La poesia
Aisthánomai
«Che cos’è la poesia». Domanda – o risposta – impossibile come poche altre; nessuno, infatti, è mai riuscito a dare una definizione soddisfacente, forse perché troppo spesso si è tentato di dire che cos’è la letteratura, evitando di fare i conti con un ente inafferrabile, sfuggente, forse addirittura precategoriale, come la poesia. Non per caso il secondo dopoguerra si apre sulla domanda di Jean-Paul Sartre: che cos’è la letteratura? (Qu’est-ce que la littérature?, 1948; trad. it. 1960), si apre quindi sulla convinzione che lo scrittore debba essere socialmente (per non dire politicamente) impegnato. D’altronde, se la letteratura è un’istituzione che sta nel mondo, ovvero nella storia e nel sociale, non stupisce che per delimitare il concetto di letteratura si sia spesso (quasi sempre) fatto ricorso a più ampi sistemi di pensiero. Il marxismo, per es., con György Lukács, ha sostenuto che la letteratura è uno dei riflessi della struttura economico-sociale, quindi non molto più di un documento utile per capire un certo periodo storico. In quest’ottica la poesia è l’epifenomeno di un epifenomeno, anche perché in essa la dimensione economico-sociale è davvero poco evidente. Le posizioni di ambito marxista sono state varie, tutte però rientranti in un’ottica che emarginava il soggetto scrittore, il quale, invece, era al centro delle teorie di derivazione psicoanalitica, a cominciare da Sigmund Freud, cui è stato rimproverato di mettere sul lettino lo scrittore e di ‘analizzarlo’ sulla base delle sue opere, tanto da ridurre la letteratura a sintomo dello stato mentale di colui che la produce. Questa obiezione ha fatto sì che sorgessero numerose altre teorie su base psicoanalitica, da Jacques Lacan a Francesco Orlando. La psicoanalisi, inoltre, è stata associata in vari modi al marxismo e allo strutturalismo, movimento a sua volta diversamente declinato, ma che in sostanza rivendicava la centralità del testo e, in particolare, proprio del testo poetico, preso in considerazione, però, come mero meccanismo linguistico. Infatti – partendo più o meno legittimamente di volta in volta da Ferdinand de Saussure o da Roman Jakobson – si sosteneva che il valore poetico risiedesse nello scarto linguistico dalla norma o nella ‘funzione poetica del linguaggio’.
Nell’insoddisfazione per le teorie dominanti nel secondo dopoguerra, forse si possono citare almeno due frasi di Benedetto Croce, che allora era comunque ancora vivo, attivo e molto influente: «In quanto è simbolo e segno, l’espressione prosastica non è parola, come per un altro verso non è parola la manifestazione naturale del sentimento, e sola parola è veramente l’espressione poetica», e, citando Giambattista Vico e Johann G. Herder, «La prima parola […] non fu un vocabolo da vocabolario, ma un’espressione in sé compiuta e, come in boccio, la prima poesia» (La poesia, 1953, pp. 18 e 19). L’insoddisfazione rimane, ma Croce sembra più vicino di altri a un’accettabile idea di che cos’è la poesia. Comunque, continuare in una dettagliata rassegna delle definizioni di letteratura e, in qualche caso, di poesia, non ci porterebbe molto lontano, anche perché ci immergerebbe nell’estetica, cioè in una disciplina filosofica che si occupa del bello. Ma nella poesia, piuttosto, si gioca la partita dell’etica, non dell’estetica. Per ripartire dall’etimologia: il greco aisthánomai (da cui deriva estetica) significa ‘sento’, e quel ‘sento’ originario dà l’impressione di avere poco a che fare con il bello, con qualcosa di risolto; sembra piuttosto indicare un’origine drammatica dell’opera d’arte: la comunicazione allo stato nascente di un ‘sentire’. Siamo in un punto in cui non si distinguono ancora etica ed estetica. Quel ‘sento’ viene prima del bello e del buono, pur essendo la condizione per la loro possibile apparizione. Aisthánomai è un modo d’essere antropologico votato all’espressione di un sentire la cui prima conseguenza non è estetica ma etica in quanto rivolta agli altri perché partecipino (e reagiscano) al mondo che irrompe da quel sentire indipendentemente dall’‘estetica’. Quel ‘sento’ è un atto di forza, esprime l’incontenibile violenza originaria della comunicazione artistica. Si possono richiamare Stendhal e Friedrich Hölderlin. Nota a tutti è la sindrome di Stendhal: l’impatto che l’opera d’arte ha su di noi può essere tanto forte da provocare una tempesta emotiva e addirittura la perdita della coscienza. Hölderlin nelle note all’Antigone dice che nella tragedia greca si attua «der wirkliche Mord aus Worten», ovvero che le parole dell’arte uccidono, e uccidono davvero (in Sämtliche Werke, 1957; trad. it. Scritti di estetica, 1987, p. 149). «La parola tragica greca di fatto è mortale», insiste Hölderlin; e George Steiner glossa: «Si impossessa del corpo umano e lo uccide» (Antigones, 1984; trad. it. 1990, p. 107). Se così è, se quindi aisthánomai pone il problema del controllo della violenza, siamo subito in una dimensione etica: come governare quella violenza, quel ‘sentire’ originario, quel ‘modo di conoscere’ tanto inquietante? L’ipotesi è che l’estetica nasca come una forma dell’etica, ma subito in modo estremo: la filosofia si preoccupa di sterilizzare la violenza della creazione rovesciando il significato di aisthánomai nel suo contrario. Platone, infatti, inaugura una teoria razionalistica e negativa. Un atteggiamento che avrà un successo incredibile nella storia del pensiero. Se l’arte è una copia della natura, la quale a sua volta non è che un simulacro della realtà ideale, il suo valore gnoseologico è praticamente nullo. Già all’inizio del pensiero occidentale siamo allo svuotamento di quel ‘sento’. In modo perverso – per un eccesso di controllo – l’etica si trasforma in estetica.
Con Aristotele e con il concetto di catarsi cambia qualcosa, o forse molto, se si pensa che per Platone catarsi è purificazione in funzione metafisica («E la purificazione non sta forse nel separare il più possibile l’anima dal corpo?», Fedone, 67 b), mentre per Aristotele catarsi è parola di ambito medico che, per estensione, dalla cura delle affezioni del corpo viene applicata alle affezioni dell’emotività e quindi alla poesia. L’accento sul corpo e sull’affettività, ai miei occhi, avvicina la posizione di Aristotele al significato della parola estetica in quanto dottrina della conoscenza sensibile, conoscenza che ha a che fare con aisthánomai, se è vero che le emozioni – come ci spiegano le neuroscienze – sono la parte più corporale del nostro modo d’essere mentale. In questa accezione il concetto di catarsi in ambito poetico comporta l’idea della continua trasformazione, quindi del continuo ripetersi di aisthánomai che, secondo Aristotele, viene portato in equilibrio proprio attraverso la catarsi: la tragedia «mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni» (Poetica 5-6, 1449 b). Equilibrio che viene, però, sempre perso, e quindi nuovamente sottoposto al processo catartico. È un’idea di poesia in contatto con quel sentire originario che rappresenta la fonte dell’espressione e della creatività. Il concetto di catarsi tende a dare cittadinanza all’inevitabile manifestarsi di aisthánomai.
Sarebbe interessante vedere come l’umanità occidentale si è posta nei secoli nei confronti della creatività poetica e come l’estetica ha gestito tanta violenza, sia sul versante della sterilizzazione platonica, sia sul più fluido e contraddittorio versante ‘aristotelico’. Qui si può solo osservare come – tra precettistiche medievali e rinascimentali, manierismi barocchi e razionalizzazioni classicistiche – forse con la sola eccezione del Romanticismo, in varie forme e con varie declinazioni non ci si sia troppo allontanati nel corso del tempo da un atteggiamento teso a disinnescare il perturbante (avrebbe detto Freud) contenuto in quel ‘sento’, più che riconoscerne la preziosa funzione di mantenere l’umanità in contatto con sé stessa, con la propria essenza. Che poi è la vera funzione etica profonda della poesia: tentare di impedire che la dimensione del pensiero razionale prenda tutto il campo relegando la metà non razionale nei cieli della religione e dell’estetica (ovvero della metafisica). Una battaglia che nel mondo occidentale la poesia ha perso. Certo è, infatti, che nella modernità Platone docet nella hegeliana morte dell’arte (che non è altro che l’auspicato annientamento del problema, ben più radicale della platonica messa al bando dei poeti), nel rispecchiamento marxista (che sembra la parodia ‘sociale’ di Platone), nelle perfette sterilizzazioni di aisthánomai delle estetiche di ispirazione strutturalista. Insomma, alla fine è sempre da Platone che derivano tutti quelli che vogliono negare alla radice la vitalità di quel ‘sento’. Allora l’estetica è davvero la disciplina del bello, della fredda armonia o della fredda disarmonia, anche se si può sostenere – è legittimo sostenere – che l’estetica platonica è stata un modo per disinnescare la violenza originaria contenuta in aisthánomai, quindi una prima risposta ‘etica’ (v. Repubblica, 111, 386 a e sgg., in cui si dice che i poeti sono pericolosi per la morale pubblica). Ma si tratta di un’etica delle leggi. Ho appena detto che la vera dimensione etica della poesia è la capacità di mantenere l’umanità in comunicazione con sé stessa, ovvero la capacità di attivare sempre e comunque il meccanismo originario che fonda, e continua a fondare, il senso, che è ciò che fa l’unicità della nostra specie, la caratteristica che le ha consentito di sopravvivere e dominare. In quest’ottica, in un’ottica opposta a quella di Platone, se si può dire (parafrasando Gerald M. Edelman) che la capacità di fondare il senso è stata decisiva per la vittoria della nostra specie sugli altri esseri viventi, si può anche dire che la poesia è stata importante, forse discriminante, dal punto di vista evolutivo darwiniano.
E questo è, precisamente, il suo originario, primario, ontologico carattere etico.
Forse a questo punto si arricchisce di significato l’affermazione di Croce, che mi permetto di ricordare: «In quanto è simbolo e segno, l’espressione prosastica non è parola, come per un altro verso non è parola la manifestazione naturale del sentimento, e sola parola è veramente l’espressione poetica». Ciò che fa la differenza tra l’espressione poetica e la manifestazione naturale del sentimento è la sua ontologia etica. Questa, naturalmente, è la ragione per cui: «La prima parola […] non fu un vocabolo da vocabolario, ma un’espressione in sé compiuta e, come in boccio, la prima poesia». Il primo condensato di essere, il primo mondo interiore che costruirà il mondo. Johann Wolfgang von Goethe, nella prima parte del Faust (1, 491, 492) ha le idee molto chiare, non per caso l’Erdgeist (lo spirito della Terra) quasi aggredisce Faust: «Dov’è il petto che in sé creava un mondo, / lo portava e nutriva?». La poesia consiste nella possibilità-capacità di creare, portare e nutrire un mondo dentro di sé, e questo, proiettandosi fuori, crea il mondo toutcourt. Il problema del Faust è tutto qui: alla fine del Settecento cominciava la modernità e l’atteggiamento nichilista intaccava la fondazione etica della poesia. Con conseguenze sulle arti incalcolabili e non ancora esaurite. Forse, finito il Novecento, è possibile ricominciare a valutare, è possibile tentare dei bilanci, una volta capito che l’opera d’arte pone soprattutto problemi etici. I cosiddetti problemi estetici sono del tutto inessenziali, temi per filosofi e letterati.
Biologia
Il problema dei poeti, invece, è davvero che cos’è la poesia, perché loro sanno che la risposta coinvolge la possibilità stessa di produrre quegli oggetti mentali che poi saranno detti poesia. Forse possiamo ripartire da un’intuizione di Gottfried Benn e provare a cogliere «la natura della poesia nel suo concetto e nel suo essere grazie a un’ipotesi nuova, e collocarla all’interno del processo biologico in quanto fenomeno di carattere primario» (Sämtliche Werke. Prosa 1, 1987; trad. it. Problematica della lirica, in Lo smalto sul nulla, 1992, p. 28). Benn mette insieme cose in apparenza inavvicinabili, la poesia e la biologia, e intuisce che la poesia ha un carattere primario; non solo essa non è orpello o letteratura, ma è primaria in senso antropologico. Questa indicazione ci porta a pensare che la poesia, in quanto attività della mente, è costitutiva, addirittura fondante o fondativa, di quell’essere che noi siamo. Ma se è così imprescindibile (biologica) e se è pensiero (concetto), forse possiamo avanzare l’ipotesi che la poesia sia la forma del pensiero. Dire questo significa affermare che il pensiero (in tutte le sue possibilità) è prioritariamente o primariamente ‘poetico’; significa che la nostra mente è strutturata per dare vita a quella forma del pensare e non ad altre. La poesia, quindi, è la forma della mente (cfr. G. Manacorda, La poesia è la forma della mente. Per una nuova antropologia, 2002) che, a sua volta, produce pensiero, che non può che essere poetico. Ciò nega la supremazia del pensiero razionale, il quale allo stato puro, o solo prevalente, nella mente umana non esiste. Infatti, se davvero prevalesse, dovremmo accettare che il mondo sia privo di senso: su base razionale, infatti, tutte le teorie e le filosofie negative – i nichilismi – hanno un fondamento. Eppure l’umanità sopravvive, e sopravvive perché il suo modo di pensare è poetico, cioè capace di creare visioni del mondo, capace di produrre senso: «Ma solo poeticamente abita l’uomo su questa Terra», scrisse Hölderlin (Sämtliche Werke, 6° vol., 1923, p. 25). E forse oggi lo possiamo provare grazie alle più recenti neuroscienze, proprio sulla base di quella dimensione biologica cui alludeva il medico G. Benn. Antonio R. Damasio dice che «sia nell’evoluzione, sia in ogni singolo individuo, le strategie della ragione umana probabilmente non si sono sviluppate senza la forza guida dei meccanismi di regolazione biologica dei quali emozione e sentimenti sono espressioni notevoli» (Descartes’ error. Emotion, reason, and the human brain, 1994; trad. it. 1995, p. 18). Sembra la conferma dell’ipotesi del ‘modo di pensare della poesia’ come decisiva modalità della mente. Ma non basta: G.M. Edelman, partendo dalla constatazione che «la filosofia è un cimitero di ‘ismi’» (Bright air, brilliant fire: on the matter of the mind, 1992; trad. it. Sulla materia della mente, 1993, p. 244), sostiene che «la mente è nata sulla base di una nuova morfologia evolutiva» e precisa che «reintegrare la mente nella natura è possibile» (p. 246). Edelman dice anche che «non c’è alcun bisogno di spingersi al di là della biologia stessa […] per render conto della coscienza» (p. 248), e aggiunge che la coscienza, cioè il senso di sé (individuale e della specie), «è efficace dal punto di vista evolutivo» (p. 247). Tutto ciò non solo vuol dire che ‘io esiste’, ma coinvolge il problema della fondazione dei valori, del senso e, addirittura, dell’etica, ovvero della poesia. I valori sono funzionali all’evoluzione. Infatti «un essere umano cosciente, fungendo da sistema selettivo somatico, fa uso di vincoli relativi ai valori per concepire il futuro in termini di categorie e di obiettivi» (p. 249), proprio in virtù del fatto che «il corso delle sensazioni e delle percezioni di ogni singolo individuo è unico, irreversibile e caratteristico di quell’individuo» (p. 250), perché «ciascuno di noi è un esemplare unico (e ciò è significativo)» (p. 241).
Questi concetti possono comportare il tramonto del pensiero negativo: «Una nuova concezione scientifica della mente, basata sulla biologia, – prosegue Edelman – può contribuire ad orientare la filosofia verso una visione più fiduciosa della vita» (p. 244). Infatti, «una teoria adeguata del cervello promette di offrire le basi di armonie nuove, comprese quelle che ci consentiranno di trovare il nostro posto nell’universo» (p. 241). Se le cose stanno così, dobbiamo accettare che esiste una via d’uscita dal nichilismo: siamo fatti in modo da non poter non fondare valori. Se non producessimo più senso la nostra specie si estinguerebbe. E il nostro modo di inventare il senso è ‘poetico’. L’idea che la poesia sia la forma della mente è confermata dal libro che George Lakoff e Mark John-son hanno dedicato alla metafora e al vivere quotidiano. Essi, infatti, dicono che «il nostro comune sistema concettuale, in base al quale pensiamo e agiamo, è essenzialmente di natura metaforica» (Metaphors we live by, 1980; trad. it. Metafora e vita quotidiana, 1998, p. 21). È dal loro lavoro che prende l’avvio lo psicologo cognitivista Raymond W. Gibbs Jr per fare un primo esplicito passo verso il nesso metafora-poesia. Egli corregge «la concezione tradizionale che si ha della mente, in quanto la cognizione umana si struttura secondo processi poetici o figurati. La metafora, la metonimia, l’ironia e le altre figure retoriche non sono infatti distorsioni linguistiche di un pensiero mentale letterale; costituiscono invece gli schemi di base per mezzo dei quali comprendiamo le nostre esperienze e il mondo esterno. Dato che ogni costruzione mentale rappresenta un adattamento al mondo da parte della mente, la mente che esprime queste costruzioni manifesta il perenne operare del pensiero poetico» (The poetics of mind. Figurative thought, language, and understanding, 1994; trad. it. La poetica della mente. Pensiero, linguaggio e comprensione figurati, 2006, p. 3). Pertanto Gibbs metterà in risalto «il modo in cui gli aspetti metaforici della lingua rivelano la struttura poetica della mente» (p. 3).
I corsivi servono a evidenziare che cosa è la poesia. Una visione poetica del nostro essere (o esserci) è una visione immanente e unitaria (non metafisica), anche perché «è metaforica larga parte della concettualizzazione dell’esperienza, fatto che motiva e limita nel contempo il modo in cui si dà il pensiero creativo» (p. 7). Dunque, il fatto che la concettualizzazione dell’esperienza sia largamente metaforica «motiva» il modo in cui si dà il pensiero poetico, che si dà così, e non altrimenti, perché questa è la struttura della concettualizzazione. Ciò che va spiegato è quel «limita». Il concetto di limite (che ha a che fare anche con la dimensione etica di cui parla Edelman e quindi con la fondazione e percezione dei valori, anche artistici) sul piano della poesia indica che ci sono dei limiti alla creatività. È la fine dell’arbitrio in poesia, quando invece tutto il Novecento si è basato proprio sulla illimitata libertà dell’artista, tanto che in poesia tutto era possibile e nulla doveva essere giustificato, fino a perdere il senso del valore, e la stessa possibilità del giudizio critico. Con il concetto di limite, Gibbs – il quale, sarà bene precisarlo, non si occupa di poesia – ci offre la possibilità di dire che i poeti non hanno libertà, o ne hanno poca. E in questa assenza di libertà sta propriamente la poesia. Infatti: se ogni processo cognitivo è strutturalmente metaforico, la creatività dei poeti è limitata da questo o, viceversa, da questo è consentita. Altrimenti detto: se abbiamo capito che la poesia esiste perché la nostra specie funziona secondo la modalità della poesia, non si tratta di un limite, ma di una condizione: non potremmo nuotare se non esistesse l’acqua o, meglio ancora, non potremmo respirare se non esistesse l’aria. Tutti respirano, e poi c’è qualcuno che sente il ritmo del respiro. Avendo citato una poesia di Emily Dickinson sull’amore, Gibbs glossa: «È assai probabile che persone di grande creatività offrano realizzazioni artistiche originali di metafore concettuali che strutturano le nostre esperienze» (p. 7). Ovvero: i poeti – se non vogliono allontanarsi dalla poesia – non possono esulare dal sistema ‘ordinario’ delle metafore che strutturano la concettualizzazione dell’esperienza e del mondo esterno. Se lo fanno, non sono più poeti, perché dal regno della necessità (senza la quale non c’è poesia) saltano nel regno dell’arbitrio ‘razionale’ per cui tutto è associabile a tutto – e a nulla, che è lo stesso. Se la mente funziona metaforicamente, ecco che la poesia non ha nulla di arbitrario: è solo il nostro modo di capire e rappresentare il mondo o, viceversa, di rappresentare e quindi capire il mondo. «Non è illimitato il modo in cui comunemente si parla né il modo in cui gli scrittori compongono le loro opere. […] Non si sceglie di esprimere la rabbia nei termini del giardinaggio o della spesa alimentare, ma usando espressioni come sbottare, diventare paonazzo, esplodere, e così via» (p. 8). Insomma, esiste una mappa delle metafore di base, degli «schemi metaforici sottostanti del pensiero che delimitano, e definiscono persino, il modo in cui si pensa, si ragiona e si immagina» (p. 9). Per questo si può parlare di una sorta di isomorfismo tra la poesia e la mente. Detto altrimenti: nessuna metafora può essere ‘infondata’, scelta ad libitum, arbitrariamente, pena lo scollamento dalla mente o nella direzione della razionalità delirante o nella delirante mimesi dell’inconscio. In questo senso non c’è molta differenza tra razionalità assoluta e assoluta follia. In ambedue i casi, infatti, si perde la poesia.
Gibbs esplora il confine tra l’uso comune del pensiero metaforico e l’uso creativo, e dice che «non è creare nuove categorizzazioni dell’esperienza quello che fanno innanzitutto i poeti, bensì parlare in modi nuovi delle implicazioni metaforiche delle mappature concettuali comuni» (pp. 7-8), e ciò consente loro di portare in superficie un’area della mente che altrimenti rimarrebbe invisibile.
Quindi, se il sistema delle metafore ‘naturali’ è dato, i poeti non devono necessariamente inventare nuove metafore, anzi, forse è bene che non lo facciano (non è la novità ciò che conta). Tuttavia, i poeti hanno davvero una dote in più: sanno accostare le metafore, sanno associare le immagini che popolano la nostra mente in modo inusuale, diverso, e quindi più ricco rispetto ai comuni parlanti. Questo è possibile per il semplice fatto che tutte le figure retoriche infine non sono che metafore: forme diverse della metafora. Tutte, infatti, si fondano su un unico principio: il principio della sostituzione di un’immagine con un’altra. Lakoff e Johnson affermano: «L’essenza della metafora è comprendere e vivere un tipo di cosa nei termini di un altro» (Metaphors we live by, 1980; trad. it. 1998, p. 24). Che ciò avvenga per via metonimica, ironica, ossimorica o altro non è essenziale: si tratta sempre di una sostituzione o, meglio, di una traduzione.
Sul concetto di traduzione occorre soffermarci. Secondo Freud «a causa della particolare natura della nostra conoscenza, il nostro lavoro scientifico nell’ambito della psicologia consisterà nel tradurre i processi inconsci in processi consci» (Abriss der Psycho-analyse, 1938; trad. it. Compendio di psicoanalisi, in Opere, 11° vol., 1979, p. 644). Non è un caso se Freud si sentiva un traduttore. Tradurre, infatti, non solo è necessario, ma è inevitabile. Una delle aporie di fondo dell’essere umano è che senza tradurre non esiste come tale; comunicare e pensare non significano altro che tradurre: «Il linguaggio – scrive Jean-Pierre Changeux – con il suo sistema arbitrario di segni e simboli, serve da intermediario tra il ‘linguaggio del pensiero’ e il mondo esterno. Esso serve a tradurre gli stimoli o gli avvenimenti in simboli o concetti interni, poi, partendo dai nuovi concetti prodotti, a ritradurli in processi esterni» (L’homme neuronal, 1983; trad. it. 1983, p. 160). Come ciò avvenga è spiegato da A.R. Damasio. In quale modo il cervello – che è materiale – produce la mente – che è immateriale? Forse la mente è strutturalmente metaforica perché il processo della produzione di mente, il passaggio dal cervello alla mente, dal materiale all’immateriale, dal fisico al non-fisico, è a sua volta metaforico. Non è facile spiegare come ciò avvenga in termini di ‘rappresentazioni disposizionali’ o di ‘rappresentazioni topograficamente organizzate’ di circuiti neuronici. Tuttavia, si può ricordare un esperimento citato da A.R. Damasio: «Facendo impiego di un metodo di visualizzazione neuroanatomica, R.B.H. Tootell ha dimostrato che quando una scimmia vede determinate forme (una croce, un quadrato) l’attività dei neuroni delle cortecce visive di ordine inferiore è topograficamente organizzata secondo uno schema che corrisponde alle forme che la scimmia sta vedendo. In altre parole, un osservatore indipendente che guardasse allo stimolo esterno e allo schema dell’attività cerebrale, riconoscerebbe una somiglianza strutturale» (Descartes’ error, 1994; trad. it. 1995, p. 159). È evidente che qui siamo a un primo passo, al più elementare, ma ugualmente sconvolgente: quando guardiamo un oggetto, per poterlo vedere, e quindi anche pensare, lo dobbiamo riprodurre nel cervello, lo dobbiamo disegnare neuronicamente. La prima considerazione è che la conoscenza di una cosa sembra avere la forma della cosa che si conosce, esiste una somiglianza strutturale. La «rappresentazione topografica» è analoga all’immagine esterna. «L’avere una tale rappresentazione nella corteccia cerebrale – avvisa Damasio – non equivale ad esserne consci» (p. 159). E, soprattutto, non equivale ancora ad avere una mente che pensa per immagini. Ma ci vuole poco a rendersi conto che il meccanismo base della conoscenza per immagini è analogico fino al punto di essere metaforico. Il nostro cervello, nel momento in cui diventa mente costruisce un’immagine analoga, che poi sostituisce l’immagine vera realizzando così una metafora. Il cervello-mente non copia dal vero, riscrive il vero, o ridisegna la struttura, la traduce (si ricordi l’importanza della traduzione) in circuiti neuronici, e lo fa continuamente e cangevolmente: noi non siamo la fotocopia della realtà, la interpretiamo costruendo immagini. O forse dovremmo dire che copiamo dal vero, ma ogni cervello, ogni mente, ha la sua ‘mano’ e quindi la sua copia (in qualche modo una rappresentazione disposizionale è già un manufatto umano, per quanto interno e invisibile, ma chissà se è già immateriale come la mente) non è che una metafora, cioè arte. La metafora è la forma visibile della traduzione-sostituzione, e il luogo della ‘visibilità’ è la lingua perché lì un’immagine sonora è al posto di un’immagine vera. Per questo si può affermare che il pensiero è ontologicamente metaforico. Ovvero: se non c’è alcuna mente senza metafora, non c’è alcuna mente senza poesia. I poeti non sono che i migliori traduttori, poiché sanno accostare metaforicamente tutte le metafore – attingendo anche a quelle ‘primarie’ – meglio di chiunque altro. Un poeta non è diverso dagli altri uomini. Tutti corriamo, ma c’è qualcuno che corre i cento metri in meno di dieci secondi. Il poeta tuttavia non sa perché è uno scattista delle immagini, non sa perché copre nel miglior modo possibile, e a una velocità inaudita, lo spazio della traduzione mentale dell’esperienza in pensiero, non sa come fa a creare il ponte della metafora, di una metafora uguale a quella che tutti avrebbero usato (quindi riconoscibile) eppure diversa, di quella diversità che ci appartiene e siamo abituati a chiamare bellezza. Certo l’allenamento conta, come per lo scattista, ma non basta. L’allenamento, infatti, non è che letteratura.
I poeti, è ormai chiaro, accostando immagini in modo creativo, rifanno sempre e di nuovo il percorso originario che ha creato la mente, spazio virtuale necessario all’uomo per inventare il senso: questa è stata precisamente l’arma che la nostra specie si è creata per vincere la sfida della selezione darwiniana. L’umanità se ne è dimenticata, non lo sa più, ma i poeti gli fanno sempre e di nuovo vedere il meccanismo del senso allo stato nascente, o forse, addirittura, la mente allo stato nascente. Per questo ho detto che la poesia è ontologicamente etica, e che la nostra specie non sarebbe ciò che è senza la poesia.
Tecnologia
Se noi non possiamo che pensare poeticamente, allora non c’è nessuna differenza tra Albert Einstein e Goethe. Infatti «ogni opera di scienza è insieme opera d’arte» scrive B. Croce (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 19286, p. 29). Se questo è vero si attenua la differenza tra pensiero razionale e pensiero non-razionale, e quindi è più evidente che il pensiero razionale è solo un sottoprodotto del pensiero scientifico: è il pensiero della tecnica, un pensiero strumentale, certo, ma che provoca grandi conseguenze. Se la rivoluzione industriale ha generato alienazione e nichilismo, la rivoluzione informatica, almeno in ipotesi, dovrebbe consentire il superamento di ambedue. Il paradosso è che le nuove condizioni tecnologiche consentono, e forse impongono, l’attenzione al pensiero poetico, cioè al modo di pensare che alla tecnologia è più estraneo.
Ma è proprio vero che il soft è del tutto nella logica del pensiero razionale? Perché il modo di procedere istintivo dei bambini (la loro modalità poetica di pensare) si accorda tanto bene con l’informatica? Perché per loro la simultaneità, la virtuale compresenza di infinite opzioni, e il loro accostamento senza percorsi logici, sembra essere un soddisfacente, prolungamento di sé?
Al computer si lavora per icone, e i passaggi sono tutti non-logici: io sovrappongo l’immagine di una stampante a un’immagine che rappresenta un testo, e il testo viene stampato. Per ottenere un risultato ho solo sovrapposto (associato) due immagini e ho ottenuto (‘magicamente’) un risultato concreto. Ma questo non è esattamente ciò che fa la poesia: procedere per immagini che vengono accostate a-logicamente?
A questo punto è poco importante che ‘dentro’ il computer seguiti a funzionare in termini logici, perché lo fa con una tale ‘surreale’ velocità che io lo percepisco solo come a-logico, che io lo posso percepire come a-logico o, ancora, che mi è consentito percepirlo come a-logico. Il soft realizza una forma particolare di processo mentale: ha le caratteristiche del pensiero poetico, ma non è creativo. Il soft non ha la capacità di produrre senso e lavora su un numero limitato di insiemi univoci. Anche la poesia lavora con un numero limitato di insiemi, ma polisemico.
Esclusa la capacità di produrre senso, fatta salva la creatività, ormai tutto l’universo multimediale tende a funzionare secondo il pensiero poetico. Quello che sta scomparendo, quello che sembra destinato a scomparire, o forse, meglio, ad avere, finalmente, una funzione ancillare, è il pensiero razionale. Ciò che sto scrivendo in questo momento è «un testo lineare, cioè un testo rigidamente unidimensionale e unidirezionale, è una linea percorribile in un’unica direzione» (F. Antinucci, Summa hypermedialis: per una teoria dell’ipermedia, «Sistemi intelligenti», 1993, 2, p. 231), ma parla di testi (le poesie) che non sono lineari, non sono costruiti secondo la sequenza prima/poi. Non scopro nulla se dico che la poesia nega la linearità frastica del discorso, ma aggiungo qualcosa se noto una somiglianza tra la struttura del testo poetico e quella di un ipertesto, addirittura di un ipermedia.
Se, come scrive Antinucci, «è vero che una singola ‘lettura’ […] di un ipertesto è un percorso non lineare, è proprio il fatto che nello stesso ipertesto sono possibili (‘attuabili’) un elevato numero di questi percorsi, tutti diversi tra loro, che ne definisce la sua struttura intrinseca come non lineare» (p. 232). E questo vale anche per la poesia.
È, infatti, facile dimostrare che le poesie sono, tutte, ipertesti: la loro struttura non è lineare. Metrica e rima, e tutte le omofonie interne, e in generale la dimensione del significante, e la rete metaforica e simbolica, e le connessioni di senso e di significato, negano la linearità frastica e rendono la poesia un universo con una serie di legami interni sonori, linguistici e figurativi, i quali ‘fanno’ il senso di ogni lettura.
Non è quindi vero che «la tradizione occidentale ha elaborato soltanto due forme di organizzazione del testo che si collocano agli estremi opposti: o una organizzazione completamente lineare a tutti i livelli o una completa assenza di organizzazione» (p. 232), cioè l’enciclopedia-dizionario. Antinucci dice che tra i due estremi della strutturazione lineare univoca del testo tradizionale e quello della completa assenza di strutturazione del dizionario/enciclopedia, l’ipertesto si colloca nel mezzo: «Vi è una certa strutturazione […] ma essa non è linearmente univoca» (p. 233). Quindi Antinucci sostiene che bisogna «eliminare completamente l’ordine alfabetico delle entrate, di modo che si possano accedere i nodi solo attraverso i legami» (p. 234). È, ancora una volta, la situazione della poesia, che può essere letta partendo da qualsiasi punto perché ogni punto si irradia sugli altri, e li tiene insieme. Se da una singola poesia si passa a un libro di poesie, il discorso si fa ancora più chiaro: un libro di poesie si può leggere a partire da qualsiasi poesia collegandola a qualsiasi altra, cosa che non si può fare con un racconto, inevitabilmente lineare.
Ogni poesia (e ogni libro di poesie) consente alcuni percorsi di lettura, non consente percorsi infiniti. Numero limitato di possibilità che convivono in uno spazio non lineare, quindi non logico ma a-logico, come un ipertesto. L’affermarsi occulto della poesia, della sua modalità di pensiero, passa anche per i nuovi media? O sono i nuovi media a recuperare il modo di pensare della poesia? I nuovi media (le nuove tecnologie) sanciscono la vittoria della poesia?
Antinucci dice che fino a oggi per trasmettere delle conoscenze è necessario un faticoso lavoro di traduzione delle medesime nella struttura della comunicazione, che è lineare, cosa che non sono le conoscenze; egli infatti parla di «campo» di conoscenze; le quali hanno «una struttura multidimensionale simultanea» e sono quasi sempre «organizzate in una rete di interconnessioni multiple». Il problema diventa allora «come costruire strutture comunicative che siano il più possibile isomorfe alle strutture dei campi di conoscenza che esse devono veicolare» (p. 241). Isomorfe, cioè omologhe. Come può essere che il sistema di comunicazione abbia la stessa forma del campo di conoscenze? Qui Antinucci richiama la propria definizione di ipermedia. Non più ipertesto, quindi, che è comunque tributario della linearità frastica del linguaggio, ma ipermedia, un sistema cioè che mutua «da altri media non testuali l’organizzazione strutturale della comunicazione» (p. 236). Media non testuali sono media iconici. Antinucci dimostra come le immagini (per es., un grafico) siano multidimensionali e istantanee, e consentano una rete d’interconnessioni multiple, e siano, quindi, tendenzialmente più isomorfe di un testo linguistico.
Tutto questo è plausibile, e molto ben argomentato, ma non so se è vero che ogni testo linguistico sia necessariamente lineare. La poesia non lo è. Ma vorrei andare più in là: la poesia non somiglia solo a un ipertesto; forse, e ancor di più, somiglia a un ipermedia, perché, pur essendo un testo, «mutua da altri media non testuali l’organizzazione strutturale della comunicazione». Come un ipermedia. Insomma, la poesia usa il linguaggio in un modo intrinsecamente diverso dall’uso lineare perché lo piega alla logica delle immagini e della musicalità. Se questo è vero, la poesia è la modalità ipermediale del pensiero.
Un ipermedia sta a un campo di conoscenze come la poesia sta al campo della mente. Ogni ipermedia è un caso particolare di isomorfismo, mentre la poesia è la struttura generale isomorfa della modalità complessiva del pensiero umano, di cui il singolo ipermedia realizza casi particolari e limitati. La poesia è la mappatura della mente di chi la scrive, la poesia è isomorfa: ha la forma della persona. Il che significa anche che la multimedialità non fa altro che riscoprire, e applicare per via tecnologica, il modo di procedere della poesia. Questo spiega anche perché i bambini aderiscano senza difficoltà, naturalmente, alle nuove tecnologie: perché sono omologhe al loro modo d’essere, esattamente come la poesia. Le nuove generazioni non avranno più bisogno di tradurre la complessa simultaneità del pensiero e delle percezioni in linearità razionale. Già oggi non hanno bisogno della successione, del prima e del dopo, ma trovano nelle nuove tecnologie un’omologia con le proprie modalità di pensare per analogia e per sintesi, cioè metaforicamente. Se questo è vero, il futuro della tecnologia è l’eterno passato (e l’eterno futuro) della poesia.
Eternità
Per concludere devo tornare sulla metafora. R.W. Gibbs Jr, come già detto, afferma che il pensiero figurato struttura il nostro modo di concettualizzare l’esperienza del mondo e che il sistema delle metafore non è arbitrario e infinito. Ciò vuol dire che il sistema delle metafore è nel mondo finito. Altrimenti detto: da come ne parla Gibbs, sembra che il sistema delle metafore riguardi solo la vita conscia, se così fosse non avrebbe a che fare con la poesia. È quindi necessario chiedersi se invece riguarda anche l’inconscio. Cominciamo dai sogni, la porta per l’inconscio. Nei sogni tutto è immagine, cioè tutto è metafora? Per le immagini dei sogni si può dire che siano metafore? Le metafore per essere tali devono parlare di una cosa nei termini di un’altra: questo vale per il sogno? Per ricordare un esempio di Gibbs, se è vero che la rabbia si esprime sempre con metafore relative al calore che arriva al punto di esplosione o ebollizione o al calor bianco, questo dovrebbe accadere anche nei sogni, altrimenti non sarebbe possibile interpretarli. Senza omologia tra metafore oniriche e metafore della veglia niente Traumdeutung («interpretazione dei sogni»), ma anche niente poesia. L’accessibilità dell’inconscio è consentita dalla poesia, e ciò accade perché le metafore oniriche, essendo più partecipi dell’inconscio, coprono (significano) ogni volta un’area che è, o sembra essere, potenzialmente molto vasta: la conseguenza è che la loro lessicalizzazione è comunque molto ambigua. Questo significa che è molto ampio lo spettro della loro polisemia; il che fa la radice della poesia, e la differenza della metafora poetica dalla metafora di uso comune: i poeti attingono alla metafora onirica e la portano nel mondo reale. I poeti stanno sulla soglia tra conscio e inconscio come i sogni.
Ma l’inconscio cos’è? Direi che è un insieme di contenuti che trovano espressione nei termini di una cosa diversa da loro, appunto in una metafora. Se noi accediamo all’inconscio per lacerti metaforici, che cos’è per noi l’inconscio se non quei lacerti metaforici? Ma se i contenuti che ci fanno gioire o soffrire sono solo metafore forse l’inconscio come tale non esiste. Non è né un insieme di infiniti (o un infinito di insiemi) né un luogo (un continente sommerso) per il semplice fatto che non si tratta che di metafore (‘gli insiemi’, o ‘il continente’): esiste solo il nostro modo di concettualizzare l’esperienza, che è tutta nel nostro corpo (cervello compreso), cioè è tutta nel mondo. L’inconscio non c’è: siamo noi. Anche l’inconscio è solo il nostro modo di concettualizzare l’esperienza, anche quando non lo sappiamo perché si tratta di esperienze troppo precoci, quindi dimenticate; o perché si svolge al livello ‘cellulare’. Tutto ha sede e si svolge a livello biologico, ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, e ciò che sappiamo non è altro che una metafora di qualcos’altro. Ma una cosa è sicura, incontrovertibile: il mondo (la realtà esterna, la natura) non è una metafora, quello è propriamente il ‘contenuto’ (ma non il significato) proprio in quanto, in sé, non metaforico ma ‘oggettuale’. La natura non è una metafora, non fosse altro perché esisteva prima del nostro avvento. Siamo noi che, per appropriarcene, l’abbiamo trasformata in un insieme di metafore: per dargli un significato, per fondare il senso. Ma la natura dopo la nostra scomparsa sarà sempre lì, non bisognosa né di senso, né di significato: non bisognosa di metafore. L’inconscio, invece, scomparirà con noi, perché non è altro che un insieme di metafore, quell’insieme di metafore che noi usiamo nel disperato tentativo di capire chi siamo. A ciò serve la poesia, e in generale l’arte, solo a questo, ed è perciò che non è legata né al tempo né al luogo. Questa è la sua transeunte eternità. Transeunte perché noi scompariremo ed eterna per noi, ineliminabile finché ci saremo.