La politica del turismo
Ciò che del fenomeno turistico positivamente sorprende gli osservatori internazionali è la crescita costante della domanda e la sostanziale indifferenza rispetto ai frequenti fenomeni di crisi sui mercati internazionali. Solo la tragedia delle Twin Towers di New York (2001) ha scosso davvero i mercati, ma nel giro di poco tempo, già dal 2003, la ripresa si è affermata in modo costante. Naturalmente eventi eccezionali (guerre, fenomeni naturali, carestie ecc.) o anche congiunture particolari, come il differenziale sui cambi delle monete, determinano nuove gerarchie interne al movimento, destinazioni diverse si affacciano al mercato, prodotti maturi si riposizionano, si affermano nuove modalità di vacanza, ma il movimento continua comunque ad aumentare. La vacanza non è più il periodo di rigenerazione della forza lavoro, ma è una componente irrinunciabile del percorso di vita e di crescita culturale. La nuova forza lavoro non ha più solamente bisogno di riposo, ha bisogno anche di esperienze, quelle che in particolare il viaggio permette di accumulare nell’incontro con culture, ambienti, persone prima non conosciute. Ciò significa che la domanda di vacanza o di viaggio è diventata strutturale nella società avanzata e sta interessando strati sempre più ampi della popolazione mondiale. Ovviamente questa è la risultante di molteplici fattori che verranno di seguito esaminati.
Il 2007 e il 2008 non sono stati anni favorevoli per l’economia mondiale: la forza eccessiva dell’euro e la debolezza del dollaro prima e la grave crisi economica poi hanno reso meno competitive le esportazioni dall’euro-zona; l’incremento speculativo dei prezzi dei carburanti ha colpito il traffico aereo e automobilistico di cui il turismo si nutre; la crisi dei mutui e l’aumento dei tassi di interesse hanno indebolito la capacità di spesa delle famiglie. Il 2008 ha visto l’esplosione della crisi finanziaria e una delle più gravi recessioni del dopoguerra e il turismo ne ha risentito. Nonostante ciò continuano a crescere gli internazionali, cioè gli spostamenti da Paese a Paese, con un ritmo del 6%, superando le previsioni che si fermavano al 4%. In termini assoluti si parla di 900 milioni di arrivi internazionali, con una crescita, rispetto all’anno precedente, di quasi 52 milioni. Naturalmente i ritmi di incremento sono differenziati e, pur premiando le nuove destinazioni, non trascurano quelle più mature: l’Europa, per es., destinazione matura per eccellenza, ha realizzato una crescita del 4% mantenendo in tal modo una quota di mercato che rappresenta circa il 50% del movimento turistico mondiale (dati WTO, World Trade Organization).
L’Italia resta stabile in termini di arrivi, ma perde posizioni in termini di ricavi, facendosi superare dalla Cina che ormai viene considerata la quarta potenza turistica mondiale. L’attenzione che gli osservatori del settore pongono sugli arrivi turistici internazionali rischia però di oscurare la dimensione reale del fenomeno, perché il movimento turistico interno ai Paesi interessati supera di molto il puro movimento da Paese a Paese. Si tratta di fenomeni economici che hanno grande rilevanza nel determinare le sorti di comunità ed economie locali; si registrano spostamenti di reddito da una Regione a un’altra, si costruiscono distretti economici in cui si coltivano politiche di sviluppo dell’incoming da altri Paesi ma, nello stesso tempo, si sviluppano anche politiche di consolidamento di un mercato turistico interno che sostiene l’80-90% dei fatturati.
Di solito l’indicatore della quota di mercato estero che una singola destinazione detiene segnala inversamente il livello di maturità del prodotto di quella destinazione; tuttavia il posizionamento sul mercato nazionale costituisce spesso la base di capitalizzazione che permette di avviare i processi di innovazione di prodotto e spingere quindi verso la gara internazionale con forza rinnovata. Altra base di capitalizzazione è rappresentata da nuovi mercati esteri che vengono a sostituire mercati che, per ragioni strutturali, si sono orientati su destinazioni più lontane rese accessibili da nuove rotte aeree. Si parla molto dell’immenso mercato cinese, per il quale l’Italia non ha ancora una politica (a partire dai voli aerei e dai visti turistici), ma è già una realtà il vasto e colto mercato russo che dimostra grande interesse per l’Italia, per i suoi mari e per le sue città d’arte.
Una delle problematiche più complesse, che tiene in scacco destinazioni turistiche dall’incerto futuro, è l’utilizzazione troppo bassa degli impianti dovuta alle forti oscillazioni stagionali: si determina una difficoltà a ricapitalizzare gli impianti e si sottopongono l’impresa e il lavoro a una permanente precarietà, che viene affrontata spesso con il ricorso a fattori impropri come l’uso di lavoro irregolare e l’evasione fiscale. Settore balneare e settore termale soffrono questa difficoltà più delle città d’arte e della montagna. Il passaggio storico dal turismo ai turismi darà risposta al problema a patto che i territori sappiano attrezzarsi per rispondere alla varietà nuova con cui la domanda si presenta sul mercato. Attrezzarsi significa dotarsi di infrastrutture che permettano di produrre incoming indipendentemente dai fattori climatici.
La conclusione di questa veloce riflessione sui trend mondiali del turismo ci parla di un settore economico in crescita costante, che chiede di essere affrontato con politiche nazionali e continentali paragonabili a quelle attuate per i settori primario e secondario. È sorprendente, per es., la debolezza delle politiche dell’Unione Europea in materia turistica: l’Europa è una grande produttrice di outgoing verso altri continenti, ma è pigra nell’attività di valorizzazione del turismo interno, che rappresenterebbe non solo un importante fattore di crescita economica ma anche una leva di integrazione culturale.
Al confronto con la dimensione planetaria il turismo italiano, che pure si colloca ai primi posti della classifica mondiale, appare come uno strano animale acefalo. Si tratta di un’attività economica con potenzialità enormi ma priva di pensiero, cioè di modi e di luoghi di riflessione strategica in grado di orientare i processi politici ed economici. Si assiste al fiorire di osservatori, centri studi, corsi universitari, master, centri di formazione, scuole superiori ecc., ma questi tentativi, spesso generosi, restano separati sia dal mondo dell’economia che vive immerso in un’autoreferenzialità quasi del tutto inerme, sia dal mondo della politica che di turismo si occupa marginalmente. Analizzando la situazione legislativa del turismo italiano, si resta sgomenti di fronte agli ondeggiamenti, alle insicurezze, ai cambi di rotta: è come se mancasse non solo una condivisione degli obiettivi, ma addirittura un metodo per individuarli. Eppure il turismo rappresenta per l’Italia il 13% del PIL, ha potenzialità di sviluppo enormi (in particolare per il Mezzogiorno), garantisce alti livelli occupazionali, è in buona misura industria di esportazione, non è delocalizzabile e, a differenza di altri settori produttivi, è in grado di diffondere attorno a sé qualità, sviluppo e occupazione. Ci sono insomma tutti gli ingredienti perché la politica si occupi a fondo di questo comparto economico, perché i partiti lo assumano come bandiera nei loro programmi, perché le autorità territoriali ci costruiscano le economie locali e le loro basi di consenso. Tutto ciò però non avviene o avviene solo in parte e solo in qualche area del Paese.
L’andamento del mercato globale turistico rende ancora più assillante l’interrogativo sul ruolo che occuperà l’Italia nei prossimi anni. Lo scenario prevalente sembra essere, per ora, quello di un lento declino. Perché? Questo saggio, per quanto possibile, cercherà di dare risposta all’interrogativo.
Turismo e territorio
Dal turismo ai turismi
Il problema appare in modo chiaro se mettiamo a confronto i prodotti turistici che il mercato offriva negli anni Sessanta del 20° sec. e quelli che oggi ri-chiede. Allora il mercato turistico si nutriva di prodotti relativamente semplici in cui il fattore centrale era la ricettività alberghiera o residenziale; si trattava di un prodotto massificato (grandi numeri, strutture standardizzate, prezzi mediamente bassi), che corrispondeva specularmente a modelli di organizzazione produttiva ancora ampiamente fordisti (appiattimento delle carriere, dei profili professionali e dei salari). La sociologia dell’epoca coniò il termine operaio-massa per definirne l’identità sociale. A quel profilo semplice corrispondeva, sul mercato turistico, un prodotto semplice, quello che fu chiamato turismo di massa. Fu la prima ondata di vacanzieri che muovevano dai Paesi più industrializzati, dove i salari in valuta pregiata avevano un valore d’acquisto molto alto rispetto alle monete dei Paesi mediterranei. In quegli anni la componente estera del turismo italiano toccava percentuali che superavano il 50%; la periodica svalutazione della lira garantiva competitività, i pagamenti in valuta pregiata (marco, dollaro, sterlina) integravano i redditi delle imprese. Proprio le imprese e i territori italiani, così come Francia, Spagna e Grecia, furono capaci di intercettare quella domanda, furono i primi a capire che la domanda di vacanze stava formandosi, stava assumendo una funzione strutturale e presto si sarebbe rovesciata sul mercato.
Dagli anni Settanta il mondo si è trasformato. Il processo di terziarizzazione avanzata, con le applicazioni informatiche, ha cambiato le qualificazioni professionali, nelle società più evolute si è definitivamente affermata l’economia dei servizi; nelle fabbriche è cambiata l’organizzazione del lavoro e si sono moltiplicate, anche per ragioni di politica sindacale, le carriere e i relativi trattamenti economici. La ‘massa’ tende a scomporsi; l’economia è entrata nel cosiddetto postfordismo. Anche il turismo di massa si è evoluto, sono aumentati i turisti, ma non sono più ‘massa’, sono individui pienamente consapevoli delle scelte commerciali che fanno, sono più colti, hanno più reddito disponibile, sono molto più mobili grazie alle moderne infrastrutture di trasporto. Il mercato turistico del nuovo secolo chiede prodotti ricchi di contenuti, più orientati alla domanda, capaci di corrispondere alla sempre più accentuata segmentazione del mercato. Non c’è più un prodotto standard, ci sono infiniti prodotti arricchiti di contenuti, di fattori di eccellenza, di nuove opportunità, che tuttavia continuano a operare su basi fondamentali come il balneare, le città d’arte, il termale, il montano e così via. Dal punto di vista dell’offerta si deve assumere la segmentazione del mercato come un fattore creativo, moltiplicatore di opportunità, liberatore di energie, e la competizione che ne deriva si sposta dalla quantità alla qualità. La letteratura specializzata definisce così questo percorso: dal turismo ai turismi.
L’impresa immersa nel territorio
In questa nuova dimensione il territorio assume un valore centrale perché è sul territorio che si determina la sintesi dei fattori che implementano l’offerta. Si prenda l’esempio del turismo balneare, quello maggiormente sottoposto alla competizione internazionale: gli osservatori lo considerano un prodotto maturo ma intercetta ancora circa il 40% del movimento. Il balneare dei Paesi meridionali dell’Europa per poter competere con le nuove destinazioni internazionali, facilmente raggiungibili con voli dedicati o low cost, deve incorporare innovazione affinché la base (mare, spiagge, alberghi) si arricchisca di servizi. Ciò al fine di rendere quella destinazione più capace di ‘parlare’ al mercato, ma anche per destagionalizzare e per incrementare la stabilità dell’impresa e del lavoro. Questi servizi si dislocano sul territorio che, con le sue stratificazioni culturali e i suoi tratti identitari, diventa ‘il prodotto’. I francesi sono stati maestri in questo tipo di approccio, immettendo sul mercato prodotti caratterizzati dai valori territoriali oltre che da quelli imprenditoriali in senso stretto (i circuiti del vino, dei castelli, dei parchi e così via). Questo non riduce l’importanza che nel turismo in generale riveste la struttura ricettiva, ma dimostra il fatto che è il territorio a incrementarne il valore. Senza ricettivo il territorio al massimo produce escursionismo, ma senza un territorio ben organizzato, il ricettivo langue. L’antica disputa sul prevalere del marketing di prodotto oppure del marketing di destinazione non ha più molto senso: senza prodotto non c’è destinazione, senza destinazione non c’è prodotto.
La questione prezzi spiega ancora meglio questo ragionamento. È ovvio che una città balneare italiana non potrà competere con i prezzi che, per es., pratica l’Egitto; le condizioni di produzione sono totalmente diverse, a partire dal costo della manodopera e ciò vale per tutti i prodotti turistici. Occorre allora che l’offerta turistica italiana sia a tal punto ricca di qualità da giustificare un prezzo più alto. Qualità significa cose molto precise: raggiungibilità, cultura dell’accoglienza, rispetto per l’ambiente e diffusione di tecnologie avanzate, organizzazione del territorio e dei servizi, sicurezza per i cittadini residenti e per quelli fluttuanti, attenzione al dettaglio, ricettività adeguata agli standard medi europei, un’identità riconoscibile e così via. Con un approccio di questo tipo, la questione del prezzo cambia completamente di significato: la competitività di un prodotto turistico è il risultato della relazione fra prezzo e qualità. Nelle città d’arte, dove la domanda si differenzia fra movimento business e movimento leisure, occorre per es. che il prezzo sappia differenziarsi secondo le stagioni, i mesi o addirittura i giorni della settimana.
Ma il quadro è cambiato anche per quanto riguarda il profilo soggettivo del turista, è cresciuta la capacità di spesa, è cambiato il profilo culturale. Ciò porta il turista a compiere scelte più selettive, spesso basate sulla ricerca di nuove esperienze in campo culturale (arte, enogastronomia, eventi e altro). La vacanza non è solamente un periodo di riposo dedicato alla rigenerazione della forza lavoro, è il tempo del cocooning, della cura di sé, delle esperienze che arricchiscono. Da tutto ciò deriva anche l’accorciamento e la moltiplicazione dei periodi di vacanza nel corso dell’anno, i mitici ‘quindici giorni al mare’ degli anni Sessanta lasciano il posto a due o tre vacanze brevi nel corso dell’anno. Ciò produce problemi, ma anche opportunità: si pensi alla destagionalizzazione e all’utilizzo nelle medie stagioni del patrimonio edilizio ricettivo che rischierebbe altrimenti di restare improduttivo. Dunque per mettere in produzione i nuovi turismi, l’asse centrale del prodotto deve essere spostato dalla struttura ricettiva alla somma fra questa e il territorio che la ospita e deve concentrarsi sui fattori qualitativi che albergo e territorio sono in grado di incorporare e di proporre. La crescita lenta ma costante della vendita on-line delle vacanze farà compiere un ulteriore passo in avanti ai diversi turismi in particolare per le vacanze a medio raggio. Questa modalità di vendita rappresenta oggettivamente una semplificazione del rapporto fra compratore e venditore scavalcando l’intermediazione dei tour operators, produce vantaggi per quelle imprese che vi si affidano incrementando la tecnica del marketing diretto con potenzialità praticamente illimitate. Naturalmente la rete esige che le piattaforme di vendita si organizzino o su base verticale (le catene) o su base orizzontale (i territori). Per loro il primo nodo da risolvere è costituito dalla visibilità all’interno dello sterminato mondo di Internet. Il secondo nodo è garantire l’aggiornamento della effettiva disponibilità di camere e attrezzare la gestione a questo scopo; la cosa peggiore che può capitare a un internauta è di prenotare on-line e, all’arrivo, non trovare più la camera. Il terzo nodo riguarda la protezione del pagamento con carta di credito, ma già il sistema bancario è molto avanti sul tema della sicurezza in tal senso.
Nell’ottica dei molti turismi, gli attori di una destinazione turistica o di un sistema turistico non sono più solo i tradizionali protagonisti della filiera corta ‘produzione e commercializzazione’, cioè operatori del ricettivo e catena commerciale dei tour operators e degli agenti di viaggio. Entrano in scena protagonisti fino a ieri considerati semplicemente aggiuntivi: organizzatori di eventi culturali, sportivi o congressuali, manager di destinazione, gestori di infrastrutture presenti sul territorio (palacongressi, palasport, fiere), servizi commerciali o di artigianato, forze dell’ordine che garantiscano la sicurezza, servizi urbani efficienti e così via. Gran parte di questi nuovi attori sono soggetti pubblici, perciò la politica nel turismo assumerà un ruolo sempre più incisivo. Inevitabilmente questo ampliamento degli attori implica problemi nuovi di governo delle relazioni interne ai sistemi turistici, ma mette in campo occasioni di sviluppo e opportunità di costruzione di economie integrate.
Tre possibili risposte
Se tutto ciò è vero, se il turismo moderno ha incrementato la propria complessità e incorporato nel prodotto i valori o i disvalori del territorio, diventa ancora più impellente rispondere alla domanda iniziale: perché allora, in particolare in Italia, la politica si occupa così poco del turismo?
L’Italia è stato il primo Paese turistico del mondo, è stata, e in parte è ancora, una meta naturale. Ciò vale ovviamente in modo particolare per le città d’arte che godono di una rendita di posizione determinata dalla loro unicità: tutti vorrebbero almeno una volta nella vita vedere Venezia, Firenze, Roma. E la prima risposta va quindi cercata nel peso della rendita di posizione: gli imprenditori italiani in realtà sono poco dinamici perché si affidano più ai fattori di rendita che a quelli d’impresa.
La seconda risposta è la conseguenza della prima. Se si analizza un ciclo decennale di leggi finanziarie dello Stato italiano emerge l’abissale disparità di trattamento fra i settori primario e secondario e il turismo. Ci sono sempre stati pochi soldi dedicati a quel lavoro lento ma costante di innovazione che il settore turistico richiederebbe, ci sono stati semmai impulsi improvvisi legati a eventi particolari: la crisi della mucillagine in Adriatico nel 1989, il Campionato mondiale di calcio del 1990, il Giubileo del 2000, le Olimpiadi invernali a Torino nel 2006. Sono reazioni giuste che involontariamente sottolineano la mancanza di una strategia continua e costante.
Infine, l’assetto istituzionale che riguarda la governance del turismo italiano è inadeguato alla competizione internazionale. La scelta di trasferire tutte le competenze in materia alle Regioni ha avuto come conseguenza una perdita di massa critica e una sostanziale deresponsabilizzazione dello Stato, perciò l’Italia appare disarmata di fronte alla dimensione nuova che il turismo va assumendo a livello planetario. Si pensi, per es., all’ingresso sul mercato potenziale di Paesi come la Cina e l’India, con centinaia di milioni di persone che nei prossimi anni chiederanno accesso al mercato turistico. Come potrà l’Italia delle venti Regioni competere con Paesi che sanno operare con masse critiche formidabili?
Non è vero che l’Italia nel turismo spende meno di altri Paesi; al contrario, se sommiamo gli investimenti delle venti Regioni italiane sicuramente l’Italia spende di più. Semplicisticamente si potrebbe dire che, a parità di investimenti, venti centri di spesa sono meno potenti di uno solo. Più correttamente, la questione appare come assenza di un centro programmatore capace di dare unità e forza alla molteplicità dei centri di spesa. Ma è anche un problema di strategie, di omogeneità degli standard, di reti nazionali e così via. Nel maggio 2009 è stato ripristinato il Ministero del Turismo: è auspicabile che con questo provvedimento l’Italia recuperi unitarietà di strategie e più incisive politiche per la diffusione della marca Italia.
L’Italia e la politica del turismo
Un’ondivaga legislazione turistica
Il 21° sec. si è aperto con una contraddizione istituzionale clamorosa, in grado di superare la fantasia di ogni legislatore. In chiusura di legislatura, il Parlamento italiano ha approvato la l. 29 marzo 2001 n. 135, legge quadro sul turismo. La precedente era la l. 17 maggio 1983 n. 217, che eliminando la molteplicità di enti turistici (aziende di soggiorno, enti provinciali del turismo) aveva introdotto le APT (Aziende di Promozione Turistica), lasciando alle Regioni il compito di definirne gli ambiti territoriali e le competenze. La n. 217 fu una legge applicata in modo assolutamente difforme da Regione a Regione e in alcune non fu applicata affatto. La legge n. 135 è stata dunque salutata come un passo in avanti, un tentativo di mettere finalmente ordine affidandosi a funzioni di indirizzo forti dello Stato e a una più accentuata articolazione dei poteri locali. In particolare il Comune usciva da una marginalità storica che lo aveva relegato a ruoli burocratici: in passato infatti poteva occuparsi solo di licenze alberghiere e di controlli. L’organizzazione turistica del territorio era sempre stata ‘altro’ rispetto all’ente che programma il territorio e ciò che in esso avviene. Anzi, spesso aziende di soggiorno, pro loco e quant’altro, si posizionavano come contropoteri in conflitto potenziale con il Comune. Nella legge n. 135 il Comune, in quanto ente titolare del territorio, assume un ruolo meno burocratico e viene chiamato a esercitare una funzione centrale nell’organizzazione integrata dell’offerta (strutture ricettive e servizi territoriali). Tutto ciò rappresentava una buona premessa per un federalismo capace di esaltare le molteplici identità del nostro Paese, senza disperdere il valore della ‘marca’ Italia. Invece, poco dopo, veniva varata una riforma costituzionale (l. 18 ott. 2001 n. 3) in base alla quale la materia turistica era collocata fra le materie di competenza esclusiva delle Regioni. L’esistenza di una legge quadro, approvata dal Parlamento pochi mesi prima, indicante i criteri e i limiti entro i quali le Regioni avrebbero legiferato, diventava a questo punto ingombrante e si poneva in contrasto con quanto stabilito dalla riforma costituzionale, ispirata al principio della devoluzione che si veniva affermando nel sistema politico italiano. La legge n. 135 non è stata abrogata, ma semplicemente disattesa e per cinque anni non più finanziata.
Si può annotare incidentalmente una curiosità riguardante l’art. 117 della Costituzione riformata: viene assegnato alla legislazione concorrente fra Stato e Regioni tutto il commercio estero, ma non il turismo che per buona misura è un prodotto italiano che viene esportato, cioè consumato in Italia ma venduto all’estero. Dunque, secondo l’art. 117 riformato, i prodotti industriali o dell’agroalimentare hanno bisogno di una politica nazionale per affermarsi sui mercati internazionali, ma non i servizi turistici. In conseguenza di tutto ciò, il previsto d.p.c.m. di attuazione della legge n. 135 è stato emanato con notevole ritardo (ott. 2002) dando inizio a uno stillicidio di contenziosi presso la Corte costituzionale riguardanti alcuni articoli considerati lesivi delle competenze regionali. Così, nel concreto della vita del Paese, la legge quadro veniva attuata in modi assolutamente difformi e il più delle volte non veniva attuata affatto. In nessun caso veniva applicato in modo omogeneo l’aspetto forse più innovativo della legge, quello relativo alla individuazione dei Sistemi turistici locali (STL). La 135 all’art. 5 prevede infatti che i STL nascano attraverso un processo ascendente di autoriconoscimento della centralità del turismo da parte delle comunità locali. Solamente dopo avere deciso di volersi organizzare come STL, le comunità locali (Comuni, Province, Camere di commercio, imprese) chiedono il riconoscimento alle Regioni. Questo meccanismo ascendente non sembra essere stato compreso in tutti i suoi significati. Le Regioni che hanno legiferato lo hanno fatto dall’alto, come se si trattasse di cambiare nome alle APT; si è così perso di vista il punto più interessante della riforma, quello del ruolo centrale della comunità locale: le Regioni riconoscono e coofinanziano i STL se le comunità locali decidono che il turismo è per loro importante al punto da dedicarvi risorse proprie e organizzare l’offerta della destinazione turistica in modo integrato. Questo percorso doveva essere legittimamente letto come il passaggio dalla fase in cui ‘tutti possono fare turismo (male)’, alla fase in cui ‘fanno turismo solo i più virtuosi’.
Il paradosso del ping-pong
Nel corso degli anni successivi alla riforma del titolo V della Costituzione si è determinato un ping-pong continuo sul tema delle competenze senza che nessuno (né da parte statale, governo o parlamento, né da parte regionale) abbia avuto la forza o il coraggio di mettere mano al problema. Tutti gli attori in campo si sono dedicati al gioco del conflitto di competenza, dando lavoro alla Corte costituzionale e non si sono posti l’obiettivo di dar mano a una riforma ulteriore, peraltro assai semplice: aggiungere la parola turismo all’elenco delle materie su cui l’art. 117 prevede legislazione concorrente fra Stato e Regioni. Sempre durante tale legislatura la X commissione della Camera (Attività produttive) ha svolto una vasta indagine conoscitiva, conclusa nel febbr. 2008, ascoltando il mondo delle istituzioni e delle imprese. Ebbene, tutti gli interlocutori, sia pure con accenti diversi, hanno sottolineato l’emergenza rappresentata dalla questione della governance del turismo italiano. Nelle pause fra un conflitto di competenza e l’altro, la perfezione del paradosso vuole che tutti gli attori si dedichino con alacrità a trovare soluzioni ‘tampone’ al problema rimasto aperto di un coordinamento minimo delle politiche nazionali in materia. Va in questa direzione l’accordo Stato-Regioni sottoscritto dalla conferenza del 14 febbr. 2002, con il quale si sono definite le regole per l’armonizzazione del rapporto. Vanno in questa medesima direzione la l. 14 maggio 2005 n. 80 che trasforma l’Ente nazionale italiano per il turismo (ENIT) in Agenzia nazionale del turismo, incorporando negli organi esecutivi una forte rappresentanza regionale, e il d.p.c.m. 1 luglio 2005 che istituisce il Comitato nazionale per il turismo, un superorganismo formato da Stato, Regioni e associazioni economiche.
Le norme istitutive del Comitato, dopo un ricorso regionale, sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale (sentenza n. 214 del 2006) che ha ravvisato uno squilibrio nelle rappresentanze. Il governo ha così dovuto provvedere all’istituzione di un nuovo organismo, il Comitato delle politiche turistiche, caratterizzato da una più folta rappresentanza regionale.
La sentenza n. 88 del 2007 sembra compiere un passo in avanti, con essa la Corte costituzionale ribadisce l’esistenza di un interesse unitario che giustifica una disciplina legislativa statale. Dunque, la Corte, inquadra correttamente il problema e sottolinea come le esigenze di carattere nazionale possono giustificare una deroga e motivare una convivenza di competenze fra Stato e Regioni.
Nel frattempo i decreti di spesa dei fondi del 1228° co. (41 milioni di euro) della legge finanziaria 2007 (l. 27 dic. 2006 n. 296), destinati ai processi di modernizzazione del sistema ricettivo, sono sotto scacco dell’impugnativa regionale e restano congelati insieme agli 82 milioni dei due anni successivi. È disarmante poi trovare nella legge finanziaria 2008 (l. 24 dic. 2007 n. 244) norme come quelle dei comma 193°, 194°, 195° in cui lo Stato sembra chiedere sommessamente di potersi occupare di questioni come la semplificazione legislativa o il sostegno a investitori stranieri in campo turistico. Non appare proponibile che l’Italia possa affrontare la competizione internazionale nel turismo attraverso un regime di ‘deroga’, come suggerisce forse ironicamente la Corte costituzionale o chiedendo al Parlamento di potersene occupare nella consapevolezza del rischio di nuovi contenziosi. C’è poi da vedere come le Regioni italiane hanno gestito la competenza esclusiva. Non è facile tracciare un profilo omogeneo perché ogni Regione ha seguito un proprio disegno e chi percorresse l’Italia da una Regione all’altra troverebbe un assetto diverso degli enti turistici, con interlocutori che cambiano continuamente. In linea di massima si possono però individuare due modelli. Il primo è il modello diffuso: molti enti (aziende di promozione turistica o sistemi turistici locali), prevalentemente con funzioni promozionali, distribuiti sul territorio seguendo criteri di prodotto o, il più delle volte, criteri politico-istituzionali. Il secondo è il modello verticale: un solo ente regionale che coordina le strutture decentrate determinando economie di scala e massa critica su base locale. Nei modelli più evoluti la legislazione regionale sollecita la nascita sul territorio di forme miste pubblico-privato per poter integrare l’attività di promozione con l’attività di commercializzazione cercando anche la convergenza fra risorse pubbliche e risorse private.
In conclusione, occorre dire che il problema non è di attribuire a questo o a quello fra i protagonisti istituzionali la responsabilità della paralisi del turismo italiano. Il fatto è che tutti i protagonisti sono consapevoli della situazione di stallo, come dimostrano i tentativi di creare tavoli di coordinamento, luoghi partecipati e rappresentativi delle diverse istanze, ma nessuno dimostra sufficiente forza per avanzare una proposta organica che porti alla soluzione del problema, riconsegnando allo Stato le funzioni generali di grande programmazione, di indirizzo e coordinamento, di promozione della marca Italia, nel contempo rassicurando le Regioni sul rispetto delle loro competenze amministrative e di programmazione. Qui sta la principale responsabilità del sistema politico italiano. Ovviamente non sarebbe un percorso privo di ostacoli perché i sospetti, le gelosie istituzionali e, se si vuole, i calcoli sulle quote di potere da gestire, esistono e sono legittimi.
Due esempi in Europa
La Spagna
È utile guardare rapidamente a ciò che avviene negli altri Paesi e in particolare in due dei nostri principali competitori, la Spagna e la Francia.
La Spagna è un Paese che si è affacciato relativamente di recente al turismo dei grandi numeri ed è diventato in pochi anni un concorrente agguerrito grazie ai valori naturali, climatici e storico-culturali in qualche modo assimilabili a quelli italiani. Anche la Spagna come l’Italia, dal punto di vista del rapporto centro/periferia, è immersa in una cultura di tipo federalista, ma si tratta di un federalismo con minore accentuazione di quei profili antistatalisti e municipalistici che caratterizzano il nostro Paese e la sua recente storia nazionale. In Spagna sono molto forti le identità delle macroaree regionali (le comunità autonome come Catalogna, Galizia, Andalusia ecc.) e questo rappresenta già un primo punto di forza. Il secondo vantaggio è il peso notevolmente più forte dell’identità nazionale che ha radici storiche nella lontana nascita dello Stato unitario a opera dei re cattolici. L’apparente paradosso è che una forte identità di nazione favorisce il federalismo, a patto naturalmente che si sappiano trovare gli equilibri istituzionali necessari.
Anche gli spagnoli hanno il loro ente per il turismo, si chiama Turespaña, ha un budget di 150 milioni di euro all’anno (contro i 50 della nostra Agenzia nazionale per il turismo), ed è assai più potente perché in grado di lanciare ogni tre anni una nuova campagna di marca. Quella attuale è basata sullo slogan «Sorridi, sei in Spagna», studiato per avere declinazioni regionali («Sorridi, sei in Andalusia» ecc.) che si realizzano attraverso azioni di comarketing.
La Spagna ha poi una forte presenza su Internet attraverso il portale Spain.it che nel 2007 ha avuto 30 milioni di visite e che, soprattutto, è dotato di una piattaforma di vendita on-line del prodotto turistico. Gli spagnoli hanno un senso pratico assai poco latino, non si intrattengono nei dibattiti ideologici su privato e pubblico: così il portale e la piattaforma di vendita sono gestiti da una società dello Stato che si chiama SEGITTUR (Sociedad Estatal para la Gestión de la Innovación y las Tecnologías TURísticas). L’Italia, com’è noto, ha tentato di fare la stessa cosa con l’operazione Italia.it, finita però in un fallimento e inviata davanti alla Corte dei conti.
L’organizzazione turistica decentrata si basa sui consorzi turistici di scala regionale dotati di una discreta capacità economica. Ne potrebbe derivare, anche in Spagna come in Italia, un attacco ai mercati in ordine sparso. Ciò non avviene per il fatto che è in campo un’offerta statale di servizi forte e convincente per cui è vantaggioso per tutte le comunidad regionali coordinarsi ed entrare in sintonia con le politiche nazionali. A livello statuale la materia turistica è collocata all’interno del Ministerio de Industria, Turismo y Comercio, il quale lavora su questi filoni: a) qualità e innovazione, politiche strutturali sul prodotto; b) cooperazione e coordinamento regionale; c) valutazione dei risultati delle politiche turistiche; d) attività dell’Instituto de estudios turísticos (IET), il ‘cervello’ in grado di proporre al sistema orizzonti di sviluppo con proiezioni fino a 15-20 anni. Sostengono questo modello operativo una buona quota di finanziamenti, una concertazione con le parti sociali forte ma selettiva nella scelta degli interlocutori, investimenti nella formazione professionale.
Come si vede da questi brevi cenni il modello spagnolo ha una forte impronta federalista, il cui funzionamento non dispersivo è garantito da un’attività statuale autorevole e quasi sempre più avanzata di quelle regionali, in grado di esercitare un’egemonia su tutto il sistema. Tutto ciò sta insieme non sulla base di catenacci amministrativi, quanto piuttosto di un forte pensiero specialistico.
La Francia
L’impianto istituzionale francese ha un’ispirazione centralistica che non è stata modificata dalla riforma costituzionale del 2003, che pure si ispira al principio della sussidiarietà e dell’autonomia amministrativa. Secondo il costituzionalista Didier Maus l’analisi di tale riforma è complicata dalla mancanza di una di-sposizione costituzionale sul riparto delle competen-ze paragonabile all’art. 117 della Costituzione italiana. L’ordinamento francese in materia si caratterizza dunque per una presunzione generale di competenza dello Stato; nonostante la recezione del principio di sussidiarietà non si prevedono titoli competenziali in capo a enti diversi dallo Stato. La riforma del 2003 in pratica spinge le istituzioni francesi verso il rafforzamento dei 36.568 Comuni, dei 96 Dipartimenti, delle 22 Regioni, ma in un impianto basato sulla forza delle competenze statali. Si tratta di un modello istituzionale molto diverso da quello italiano e nel quale si scorgono ancora i segni delle riforme di Luigi XIV. Tuttavia questo modello ci conferma sull’importanza delle funzioni statuali anche nei percorsi tendenti allo sviluppo della sussidiarietà.
Presso il Ministère des Finances opera un Secrétariat pour le tourisme che definisce la programmazione nazionale e fissa le strategie di mercato, avvalendosi di due forti strutture di servizio: Maison de la France e ODIT France (Observation, Développement et Ingénierie Touristiques France). Quest’ultima è una società pubblica di livello nazionale nata nel 2005 dalla fusione di vari organismi turistici; ha circa ottanta dipendenti e offre servizi strategici in parte gratuiti in parte a pagamento al sistema turistico francese pubblico e privato. Si tratta di uno strumento molto originale operante su una gamma di servizi che vanno dall’ingegneria alla valutazione economica dei progetti. Recita lo Statuto: «sostiene il partenariato pubblico e privato del turismo a concepire, adattare, e sviluppare il contenuto della loro offerta turistica affinché resti competitiva e si adegui alla domanda». ODIT France ha un budget di 7,6 milioni di euro, più risorse derivanti da contributi straordinari del ministero e da vendita di servizi.
Maison de la France è l’ente statale di promozione il cui impianto di lavoro è basato sulla stretta connessione fra promozione e commercializzazione. Ciò è possibile perché si è organizzata per ‘club di prodotto’ corrispondenti ai principali segmenti turistici della Francia e persegue il metodo del coinvolgimento, anche economico, dei privati nelle attività di promozione e commercializzazione. La conseguenza di questa impostazione è che ogni attività della Maison prevede un ruolo di primo piano degli operatori privati per vendere il loro prodotto e non c’è presenza fieristica se non c’è anche la presenza del venditore. Un impianto molto simile a quello della Maison è quello dell’organizzazione turistica dell’Emilia-Romagna, basata appunto su un ente regionale (APT Servizi Srl) e su quattro ‘club di prodotto’ (mare, terme, montagna, città d’arte) nati come organismi misti fra pubblico e privato per fare promozione e commercializzazione.
Gli esempi di Spagna e Francia sembrano confermare la tesi di questa trattazione: sia nel caso spagnolo, caratterizzato da una forte ispirazione federalista, sia nel caso francese, al contrario molto centralista, si conferma l’importanza di una funzione statuale egemonica per la capacità di definire il senso di marcia e gli obiettivi generali del turismo. Solo la forza di queste linee generali permette lo sviluppo di specificità locali che altrimenti resterebbero marginali in un mercato inflazionato come quello turistico. Non c’è quindi contraddizione fra centralismo e federalismo, il turismo ha bisogno di entrambi.
Turismo e governo del territorio
Si è detto all’inizio che nel turismo moderno il territorio svolge una funzione centrale, perché permette di produrre un’infinita gamma di servizi.
Un primo esempio può essere fatto per il turismo nautico che non si potrà sviluppare se il territorio non è dotato di un moderno e organizzato porto turistico. La realizzazione di questo porto coinvolge in varie modalità la comunità locale e la stratificazione delle competenze sul demanio marittimo. Si tratta di un evento che produce consensi e dissensi; sicuramente alcuni percepiscono vantaggi (attività economiche connesse, valorizzazioni immobiliari), altri vedono svantaggi (problematiche ambientali, perdita di concessioni marittime). Come potrà il principale soggetto decisore, in questo caso il Comune, decidere la prevalenza di un interesse sull’altro? La risposta va cercata principalmente nell’attività di programmazione, con un’analisi costi/benefici oggettiva nel senso che non risulti condizionata da interessi particolari e con una seria attività di concertazione.
Un secondo esempio può riguardare la costruzione di uno stabilimento fieristico/congressuale: appare evidente il vantaggio che questa infrastruttura determinerà per il sistema turistico, a partire dalla destagionalizzazione, per finire con un diffuso incremento della domanda di servizi (pubblicità, catering, trasporti e altro). La scelta del luogo dove collocare la fiera, oltre che misurarsi con problematiche come la raggiungibilità, la compatibilità urbanistica ecc., si dovrà misurare con gli effetti che la rendita di posizione produce. La scelta della localizzazione sarà oggetto di discussioni infinite perché, secondo il punto di vista, questa produrrà vantaggi o svantaggi. Avrà vantaggi chi gestisce un ristorante nella zona, svantaggi chi fa l’impiegato di banca e abita nelle vicinanze o chi il ristorante ce l’ha a dieci chilometri di distanza. Sorgeranno comitati civici a favore di una scelta piuttosto che dell’altra, i quali sosterranno quasi sempre soluzioni contrapposte. Qualunque opera pubblica, anche la più banale, come un intervento sulle reti fognarie o l’arredo urbano di una piazza, può provocare problemi analoghi. Sono opere comunque necessarie che prima o poi devono essere fatte perché appartengono all’ordinaria gestione del territorio. Ma anche il prima o il poi assumono in tale dimensione un valore sia simbolico (periferie emarginate, centri storici abbandonati ecc.) sia economico.
Questi esempi servono a sottolineare le difficoltà che incontra una democrazia capace di decidere. Il problema sta nel fatto che la decisione deve necessariamente essere assunta prima che possano essere percepiti i vantaggi dell’investimento; nell’immediato verranno percepiti solo gli svantaggi o i disagi dei cantieri. La realizzazione dell’arredo di una piazza produce caos, polvere, rumori per 6-8 mesi e solleva proteste più o meno forti; ci sarà sempre qualcuno disposto a cavalcare quella protesta per lucrare un vantaggio politico e il governo locale dovrà quindi dimostrare la propria tenuta. Poi, a lavori conclusi, i valori immobiliari e commerciali di quella piazza aumenteranno in modo significativo e il clima cambierà. A complicare la vita del governo locale interviene anche il cosiddetto antiturismo, prodotto dalla competizione che si determina sulle risorse del territorio fra i cittadini residenti e i cittadini temporanei, cioè i turisti. Questa competizione prende la forma di strade affollate, di file ai semafori, di rumorosità notturna e così via. Il problema sta soprattutto nel fatto che anche nelle realtà turistiche più strutturate la quota di popolazione che vive di turismo difficilmente supera un terzo dei residenti. Gli altri due terzi costituiscono teoricamente l’area dell’antiturismo, anche perché le infrastrutture da realizzare per sostenere i flussi dei vacanzieri sono finanziate quasi sempre con risorse derivanti dalla fiscalità locale che tutti sono chiamati a pagare. Infine, sul piano elettorale, ovviamente due terzi pesano più di uno.
Come governare questo latente conflitto? Il governo locale dovrà dimostrare che le attenzioni e le risorse dedicate al turismo hanno la capacità di produrre vantaggi per tutti. In primo luogo perché l’area delle attività economiche che trae vantaggi dal turismo va molto oltre quella delle imprese della filiera turistica in senso stretto. I benefici derivanti dalla popolazione fluttuante si estendono all’artigianato di servizio, all’area del divertimento, a quella del commercio. In secondo luogo perché le città turistiche, per essere ‘vendute’ sui mercati, devono avere dotazioni territoriali e fattori qualitativi che le rendano appetibili e di ciò godranno sia i residenti sia i turisti. Perché un territorio abbia un buon valore di scambio, bisogna che quel territorio abbia un buon valore d’uso: nessuno, infatti, acquista un bene o un servizio che possiede un mediocre valore d’uso.
Il finanziamento dei programmi
Il governo del territorio di una realtà che vuole fare turismo ha un livello di complessità superiore ma non diverso dal governo di una qualsiasi città. Ha bisogno di maggior qualità, di una più ampia dotazione di servizi, di standard urbanistici più elevati, ma i problemi sono gli stessi. Una maggiore dotazione di servizi implica però maggiori costi: per realizzare un depuratore delle acque reflue in una città turistica, occorre tener conto non solo degli abitanti che vi risiedono stabilmente, ma anche dei cittadini temporanei, perché il depuratore deve funzionare anche nei momenti di punta, quando la popolazione raddoppia o triplica. In termini fiscali il costo sarà addebitato ai residenti, di cui, come si è detto, solo una parte ricaverà benefici economici diretti. Questo ragionamento porta a chiedersi come le realtà turistiche finanziano le loro strutture di servizio sovradimensionate.
Una parziale risposta è stata data con l’introduzione dell’ICI (Imposta Comunale sugli Immobili) negli anni Novanta e fino al 2007. La legge finanziaria 2008, infatti, ha abolito tale imposta relativamente alla prima casa, ‘premiando’ le località turistiche che hanno una dotazione immobiliare superiore al fabbisogno locale a causa di alberghi o appartamenti destinati al mercato turistico. Più di recente è stata avanzata dal Comune di Roma e da alcuni Comuni della riviera romagnola la proposta di una compartecipazione alle entrate IVA. La capacità attrattiva determinata dai territori turistici produce un incremento dei consumi di cui gode solo lo Stato. Ciò vale in particolare per il fenomeno dell’escursionismo che, pur lasciando sul territorio assai poco (acquisto di cibo, bevande ecc.), comporta tuttavia un’organizzazione dell’ambito territoriale in grado di gestirne i flussi. Va comunque segnalato che questa richiesta è, almeno in parte, in contrasto con una richiesta di allineamento dell’IVA turistica a quella di altri Paesi dell’Unione Europea. C’è stata una prima risposta in tal senso con la legge finanziaria 2007 limitatamente al settore congressuale. Ma è evidente che più si abbassa l’IVA turistica, più diventa debole la richiesta di compartecipazione locale alle relative entrate.
Le componenti materiali e immateriali del turismo
Di enorme complessità nei territori turistici è la gestione dell’urbanistica, perché il peso e la pressione della rendita sono altissimi e hanno forza sufficiente per incidere sui sistemi politici locali. È ovvio che la vicinanza a un lago o al mare o a un centro storico ricco di valori architettonici determina un incremento dei valori della rendita fondiaria e di quella immobiliare. Questi valori non solo sono significativi per i fruitori, ma lo sono anche per le autorità locali, che sono portate a utilizzare i volumi edilizi come incentivi all’investimento privato. Si aggiunga il fatto che i valori immobiliari hanno dimostrato nel tempo di avere incrementi lenti e costanti a fronte di una cronica instabilità del mercato azionario o dei rischi emersi da vicende clamorose relative a investimenti in prodotti finanziari. Tutto ciò orienta il risparmio dei singoli o l’attività delle imprese del settore verso un’utilizzazione intensiva dei territori turistici. Così si spiega la diffusione delle seconde case e talvolta degli ecomostri lungo le coste italiane e non solo.
Al capitolo degli incentivi alle imprese si può aggiungere la questione delle politiche tariffarie per i servizi pubblici che, allo stesso modo degli indici edificatori, hanno sostenuto modelli keynesiani su scala locale. Fino ai primi anni Ottanta infatti le tariffe di acqua, gas, depurazione, raccolta rifiuti erano definite in sede politica e le aziende di servizio lavoravano producendo perdite che venivano ripianate con la fiscalità generale. In agricoltura l’uso gratuito delle acque di falda ha permesso lo sviluppo di colture specializzate. Così il prezzo politico dell’acqua potabile ha sostenuto il contenimento dei prezzi degli alberghi. Questi benefici sono ora scomparsi o in via di superamento. Dagli anni Novanta, nel quadro del processo di risanamento della finanza pubblica, le aziende di servizio operano con logiche economiche e la tariffa non solo si avvicina al costo del servizio ma tendenzialmente incorpora, oltre agli ammortamenti, anche i costi relativi agli investimenti strategici. Meccanismi come i fondi FIO (Fondi per l’Investimento e l’Occupazione) degli anni Ottanta, che finanziavano infrastrutture territoriali a fondo perduto, non sono più immaginabili. Nella migliore delle ipotesi oggi si affacciano i cosiddetti progetti di finanza che prevedono investimenti ripartiti fra una quota di risorse pubbliche a fondo perduto e una quota derivante dalla gestione privata del servizio.
L’analisi delle componenti materiali riguardanti la gestione dei territori turistici non può dimenticare l’esistenza di innumerevoli fattori immateriali che incidono sulla qualità del prodotto, innanzitutto il lavoro. La disponibilità di manodopera qualificata nel turismo del 21° sec. è decisiva. Nel turismo di massa questo problema si poneva in modo marginale. In alcune aree a forte caratterizzazione stagionale (mare, montagna), negli anni Cinquanta e Sessanta, si assisteva a fenomeni di migrazione stagionale da un’attività all’altra, dall’agricoltura e dall’industria verso il turismo stagionale e viceversa. I livelli di scolarità nelle aree turistiche erano molto alti perché i giovani d’inverno andavano a scuola e d’estate facevano i camerieri. Nel turismo moderno questi fenomeni sono in forte attenuazione o scomparsi quasi del tutto. Il lavoro sarà tanto più qualificato quanto meno accentuate saranno la precarietà e l’oscillazione stagionale; se il periodo di impiego è di 3-4 mesi, nessuno è interessato a consolidare la propria formazione e a scegliere di fare quel lavoro nella vita. Destagionalizzare è decisivo non solo per l’impresa ma anche per il lavoro. Se il lavoratore sa di poter impiegare la sua professionalità per 8-10 mesi, può anche pensare di consolidarla, perciò di renderla più competitiva e più spendibile sul mercato del lavoro. Il territorio dovrà offrire opportunità formative adeguate e servizi di supporto alle famiglie che si dedicano al turismo.
Un’altra componente immateriale è l’impresa: la connotazione di economia turistica nasce quando c’è una presenza diffusa di imprese che concorrono alla formazione del prodotto e mettono in campo servizi di pregio destinati ai turisti. L’impresa è un’istituzione sociale che non nasce a caso; dietro a ogni sistema di imprese c’è una storia sociale che racconta di mutamenti profondi, di migrazioni, di sfruttamento, di rischio. Quasi sempre i sistemi di imprese turistiche affondano le loro radici nell’agricoltura povera, in particolare nella mezzadria e nell’affittanza perché i mezzadri posseggono un’esperienza gestionale che, a seconda delle diverse opportunità, è possibile trasferire da un settore economico a un altro.
Sono importanti anche altre componenti immateriali del prodotto alle quali dedicare attenzione. L’identità locale è ciò che rende diversa, forse unica, una destinazione turistica rispetto alle altre; si compone di fattori come il paesaggio rurale o urbano, la gastronomia, la lingua, le tradizioni culturali, i musei. Il nuovo turismo non può fare a meno di questi valori, anzi, ciascuno di essi può esercitare una capacità attrattiva in grado di motivare un viaggio. Ciò rappresenta un possibile punto di incontro fra il naturale bisogno di una comunità di gestire e tenere vivo il rapporto con le proprie radici e il desiderio del turista di incontrare esperienze e vivere racconti nuovi e stimolanti. Tutte le grandi destinazioni turistiche della vecchia Europa hanno cercato o saputo mettere in valore le loro identità e le loro tradizioni, mettendo sul mercato un turismo del territorio che ha ampliato enormemente la gamma dell’offerta nel settore.
Conclusione
Lo scopo di questa riflessione è di rendere evidente la complessità del turismo nel nuovo secolo. Si tratta di complessità nella composizione del prodotto e conseguentemente nell’applicazione della governance. A ciò purtroppo corrisponde in Italia un assetto istituzionale ricco di incongruenze e di squilibri. L’antica rivendicazione municipalistica che percorre il nostro Paese e l’esito federalista in parte attuato con la riforma del Titolo V della Costituzione non sono in contraddizione con la ripresa di una politica statuale per il turismo. Ogni livello istituzionale faccia le cose per cui ha vocazione. L’equivoco che ha preso piede in Italia è che per avere sussidiarietà e federalismo inevitabilmente si deve indebolire il potere dello Stato.
Sostengo, come insegnano molti esempi europei, la tesi opposta: Stato debole, federalismo debole e confuso; Stato forte della pienezza dei poteri, federalismo capace di affermare le diverse identità.
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