La politica del sale
Nel 1200, dopo due secoli di espansione, la produzione del sale aveva ormai raggiunto l'apogeo e collocato la laguna veneta al primo posto fra i produttori mediterranei; Chioggia, divenuta vera e propria capitale del sale, era in grado di provvedere alle necessità di un mercato assai esteso che copriva la totalità del versante meridionale delle Alpi e la pianura padana, con ramificazioni nelle vallate appenniniche. Sempre grazie al sale - moneta di scambio - Venezia pareggiava le importazioni dei prodotti alimentari acquistati in terraferma e, incoraggiata dall'acquisito monopolio a imporre imposte gravose su quel prodotto indispensabile, non seppe resistere alla tentazione di ottenerne il massimo profitto commerciale e fiscale; il sale fu così posto al servizio delle finanze dello Stato. Lungo il circuito dei mercati del sale lagunare tuttavia, sulle coste dell'Adriatico o nel cuore delle Alpi, nascevano o si sviluppavano nuovi centri e la concorrenza si andava rafforzando; anch'essa tuttavia giovava alla Serenissima, grande potenza marinara, quando i numerosi e capaci bastimenti dei quali disponeva - impiegati per assicurare i collegamenti con l'impero conquistato nel 1204 e nella protezione delle rotte - non raggiungevano il pieno carico. Il sale, prodotto ponderoso, riempiva allora facilmente le stive e in breve Venezia diede avvio a importazioni dalla Puglia, da Alessandria e, a datare dalla fine del secolo XIII, dal Mediterraneo tutto. Quando la concorrenza si fece più forte, i vicini tentarono di sottrarsi al monopolio veneziano e il secolo XIII risuonò dell'eco delle guerre del sale. In tale situazione, le saline di Chioggia dovettero affrontare una grave crisi e numerosi fondamenti di saline scomparvero; quanto a Chioggia, però, risulta arduo stabilire se fu la crisi sociale a dare impulso alla concorrenza straniera o non piuttosto la restrizione dei mercati e le importazioni di prodotto straniero a provocare la difficile situazione economica.
È difficile datare l'instaurazione della tassa commerciale sul sale; sappiamo tuttavia che essa era già in vigore prima del novembre del 1179, anno in cui il doge Orio Mastropiero rilasciò quietanza a Enrico Gradenigo per "tutti i beni e redditi comunali da lui avuti, ricevuti o impiegati per gli affari riguardanti il sale. Dopo un'esatta resa dei conti, [aveva> pagato quanto doveva". E i camerari comunali avevano controfirmato la quietanza ducale (1). Gli affari concernenti il sale andavano sotto la voce factum salis, spesso ricomparsa anche in seguito a designare l'imposta stessa. Nel caso della quietanza, il senso della locuzione rimane tuttavia incerto: di sicuro Gradenigo aveva tratto un reddito dal sale, ma ignoriamo se ne versò una qualche percentuale o se rimborsò un prestito a suo tempo erogato dal comune per la gestione dell'affare.
La situazione si fece più chiara nel febbraio del 1184: il gastaldo di Chioggia, Sten Cortese, al cospetto dei giudici, dei notabili e del popolo tutto - ricchi e di umile condizione (maiores et minores) - promise al doge e al comune di non vendere più sale se non a chi fosse in grado di presentare la licenza ducale (2). Il commercio rimaneva tuttavia autorizzato all'interno dei confini di Chioggia, fra i Chioggiotti o con i Veneziani. Il sigillo era invece indispensabile per l'esportazione e i trasgressori sarebbero stati arrestati e consegnati alla giustizia ducale. Nel 1184, chi avesse voluto esportare sale al di fuori di Chioggia, avrebbe dovuto munirsi di tale licenza previa contribuzione di un diritto d'imposta. La situazione era chiara: il pagamento della tassa precedeva l'esportazione.
Gli introiti fiscali così ricavati avrebbero ben presto trovato un impiego. Nel 1187, ad esempio, le spese militari sostenute per l'assedio di Zara raggiunsero un livello tale che, rivelatesi insufficienti le precedenti imposte patrimoniali, se ne dovettero imporre di straordinarie e far ricorso al debito pubblico. Nel corso dello stesso anno, dai due prestiti lanciati a sei mesi di distanza l'uno dall'altro, si ricavarono rispettivamente 40.000 lire e, in novembre, 16.220 lire e 5 soldi. Ai rimborsi furono destinate le antiche imposte commerciali del mercato di Rialto, i proventi del sale e della moneta e quelli della contea di Ossero. Il dazio sul sale allora percepito dal comune venne dunque devoluto al rimborso dei creditori e i pagamenti, proporzionali ai prestiti, sarebbero stati effettuati entro dodici anni a scadenze di quattro mesi; per la gestione degli introiti a profitto dei prestatori, il doge creò la carica di "camerario-esattore del sale" (3). Solamente nel caso in cui tali riscossioni si fossero rivelate insufficienti, si sarebbe fatto ricorso alla moneta e alla contea dalmata. Il comune contava insomma di ricavare dal sale 1.350 lire annue.
Somma consistente a carico dei comuni vicini, ma della quale occorreva entrare effettivamente in possesso! Il 21 settembre 1192, il doge Enrico Dandolo ottenne dai consoli di Verona una forte indennità, la libertà di navigazione sull'Adige per i mercanti veneziani e la promessa di non sottrarsi al pagamento integrale del factum salis e del quintum (4). Nel 1216 ai Padovani e ai Trevigiani fu garantita l'immunità di persone e di beni a Venezia - com'era già in precedenza -, ma non dalle tasse (daciones) del sale e del mare e da quelle già in vigore (5).
Una conferma del ruolo del sale la si trova nell'ammortamento del debito pubblico aperto per le operazioni militari del 1224. I camerari preposti al dazio destinarono per un anno i loro introiti a quanti avevano partecipato all'invio di una squadra di galere in Romània. Il prestito era pari all' 1 per cento dei beni dei contribuenti annotati nei registri dei camerari (6).
Ben presto però apparve evidente la carenza numerica del personale preposto alle riscossioni. I camerari, magistrati residenti a Venezia, si limitavano a centralizzare i ricavi ma ben presto si trovarono nella necessità di delegare dei collaboratori nei luoghi donde la merce veniva spedita, con il compito di incassare l'imposta, verificare il reale possesso della licenza ducale e conoscere le quantità del venduto. Il maggior consiglio, che aveva istituito un ufficio del sale a Rialto probabilmente già prima del 1268, creò dunque cinque "salinari" a Chioggia nel 1271. La dualità delle competenze era dovuta all'esistenza di due mercati di rifornimento: le saline di Chioggia e le importazioni marittime del sale detto "di mare" (sal maris), iniziate prima del 1251, anno in cui la Serenissima, con un patto successivamente rinnovato negli stessi termini, garantì i rifornimenti a Mantova e alle zone più lontane. Sembra che le importazioni dalle Puglie abbiano avuto ufficialmente avvio nel corso degli anni 1240-50 mentre gli arrivi antecedenti - e ce ne furono - erano dovuti a un commercio non autorizzato, di contrabbando, effettuato contra bannum (7).
Già al momento della sua creazione l'ufficio con il personale più numeroso era quello di Chioggia, dato di fatto che rifletteva la gerarchia dei sali. L'imposta su tale merce infatti era di difficile gestione in quanto all'esazione fiscale andava aggiunto il controllo del commercio e dei prezzi di un prodotto raccolto su superfici ampie, disperse e difficili da sorvegliare: perché lo sguardo potesse superare le dighe sarebbe stata necessaria la costruzione di torri da cui l'occhio potesse spaziare sui bacini e sui canali infossati. I salinari, oltre a tenere i libri contabili, avevano l'obbligo di presenziare al calcolo delle quantità, all'imbarco e all'apposizione dei sigilli ma, con oltre millecinquecento misure giornaliere a testa, dovettero farsi aiutare da supplenti, dieci notabili di Chioggia chiamati "salinari de foris". Il carico veniva effettuato lungo i canali di tutta la città salifera.
Al sale venivano applicate due imposte, l'una sul valore, il "quinto", pari alla quinta parte del prezzo, e l'altra sul peso, il "dazio"; di qui tentativi di evasione giocati sui prezzi e sui quantitativi. Il dazio, immediatamente portato a livelli assai elevati già a Chioggia, luogo di partenza, veniva modulato a seconda dei mercati di destinazione. L'unità commerciale della spedizione era il centinaio di misure (cento "mozetti"); il 2 luglio 1271, a quanto pare, il maggior consiglio aveva imposto a Chioggia l'abbandono della sua piccola misura e l'adozione dell'unità veneziana, due volte maggiore. Il centinaio di "mozetti" (2.900 chilogrammi) veniva dunque assoggettato a un prelievo di 16 lire per Venezia, Treviso e Padova, di 18 per Verona e Rovigo, di 10 per il Friuli e la Romagna, di 9 ad libras completas per la Marca anconetana. Eccettuando Ferrara, i prezzi erano espressi ad grossos (8). Il quintum, più leggero, equivaleva al 20 per cento del prezzo di vendita al mercante il quale però doveva versare un'ulteriore gratifica "per la dogaressa". Le imposte venivano modulate in funzione dell'ulteriore costo del trasporto e soprattutto delle agevolazioni offerte al contrabbando da taluni clienti favoriti dalla particolare posizione geografica (Friuli, Romagna, Marca anconetana).
Ogni quindici giorni i salinari consegnavano il ricavato ai procuratori di San Marco o ai camerari comunali. Nella storia della Repubblica, quella del sale rimase praticamente l'unica imposta riscossa in tutto lo Stato, e il fatto che fosse centralizzata nella stessa Venezia conferma l'importanza accordata al sale e ai suoi proventi. I salinari di Chioggia percepivano un salario di 220 lire ma ciascuno di essi doveva stipendiare un aiutante in grado di tenere il remo; con il denaro pubblico poi veniva retribuito il personale addetto alla sorveglianza del traffico del sale a Loreo, Torre delle Bebbe, Cavarzere e sulle grandi vie del sale: il Po e l'Adige. Anche altri pubblici ufficiali erano interessati a questo commercio: i mediatori ("messeti") cui dovevano necessariamente rivolgersi i mercanti accorsi a comprare il sale a Chioggia. Gli acquisti venivano effettuati principalmente durante le fiere, dopo i raccolti e prima dei periodi di siccità invernale che impoverivano i corsi d'acqua.
Gli ufficiali del sale marino lavoravano nella stessa Venezia e il loro capitolare fu riformato nel 1276 per equilibrarne l'aggravio di competenze conseguente alla rapida espansione delle importazioni, non più dalla sola Puglia ma dal Mediterraneo tutto. Consisteva il loro lavoro nel far depositare nei "salaria" il prodotto giunto via mare, registrarlo, metterlo in vendita e incassarne il prezzo nonché le imposte. A dimostrazione della portata di tale traffico, agli ufficiali non era permesso trattenere presso la camera del sale più di 4.000 libbre di denari; le eccedenze andavano rimesse ai procuratori di San Marco i quali, a loro volta, le affidavano ai camerari del comune. Per ovviare alla carenza dei magazzini poi, gli stessi ufficiali, che già percepivano un salario di 100 lire, venivano incoraggiati a vendere il sale trasbordandolo direttamente dalle navi alle barche dei mercanti, con un premio di tre denari per moggio prelevato dal magazzino, di sei per moggio smerciato da bordo a bordo (9). Da notare una differenza importante rispetto al sale chioggiotto. A Chioggia, il prezzo, libero, veniva negoziato direttamente fra il proprietario e il commerciante alla presenza di un mediatore, a Venezia invece esso veniva fissato da un collegio formato dal doge, da sei consiglieri e dagli ufficiali del sale di mare: un organismo che, alla fine del secolo XIII, già prefigurava il futuro collegio del sale. Di fatto la Serenissima fondò fin dal primo momento il monopolio di Stato sul sale mediterraneo e ne controllò poi tutte le fasi commerciali accontentandosi di sorvegliare e tassare le vendite effettuate a Chioggia.
A partire dagli anni 1240-50 la Serenissima diede ufficialmente l'avvio alle importazioni del sale detto "di mare" in quanto - per l'appunto - proveniente via mare, a differenza di quello chioggiotto prodotto in laguna. Con "sale di mare" si intendeva dunque quello importato, quale ne fosse la provenienza, adriatica prima, mediterranea poi: sale di Cervia e delle Puglie, sale di Sardegna o di Cipro. I primi testi di legge del maggior consiglio, nel 1228, 1244 e 1253, non ci permettono - o quasi - di stabilire se le importazioni del prodotto straniero fossero totalmente vietate o se, una volta superata la linea Ravenna-Capo Promontorio - e successivamente Tronto-Zara -, i trasporti dovessero obbligatoriamente scaricare nel solo porto di Venezia. La risposta va ricercata nei pacta; tali trattati conclusi con i comuni lombardi e padani sono inequivocabili: nel 1251 il comune di Venezia aveva promesso a Ferrara e a Mantova la consegna di sale di mare giunto da Siponto e da Canne nelle Puglie, mentre nel 1263 e nel 1268 a Mantova e a Milano era stato assicurato il sale delle Puglie o "qualsiasi altro di pari pregio". La situazione mutò nel 1281 quando il maggior consiglio impose ai mercanti di rientrare a Venezia da ogni loro viaggio con un carico di sale (10).
La nuova politica, le cui principali disposizioni statutarie vennero codificate dal maggior consiglio il 17 giugno 1281, venne denominata ordo salis, "ordine del sale"; in seguito a ciò il sale prese ad arrivare "per ordine" o "su ordine". L'importazione ne era divenuta obbligatoria e il contravventore, incorrendo nei rigori del bannum, si trovava esposto a sanzioni pecuniarie; di norma i mercanti venivano retribuiti e assicurati di un pagamento adeguato e sollecito. I sali esteri provenivano in genere dalla Romània, da Atene, da Clarenza o da Modone in Morea, da Cipro o da Alessandria, dalla Sardegna o da Ibiza nel Sud delle Baleari o da Ras el-Makhbaz sulle coste tripolitane. Il carico imposto veniva calcolato in proporzione al carico di spezie o di cotone trasportato all'andata e i mercanti dovevano dichiarare le merci esportate cosicché l'ufficio preposto potesse prevedere con precisione la quantità di sale che avrebbero condotto al ritorno. Non solo le navi veneziane erano autorizzate a praticare tale commercio ma anche quelle di Zara e di Ragusa, le due colonie della costa dalmata.
Come interpretare le disposizioni votate nel 1281? Non pare che nella Serenissima fosse in atto una crisi dei noli; la città cercava anzi di favorire l'esportazione dei prodotti orientali di cui il mercato di Rialto rigurgitava, né aveva bisogno, all'epoca, di trovare un prodotto qualsiasi per riempire stive poco sfruttate o in sovrappiù dato che ai Veneziani era permesso di prendere a nolo navigli dalmati. Scartati i suddetti fattori, altri due ne emergono: il sale è un prodotto pesante, di una certa massa, ed è, se ben compresso, di peso superiore all'acqua marina, utilizzabile dunque come zavorra, esente pertanto da qualsiasi nolo. Ma il comune marciano si spinse ben oltre trasformando intelligentemente la zavorra in carico per il ritorno. Il risultato economico dell'operazione non fu trascurabile: una tarida o una nave salpate da Venezia con spezie per un valore di 5.000 lire erano autorizzate a rientrare con il sale dietro la promessa, fatta al momento della partenza, di ricavarne 2.250 lire. Indipendentemente dal profitto commerciale realizzato rivendendo le spezie e dal prezzo d'acquisto del sale ai produttori stranieri, il volume d'affari del mercante passava dalle 5.000 alle 7.250 lire già all'inizio dell'impresa commerciale. Il risultato provvisorio, ancor prima della rivendita, era la promessa di un profitto supplementare del 45 per cento sul mercato d'esportazione. Il sale sovvenzionava così le merci e poneva i Veneziani in una situazione di vantaggio rispetto ai concorrenti (11).
Non va scartato un altro elemento esplicativo di carattere più congiunturale: nel giugno del 1281 il maggior consiglio aveva imposto, per un periodo di tre anni, l'importazione di sale mediterraneo ai mercanti che fossero stati lontani da Venezia fino al 31 agosto dello stesso anno - cosa che getta una luce singolare sulle funzioni della marina mercantile della Serenissima, la quale offriva i propri servigi un po' dovunque prima di un rientro in madrepatria, che poteva avvenire anche dopo tre anni. Il 25 giugno 1282 lo stesso maggior consiglio - fatte salve le concessioni già accordate, vale a dire le autorizzazioni deliberate per quanti non erano ancora rientrati - vietò ogni importazione per un lasso di tempo di due anni e mezzo, per il periodo cioè che rimaneva da colmare. Il 30 maggio propose nuovamente di importare sale consentendo perfino un rialzo dei noli. Dopo tale data l'ordine del sale venne costantemente rinnovato divenendo una struttura permanente del commercio marittimo veneziano (12).
In sei mesi la prima legge aveva dunque portato i suoi frutti ma il maggior consiglio mal dominava una situazione fluida: aveva abolito la legge per ristabilirla cinque mesi più tardi. Una condotta politica così incostante era stata forse il prodotto degli sconvolgimenti, anch'essi politici, dovuti agli insufficienti raccolti degli anni 1280-1281 a Chioggia - le leggi venivano votate in primavera quando ci si rendeva conto dell'esaurimento delle riserve -, nonché dei disordini che avevano obbligato San Marco ad allentare la propria influenza su Cervia.
La guerra del sale va infatti considerata nei suoi due aspetti diversi e complementari: i conflitti con i grandi comuni del continente volti a imporre l'uso del sale veneziano nonché le guerre dichiarate a Ravenna, ai potentati romagnoli, a Bologna e al papa, per strappar loro il dominio su Cervia e il controllo sulla sua produzione.
La presenza veneziana a Cervia era stata spesso rimessa in causa e la città, riconquistata dai nemici, passava di mano in mano. La Serenissima allora, incapace di appropriarsi della produzione locale del sale, volse i propri sforzi contro Ravenna per controllare almeno le spedizioni del sale di Cervia per via marittima e poi fluviale verso i comuni del Po. Fu precisamente nell'estate del 1281 che, con l'aiuto di Guido da Montefeltro, Venezia riuscì a imporre a Cervia il primo trattato. Ma il papa minacciò di lanciare la scomunica sui due alleati; Cervia si ribellò e la guerra riprese per alcuni anni. Verso il 1293, i Veneziani, ormai incontrastati padroni di Cervia, poterono allora farsi inviare dai centomila ai centocinquantamila canestri ("corbe") di sale romagnolo l'anno, pari a due-tremila tonnellate (13).
A Venezia il sale di Cervia era necessario innanzitutto per danneggiare la concorrenza sui propri stessi mercati e poi per rifornire i propri clienti, i comuni padani vicini, Padova e Verona, nonché gli scali della navigazione fluviale verso Cremona e la Lombardia, Ravenna, Ferrara e Mantova, e i mercati più lontani, Bologna e la Toscana. Per lo più, dopo essere riuscita a imporre dei trattati commerciali, la Serenissima inseriva delle clausole di primaria importanza: la libera navigazione delle proprie barche con precise tariffe di tasse e di pedaggi, il monopolio del rifornimento del sale e la possibilità di fissarne il prezzo.
Diveniva allora impossibile a Venezia non onorare gli impegni commerciali presi; doveva trovare il sale, fosse esso acquistato dai mercanti rientrati dalle loro rotte o provenisse da conquiste o confische. Il sale, divenuto un elemento della politica di potenza nell'Italia settentrionale, costituiva anche la moneta di scambio per i rifornimenti inviati al comune dalle provincie più prossime (14); di conseguenza San Marco dipendeva dai paesi confinanti che disponevano di efficaci mezzi di ritorsione e imponevano le proprie condizioni qualora il comune marciano abusasse scriteriatamente dei blocchi del sale (strictura salis). Nel qual caso le città della terraferma rispondevano con il rifiuto di consegnare il grano e con l'interruzione della navigazione fluviale.
Prima che i lenti progressi della costruzione navale e della navigazione dessero l'avvio all'espansione del commercio marittimo, la limitata produzione locale bastava alle necessità biologiche degli uomini, qualora la presenza della materia prima, fontana salata o acqua di mare, lo permettesse. Così, nel cuore delle Alpi, nel paese di Salisburgo, le miniere di sale di Hallstatt erano state sfruttate già dagli inizi del primo millennio avanti Cristo mentre quelle di Hallein lo erano state dal secolo IV prima della nostra era. Nella regione di Parma erano stati scavati i pozzi salati del Salsese nella zona di Salsomaggiore; altre saline erano state approntate nelle isole Brioni e attorno a Pola e così anche sulla costa dalmata e nelle isole del golfo del Quarnaro, a nord di Zara, particolarmente numerose erano saline di cui non siamo in grado di datare la comparsa. La maggior parte di esse rispondeva ai bisogni locali e alimentava in minima misura i mercati più lontani.
Nell'aprile del 1182, il doge Orio Mastropiero, le cui molteplici iniziative riguardanti la fiscalizzazione del sale sono state spesso segnalate al punto da farlo ritenere il "padre" del monopolio veneziano, rispondeva ai solleciti di un'ambasciata da Capodistria accordando alla città il "porto del sale e il mercato pubblico", cosicché era vietato scaricare in Istria, fra Grado e Pola, fatta eccezione per Capodistria che divenne così una tappa del sale. Per far rispettare la decisione dogale la Repubblica avrebbe tenuto in mare una galera di sorveglianza e tutto il sale sbarcato a Capodistria sarebbe stato munito di licenza ducale mentre i proventi della vendita sarebbero andati in parti uguali a Venezia e alla città istriana. Le tasse imposte sulle merci importate dal retroterra sloveno dalle carovane giunte al mercato del sale e pagate alla "muda" sarebbero state suddivise in terzi fra le due città e il vescovo, il marchese o il conte d'Istria su cui gravava l'obbligo di tener praticabile la via del Carso.
Il patto prevedeva anche l'arrivo di grandi navi (magna navis) cariche di sale che da Capodistria avrebbero dovuto essere rinviate al porto di carico, salvo il caso che si trattasse di legni veneziani diretti a Venezia e che dunque rifiutassero di far scalo a Capodistria (15). Il testo è della massima importanza sotto due aspetti: in primo luogo esso dimostra come i mercanti veneziani non avessero atteso l'autorizzazione del maggior consiglio per importare sale, attività cui si dedicavano già alla fine del secolo XII se non addirittura da molto prima, per motivi tecnici (si trattava di un carico pesante di veloce stivatura) ed economici (il prodotto era di facile smercio e disponeva di un vasto mercato); in secondo luogo, permettendo a Capodistria di godere di parte dei benefici, San Marco rendeva più stabile il proprio monopolio.
Tuttavia verso la metà del secolo XIII a Pirano, nelle località di Strugnano (1258) e di Fasano (1278), cominciò a svilupparsi una certa produzione locale. Nel 1285 il capitolo autorizzò il vescovo di Parenzo a impegnare le saline di Orsera. Nel 1199, nell'isola di Arbe, più a sud, venivano sfruttate saline associate a peschiere; nel 1196, l'abate di San Grisogono di Zara ne autorizzava l'utilizzo a Barbinio, a Veli Otok, mentre altre venivano approntate a Vergada nel secolo XI, a Belgrado sul Mare, a Zara e, naturalmente, a Pago (16).
Il pericolo e la concorrenza maggiori sarebbero giunti dal Nord, in modo inatteso. La salina di Reichenhall, presso Salisburgo, era in attività fin dall'Alto Medioevo, e negli anni 1194-1198 Berchtesgaden, Tuval e Hallein a turno sfruttarono altri giacimenti. Più a est, l'attività di Aussee in Stiria, attestata dal 1147, conobbe una notevole espansione a partire dal 1211. Nessuna delle saline situate sulle sponde degli affluenti del Danubio, già alle prese con gli approvvigionamenti dei mercati locali e con l'esportazione verso le provincie sprovviste (Baviera settentrionale, Austria, Boemia e Moravia), costituiva una seria minaccia per il monopolio esercitato da Venezia su Chioggia; la situazione mutò però con l'apertura di una nuova salina a Thaur, presso Innsbruck, ai piedi del Brennero. Nel 1232 il conte del Tirolo era in grado di inviare carri di sale fino a Bolzano e, a partire dal 1287, la salina trasferita a Hall conobbe una considerevole espansione producendo settimanalmente cinquecentotrenta carri, quasi quarantaquattromila in tre semestri (1287-1288). Il sale di Hall, bloccato verso nord dalle zone di produzione site presso Salisburgo, venne commercializzato a ovest attraverso la valle dell'Inn fino ai laghi lombardi e a sud attraverso il Brennero e il Resia, verso le grandi vallate del versante italiano, fino a Chiusa e all'altopiano vicentino (17).
In tali condizioni la concorrenza con il sale chioggiotto, assalito da ogni parte, accerchiato, assediato, si fece via via più forte con l'avanzare del secolo: sull'arteria padana il sale di Cervia gli contendeva gli sbocchi verso i comuni lombardi; in Slovenia le nuove saline istriane, dei dintorni di Trieste e di Pirano, approvvigionavano le carovane; il sale di Hall, in Tirolo, superava lo spartiacque alpino per riversarsi nelle vallate meridionali; non solo, gli stessi Veneziani organizzavano sistematicamente gli arrivi dal Mediterraneo per rivenderli lungo l'arteria padana e a occidente del lago di Garda.
Per ben due volte il maggior consiglio aveva incoraggiato le importazioni dalle Puglie prima, dal Mediterraneo poi, la prima in maniera indiretta il 20 dicembre 1244 e poi, più decisamente, nel giugno del 1281. La prima legge infatti non era sufficientemente chiara nella misura in cui si ignora il contenuto legislativo e repressivo del bannum della Serenissima: si trattava di vietare il commercio dei sali caricati a settentrione della linea Ravenna-Capo Promontorio, o di proibire il trasporto a nord di quel limite del sale acquistato altrove, oppure di renderne obbligatorio lo scarico esclusivamente nel porto di Venezia? Nulla permette di determinarlo, tanto più che il maggior consiglio terminava precisando che il sale pugliese sarebbe stato pagato 5 lire il moggio, un prezzo di riferimento per tutti gli altri sali, a quanti avessero facilitato la cattura dei battelli contrabbandieri. Né sappiamo se Venezia si procurasse il sale delle Puglie comprandolo dai mercanti o catturando i trasporti di contrabbando; fatto sta che ben presto prese a consegnare sale di mare a Mantova e alle città lombarde e nel 1281, non limitandosi a incoraggiare l'importazione commerciale, la rese addirittura obbligatoria.
Conosciamo bene la cronologia delle crisi che colpirono le saline di Chioggia nel secolo XIII (18): fra il 1232 e il 1240 scomparvero otto fondamenti; nel 1251 altri due erano in situazione critica e nel 1279 otto ancora si rivelarono inutilizzabili. Chioggia si trovava ad aver perso diciotto fondamenti di saline, pari al 30 per cento del potenziale produttivo. Il danno era considerevole! Abbandono e distruzione colpivano violentemente i vasti settori lagunari detti Brombedo, Teça, Pettadibo dove furono abbandonati tredici fondamenti, forse fra i più vasti, sicuramente fra gli ultimi approntati durante il secolo precedente.
Lo stesso circondario di Chioggia, minore (Sottomarina) e maggiore, perse solamente quattro fondamenti durante la prima crisi (1232-1240) precedente alla relativa stabilità durata fino agli anni 1322-1331. Insomma la laguna non sfuggiva a un riflusso dell'occupazione umana, e come per i vasti dissodamenti che in tutta l'Europa della fine del secolo XII avevano moltiplicato i campi coltivati fino ai limiti del possibile, nel secolo successivo si dovettero abbandonare i settori bonificati più lontani, quelli per cui la lunghezza degli spostamenti abbreviava drasticamente la durata del lavoro e abbassava la produttività della manodopera.
La fonte essenziale della storia delle saline lagunari, vieppiù concentrate nel secolo XIII nei territori del vescovado di Chioggia e di Pellestrina, rimangono gli archivi monastici delle grandi abbazie benedettine di Venezia - San Giorgio Maggiore e San Zaccaria -, di San Cipriano di Murano, della Santa Trinità di Brondolo, di taluni vescovadi - San Pietro di Castello (Venezia) e Chioggia - e di certi conventi di minore importanza - San Giovanni Evangelista di Torcello o San Secondo. All'infuori degli archivi ecclesiastici, non esistono più oggidì documenti notarili pubblici sui cambi di proprietà fra privati o sugli sfruttamenti delle saline. I consigli però, il maggior consiglio di Venezia e, alla fine del secolo, quello di Chioggia, cominciarono a preoccuparsi della condizione precaria delle saline. Finalmente i procuratori di San Marco lasciarono una interessante testimonianza che traccia l'evoluzione della rendita fondiaria percepita dal 1284 al 1295 per la proprietà delle saline. Ciò significa che lo storico rimane essenzialmente debitore ai soli documenti monastici, seguitando a vedere la storia delle saline attraverso l'occhio dei benedettini cui è tributario per la conservazione dei documenti.
Sarebbe facile cedere alla tentazione di dedurne la scomparsa totale delle saline del nord e del centro della laguna; tuttavia, nel 1267, un arbitrato concluso in canonica San Marco fra l'abate di San Giorgio e Santa Maria di Murano restituiva al monastero terreni, peschiere, acque, diritti di pesca, tumbae et sallinae et fundamenta situati nelle dipendenze di Murano, contro la Vinea Murata fino al porto di Torcello, sulla sponda occidentale di Sant'Erasmo (19). L'arbitro, Enrico Contarini, parroco di San Silvestro, ristabiliva l'abate nei suoi diritti di percepire i livelli delle saline. Ugualmente, se non si avevano più esempi di costruzione di fondamenti, si segnalavano ancora, qui e là, degli ampliamenti per cui gli abati affidavano appezzamenti di terra e di acqua sul margine del circuito delle dighe (20).
Ciò a cui i monasteri attribuivano il massimo valore erano la proprietà e, ancor più, il reddito che ne derivava, il censo. Tre di tali monasteri hanno lasciato impressionanti registrazioni di tutti i canoni in natura percepiti in "giorni di raccolta" (dies salis). Nella prima metà del secolo XIII il più dotato era San Zaccaria il quale riceveva due "giornate di sale" per cinque fondamenti (Teça, Enganna Compatre, Canale de Conche, Warta Massera, Solesedo) e censi più elevati, dalle cinque alle sette "giornate", per nove saline disperse in cinque fondamenti. Al Gradenigo i benedettini, che disponevano di due saline in mezzadria, ne ottenevano la metà del raccolto (21). San Giorgio Maggiore ha trasmesso tre registri databili, grazie a confronti con le carte di livello, agli anni 1228-1237, 1259 e 1260-1270 (22). Le proprietà oscillavano nel tempo tra le cinquantasei e le sessantasette saline, sparse in numerosi fondamenti, ventisei in totale, ma il monastero dovette vendere lo splendido sito di Post Castello a Marco Ziani prima di recuperare le sue trenta saline in seguito a donazione testamentaria. Senza quel fortunato incidente, San Giorgio ne avrebbe in realtà perdute una ventina. San Cipriano ne possedeva un numero superiore: i registri del 1251, del 1270, del 1274 e del 1294 testimoniano una notevole stabilità, centosedici saline, grazie al possesso di due vasti fondamenti a Pellestrina, il Laguna e il Vecchio (23). Quest'ultimo però non era stato repertoriato nell'inventario del 1251, epoca in cui San Cipriano percepiva il censo solamente su settantasette saline.
Il secolo XIII fu caratterizzato da un fatto nuovo e che mal si spiega attraverso le clausole della locatio, che accordavano al fittavolo il diritto di cedere, di vendere i suoi beni; si videro al contrario molti fittavoli rinunciare alle saline e restituirle gratuitamente al proprietario. Qualche esempio isolato era già stato registrato nel secolo XII ma il movimento si fece più vasto nel secolo successivo interessando anche le vigne di Santa Trinità. Più spesso erano le mogli, le vedove e le figlie minori dei produttori ad abbandonare lo sfruttamento; il fenomeno, prolungatosi per tutto il secolo, dimostra come il lavoro nelle saline non fosse adatto alle donne, particolarmente se sole, ma un'incombenza in cui la donna doveva apportare un utile contributo al marito, specie per il trasporto del prodotto.
In taluni periodi, tuttavia, l'abbandono fu concertato e San Giorgio ne fece l'esperienza due volte a proposito di Post Castello. Fra il luglio del 1239 e il novembre del 1241, ma soprattutto nell'aprile del 1241, l'abate Pietro Querini aveva censito diciassette saline del fondamento per un censo di tre-cinque giornate; il 30 giugno 1240 però, oberato dai debiti, il monastero era stato costretto a vendere Post Castello a Marco Ziani per 1.500 lire e il figlio del doge aveva ricevuto l'investitura sine proprio alla fine di luglio del 1240 (24). Il nuovo diritto del doge Tiepolo che abbreviava a trenta giorni il termine dell'investitura cum proprio entrò in vigore nel 1242 (25) e San Giorgio aveva dunque il diritto di rinnovare la locazione ai propri fittavoli. Pare che il convento abbia recuperato le sue proprietà grazie al testamento redatto da Marco nel giugno del 1253, secondo il quale a San Giorgio venivano condonati i debiti mentre il monastero doveva convertire le somme ricevute in beni fondiari inalienabili (26). Nel 1270, allo scadere della concessione trentennale, le saline vennero nuovamente censite ma erano state effettuate tre restituzioni (27). Nella primavera del 1298 i fittavoli rinunciarono allo sfruttamento di diciotto saline e mezza concesse loro nel 1241 o nel 1270 e che erano tenute da ventinove nipoti degli affittuari del 1240. Taluni di essi "tenevano", altri "tenevano e sfruttavano", altri ancora "sfruttavano" le saline: nel corso del secolo si era evidenziata una notevole differenziazione sociale nella popolazione di Chioggia addetta alle saline in quanto vi erano ormai affittuari e lavoratori, due categorie ben distinte, accanto ai fittavoli lavoratori che si occupavano direttamente delle aree loro affidate.
La rinuncia era tuttavia un diritto del fittavolo, non una sanzione inflitta dal proprietario come aveva ben compreso Giovanni Carnello il quale, nel 1297, aveva restituito incisa la sua carta del 1241. Meno prudente, la figlia di Alberto Marino, Bellatresa, aveva interrotto ogni sfruttamento nei tre anni successivi alla morte del padre, e l'abate ottenne dai giudici la confisca dei beni della donna colpevole di non aver osservato le clausole (28).
La vendita di Post Castello a Marco Ziani testimonia le difficoltà contro cui si scontravano i grandi monasteri urbani, costantemente alla ricerca di capitali. Ma non fu il solo segno di crisi; ricordiamo la scomparsa, avvenuta nel decennio successivo al 1240, di tre dei fondamenti di San Zaccaria nell'Aqua Teça. Ma fu Brondolo a dover affrontare la situazione più grave: nel 1201 l'abate si era trovato a dover deplorare l'abbandono avvenuto cinque anni prima di una salina del fondamento Andrea Michiel e nel 1224, con il consenso dei monaci e di Enrico Morosini, avvocato del monastero, impegnava presso il doge Pietro Ziani tutti i beni tam intus quam foris Venecie al fine di ottenere un prestito di 5.000 lire. Nel 1229, disperando di vedere i monaci neri riuscire a riformare il convento, il papa lo affidava ai cistercensi di San Colombano, diocesi di Piacenza (29).
Nel 1231 Pietro Bembo, podestà di Chioggia, ordinava a quattro "consorti" del fondamento de li Astulfi di non danneggiare ulteriormente i beni del monastero (30). Il 2 gennaio del 1279, non essendo stato in grado di migliorare la situazione, l'abate Uberto fu costretto a vendere a Albertino Morosini i beni situati nelle Fogolane, a Cavarzere e a Lago di Pozzo, per 950 lire, conservando Canne e i suoi sette fondamenti che in questo momento cadono in rovina, e cioè Agger Podius, Astulphus, Andrea Michiel, Brombedo, Petrosina maior et minor et Tumba Umbraria, tutti vicini (31). Nel 1280, l'ultima riserva non avendo più ragione d'essere, l'abate vendeva al Morosini i beni di Conca e di Canne per 1.000 lire, conservando il solo fondamento Pettadibo (32). Un altro monastero cistercense di Venezia, San Daniele, per acquistare del bestiame non trovò altra soluzione che chiedere in prestito 60 lire a un chioggiotto, cedendogli i profitti di tutte le sue vigne e saline a Chioggia, per un periodo di sei anni (33).
Buona parte delle proprietà monastiche era così persa e i beni scomparsi; le principali vittime furono San Zaccaria e la Trinità di Brondolo. Altri conventi, malgrado tutte le vicissitudini, resistettero meglio e conservarono integro il patrimonio.
In luogo delle saline i patrizi acquirenti impiantarono delle pescherie; la crisi aveva dunque portato alla riconversione delle attività economiche lagunari, tanto più che non era necessario operare dei grandi investimenti per adattare ai bisogni della piscicoltura i bacini abbandonati. Spesso era sufficiente scavare un poco e utilizzarli così com'erano, ambiente ideale per i cefali, pesci che amano le acque molto salate. Albertino Morosini, ritornato in possesso dei beni di Teça - o di Brombedo come affermavano i Chioggiotti -, vi sistemò delle reti ("grasoli") che i Chioggiotti rilevarono (34). Così pure Giovanni Memmo aveva sistemato una peschiera nei pressi dei Septem Salaria nel settore di Torcello (35).
Da notare ancora alcune donazioni quali quelle operate da Elena Gradenigo, da Benedetta, sua madre, e da Giovanni Barozzi, suo cugino, i quali tra il 1232 e il 1236 cedettero a San Giovanni Evangelista di Torcello i beni dei Gradenigo di San Zuan di Rialto a Chioggia, tra i quali il fondamento Rizecoso (36). Il movimento inverso fu tuttavia più frequente, come attestano i considerevoli acquisti effettuati da Marco Ziani o da Albertino Morosini i quali, approfittando delle difficoltà finanziarie in cui versavano i benedettini e i cistercensi, riacquistavano beni spesso abbandonati e lasciati in legato dai loro antenati. I patrizi si avvalevano anche di una disposizione del diritto livellare: i Bobizo, ad esempio, nel 1300, produssero un documento di donazione a dimostrare il fatto che nel 1178 un fondamento di Torcello era stato lasciato a San Giovanni Evangelista; il monastero che non aveva saputo tenere attiva la salina se lo vide rivendicare in quanto, una volta caduto in rovina, lo si sarebbe dovuto restituire alla famiglia donatrice (37).
La grande riforma statutaria messa in atto dal doge Tiepolo nel 1242 si proponeva, a quanto pare, di liberare la proprietà da tutte le costrizioni in cui si trovava imprigionata, e di accelerarne il recupero. Precedentemente, quando il diritto del retratto successorio poteva essere esercitato per un periodo trentennale, i parenti prossimi e i collaterali disponevano di trent'anni per fare appello riguardo a una donazione o una vendita; tra l'investitura sine proprio e quella ad proprium, che conferiva finalmente la piena proprietà dei beni all'acquirente, correva tale lungo lasso di tempo. Una società mercantile che viveva sulla rapida rotazione dei capitali non poteva più accontentarsi di ritmi così lenti in contrasto con la libera disposizione del capitale fondiario e la sua rapida trasformazione in capitale monetario. Il nuovo statuto abbreviò a un anno tale durata pur lasciando sopravvivere l'antica usanza. I tempi lunghi invece andavano benissimo per i monasteri, poco coinvolti negli affari commerciali e il cui patrimonio era costituito per lo più da beni fondiari.
La dualità degli usi giuridici non contribuì a ridurre il numero dei processi per i fondamenti. Nel 1264, il prudente abate di San Cipriano, Gratia, si fece accordare l'investitura ad proprium dei possedimenti lasciati al monastero nel settembre del 1166 a Primera Polani e in particolar modo del fondamento Vecchio di Pellestrina (38). Nel 1288 Alberto, il suo successore che si era fatto confermare l'altra metà del fondamento venduta nell'aprile del 1190 da Imperatrice, figlia del conte Naimerio, dovette sostenere un processo contro Bartholota, vedova del chioggiotto Basilio Poza, la quale aveva fatto atto di investitura sullo stesso sito, avendole il marito lasciato due saline. Furono prodotti tutti gli atti ma la prova legale più convincente avanzata dall'abate fu l'esazione del censo su tutto il fondamento: chi lo percepiva ne era il vero proprietario. Bartholota, condannata a pagare il censo, preferì rinunciare al possesso. Tale episodio è esemplare: alla fine del secolo XIII stavano nascendo nuovi concetti di proprietà e per i produttori non era più ben chiaro in cosa consistessero i diritti di proprietà degli enti monastici e perché si dovesse versare un censo che non sempre forse veniva richiesto. Il censo era divenuto il simbolo tangibile della proprietà e, nell'animo di quanti ad esso erano assoggettati, l'economia demaniale non sopravviveva più che in una modica e ingiustificata rendita. La proprietà aveva assunto nuove forme personali e giuridiche tanto che, sebbene fosse trascorso un secolo dacché il convento aveva ricevuto le donazioni, il priore di San Cipriano sentiva ancora la necessità di cautelarsi.
La famiglia patrizia che con maggiore ostinazione si sforzò di rientrare in possesso dei beni dilapidati dai suoi antenati fu incontestabilmente quella dei Morosini: non si contano i processi in cui essa fu coinvolta alla fine del secolo. Nel 1284 Michiel, figlio di Albertino, rivendicava la proprietà del fondamento Laguna e del censo di due giornate di sale conseguenti al fatto che il padre aveva acquistato otto saline ad Agnese, moglie di Jacobo de Meço di San Polo, site nei fondamenti Laguna, Tumba Umbraria, Rizecoso e Gradenigo. Michiel Morosini ne aveva ottenuto l'investitura completa nel settembre del 1283. Il "clamore" dell'abate di San Cipriano giungeva ben tardi ma, come ebbe a spiegare, ignorava la posizione esatta dei beni al momento in cui avrebbe dovuto avviare la procedura. Il 27 maggio del 1286, i giudici del1'"esaminador" furono incaricati dal comune e dal podestà di Chioggia di un'altra questione: Albertino Morosini aveva acquistato dallo stesso Jacobo de Meço la metà del fondamento Warta Massera, pari a ventisei saline e l'Aqua Teça, al prezzo di 42 lire di grossi. Da quanto esposto si comprende la complessità del diritto patrimoniale veneziano: Morosini aveva il diritto di acquistare saline in conformità allo statuto dei livelli ma non poteva comperare appezzamenti d'acqua dove fossero state precedentemente sfruttate delle saline in quanto queste ultime ritornavano ad essere proprietà pubblica; al fine di far valere i diritti collettivi dei Chioggiotti sulle acque del loro territorio, il comune di Chioggia presentò il pactum Clugie, facendolo risalire ai tempi del doge Partecipazio. Jacobo de Meço insomma, non poteva vendere dei diritti che non possedeva e Albertino Morosini, che era stato podestà di Chioggia, avrebbe fatto meglio a indagare sui titoli di proprietà del venditore (39). Con questa azione il comune di Chioggia si poneva alla pari con il comune di Venezia e rivendicava a proprio conto il beneficio della giurisprudenza del Piovego, della magistratura super publicis, creata allo scopo di recuperare i beni lagunari il cui sfruttamento fondiario era stato abbandonato.
Venezia seppe però far buon uso dei diritti di proprietà acquistati dai Morosini al monastero di Brondolo: secondo la cronaca, quando nel 1229 i Padovani decisero di sistemare alcune saline protette da una "bastia" in le aque salate, il doge Pietro Gradenigo avrebbe inviato i propri armati che batterono i Padovani (40). I volumi dei Pacta precisano che il procuratore di Albertino Morosini si era recato sui luoghi, a Canne, dove i Padovani stavano sistemando le saline, per denunciare le costruzioni attuate su terre appartenenti ai Morosini, usurpandone la proprietà (41). Il diritto privato andava in soccorso alle pretese dei Veneziani che non pensavano ancora di chiedere al comune la sovranità sulle "acque salate".
La proprietà laica era ancora una realtà. Nel 1295 la vedova di Marco Badoer rinunciò a ogni diritto sul fondamento Pietro Ziani in favore del figlio Marco detto Bellelo (42). Nel 1280 i fratelli Nicolò e Marco Antolino si spartirono i beni del padre: le saline di Chioggia toccarono a Marco il quale, a sua volta, il 10 dicembre del 1300, ne donò dieci a San Michele di Murano (43).
Le saline avevano allora un alto valore non ancora svalutato; ne è testimonianza la cessione del Post Castello realizzata da San Giorgio. Nel 1287 i canonici di San Salvatore ottennero la proprietà di due cavedini e mezza di una salina del fondamento Lagucerno, con il censo di due giornate valutato sui 100 soldi. Si trattava di una questione non ben chiara in quanto la salina apparteneva dal 1192 a San Salvatore che l'aveva avuta da Giacomo Ziani. Nel 1174 Domenico Vitale Polo ne aveva ottenuto l'affitto ma, non avendo rispettato tutte le clausole del suo contratto di livello, era incorso nell'ammenda di 5 lire d'oro. Nell'agosto del 1266 il suo più vicino parente (magis propinquus), Giacomo Penzo, fu condannato in seguito a giudizio a rimborsare il debito garantito dai beni di Polo. I canonici si impadronirono dunque di due bacini e mezzo, di valore pari al debito svalutato in lire di "piccoli", 100 soldi di denari (44). Di fatto sequestrando beni già di loro appartenenza, gli ecclesiastici tentavano soprattutto di recuperare un censo che Polo aveva in precedenza trascurato di versare.
Il censo era dunque così redditizio? Il 7 febbraio 1284 Pietro Marcello di San Giovanni Crisostomo spartì i propri beni, in particolare le saline al fondamento Tagliada e i loro proventi, in terzi destinati alla sua chiesa parrocchiale, al fratello Jacobo Marcello del monastero di San Pietro e al convento di Sant'Adriano di Costanziaco. I beneficiari rilasciarono quietanza delle somme ricevute a titolo di rendita delle saline ai procuratori di San Marco e alla nipote del defunto. I conti degli anni 1285-1296, giunti fino a noi, comprendono le quietanze dei terzi lasciati dai beneficiari e il calcolo integrale delle somme percepite dai procuratori. In undici anni il totale raggiunse le 138 lire, 17 soldi e 10 denari ad grossos, cioè il 7 per cento delle rendite della commissaria. Il reddito medio annuo era di 12 lire e mezza con notevoli variazioni: circa 27 lire nel 1287 e 4 lire e 2 soldi nel 1295, riferite all'anno precedente. Fino al 1291 esso oscillò per lo più attorno alle 16-18 lire per poi diminuire progressivamente: 8 lire nel 1292, 5 nel 1293 e nel 1294, 4 lire e 2 soldi nel 1295. Nel 1294 i procuratori vendettero il salarium di Chioggia minore per 35 soldi di grossi; privandosi del magazzino dove venivano raccolte sempre minori quantità di prodotto, era come se mettessero un punto finale allo sfruttamento del sale (45).
Di tutte le produzioni agricole il sale era quella maggiormente soggetta alle variazioni dovute alle intemperie: l'umidità dell'aria impediva l'evaporazione estiva e gli allagamenti invernali distruggevano le scorte immagazzinate ai piani terra dei salaria. Fra Salimbene scriveva nella sua cronaca che la mattina del 21 dicembre del 1284 ci fu a Venezia un violentissimo temporale con tuoni e inondazioni dal mare e dai fiumi; battelli affondarono, uomini perirono annegati e le merci che non erano ai primi piani furono perdute. E proseguiva: "simili sventure colpirono Chioggia che si trova nelle lagune del mare, lì dove si produce il sale" (46). Probabilmente tutto il raccolto dell'estate fu perduto e la Serenissima fu portata a prendere le misure già analizzate, rinforzando il controllo sul sale di Cervia e costringendo i mercanti a importare sale mediterraneo. La minaccia delle intemperie poteva farsi sentire d'inverno come d'estate, sia ostacolando il raccolto sia annientando le scorte, ma non sarebbe prudente vedere in tale realtà la causa unica della crisi. Lo statuto della manodopera, il peso degli investimenti lasciato a carico dei fittavoli, il disinteresse dei proprietari per la gestione dei loro beni, ne costituivano altrettanti fattori.
Nel 1204 quattro fratelli, figli di Bonacena Bolli, ricevettero dal priore di Santa Maria della Carità una salina a Caciacane maiore, per la quale avrebbero dovuto al priore un terzo del raccolto e al vescovo di Chioggia un censo di tre giornate (47). Nel secolo XII la mezzadria era già praticata in talune saline: nel 1212 un certo Pietro Bono di Gandolfo, oberato dai debiti, accettò di lavorare durante l'estate al fondamento di Pellestrina, nelle saline di Lorenzo Gorello, suo creditore, versando il censo a San Giorgio e 3 lire a Lorenzo in data 15 agosto. Se avesse sfruttato male le saline, la somma sarebbe stata raddoppiata (48). I monasteri rimanevano scrupolosamente fedeli ai contratti di livello dei secoli antecedenti. Nel maggio del 1296, in una questione che ricorda quella che l'aveva in precedenza contrapposto a dama Bellatresa, l'abate di San Giorgio aveva intentato un processo contro Blangalande, sorella del defunto Basilio Zi che, nel 1241, aveva avuto una salina a Post Castello. Essendo Basilio morto senza lasciare eredi, la sorella, in qualità di parente più prossimo, avrebbe dovuto riprendere lo sfruttamento, ma essendo questa irreperibile i giudici concessero all'abate la possibilità di confiscarne i beni qualora fosse riuscito a individuarli (49). Non sarebbe forse corretto né giusto parlare di servaggio a tale proposito, ma si era ben lontani dalla libertà nel lavoro o dalla libera scelta dell'attività visto che la nipote o la sorella erano condannate a proseguire l'opera dello zio o del fratello e che l'applicazione delle sanzioni veniva affidata a tribunali e a ufficiali pubblici. Gli eredi ricevevano in lascito un piccolo gruzzolo, attivo o passivo che fosse, e non potevano sfuggire all'obbligo del lavoro ereditario nelle saline.
Anche San Giorgio si avviò ben presto lungo la via già esplorata con successo da San Cipriano di Murano e nominò un "gastaldo" con il compito di gestire le saline in loco. Cato Canopei aveva ben servito gli interessi del monastero di Murano; nel 1298 l'abate Sabbatino Dandolo e i nove frati del monastero nominarono Bonanoio Guiton gastaldo di San Giorgio, incaricato in particolar modo di condurre il fondamento Post Castello. Delle diciotto saline cui avevano di recente rinunciato ventinove fittavoli, l'intendente ne concesse otto a Cristoforo Polo e cinque a Basilio Foscari (50). È evidente che nessun produttore di sale poteva sfruttare, nemmeno con l'aiuto dei familiari, né otto né cinque saline; l'unità di lavoro era costituita dalla coppia di saline, cioè una cinquantina di "cavedini" in grado di produrre quotidianamente due tonnellate di prodotto da trasportare con panieri caricati sulla testa sopra lo scamno, il che rendeva necessari gli sforzi di tutta una famiglia di tre o quattro persone.
La concessione di un numero superiore di saline imponeva profonde innovazioni nel lavoro e nei rapporti sociali; i beneficiari si trasformarono dunque in breve in locatori (locatores) dotati di proprietà più vaste e ben raggruppate, cui spettava l'onere di reclutare gli operai (laboratores). Ben presto i locatores si resero conto dei vantaggi insiti nella nuova posizione: anticipavano denaro ai produttori di sale acquistando loro i raccolti futuri; si facevano però consegnare più del dovuto. Il primo ottobre 1301, al tempo del podestà Fantin Dandolo, il consiglio di Chioggia dovette intervenire e proibire tale forma di usura, praticata anche per contratti ultradecennali. Infatti, al deprezzamento del sale, fatto pregiudizievole per i lavoratori, faceva seguito la rovina delle saline, con danno dei padroni e dei proprietari (51). Il consiglio mantenne in vigore il giusto prestito andando anzi al di là: se l'operaio non poteva rimborsare il debito nel caso che il maltempo avesse impedito o distrutto il raccolto propter aquam magnam, il creditore perdeva il proprio capitale essendo giusto "che il denaro morisse nel sale". Il debito veniva estinto con la distruzione del pegno. Due anni dopo il consiglio invitava i Chioggiotti che curavano le saline al di fuori del vescovado di Chioggia, fra Grado e Cervia, a far ritorno al loro paese; gli uomini che non avessero ottemperato avrebbero subito il taglio della mano, le donne invece l'ablazione del naso e delle labbra (52).
Anche la Serenissima cominciò a inquietarsi della crisi delle saline chioggiotte. Il maggior consiglio, in seguito al rapporto presentato dal podestà Marco Zorzi, il 25 maggio 1297, deliberò che ogni anno si eleggessero due dei migliori avvocati (duos advocatores) per fondamento scelti da tutta la società del fondamento o dalla maggioranza della stessa e incaricati di presiedere, per il legno come per la terra, ai lavori effettuati nel circuito delle dighe a spese di tutti i consortes. Completati i lavori, gli stessi avvocati avrebbero suddiviso le spese fra tutti, e chi avesse rifiutato di pagare la propria quota sarebbe stato denunciato al podestà e i suoi beni confiscati per pagare gli advocatores. L'obiettivo ricercato era la lotta contro la rovina delle saline e dei fondamenti. Gli ufficiali de nocte avrebbero eseguito le sentenze (53). Sotto la spinta della crisi e dopo l'intervento dello Stato si era tornati a una situazione paragonabile a quella dei lavori del domnicum, alle antiche fationes collettive di mantenimento e di conservazione delle dighe, senza le quali le saline non potevano essere salvaguardate. È possibile stabilire quale, nella politica del sale, fosse l'elemento motore di una storia complessa, del trasporto marittimo dei sali mediterranei, della concorrenza estera e della contrazione dei mercati o della crisi sociale a Chioggia? Tutti gli elementi qui elencati concorsero a tracciare la trama di un'evoluzione originale e poco importa quantificare le rispettive responsabilità: il sale di Chioggia si è probabilmente trovato schiacciato dall'eccessivo peso di tasse senza rapporto alcuno con i costi di produzione e di trasporto. I clienti tradizionali cercarono di sostituirlo con sali di diversa provenienza e il suo alto prezzo favorì lo sviluppo di altre produzioni che si rivelarono redditizie, autorizzando i Veneziani a incoraggiare le importazioni da terre lontane e dalle coste del Mediterraneo. Chioggia non fu in grado di resistere alle molteplici concorrenze ma non fu la sola vittima della crisi e dei mutamenti sopravvenuti nel secolo XIII che falciarono anche gli antichi quadri dell'economia demaniale, i concetti legati alla proprietà feudale, nonché le forme locali del lavoro forzato o di servaggio e la supremazia assoluta dei monasteri benedettini nell'economia lagunare. Numerosi furono alla fine del secolo XIII gli elementi nuovi: il ritorno di alcune famiglie patrizie, la formazione di una nuova classe sociale di "locatori" che investì capitali monetari nella produzione e confiscò il raccolto dei salinari, la comparsa della mezzadria nelle saline, la riappropriazione delle forme collettive di lavoro alle dighe che si rivelò così utile a Venezia quando appunto, qualche tempo dopo, si dovette fortificare tutto il lido con dighe, opera titanica affidata principalmente agli uomini di Chioggia, alle loro barche e alla loro lunga esperienza nel lavoro dei fondamenti.
Traduzione di Dario Formentin
1. A.S.V., Miscellanea ducali e atti diplomatici, b. VI.
2. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. lat. cl. XIV, Procuratori di San Marco de supra, nr. 71.
3. I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-XV), a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929, doc. 3, p. 14, Jean-Claude Hocquet, Guerre et finance dans l'Etat de la Renaissance: la Chambre du Sel et la dette publique à Venise, in Actes du 102e Congrès national des Sociétés Savantes, Paris 1979, p. 110 (pp. 109-131).
4. A.S.V., Pacta, I, cc. 189v-190v.
5. Ivi, Miscellanea atti diplomatici e privati, b. 2, perg. 71; ivi, Pacta, I, cc. 151 e 165.
6. Bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Fabio Besta, Venezia 1912, doc. 15.
7. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, II, Voiliers et commerce en Méditerranée 1200-1650, Lille 1979 (trad. it. Il sale e la fortuna di Venezia, Roma 1990), pp. 250-253.
8. A.S.V., Secreta, capitolari (già Miscellanea codici), cod. 133, cc. 113-117. Il capitolare non si preoccupa di precisare in quale data furono applicati quei tassi fiscali, ma grazie alle deliberazioni del maggior consiglio sappiamo che, dal 1281, il sale destinato a Padova già pagava un dazio di 16 lire mentre il dazio di Treviso era passato a 15 l'anno precedente. I tassi desumibili dal testo sono dunque quelli della fine del secolo XIII; cf. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, II, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931, pp. 126, 129. Sulle diverse monete di Venezia, Frederic C. Lane, Le vecchie monete di conto veneziane e il ritorno all'oro, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 117, 1958-1959, pp. 49-78.
9. Jean-Claude Hocquet, Salinarii et officium salis à Venise au Moyen Âge, selon leur capitulaire, introduzione al Catalogo del Magistrato al sal, a cura di Giovanni Caniato, Venezia (in corso di pubblicazione).
10. Id., Le sel et la fortune de Venise, II, pp. 249-253.
11. Ibid., pp. 199-208.
12. Ibid., p. 203.
13. Id., Monopole et concurrence à la fin du Moyen Âge. Venise et les salines de Cervia (XIIe-XVIe siècles), "Studi Veneziani", 15, 1973, pp. 21-133, in particolare pp. 72-80.
14. Non è agevole seguire passo passo la politica veneziana dei "patti", veri e propri contratti commerciali conclusi fra due comuni. Né si trattava di documenti propri alla sola Venezia: anche Ferrara e Ravenna ne avevano firmati. La bibliografia è abbondante: oltre al citato articolo di J.-C. Hocquet, Monopole et concurrence, cf. Antonio Battistella, Contributo alla storia delle relazioni tra Venezia e Bologna dall'undicesimo al sedicesimo secolo, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 75, 1915-1916, pp. 1733-1881; Bernardino Ghetti, I patti tra Venezia e Ferrara dal 1191 al 1313, esaminati nel loro testo e nel loro contenuto storico, Roma 1907; Pietro Desiderio Pasolini, Delle antiche relazioni fra Venezia e Ravenna, "Archivio Storico Italiano", 12-13, 16-19, 1870-1874; Id., Documenti riguardanti le antiche relazioni fra Venezia e Ravenna, Imola 1881, p. 132; Luigi Bellini, Le saline dell'antico delta padano, Ferrara 1962, p. 791; Klemens Bauer, Venezianische Salzhandel-spolitik bis zum Ende des XIV. Jahrhundert, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 23, 1930, pp. 273-323; Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, pp. 249-253.
15. A.S.V., Miscellanea ducali e atti diplomatici, b. VI.
16. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, I, Production et monopole, Lille 19822 (trad. it Il sale e la fortuna di Venezia, Roma 1990), pp. 81-86.
17. Id., Il Trentino all'incrocio dei sali tirolese e veneziano tra il XIII e il XV secolo, in Il Trentino in età veneziana, a cura di Gherardo Ortalli, "Atti dell'Accademia Roveretana degli Agiati", 238, 1990, pp. 387-402. La migliore fonte di informazioni sulle saline austriache è oggi Rudolf Palme, Rechts-, Wirtschaftsund Sozialgeschichte der inneralpinen Salzwerke bis zu deren Monopoliesierung, Frankfurt am Main-Bern 1983, p. 543.
18. Jean-Claude Hocquet, Expansion, crises et déclin des salines dans la lagune de Venise au Moyen Âge, nel catalogo Mostra storica della laguna veneta, Venezia 1970, pp. 90-91 (pp. 87-99) (trad. it. Espansione, crisi e declino delle saline della laguna di Venezia durante il Medioevo, in AA.VV., Chioggia, capitale del sale, Sottomarina di Chioggia 1991, pp. 85-97).
19. A.S.V., San Giorgio Maggiore, proc. 65 A.
20. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, II, Documenti (800-1199), a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1981, docc. 425-431 (nel 1226 e nel 1227). Nel 1275 il comune di Chioggia vendette ai "consortes" del "fondamento Strosone" acqua e terra all'esterno delle dighe: Chioggia, Archivio Antico, Consigli, lib. I (23), c. II.
21. A.S.V., San Zaccaria, b. 12.
22. Ivi, San Giorgio Maggiore, procc. 122 e 124 A.
23. Ivi, Mensa patriarcale, San Cipriano di Murano, pergg. 651, 652,365, 394.
24. Ivi, San Giorgio Maggiore, proc. 121.
25. Roberto Cessi, Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, "Memorie del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 30, 2, 1938; Enrico Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia fino al dogado di Enrico Dandolo, Venezia 1900; Id. - Riccardo Predelli, Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 1, 1901, pp. 205-300.
26. Irmgard Fees, Reichtum und Macht im mittelalterlichen Venedig. Die Familie Ziani, Tübingen 1988, p. 404.
27. A.S.V., San Giorgio Maggiore, proc. 122.
28. Ibid.
29. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo.
30. A.S.V., Santa Trinità di Brondolo, b. II.
31. Gerolamo Vianelli, Nuova serie de' vescovi di Malamocco e Chioggia, I, Venezia 1790, p. 311.
32. Ibid., p. 312. Albertino Morosini si scontrò con qualche difficoltà quando volle entrare in possesso dei beni acquistati dall'abate. Il comune di Chioggia gli intentò un lungo processo, pretendendo che tali beni non si trovassero nell'Aqua Teça bensì nell'Aqua Brombedo appartenente al comune (Vincenzo Bellemo, Il territorio di Chioggia, Chioggia 1893, doc. XXI, p. 309).
33. A.S.V., San Daniele, b. 2 perg.
34. V. Bellemo, Il territorio di Chioggia, p. 309.
35. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Codice del Piovego, sentenza XXVII, cc. 193v-200v.
36. A.S.V., San Giovanni Evangelista di Torcello, cartella I, pergg. 775, 215, 385; b. 3, perg. 438.
37. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Codice del Piovego, sentenza XL, cc. 261-268.
38. A.S.V., Mensa patriarcale, San Cipriano di Murano, p. 317.
39. Ibid., pp. 428-430. Il 7 agosto 1290 il gastaldo di San Cipriano impugnò l'investitura richiesta dal podestà di Chioggia e dal comune su una salina del fondamento Laguna il cui corrispettivo era una salina di Albertino Morosini. La famiglia Morosini restò in seguito proprietaria di quattro saline nel suddetto fondamento e, dal 1384 al 1394, il cancelliere di Chioggia, Giacomo Pasquale, ne rese fedelmente conto ai procuratori di San Marco in qualità di amministratori della "commissaria" di Marino Morosini (Jean-Claude Hocquet, Die jährliche Instandsetzung der venezianischen Salinen am Ende des Mittelalters, in Symposion Salz-Arbeit und Technik, Produktion und Distribution in Mittelalter und früher Neuzeit, a cura di Christian Lamschus, Lüneburg 1989, pp. 32 ss. [pp. 25-38>).
40. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 78 (= 9135), c. 21.
41. A.S.V., Pacta, reg. 1, c. 53r.
42. Ivi, Procuratori di San Marco de ultra, b. 147, Commissaria Badoer Marco di Santa Giustina.
43. Ivi, Procuratori di San Marco de citra, bb. 123-124, Commissaria Marco Antolino.
44. Ivi, San Salvatore, b. 20, proc. 39.
45. Ivi, Procuratori di San Marco de ultra, b. 145, Quaderno della commissaria Pietro Marcello.
46. Salimbene de Adam, Cronica, I-II, a cura di Giuseppe Scalia, Bari 1966.
47. A.S.V., Santa Maria della Carità, b. 16 perg.
48. Ivi, San Giorgio Maggiore, proc. 518.
49. Ibid., proc. 122.
50. Ibid., proc. 122 (6 gennaio 1300).
51. Chioggia, Archivio Antico, Consigli, lib. I (23), c. CCLXXXIII.
52. Ibid., c. CXLIII.
53. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1934, p. 424 n. 22.