Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Settecento la poesia sembra non toccare l’altezza dell’estrosa lirica secentesca né – salvo alcune individualità eccezionali – la potenza espressiva e la profondità del romanticismo. Essa tuttavia raggiunge, non di rado, esiti tutt’altro che infelici e banali, ora ricchi di forza ideologica, ora dotati di squisita raffinatezza musicale.
Premessa
Nel secolo dei Lumi, i profondi mutamenti politici, sociali ed economici vengono a incidere notevolmente anche sul divenire delle arti. Nei Paesi europei, quindi, nessun genere poetico è trascurato, anche se i risultati più interessanti sono riscontrabili soprattutto nel filosofico, nel didascalico e nel satirico, nel descrittivo e, in non pochi casi, anche nel lirico.
Nella produzione dei maggiori poeti settecenteschi sono ravvisabili invero le seguenti peculiarità: l’aspirazione a una poesia razionale, nitida, precisa e misurata; il dialogo costante – e mai passivamente recettivo – con una classicità a volte venerata e sempre considerata vitale, feconda e stimolante; l’espressione sicura e autentica del proprio pensiero e del proprio sentire, aliena da intellettualismi, artifici e affettazioni; infine una tensione ideologica decisa e convinta verso ideali alti e nobili, quali la libertà, l’uguaglianza, la tolleranza, la pace e l’amore.
Quest’ultimo aspetto sembra, in verità, l’elemento comune e ricorrente di un secolo in cui tutti gli scrittori più significativi vogliono davvero essere “utili” al popolo (rappresentato, di fatto, da quella borghesia illuminata e relativamente aperta cui indirizzano i loro versi), ora denunciando coraggiosamente le più gravi ingiustizie sociali, ora spingendo attraverso il mezzo dilettevole e suadente del canto a ricercare e amare le virtù civili e morali, e la bellezza.
Non a caso, quindi, uno dei generi più fortunati e praticati del secolo è la poesia didascalica, che celebra le nuove scoperte tecnico-scientifiche, i progressi della ragione e della civiltà. Benché spesso a disagio in un contesto sociale che – come in ogni epoca – è ben lontano dai valori a cui aspirano i poeti, la maggior parte di questi, invece di chiudersi in una torre d’isolamento o in un aureo passato di mirabile bellezza, s’impegna più o meno strenuamente per risvegliare e migliorare tanto il mondo politico-sociale e spirituale in cui opera, quanto le coscienze dei singoli individui, con le quali desidera davvero comunicare.
Nella poesia della seconda metà del secolo, poi, sono riscontrabili – soprattutto in ambito inglese e tedesco – motivi inediti e inquietanti, quali il gusto per il notturno, il sepolcrale e l’occulto; si delinea una rinnovata attenzione per le tradizioni liriche nordiche e popolari, che preannuncia una sensibilità nuova, passionale e tormentata e che si esprimerà ben presto in maniera piena e completa nei capolavori romantici.
Italia
Un fenomeno letterario di primaria importanza nel panorama settecentesco italiano è senz’altro l’Accademia dell’Arcadia, fondata nel 1690 da scrittori riunitisi intorno alla poliedrica personalità di Cristina di Svezia; questa si propone di contrastare il mauvais goût dei secentisti, propugnando un ritorno alla semplicità essenziale, nitida e “naturale” dell’arte classica.
Se è innegabile che l’Accademia (la quale assume poi respiro e diffusione nazionale) incoraggia molti dilettanti privi di genialità, di cultura e di tensione etica, è altrettanto vero che i suoi esponenti più ferrati in campo teorico (Gravina, Crescimbeni e Muratori) hanno grandi meriti: oltre a incoraggiare un ritorno a quella ragione che sarà di lì a poco adorata e difesa dagli illuministi, rinnovano l’interesse, e talora un vero e proprio culto, per le lettere classiche (alle quali i poeti barocchi hanno spesso preferito funamboliche stravaganze verbali), ponendo in primo piano valori come la musicalità, la scioltezza e, in special modo, la ragionevolezza e la sincera espressione dei sentimenti.
Tra i maggiori arcadi si possono annoverare l’imolese Giambattista Felice Zappi, malignamente definito dal Baretti “inzuccheratissimo”; il bolognese Eustachio Manfredi, assai attento al modello petrarchesco; e ancora il romano Paolo Rolli, il calibrato classicismo e la fresca melodiosità del quale si pongono fra gli esiti più interessanti della “scuola”; il genovese Carlo Innocenzo Frugoni, che nelle sue numerosissime e fortunate composizioni tocca una gamma molto ampia di temi e passioni; e infine il grande Pietro Metastasio, i cui numerosi drammi, ma anche le eterogenee poesie, analizzano con sottile levità situazioni e stati d’animo complessi.
Il poeta italiano che meglio rappresenta la Weltanschauung illuministica è certo Giuseppe Parini; vicino alla poetica arcadica nella sua prima raccolta (Alcune poesie di Ripano Eupilino, 1752), egli non è soltanto acuto e sarcastico fustigatore dei vizi e delle miserie di un’aristocrazia edonista, inattiva e vuota, ma altresì fiducioso cantore tanto di ideali senza tempo, come la dignità umana, la solidarietà e la libertà, quanto del progresso dei Lumi, delle scienze e delle tecniche. Sensibile alla lezione dei filosofi inglesi e francesi, il Parini, nelle Odi, dalle forme vigilatissime, e negli importanti scritti teorici, avalla una concezione della poesia quale straordinario strumento di elevazione all’amore per la bellezza, alla verità e ai più alti valori civili.
Giuseppe Parini
La vita rustica
Perché turbarmi l’anima,
O d’oro e d’onor brame,
Se del mio viver Atropo
Presso è a troncar lo stame,
E già per me si piega
Sul remo il nocchier brun
Colà donde si niega
Che più ritorni alcun?
Queste che ancor ne avanzano
Ore fugaci e meste,
Belle ci renda e amabili
La libertade agreste.
Qui Cerere ne manda
Le biade, e Bacco il vin;
Qui di fior s’inghirlanda
Bella Innocenza il crin.
So che felice stimasi
Il possessor d’un’arca,
Che Pluto abbia propizio
Di gran tesoro carca;
Ma so ancor che al potente
Palpita oppresso il cor
Sotto la man sovente
Del gelato timor.
Me non nato a percotere
Le dure illustri porte
Nudo accorrà, ma libero,
Il regno de la morte.
No, ricchezza né onore
Con frode o con viltà
Il secol venditore
Mercar non mi vedrà.
Colli beati e placidi
Che il vago Èupili mio
Cingete con dolcissimo
Insensibil pendio,
Dal bel rapirmi sento
che natura vi diè;
Ed esule contento
A voi rivolgo il piè.
Già la quïete, a gli uomini
Sé sconosciuta, in seno
De le vostr’ombre apprestami
Caro albergo sereno:
E le cure e gli affanni
Quindi lunge volar
Scorgo, e gire i tiranni
Superbi ad agitar.
Qual porteranno invidia
A me, che di fior cinto,
Tra la famiglia rustica,
A nessun giogo avvinto,
Come solea in Anfriso
Febo pastor, vivrò,
E sempre con un viso
La cetra sonerò!
Inni dal petto supplice
Alzerò spesso a i cieli,
Sì che lontan si volgano
I turbini crudeli,
E da noi lunge avvampi
L’aspro sdegno guerrier,
Né ci calpesti i campi
L’inimico destrier.
E te, villan sollecito,
Che per nov’orme il tralcio
Saprai guidar, frenandolo
Col pieghevole salcio:
E te, che steril parte
Del tuo terren, di più
Render farai, con arte
Che ignota al padre fu:
Te co’ miei carmi a i posteri
Farò passar felice:
Di te parlar più secoli
S’udirà la pendice.
Sotto le meste piante
Vedransi a riverir
Le quete ossa compiante
I posteri venir.
Tale a me pur concedasi
Chiuder, campi beati,
Nel vostro almo ricovero
I giorni fortunati.
Ah quella è vera fama
D’uom che lasciar può qui
Lunga ancor di sé brama
Dopo l’ultimo dì!
G. Parini, Le Odi, a cura di F. Giannessi, Treviso, Canova
Ma già prossimo per molti aspetti al romanticismo è il “forte sentire” di Vittorio Alfieri che si esprime in maniera vigorosa e convincente anche nelle intensissime Rime (1804, postume) – vero e proprio diario poetico – in cui il suo titanico, ribelle e appassionato individualismo adotta lo stile, tra diario e romanzo, del Canzoniere del Petrarca, letto peraltro in maniera molto personale e inquieta. Sdegnoso spregiatore della sua epoca, dilaniato da un insanabile conflitto interiore, Alfieri offre nelle poesie un autoritratto “sublime” della sua eroica tempra, assetata di gloria e insofferente a ogni vincolo.
Francia
Il Settecento poetico francese viene definito da molte voci critiche di ieri e di oggi un “deserto” privo di vitalità e attrattive, perché appiattito sui rigidi stilemi di un neoclassicismo freddo e purista, nato dall’esasperazione della già severa lezione del grande classicismo dei Boileau e dei Racine.
Sebbene i frutti letterari più cospicui del secolo dei Lumi siano espressi nella lucida prosa di Voltaire, in quella sentimentale di Rousseau o in quella paradossale e nervosa di Diderot e, in generale, nelle opere dei philosophes (quasi tutti scrittori di razza), anche certa poesia settecentesca d’Oltralpe si rivela ancora piacevole e affascinante, tutt’altro che povera di originali valenze contenutistiche e di insospettabili risorse stilistiche.
Nelle odi e nelle allegorie di Jean-Baptiste Rousseau, come in molti altri suoi versi, si manifesta un talento raffinato e versatile che, oltre a fornire alcuni degli esempi più rappresentativi del rococò letterario, gli permette di affrontare con elegante solennità anche argomenti religiosi, nei quali si esprime forse la sua migliore ispirazione.
Mentre Alexis Piron eccelle nella poesia leggera e caustica e diviene ben presto assai noto nei salotti e nei cenacoli letterari, Louis Racine, il figlio del grande Jean, è essenzialmente un poeta religioso: il suo ampio poema La religione contiene passi densi di immagini grandiose, che rivelano profondità teologica e una sentita eloquenza.
Pur riconoscendo in Voltaire il letterato più rappresentativo del suo secolo, spesso non si considera con la dovuta attenzione che proprio in poesia egli esprime buona parte del suo vivacissimo pensiero. Egli si cimenta sostanzialmente in tutti i generi poetici: la copiosa produzione in versi di Voltaire comprende l’Enriade (1728) e La pulzella (1755) – epopee che hanno per protagonisti due grandi figure della storia di Francia – i Discorsi sull’uomo (1738) e La legge naturale (1756) – poemi filosofici di impianto schiettamente illuministico – e inoltre odi, epistole, satire, poemetti, epigrammi, elegie ecc.
François-Marie Arouet de Voltaire
Goder, scrivere, vivere, o mio diletto Orazio!
Epistola ad Orazio
Goder, scrivere, vivere, o mio diletto Orazio!
Io già passai l’età del tuo gran protettore
allor che, recitata come un eccelso attore
la sua parte e sentendosi dalla morte assalito,
al fin della commedia voll’essere applaudito.
Io più di te già vissi; men dureranno i versi;
ma, presso a morte, io tutti i sensi miei dispersi
adunerò a seguire l’esperto tuo comando,
a disprezzar la morte, la vita assaporando,
a leggere i tuoi scritti, di sagge grazie intensi,
come si beve un vecchio vin che ravviva i sensi.
Con te, per te s’impara a soffrir l’indigenza
a goder saviamente d’una onesta opulenza,
a viver con sé stessi, a servire gli amici,
a burlarsi un pochetto degli stolti nemici,
a uscire da una vita o triste o fortunata,
ringraziando gli dèi d’avercela donata...
in Orfeo. Il tesoro della lirica universale, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze, Sansoni, 1974
Esperto conoscitore delle esperienze poetiche antiche e contemporanee, Voltaire si ispira soprattutto a Orazio, Virgilio, Ariosto e Tasso, a Pope e ai maggiori scrittori del secolo di Luigi XIV; tuttavia, egli impiega di solito il medium del verso per diffondere maggiormente le sue audaci e irriverenti idee etiche, religiose e politiche.
Senza soffermarci ora sulla lirica spirituale di Lefranc de Pompignan, né sulla felice abilità descrittiva di Delille o sull’intimismo venato di tristezza di certo Parny, dedichiamo qualche considerazione ad André Chénier, considerato universalmente come il più originale e dotato fra i poeti del secolo. Pur studiando in modo serio e devoto le letterature classiche (e particolarmente quella greca, che considera più vicina alla sua anima per metà ellenica), egli reinventa le lezioni di Omero e di Anacreonte, filtrandole attraverso una sensibilità insieme ricca, delicata ed esigente, e un pensiero in piena consonanza con le istanze ideologiche dei philosophes. La generosa individualità di Chénier e quella sua volontà di esprimersi appieno, confrontandosi con generi quali l’epopea e il poema scientifico, viene immaturamente stroncata dalla ghigliottina della Rivoluzione francese; egli riesce a ultimare soltanto alcune elegie, gli infuocati Giambi e poche altre liriche che preannuciano non pochi tratti tipici del romanticismo francese.
Germania
Fra i protagonisti del Settecento letterario tedesco i nomi di Klopstock, Goethe, Schiller e Novalis evocano ancor oggi immagini, pensieri e ritmi ben definiti e suggestivi.
Le due correnti di pensiero che influenzano in maniera determinante le lettere tedesche del Settecento sono l’ Aufklärung (Illuminismo) e il pietismo, e non è azzardato affermare che, nella produzione dei grandi poeti tedeschi, siano ravvisabili elementi o spunti riconducibili a questi movimenti.
Johann Christoph Friedrich Schiller
Der spielende Knabe
Poesie
Gioca fanciullo, sul grembo della madre! Sull’isola sacra
non ti tocca il tetro affanno, non ti tocca l’ansia;
amorose le braccia della madre ti reggono sopra l’abisso,
e innocente sorridi, sospeso la fossa che ribolle.
Gioca, cara innocenza! Intorno c’è ancora l’Arcadia.
e la libera natura segue solo il lieto istinto;
ancora la forza rigogliosa si crea fittizi limiti,
e l’animo volonteroso è senza il dovere e lo scopo.
Gioca! Fra poco verrà il lavoro, il macro, il grave lavoro
e al dovere che esige mancheranno la voglia e l’animo.
Testo originale:
Spiele, Kind, in der Mutter Schoss! Auf der heiligen Insel
Findet der trübe Gram, findet die Sorge dich nicht.
Liebend halten die Arme der Mutter dich über dem Abgrund,
Und in das flutende Grab lächelst du schuldlos hinab.
Spiele, liebliche Unschuld! Noch ist Arkadien um dich,
Und die freie Natur folgt nur dem fröhlichen Trieb;
Noch erschafft sich die üppige Kraft erdichtete Schranken,
Und dem willigen Mut fehlt noch die Pflicht und der Zweck.
Spiele! Bald wird die Arbeit kommen, die hagre, die ernste,
Und der gebietenden Pflicht mangeln die Lust und der Mut.
Antologia della poesia tedesca, a cura di R. Fertonani e E. Giobbio Crea , Milano, Mondadori, 1977
Un discorso a parte merita invece Johann Christian Günther, poète maudit morto giovanissimo nel terzo decennio del secolo: nei suoi numerosi componimenti egli canta con autenticità e intensità un universo sentimentale variegato e irrequieto, ove le gioie dei piaceri sensuali e di una spensierata serenità si alternano a proteste, a lamenti e a sofferte preoccupazioni di ordine spirituale.
Ma l’esponente principale del rococò tedesco è Christoph Martin Wieland che, oltre a tradurre e diffondere le opere teatrali di Shakespeare brillando nel romanzo e nel racconto, compone l’ Oberon (1780), suggestivo poema cavalleresco erotico-avventuroso, in cui lo spirito illuminista ironico e sottile di Wieland fonde mirabilmente elementi shakespeariani con temi e motivi tratti da quel ciclo carolingio che sta tornando in auge.
Opponendosi nettamente al più affettato rococò e al classicismo manierato di certi poeti “anacreontici” suoi contemporanei, Friedrich Gottlieb Klopstock, il maggior esponente del pietismo, propugna una poetica nobile, “impegnata” e di ampio respiro: considerando il poeta come un ispirato dalla divinità, egli non esita ad affrontare, nella sua grande epopea, l’ambiziosa, sterminata materia della passione del Messia e il percorso della redenzione. Il messia (1748-1773) costituisce un ampio poema di 20 canti in esametri sciolti, in cui s’avvertono una potente tensione etico-spirituale e un titanico sforzo, teso a cantare l’ineffabile dello splendore divino; a tali aspirazioni contenutistiche corrispondono soluzioni stilistiche ricche di movimento, tensione e contrasti, di cui gli scrittori che aderiranno allo Sturm und Drang faranno tesoro.
Fra i talenti che partecipano a questo movimento culturale, teorizzato soprattutto da Johann Gottfried Herder e caratterizzato dall’esaltazione della libertà (tanto in campo teologico quanto in quello formale), del sentimento e dell’istintività più naturale, nonché dal rifiuto del razionalismo illuminista e di ogni convenzione sociale, vanno annoverati – oltre ai giovani Goethe e Schiller – Jakob Michael Reinhold Lenz, Friedrich Müller e Friedrich Maximilian Klinger.
Tralasciando in questa sede la trattazione delle grandiose aspirazioni del primo Goethe, accenneremo invece al veloce superamento delle posizioni sturmeriane compiuto da Schiller.
Non riuscendo ad accogliere quell’irrazionalità “selvaggia” e legibus soluta, egli preferisce un’etica più razionale e rigorosa, ispirata alla lezione degli illuministi e di Kant; rifacendosi, quindi, a un’estetica classicista più equilibrata, che teorizza in numerosi scritti e concretizza nelle sue poesie più riuscite, Schiller dipinge un’umanità riconciliata con se stessa e con la natura, grazie alla forza meravigliosa della bellezza.
Gran Bretagna
In Inghilterra il poeta che rappresenta nel modo più geniale e completo le idee e i fermenti dell’Illuminismo è Pope. Più che nelle Pastorali (1709), nel poemetto La foresta di Windsor (1713) o nei suoi interessanti saggi filosofico-morali ed estetici in versi, questo insigne rappresentante del rococò europeo manifesta un’originalità beffarda e allusiva; egli rivela inoltre un’arte calibratissima nel Ricciolo rapito (1712), “squisito lavoro in filigrana” in cui, partendo da uno spunto effimero (le avventurose vicende di un ricciolo della chioma dell’avvenente Belinda), dimostra la sua capacità di satireggiare garbatamente sulle pecche della società contemporanea e insieme di delineare i tratti più pittoreschi di un milieu leggiadro e frivolo, prescrivendo con tatto regole di buon gusto e di comportamento, a suo avviso universali e assolute. Fra le altre sue opere, degni di nota sono il poema satirico La zucconeide e la magistrale traduzione dell’Iliade.
Nelle eterogenee composizioni poetiche di Young, Thomson, Gray e Collins vengono affrontati una gamma di temi e motivi che saranno assai cari ai romantici in generale e, in particolare, ai laghisti: fra gli elementi comuni ricorrenti spiccano l’amore per la riflessione solitaria e malinconica; il gusto per l’onirico, il sepolcrale e il tenebroso; l’interrogarsi inquieto sulla morte; l’interesse non epidermico per la lirica “primitiva”, celtica e scandinava.
Thomas Gray
Suona il coprifuoco: saluto estremo del morente giorno
Elegia scritta in un cimitero campestre
Suona il coprifuoco: saluto estremo del morente giorno;
pigro erra e mugge per i pascoli l’armento.
Il cammin stanco volge lento alla casa l’aratore;
e alla tenebra e a me abbandona il mondo.
Fioca la luce del paese smuore ora alla vista;
alto silenzio via per l’aria domina.
Torno torno, il ronzio soltanto d’uno scarabeo che vola,
e dai lontani ovili, un tintinnio di sonno simile a ninna nanna.
Ma dalla torre laggiù, cui l’edera veste, stupida la civetta
della luna si duole,
che, il suo segreto rifugio sfiorando, la solitudine antica del
suo regno disturbi.
Sotto questi olmi scabri, all’ombra dei tassi, dove gonfia
in polverosi tumuli la terra,
nel proprio loculo angusto, steso ciascuno per sempre, dormono
del villaggio i rudi progenitori.
Chiama la brezza del mattino odoroso, e dalla capanna
di strame la rondine coi suoi stridi,
chiama, clangor di corno squillo di clarino, il gallo:
non più li sveglierà dall’umile giaciglio.
Non più loro brillerà fiamma di focolare, né la massaia
assidua s’affaccenderà per loro la sera;
non più bisbiglio di bambini in corsa accoglierà il babbo
al ritorno; né più per l’invidiato bacio gli si arrampicheranno ai ginocchi.
Rigogliosa fu spesso alla loro falce la messe, e dure glebe
il loro solco infranse;
come giocondi punsero l’aggiogate coppie sul campo; come
si piegarono i tronchi sotto il loro colpo gagliardo!
Né lasciarono che l’ambizione irridesse alla loro fatica buona,
alle loro gioie casalinghe, al loro destino oscuro;
né la grandezza, con altezzoso sorriso, alle semplici modeste
vicende del povero.
La vanagloria araldica, la pompa del potere e ogni cosa
bella, e quanto mai abbia donato ricchezza,
egualmente attende l’ora inevitabile; il sentiero della gloria
porta alla tomba soltanto.
Testo originale:
The curfew tolls the knell of parting day,
The lowing herd wind slowly o’er the lea,
The ploughman homeward plods his weary way,
And leaves the world to darkness and to me.
Now fades the glimmering landscape on the sight,
And all the air a solemn stillness holds,
Save where the beetle wheels his droning flight,
And drowsy tinklings lull the distant folds;
Save that from yonder ivy-mantled tower
The moping owl does to the moon complain
Of such, as wandering near her secret bower,
Molest her ancient solitary reign.
Beneath those rugged elms, that yew-tree’s shade,
Where heaves the turf in many a mouldering heap,
Each in his narrow cell for ever laid,
The rude forefathers of the hamlet sleep.
The breezy call of incense-breathing morn,
The swallow twittering from the straw-built shed,
The cock’s shrill clarion, or the echoing horn,
No more shall rouse them from their lowly bed.
For them no more the blazing hearth shall burn,
Or busy housewife ply her evening care:
Or children run to lisp their sire’s return,
Or climb his knees the envied kiss to share.
Oft did the harvest to their sickle yield;
Their furrow oft the stubborn glebe has broke;
How jocund did they drive their team afield!
How bowed the woods beneath their sturdy stroke!
Let not Ambition mock their useful toil,
Their homely joys, and destiny obscure;
Nor Grandeur hear with a disdainful smile,
The short and simple annals of the poor.
The boast of heraldry, the pomp of power,
And all that beauty, all that wealth e’er gave,
Awaits alike the inevitable hour.
The paths of glory lead but to the grave.
T. Gray, Elegy Written in a Country Church-Yard, a cura di L. Roberti-Fletcher, Firenze, Sansoni, 1952
Contemporaneo dei suddetti autori è Macpherson che pubblica i Canti di Ossian (1760-1765).
Si tratta, di fatto, di un “falso”: l’autore inserisce, all’interno di una sua costruzione epica, frammenti estratti da poesie popolari irlandesi in lingua gaelica, facendo credere che il tutto sia la rielaborazione delle rapsodie del mitico bardo celtico Ossian. In essi abbondano emozionanti descrizioni di sinistre rovine, di amori e battaglie, entro una natura verde e cupa velata di mistero. La grande fortuna e l’influsso esercitato dai Canti di Ossian non si è, in realtà, limitato al Settecento e per ricostruirne la storia si dovrebbe passare attraverso l’intero romanticismo europeo.
Spagna
Nella Spagna illuminista fioriscono numerose accademie, volte fra l’altro a canonizzare e dar lustro al castigliano, valorizzando il glorioso patrimonio storico nazionale. Tra le voci poetiche non si possono trascurare Tomás de Iriarte e Félix María de Samaniego che, sugli esempi di Fedro e di La Fontaine, si cimentano felicemente nel non facile genere della favola in versi. Ma forse il poeta lirico più originale del suo tempo è Juan Meléndez Valdés che ottiene apprezzabili risultati tanto nel lieve registro anacreontico quanto in quello malinconico-sepolcrale; nelle opere, ora ferventi ora malinconiche, di Nicasio Álvarez de Cienfuegos si riscontrano, infine, tematiche ossianiche che preannunciano certa poesia del XIX secolo.
Portogallo
In ambito portoghese si segnala l’opera poetica di Diniz da Cruz e Silva, convinto fautore di un Illuminismo classicheggiante. Nella seconda metà del secolo egli anima un importante cenacolo letterario, l’Arcadia lusitana, i cui adepti avversano le audacie e l’ermetismo di Góngora e dei suoi seguaci, aspirando a modelli e ideali non dissimili da quelli degli arcadi italiani.
Russia
Nel corso del XVIII secolo la Russia si avvia lentamente verso forme politiche meno oppressive e isolazioniste, avvicinandosi gradualmente alla cultura europea. Le tre personalità di spicco nell’ambito della poesia russa sono Kantemir, vivace poeta satirico attratto dal classicismo francese; Lomonosov, “uomo universale” che scrive, fra l’altro, eleganti composizioni didascaliche; e Deržavin, il maggiore lirico del suo tempo, che dà nuova vita al genere dell’ode, grazie a uno stile libero ed efficace e a una non comune sincerità d’ispirazione. Da loro prende slancio una poesia nuova, sino a Puškin.