocazione si risolve in atto storico: rapportandosi con la storicità specifica della poesia deve sfuggire sia dal suo uso come documento storico sia dalla sua esteriore contemplazione estetizzante.
Dopo pungenti pagine dedicate alla vanità dei «sedicenti poeti», si recupera parzialmente il rilievo delle «imperfezioni», inevitabili anche nei grandi poeti, e delle parti strutturali, la cui recisa espunzione dalla poesia nel volume La poesia di Dante (1921) aveva suscitato animate discussioni: interessante è la notazione sulla funzione di mantenimento dell’«unità ritmica dell’espressione» che «parti convenzionali o strutturali» e apparenti difetti vengono ad assumere (La poesia, cit., p. 98). Pur precisando che «la giusta accettazione di questi “pezzi strutturali” non deve essere pervertita nell’ingiusta accettazione di essi come poesia» (p. 102), Croce arriva a riconoscere che in casi eccezionali, tra cui quelli di spiriti energici «intellettualmente e moralmente» come Dante e Goethe, la struttura agiva non come «trama indifferente», ma come «parte vitale dell’anima loro, e distinta e congiunta insieme alla poesia, che ne traeva nutrimento, in unità non già statica ma dialettica» (p. 106). E conclude con un’asserzione al limite del paradosso:
Né può essere indifferente a noi per intendere la loro anima e neppure per intendere la fisionomia della loro poesia; ma indifferente dev’essere, come tutte le altre strutture, in quanto non propriamente in essa la loro poesia canta (p. 106).
Se così la poesia si risolve nei momenti supremi del suo canto, nella singolarità del suo rivelarsi, nel balenare intermittente della sua luce, che si libra sopra tutti i dati convenzionali e letterari, viene comunque recisamente condannato ogni suo isolamento nel frammento, con particolare riferimento al contemporaneo frammentismo, che pure in taluni casi aveva cercato autorizzazione nella prima Estetica.
L’ultimo paragrafo di questo capitolo secondo, “L’intraducibilità della rievocazione”, ribadisce l’assioma, già chiaramente enunciato nella prima Estetica, dell’intraducibilità della poesia: intraducibilità in altri ordini di espressione e intraducibilità in altre lingue, determinata dalla natura stessa della poesia, escludendo l’idea che ogni lettura sia in quanto tale traduzione, spostamento della poesia nel linguaggio del lettore (idea che Croce fa risalire al contingentismo e che abbiamo visto rilanciata in termini diversi dalle teorie reader oriented).
Ciò non esclude la validità di traduzioni di servizio, che conducano ad accostarsi all’originale, e di traduzioni artistiche che si risolvono in opere di autonomo carattere (le cosiddette belle infedeli). A quest’ordine di traduzioni artisticamente autonome, comunque diverse dalla poesia da cui scaturiscono, Croce assegna perfino le rappresentazioni teatrali delle opere drammatiche, fino a questa sconcertante affermazione, che da una parte sembra mostrare una certa diffidenza verso il mondo della scena, dall’altra sembra autorizzare la perfetta autonomia del teatro di regia nei confronti dei testi:
La poesia dei drammi non si gusta se non col leggere da solo a solo il dramma, che potrà essere artisticamente superiore, o anche inferiore, alla rappresentazione che se ne faccia, ma certamente è diverso (p. 110).
L’esercizio della critica viene definito all’inizio del terzo capitolo nel quadro del categorismo spirituale, come appartenente alla sfera del pensiero e della logica, cui pertiene il giudizio: nel distinguere così nettamente la critica dalla poesia, Croce ne rivendica l’essenziale funzione di «dare un nome alle cose», di sostenere la vita delle cose belle, che la società distratta da tante occorrenze pratiche può disconoscere. L’assenza o la latitanza della critica lascia senza adeguato sostegno la spontanea coscienza estetica: «La coscienza estetica, come la coscienza morale, è disarmata e non può combattere: solo la critica è armata e combattente» (p. 115).
Critica militante per la bellezza, dunque – già nel Breviario di estetica estesa a «critica della vita», con un’identificazione tra giudizio sull’arte e giudizio sulle «opere della vita tutta» (Breviario di estetica, 1913, a cura di G. Galasso, 1990, p. 117), a cui vengono dedicate grandi pagine, che offrono rilievi determinanti per ogni autentico esercizio critico, anche lontanissimo dalle prospettive teoriche crociane. Così davvero formidabile e tuttora attualissima è la pagina in cui si elencano le insidie sociali che gravano su un rigoroso esercizio della critica; pagina che dovrebbe figurare nel vademecum di ogni critico degno del nome:
Le quali tentazioni e insidie sono, a mo’ di esempio, l’invito o la minaccia a non discostarsi dalle opinioni, credenze e sentenze dei più, dalle ritrosie e dalle ipocrisie moralistiche, dalle tendenze della moda, dal
clamore del volgo; il sentimento reverenziale per un’autorità esterna; la propensione a veder belle tutte le cose che sono prodotte da chi altra volta fece cose belle o, per contrario, a presumere brutte quelle di chi altra volta cascò in siffatto umano peccato e ora si è redento; la paura di compromettersi ponendo per il primo affermazioni e negazioni, soprattutto affermazioni della bellezza delle cose belle; la falsa vergogna onde si è indotti all’accettazione di ciò che non ha pregio vero ma che altri furbescamente lascia intendere così fatto […]; il generoso ma incauto impulso a trovare in altri l’attuazione dei nostri migliori ideali […]; la diffidenza verso il nuovo per troppo affetto all’antico, o il disprezzo dell’antico per troppo affetto al nuovo; l’attrattiva che hanno le immagini che rispondono a cari e gentili sentimenti nostri: senza dire dei più volgari motivi, che vengono da amori e odii personali o politici o religiosi che siano […] (La poesia, cit., p. 117).
L’insieme delle qualità del critico si appoggiano su quella cosa impalpabile che è la sensibilità, che risulta da un’integrazione tra giudizio, coscienza estetica e coscienza morale: e comunque esse devono tendere a «un’unica indivisibile categoria, quella della bellezza» (p. 121), che porta a escludere dal giudizio estetico tutte le più varie determinazioni pratiche, tutti i concetti pseudoestetici, stilistici, storici, geografici, etnici e così via. E qui Croce ha modo anche di stigmatizzare le recenti opposte distinzioni di una poesia «germanica» o di una poesia «proletaria», contro le quali riafferma «l’indivisibilità della bellezza» e «l’unità estetica del genere umano» (p. 126).
Ma, pur di fronte a questa indivisibilità e individua assolutezza della bellezza, la critica ha il compito di caratterizzarla, con una «identificazione di intuizione e categoria, di soggetto intuitivo e predicato concettuale», che deve avvalersi della «forma didascalica» e appoggiarsi su «parafrasi e citazioni di brani» (p. 127): è il metodo usato da Croce stesso nei suoi maggiori saggi critici, rivolto ad ‘ascoltare’ il manifestarsi della poesia, in una individuazione del «sentimento» in essa espresso, coincidente con l’espressione della «realtà umana nella sua pienezza». Per tutto ciò al critico è necessaria la «conoscenza del cuore umano»; egli «deve contenere in sé non un moralista ma un filosofo, che abbia meditato sull’anima umana» (con disposizione di «psicologo», p. 130). Al punto risolutivo il critico giunge a definire in una «formola» il carattere fondamentale della poesia considerata: ma nello stesso tempo deve essere pronto a superare ogni formula, ad andare al di là dell’irrigidimento delle sue formule e di ogni formula possibile. A tal proposito «la critica, giunta al suo apice, alla caratterizzazione, è di sua natura “critica della critica”» (p. 132): non c’è mai una formula definitiva, perché ogni formula è uno strumento che si proietta verso la persuasione alla lettura, verso l’istituzione di un rapporto con quel quid assoluto in cui consiste la bellezza e che, tanto più è grande, tanto più è ricco di sottintesi non esauribili da formule o addirittura «non dicibili» (come già Croce sosteneva in una bellissima pagina del saggio su Ariosto, in cui respingeva la «fatua credenza, che è di parecchi critici odierni, di aver fornito nelle nostre formole estetiche un equivalente della poesia ariostesca», Ariosto, Shakespeare e Corneille, 1920, 19504, p. 29).
Il giudizio estetico in quanto tale è giudizio storico: entro di esso si dà la storicità della poesia, nella sua coincidenza di «fatto e valore». Ma la storia della poesia non può assumere che un «carattere monografico», che esclude recisamente ogni storia di dati extrapoetici, ogni inserimento in sequenze evoluzionistiche, ogni proiezione di tipo sociologico. In tal modo si prendono le distanze anche dal principio costruttivo della Storia della letteratura italiana (1870-1871) di De Sanctis e in maniera molto più netta dagli schemi della Geistesgeschichte e di tutte le storie che fanno della poesia riflesso di altro, fino a toccare i «vaneggiamenti del nazionalismo, del razzismo e dell’antisemitismo» (La poesia, cit., p. 149) di certa contemporanea storiografia tedesca. La storia della poesia si dispone così, evitando di «radunare e rovesciare sulle opere dei poeti mucchi di erudite spazzature» (p. 151), come storia della personalità del poeta, che scaturisce dall’interno della sua stessa poesia e non coincide con la sua personalità pratica, con le dirette occorrenze della sua vita privata («È necessario tener gelosamente distinta la personalità poetica e la pratica», p. 155). Lo studio storico-critico mira a rendere «la caratteristica del motivo o stato d’animo fondamentale del poeta» (p. 152) articolando i nuclei sentimentali delle sue varie espressioni poetiche.
Questa storia della poesia come storia delle singole personalità poetiche non conduce comunque a negare la possibilità di far storia di tutto ciò che pertiene all’ambito delle letteratura, purché questa non pretenda di identificarsi con la storia della poesia. Nell’ambito della letteratura rientrano anche le poetiche empiriche, che hanno una loro validità formativa e didascalica, che si colloca sul piano della pratica: esse si dispongono sui due ordini della valutazione e della qualificazione e si costruiscono «con elementi universalmente umani, riferentisi all’anima umana» (p. 159), concetti empirici che hanno avuto una lunga vita nella tradizione e a cui si sta legittimamente sostituendo una serie fitta e più articolata di concetti moderni; e Croce auspica lavori di ricerca e di sistemazione terminologica e storica in questa direzione.
Su questo orizzonte «pratico» insiste l’ultimo, più breve capitolo del libro, “La formazione del poeta e la precettistica”. Per ciò che riguarda la formazione del poeta, si insiste sul rilievo essenziale di una convergenza tra originale impeto creativo e rapporto con la tradizione: in ogni autentica poesia, nella sua densità storica, viene come a risuonare l’eco della «poesia dei secoli»; e ogni nuovo poeta prende avvio da una necessità espressiva che è insieme «necessità d’intonarsi alla voce della poesia che ha risonato prima della sua, e di risponderle come in un coro» (p. 165). C’è un «intimo colloquio» tra vecchi e nuovi poeti che ha qualcosa di misterioso, come in un «segreto di anime» (p. 168): a tal proposito Croce formula una netta riserva su quelle ricerche delle fonti che negano l’originalità dell’espressione poetica, riconducendo ogni autentica espressione all’imitazione, al già detto.
Il presupposto della necessaria libertà e spontaneità del poeta dà luogo poi a una nettissima negazione della validità delle scuole di poesia. Precetti di ogni sorta, vocabolari e grammatiche, regole retoriche, metriche, stilistiche, hanno una loro utilità pratica, una funzione di disciplina e di rigore, che riguarda l’ambito della letteratura, prima e al di qua della poesia. Questa non scaturisce dallo studio di scuola, né tanto meno da scuole di scrittura; veri maestri del poeta sono piuttosto i grandi scrittori:
L’efficacia della precettistica, che non è quella di una legge estetica, né di una ricetta tecnica, e nondimeno è un’efficacia, l’efficacia dello storicamente esistente, dal quale bisogna procedere oltre ma sul quale non è dato saltare, si esercita non solo per mezzo di formole teoriche, ma anche di uomini: di quegli uomini di spiccato carattere, di quegli scrittori, di quei poeti originali, che vengono chiamati maestri o capiscuola (p. 176).
Recisa è la negazione delle poetiche collettive e di gruppo, di quelle che Croce chiama «apparenze di scuola, con titoli, motti d’ordine, programmi, riviste speciali, con molta gente che si agita e fa gran rumore e chiasso» (p. 177): radicale la sua distanza dai molteplici movimenti collettivi novecenteschi, avanguardie e non solo. Un apposito paragrafo puntualizza la questione, già tante volte affrontata, dei generi letterari: ne è negata la deformazione precettistica, si mostra la relatività dei loro presunti confini, se ne riconosce il rilievo «nella storia culturale e sociale» (ancora l’ambito della letteratura); ma si nega ogni loro categorizzazione e ogni loro visione in senso evoluzionistico. Criticate aspramente da più parti, queste riserve sui generi letterari sono state largamente oltrepassate dal gran lavoro critico e teorico che su essi è stato fatto nella seconda metà del Novecento: ma è anche vero che la crisi delle teorie e delle tassonomie letterarie dovrebbe oggi spingerci a valutare in modo più equanime le ragioni di queste riserve, che paradossalmente convergono con gran parte delle prospettive e delle pratiche della più autentica letteratura contemporanea, e che possono almeno guidarci a guardare con distacco tante sopravvalutazioni dei generi da parte della letteratura di consumo, quella appunto ‘di genere’ (che pure oggi trova i suoi officianti e i suoi cultori, subalterni alle proposte del mercato di massa).
Dopo aver toccato queste questioni particolari, il paragrafo conclusivo del libro, “La poesia e le altre arti”, si riannoda al nucleo centrale del pensiero estetico crociano, nell’atto di giustificare, come già si è sopra ricordato, il fatto che l’autore non abbia dedicato questo suo approdo finale all’arte in generale (come avveniva nella prima Estetica e negli altri successivi svolgimenti), ma alla più specifica poesia. Come già si è accennato, il comune carattere delle arti viene ora ricondotto al ritmo, «l’intuizione o ritmazione dell’universo», dato caratterizzante dell’espressione poetica come di ogni altra espressione artistica. Nonostante il fatto che questa ritmicità assume nomi e dati sensoriali diversi nelle diverse arti, in ogni autentica espressione artistica sono in gioco tutti i dati specifici di ogni arte, in una sorta di movimento tra tutti i sensi, vera e propria oscillazione tra di essi, quasi tendente ad afferrare l’inafferrabile respiro del cosmo:
Ma, quando l’espressione è compiuta, quando la si ripercorre nel suo tutto, vivendo in lei e di lei, dimenticate le circostanze esterne degli orecchi, degli occhi, di tutti i cosiddetti sensi, non si può più dire che essa sia suono o tono o colore o linea o rilievo o odore o sapore o altro, perché è tutte queste cose insieme e nessuna di esse in particolare; onde altresì la spontanea disposizione nel parlare di un’arte, a trasferire in lei termini che si adoprano per altre: il «pittorico», lo «scultorio», l’«architettonico», il «musicale» della poesia, e all’inverso. Anche nel momento in cui la poesia si affaccia all’anima è stata avvertita – da qualche poeta che, ripiegandosi su sé stesso, si è analizzato – una sorta d’iniziale oscillazione e perplessità del ritmo verso il tono, il colore, la plastica e la parola (pp. 187-88).
Qui l’«afflato cosmico» dell’arte, già affermato nel saggio scritto nel 1917 Sul carattere di totalità dell’espressione artistica e nel contemporaneo studio sull’Ariosto, si invera nella riduzione a unità di tutti i dati sensoriali, in cui viene a esprimersi il respiro dell’universo, a toccarsi intuitivamente l’emergere inconoscibile e non razionalizzabile della realtà. La poesia e le arti affacciano l’umanità verso il senso essenziale del vivere, non dicibile logicamente, proiettano il nostro umano esistere verso quel ritmo del mondo esterno in cui siamo inseriti, ma che non siamo e non possiamo essere in grado di afferrare altrimenti: danno voce alla fuggevolezza dell’esperienza e sono sempre qualcosa di più di tutte le forme, le convenzioni, le istituzioni, le discipline che pure costituiscono la civiltà e che nutrono le arti e la poesia.
La poesia, al di là del suo rilievo entro la coerenza interna della filosofia di Croce, al di là delle preclusioni del suo gusto e del suo reciso rifiuto verso gran parte della modernità artistica, ci invita ancora a guardare ai nuclei più risolutivi dell’esperienza poetica, alla sua più determinata qualità umana: mettendoci ancora in guardia dall’attuale inflazione del ‘discorso secondo’, tra tanta letteratura inessenziale, e tanta critica subalterna ai presunti valori del mercato, rivolta a esercizi ermeneutici a vuoto, a giochi combinatori e cavillose decostruzioni, a tecnicismi autoreferenziali, ad abnormi dilatazioni dell’interpretazione. Anche per questo sarebbe davvero utile tornare a leggere La poesia.
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