La politica e la giustizia
Il diritto e la giustizia di Venezia: mito e realtà
Le distorsioni stereotipe non mancheranno certo durante tutto il XVIII secolo. Il canonico Freschot, nella sua Nouvelle relation de la ville et Republique de Venise pubblicata a Utrecht nel 1709, contrariamente all’esordio, nel quale accenna polemicamente al fatto che «on ne parle guerre de la justice qui se pratique à Venise sans porter la chose à l’excès», pure, dopo aver debitamente esaltato il sistema di tacita composizione delle controversie, auspici «protecteurs» e «amis», che sarebbe tipico dello «stile» veneziano (1), non trova di meglio, per spiegare ai suoi lettori il funzionamento della giustizia veneta, che intrattenersi in una succosa, quasi divertita evocazione di un processo celebrato davanti alla quarantia criminal al quale ha avuto occasione di assistere durante il suo soggiorno nella Serenissima. Ciò che ha colpito il Freschot è stata l’arringa dell’avvocato Lazzaro Ferro, difensore di un giovane appartenente ad una famiglia borghese della Dominante. L’accusa è gravissima, omicidio, la vittima è un molestatore dell’amante del giovane. Particolare aggiuntivo di non scarsa rilevanza, l’imputato è il protetto di un nobile che era già stato ambasciatore a Vienna (2). Morale della storia la quarantia assolve l’imputato grazie anche allo spettacolo inscenato dal Ferro al fine di commuovere la platea, condizionare i giudici con argomenti tra il sentimentale e il tragico, non senza il ricorso a tutti gli artifizi retorici, propagandistici e scenografici che l’occasione richiede, incluse urla, inchini, ardite acrobazie tra gli scranni lignei dell’aula.
«On a lu les oraisons les plus touchantes de Ciceron et d’autres grands orateurs [scrive Freschot] mais on doute que Rome ait rien vu de plus fort en ce genre que ce que vit le palais de Venise ce jour là» (3). Il topos andrà vieppiù consolidandosi, da Giuseppe II a Goethe, i viaggiatori e gli osservatori stranieri paiono sommamente attirati da queste caratteristiche della giustizia veneziana. Gusto dell’esotismo negli osservatori più favorevolmente disposti, fraintendimenti o ignoranza della realtà in quelli più prevenuti.
Così, Alfonso Longo, sodale di Beccaria nella milanese Accademia dei Pugni, trae dal suo viaggio veneziano la convinzione che «i magistrati giudiziari veneziani si riducono a tre. La Quarantia Civile Nuova e Civile Vecchia, e la Criminale [...] sicché i giudici compreso il civile e il criminale sono in tutto centoventi» (4). Tutto il resto, cioè a dire la patologica proliferazione della potestas judicandi, e delle relative procedure, in una vasta pluralità di magistrature è come se non esistesse. Per la verità una valutazione più lungimirante è adombrata nei passi in cui Longo constata come a Venezia le cause siano «giudicate dagli patrizi, e questi patrizi sono anche intervenuti a creare le leggi», ma la stretta commistione tra funzione di governo e funzione giudicante, tra giustizia e politica, è pragmaticamente sorvolata dall’illuminista lombardo, giudicando in realtà «l’inconveniente [...] di pura apparenza e nulla di più» (5).
Siamo invece ad uno dei punti nodali del problema relativo al senso più profondo della giustizia veneziana, presente, se vogliamo, anche in filigrana, nell’accenno che Freschot svolge ai motivi che sarebbero alla radice dell’assoluzione, decisa contro ogni evidenza contraria, dell’imputato difeso dall’avvocato Ferro. Assoluzione che sarebbe dunque pronunciata «si non à titre d’innocent, qu’il étoit peut-être un peu difficile de lui accorder, du moins comme capable d’une absolution que le Tribunal pouvoit accorder comme souverain» (6). Souverain va inteso come potere che nell’ambito politico-giuridico non è sottoposto ad alcuna autorità superiore; il contesto tuttavia definisce anche un’interpretazione che rimanda ad una concezione della giustizia che ruota attorno al cardine fondamentale dell’arbitrium inteso fatalmente come arbitrio.
Siamo di fronte forse ad un caso limite (7) che denota tuttavia le possibilità implicite in un sistema di governo politico della giustizia che comprende nel proprio codice genetico l’esclusione teorica dello strictum jus e l’esaltazione della justitia e dell’equitas, garantite dall’arbitrium del giudice patrizio (8), il quale, a sua volta, nel sistema veneziano, non è, non deve essere, un professionista del diritto. È vero, rimane il richiamo alle sanctissime leze, ma nel contesto veneziano esso rimane una sorta di artifizio retorico; e, del resto, le leze sono quelle della classe nobiliare arroccata, da secoli, nel maggior consiglio (9).
Nemmeno le controspinte che nel corso del Settecento pongono all’ordine del giorno, nella Repubblica veneta, il recupero della tradizione giurisprudenziale, simboleggiate dall’animarsi di una ovattata discussione fra uomini di cultura e giuristi sulle origini e sulle peculiarità del diritto veneto nei suoi rapporti con il diritto comune (10), paiono scalfire l’inossidabile macchina politico-giudiziaria dello stato.
È singolare che proprio dalle file del patriziato veneziano, cioè di una città che costruisce il suo sistema giudiziario in ossequio ad una ferma esclusione del diritto romano dalla gerarchia delle sue fonti (11), giunga, nel 1743, una convinta difesa del diritto giurisprudenziale in opposizione alle tesi formulate dal Muratori nei suoi Difetti della giurisprudenza. L’avvocato veneto Giovanni Antonio Querini, ne La giurisprudenza senza difetti (12), è fin troppo coerente nel perseguire l’obiettivo di scindere, come non avrebbe fatto l’abate modenese, le responsabilità dei giuristi dalla ratio della giurisprudenza.
Vi è da chiedersi quanto in realtà il richiamo di Querini alla tradizione giurisprudenziale non vada inteso alla stregua di un appello tardivo alla ri-costruzione di una strumentazione teorica adatta alle esigenze di rafforzamento di uno stato moderno (13). La controtendenza, a fronte della corrente che pare prevalere nel resto d’Europa, è evidente, e i tentativi di aggirare l’impalcatura della giurisprudenza culta dati dal moto di cauta riforma che impronta di sé le piemontesi Nuove Costituzioni di Vittorio Amedeo II, il Codex Teresiano e il codice di Federico II di Prussia, denotano il perseguimento di altre vie sulla meta del primo rinnovamento settecentesco degli stati (14).
Nel generale rimescolarsi delle prospettive teoriche e culturali dell’epoca, i riformatori veneti vicini alle istanze illuministiche se non condividono, come è ovvio, le pressioni volte alla valorizzazione della tradizione giurisprudenziale, non paiono del resto seriamente distaccarsi — proponendo valide alternative — dal coro che fa da pendant ai mentori del diritto veneto. Vincenzo Formaleoni è resoluto nel respingere la tesi affacciata dal Laugier, giudicato un «cattivo ragionatore», circa «la potenza di Teodorico in confronto della veneziana nascente repubblica» (15).
Ma lo stesso, validissimo, Giovanni Scola, punta di lancia dell’Illuminismo veneto, nel recensire dalle pagine del «Giornale Enciclopedico» la Concordanza del diritto comune col veneto di don Antonio Zuanelli (16), esprime il rammarico che nella Repubblica veneta non si siano imitati i Romani; va da sé, non nel loro sistema giuridico, bensì nella loro capacità di scrivere «sulle loro leggi» e non «su quelle degl’Egizi, o dei Greci». Perché, pare interrogarsi l’avvocato vicentino, i Veneti non hanno saputo fare altrettanto accogliendo nel tempio della dea Temi schiere di non meno validi commentatori, studiosi e volgarizzatori del diritto loro proprio? Insomma, l’opera dello Zuanelli risentirebbe in misura eccessiva del «legal glossatore che non può sciogliersi dal pregiudizio che le leggi dei principi debbano mendicare il merito da quegli originali» (17). Testimonianza non clamorosa, forse anche episodica, eppure a suo modo espressiva delle modalità in cui si manifesta nel corso del Settecento, anche fra i giuristi e i riformatori della Terraferma, la mitopoietica delle leggi proprie (18).
Chi mostra di non nutrire il benché minimo dubbio sulla bontà dei principi che stanno alla base del diritto veneto e delle ragioni dell’esclusione di ogni richiamo al diritto romano anche nella forma delle glosse è Jacopo Chiodo. Cittadino veneziano, archivista e assistente al magistrato della compilazione delle leggi, sarà uno degli umbratili protagonisti dello schizofrenico tentativo di consolidazione del diritto veneto, civile prima e criminale poi, degli ultimi anni del secolo nella Repubblica veneta (19).
Nelle sue note alle Provvidenze del governo veneto per sistemare le proprie leggi, documento preliminare all’opera di riforma dello statuto civile veneto, indetta dal senato con la legge del 22 dicembre 1781, nel quale si svolge l’anamnesi sommaria dell’opera legislativa della Serenissima in ciò che attiene ai fondamenti delle leggi civili dello stato, Chiodo, commentando la legge del maggior consiglio del 3 maggio 1401 che prevede la cancellazione delle postille arbitrarie agli statuti, trae lo spunto per un’appassionata difesa del senso più profondo che pare incarnare quel provvedimento.
Contrariamente a quello che affermano il Bartolo e altri malevoli giureconsulti che deducono dalle poche e brevi leggi l’esistenza di un sistema in cui i Veneziani giudicano manu regia et arbitrio suo, Chiodo porta a testimonianza la suddetta legge. L’arbitrio dell’interpretazione, scrive il veneziano quasi rovesciando il velo del senso comune, è un difetto dei sistemi che si fondano sul sistema giurisprudenziale e che affidano appunto ai glossatori il compito di fornire il retto lume sul senso della lex. Lo jus veneto è al contrario fondato «sopra principi semplici dedotti dalla sopravvenienza dei casi e dalla massima naturale de bono et equo», dimostrando con ciò la «sapienza de’ padri che lo instituirono» (20).
Dunque, quello che Chiodo non si sogna di ipotizzare nemmeno larvatamente è qualsiasi derivazione o partenogenesi del diritto veneto dal diritto romano, ovvero da qualsiasi altro sistema di diritto sostanziale e processuale che non sia una diretta espressione della cultura e della tradizione dei lagunari. Esasperazione settecentesca di un patriottismo veneziano che ha ideologicamente pochi, forse nessun eguale in Europa. Magistrati della Repubblica di Ginevra non meno orgogliosi e patriottici del Chiodo quali Jean Cramer, sindaco anziano, e Jean Robert Tronchin, procureur général, non si peritano di indicare nell’Ordonnance criminelle di Saint-Germain-en-Laye, promulgata da Luigi XIV in Francia nel 1670, una delle basi degli editti emanati in materia criminale a Ginevra agli esordi del XVIII secolo (21).
Chiodo ovviamente sorvola su alcuni importanti «dettagli», il richiamo alla storia repubblicana è convinto e di largo respiro, eppure proprio i periodici sforzi profusi da apposite magistrature rivelano le connotazioni epocali del problema della crescita, verificatasi lungo i secoli, di una massa enorme di produzione normativa intesa anche come sommatoria di decisioni e sentenze provenienti dalla pletora di magistrature che compongono la realtà statuale veneziana. Altro che semplicità, già nel «tardo Quattrocento [si è scritto] proprio a Venezia la stringatezza delle leggi e la rapidità dei giudizi si avviavano a diventare un ricordo sbiadito» (22).
Il diritto veneto necessita dunque di interventi di consolidazione e razionalizzazione uguali, se non superiori, a quelli richiesti da altre realtà normative; con lo svantaggio, se così può essere definito, che il foro veneziano incredibilmente non conosce, come del resto fa intuire Scola — e fatte salve le ovvie eccezioni come il manuale del Grecchi (23) — opera adeguata di interpreti e volgarizzatori, paradossalmente più perspicaci nel commento delle leggi romane, o nelle grandi dispute sulla filosofia del diritto pubblico e sulle prerogative giurisdizionaliste della Repubblica (24), che nell’analisi delle leggi venete; complice, almeno in parte, una censura particolarmente attenta a ciò che si scrive sulla vita interna della Repubblica (25).
Il tono weltanschaulich che informa la posizione di Chiodo e dei corifèi della superiorità del diritto e della giustizia veneti è caratteristico già a partire dagli Statuti medievali del doge Jacopo Tiepolo, con quell’imperioso insistere sull’obbligo per tutti i soggetti alla giurisdizione del Comune Veneciarum di osservarne le norme in quelli contenute. La primazia in fatto di unità e di territorialità del diritto rivendicata dai Veneziani nei territori sottoposti alla loro sovranità, e, dunque, anche in quelli via via aggregati all’«impero coloniale» dall’Istria alla Dalmazia, alle isole greche, rimane, come è stato scritto, un mero «principio ideale» (26), sempre più negletto nei fatti a mano a mano che ci si approssima alla fine della Repubblica.
Il campo viene dunque occupato, singolarmente in contrasto con quel principio ideale così chiassosamente conclamato e il cui simulacro figurativo è costituito dal leone di S. Marco campeggiante in tanti palazzi e luoghi pubblici delle città venete, da un non meno efficace pragmatismo basato su una penetrazione, de facto, di alcuni principi ed istituti del diritto veneto in numerosi settori della normativa civile e penale della Terraferma.
Lo iato tra due modi sostanzialmente eccentrici di intendere il diritto e la giustizia, da un lato i domini della Terraferma composti da città governate in primis — con l’approvazione della stessa Serenissima — dai propri Statuti, dalle proprie consuetudini, dai propri usi municipali da sempre permeati dello spirito del diritto romano (senza contare i domini marittimi e istriano-dalmati (27)), dall’altro la Dominante e la sua concezione fortemente politica del suo modo di intendere la giustizia, permarrà, quale nodo irrisolto e irrisolubile, fino alla fine del Settecento. Eppure quello che è stato efficacemente definito un certo «senso di comunanza» (28) viene, sia pur contraddittoriamente, costruito; l’opera ponderosa delle magistrature centrali veneziane, dal consiglio dei X all’avogaria di comun, dalle varie magistrature di appello in civile (29) alla miriade di collegi e deputazioni di peso diverso che amministrano i più diversi settori del vivere civile, documenta, da sé, un work in progress secolare, soprattutto nel settore del diritto civile nel quale la giustizia veneziana riesce a carpire notevoli sensibilità e a sposare umori diffusi delle popolazioni suddite (30).
È comunque emblematico che proprio il più coerente e sistematico tentativo di imporre apertamente l’ordine veneziano ad un territorio soggetto, quale è quello realizzato per un territorio di nuova acquisizione come il Regno di Morea, fallisca di fronte alle remore di una parte della classe dirigente veneziana, restìa ad accomodarsi ad un ordinamento «troppo rigido ed elaborato, troppo proiettato nel futuro senza aver d’altro canto una base adeguata nel presente, un’ostilità che [...] rientrava nella tendenza veneziana a preferire soluzioni flessibili, accomodate e accomodabili caso per caso» (31). Insomma, la «santità» delle proprie «leze» ha spesso paura di dichiararsi ed imporsi apertamente.
Appare anche lecito l’interrogativo riguardante la cognizione, se non l’influenza diretta, del diritto veneto presso i principi riformatori (32); un paradosso, se confermato, che lascerebbe vieppiù aperto il campo a considerazioni più appropriate non tanto sull’ovvia esistenza di problemi comuni riguardanti l’amministrazione della giustizia negli stati di antico regime (33) nel corso del XVIII secolo, quanto sui differenti approcci politico-culturali atti a risolverli.
Le carte riguardanti i lavori preparatori delle Costituzioni piemontesi ci parlano di ampie relazioni riguardanti gli «stili» giudiziari della Francia, di Milano e, circostanza di grande interesse, in misura più ampia, della Repubblica veneta. L’anonimo estensore delle relazioni sulla struttura della giustizia veneta (34) potrebbe essere un qualche segretario di ambasciata; comunque traspare, in filigrana, nei suoi resoconti apparentemente oggettivi e tecnici, informatissimi sulle cose venete, l’ansia di trasmettere un messaggio rassicurante sullo stato della giustizia nella Serenissima. L’immagine che ne fuoriesce è quella di una naturale stabilità e armonia, regolate a loro volta non solo da leggi eque, ma, fatto ancor più importante, da un’intima adesione allo spirito del sistema da parte della nobiltà e dei signori titolari di feudo.
Echi ancora più lontani dalla Polonia di Stanislao Augusto. Nel 1774, il «Monitor», periodico di Varsavia, nell’articolo intitolato Del buon ordine della società (35), porta come esempio da imitare la Repubblica di Venezia. Grazie alla gente fedele e ben pagata essa tiene d’occhio «tutti i sospetti, posti, taverne e bettole», vigilando con ciò facilmente gli ambienti criminali. Perché, si chiede l’anonimo autore del pezzo, non si può introdurre tale sistema anche in Polonia?
A quanto pare taluni ambienti riformatori di quel paese, ché questa è l’era tipica dell’Illuminismo polacco, non ritengono inconciliabili i principi della riforma umanitaria del diritto e della società e il rafforzamento dello stato di polizia di cui intravedono un modello nell’esperienza veneta. A proposito della quale hanno già provveduto a segnalare come nella Serenissima, al pari di Utrecht, sia in vigore un rigoroso regolamento che vieta varie sevizie corporali; in Polonia si va del resto preparando il terreno all’abolizione, nel 1776, della pratica della tortura (36).
Forse la parola «lassismo» non è del tutto appropriata in quanto implica un atteggiamento programmaticamente subalterno alla parabola degenerativa, ma, giustamente, è stato notato che conseguenza «della riluttanza, o della incapacità, a usare gli strumenti intimidatori e repressivi che prìncipi più forti potevano mettere in opera agevolmente [...], era che la Repubblica doveva abbondare di altri mezzi, come il promettere premi o impunità a chi uccidesse o catturasse banditi, come il concedere la segretezza delle denunce [...], allargare l’uso delle procedure segrete e sommarie, utilizzare largamente le spie» (37).
Tuttavia, proprio quel sistema tra il premiale e il poliziesco preso a modello dal giornalista polacco, in ultima analisi non è altro che la conferma dell’esistenza di un punctum dolens nel regime di amministrazione della giustizia veneziana e, per noi contemporanei, compenetrati dei principi dello stato di diritto, nella teoria stessa della concezione del diritto in uno stato dell’Ancien Régime. Proprio la necessità, teorizzata e praticata ampiamente nella Repubblica di Venezia — instrumentum regni per eccellenza — di trasmettere un’immagine imparziale e «garantista» della giustizia senza abdicare alle esigenze di un sano rigore, si converte in un’incapacità, che si fa vieppiù preoccupante, di assicurare con gli strumenti sanzionatori ordinari il buon ordine della società.
2. L’organizzazione della giustizia tra Dominante e Terraferma
«Il est peu de Gouvernemens où les Magistratures soient aussi multipliées et aussi variables que dans la République de Venise», scrive il Laugier nella sua Histoire inaugurando il Tableau des principales magistratures de Venise (38). La constatazione è pacifica, difetta semmai, nel quadro dell’osservatore transalpino, l’analisi della parallela dilatazione e frammentazione delle funzioni di giustizia civile, penale e mista tra le decine di consigli e magistrature che compongono la struttura di governo della Repubblica.
Praticamente non vi è consesso, consiglietto, deputazione cui leggi emanate da maggior consiglio, senato e, qualche volta, dagli organi stessi in questione, quasi per clonazione, non attribuiscano la facoltà di amministrare giustizia, talora avvalendosi di un proprio, peculiare rito processuale pensato ad hoc, su determinate controversie solitamente attinenti alle materie di propria competenza (39). Una formazione statuale come quella veneziana che, a dispetto di alcune ipotesi di lavoro del barone di Montesquieu, non conosce la formale distinzione dei poteri, vive sull’esperienza di una collaudata, anche se scricchiolante, compenetrazione di competenze e funzioni. Affari di stato, questioni di alta politica, casi criminali di notevole rilevanza sono appannaggio a volta a volta di consiglio dei X e inquisitori di stato. La funzione legislativa è definita dal maggior consiglio e dal senato non senza che a questi spettino anche funzioni giudiziarie codificate dal relativo rito processuale. Del resto chi si sentirebbe di escludere dal novero degli organi investiti della potestà legislativa lo stesso consiglio dei X, la cui sfera di attribuzioni travalica lo stesso ambito della giustizia penale (40)? E non costituisce un’articolazione di potere gerarchica la facoltà di controllo sull’attività delle corti pretorie di Terraferma propria del consiglio dei X, ovvero le delibere che, almeno nel corso del XVI secolo, lo stesso consiglio emana invadendo l’autonomia delle quarantie (41)? E in quale schema potrebbe rientrare un organo come l’avogaria di comun, garante della legge, di cui, in verità, la casistica e i precedenti al multiforme livello europeo poco ci offrono di paragonabile?
Gli esempi potrebbero dilatarsi oltremodo, ma è dalla complessità di quest’ultimi che deriva la difficoltà di comprendere lo sforzo profuso dal Laugier nello stabilire la tassonomia delle magistrature veneziane. Nelle «magistratures de la première classe», cioè quella dei consigli «où se traitent les affaires d’état», pone a ragione, accanto al senato, il consiglio dei X, il quale tuttavia non è descritto, come del resto il senato, fra quelle della seconda classe, vale a dire fra «les tribunaux où se jugent les affaires civiles et criminelles» (42); eppure, anche qui, chi vorrebbe escludere dal novero dei grandi tribunali criminali europei il consiglio dei X, del quale in verità lo stesso Laugier conosce, sia pure superficialmente, le procedure tipiche del rito?
Il consiglio dei X, dunque. Nella letteratura dei contemporanei e nell’oleografia pre e postrisorgimentale esso contende agli inquisitori di stato, quando non viene confuso con questi ultimi, la palma del tribunale più odioso e terrificante, conculcatore dei diritti dei sudditi e dei patrizi che osano levare la loro voce contro gli assetti costituiti dello stato veneziano. «Le plus redoutable tribunal dc l’univers [scrive del consiglio dei X il conte di simpatie fisiocratiche d’Albon, che continua:] une de ses maximes, la plus atroce qu’ils ont jamais imaginée, est qu’il faut aller au châtiment avant même d’examiner la faute. Correre alla pena, prima di esaminare la colpa (43). L’accusé est saisi secrètement, on ne lui permet pas de prendre un avocat pour se défendre; et on le juge sans appel. Vous ne trouverez pas un noble Vénitien qui entende parler des dix sans éprouver les palpitations de l’effroi» (44).
Rousseau teoricamente ben conosce la struttura dello stato veneziano, vi ha soggiornato in quanto segretario di un diplomatico negli anni della guerra di successione austriaca, eppure il giudizio espresso sul consiglio dei X nel Contrat social sembra tradire un velato (o voluto) equivoco sulla natura di quell’organo, la cui fosca descrizione si attaglia invece perfettamente agli inquisitori di stato. Astrattamente valutato alla stregua di un corpo che Jean-Jacques denomina come tribunato, «conservateur des lois et du pouvoir législatif», il consiglio dei X, nella casistica concreta delle varie forme nelle quali il potere del tribunato si esplicherebbe, a Venezia sarebbe volto «à soutenir le gouvernement contre le peuple», in quanto si tratta di un «tribunal de sang, horrible également aux patriciens et au peuple, et qui, loin de protéger hautement les lois, ne sert plus, après leur avilissement, qu’à porter dans les ténèbres des coups qu’on n’ose apercevoir» (45).
Più acuto, anche se non meno duro, il giudizio di uno dei collaboratori dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. Il cavaliere de Jaucourt (Diderot?), incaricato delle voci veneziane della celebre intrapresa, mostra un certo imbarazzo nell’illustrare compiutamente la natura e i compiti di una magistratura come quella dei X. Innanzitutto non fa alcun cenno alla specificità del rito nei processi criminali, limitandosi a far notare come agli imputati non sia consentito di avvalersi di avvocati difensori. In seguito la disamina delle competenze del consiglio si esaurisce presto, costringendo l’autore della voce Dix a confessare al pubblico dei suoi lettori che «ce conseil a plusieurs autres privilèges que j’ignore; parce que ceux qui en sont instruits, et à qui je me suis adressé, cachent scrupuleusement aux étrangers la connoissance de tout ce qui a rapport au gouvernement intérieur de leur république». La notazione del Jaucourt, forse peregrina — poiché l’impermeabilità della classe dirigente veneziana è un mito che qualche aggancio, da parte sua, negli ambienti giusti può rapidamente dissolvere — è tuttavia risolta da un fulmineo eppur profondo giudizio sull’intima natura del consiglio dei X: «un corps de magistrature» che ha, «comme exécuteur des lois, tout le pouvoir qu’il s’est donné comme législateur» (46).
«Autorità fondamentale della giustizia penale veneta» (47), il consiglio dei X è dunque caratteristico, nei giudizi criminali celebrati in Venezia, teoricamente inappellabili (48), per le procedure sbrigative e le formalità ridotte al minimo nel quadro del rito inquisitorio e segreto nel quale, almeno ufficialmente, non è permesso all’imputato di avvalersi di un difensore ovvero disporre di copie del processo, né allo stesso è concesso di conoscere i nomi dei testimoni. Il solenne rito, il famoso e famigerato rito del consiglio dei X, «strumento di repressione efficacissimo, sul piano politico oltre che su quello giudiziario» (49), trova pratica applicazione, per delega dello stesso consiglio, non solo in altre magistrature della Dominante — dalle più note come gli esecutori contro la bestemmia, fino alle minori come, ed è solo un esempio, i savi ed esecutori alle acque (50) — ma anche nelle corti pretorie della Terraferma.
Molto prosaicamente il patrizio Nicolò Donà, nei suoi inediti Ragionamenti politici intorno al governo della Repubblica di Vinegia (51), interpreta l’introduzione del rito nei processi criminali in termini «efficientisti»; posto che le materie spettanti alla competenza del consiglio dei X sono innumerevoli e gravose, il rito sarebbe stato adottato per sveltire i processi. Donà bensì riconosce che esso non è «ammesso dal comune jus criminale», e tuttavia, scrive, «non può [...] dirsi che sia ingiusto, massime nel nostro governo». È qui il punto nodale del ragionamento di Donà; non essendo il governo di Venezia «in forze, ma dovendo esso governo mantenere in obbedienza e quiete lo stato con la forza, uopo è che la tenga con la giustizia quasi summaria per non dar tempo a rei di prender piede» (52).
In realtà se l’evoluzione settecentesca della prassi processuale formale, codificata nelle sue basi fin dagli esordi dell’età moderna, non pare conoscere significativi mutamenti, e se de facto, come vedremo, qualche innovazione profonda si insinua tra le maglie del pur «arcano» rito, l’interrogativo che sorge riguarda il grado di conciliabilità tra l’efficienza teorica della procedura inquisitoriale, incarnata dal rito, nel reprimere la criminalità e nell’assicurare rapidamente alla giustizia i colpevoli, ovvero assolvere gli eventuali innocenti, e l’evidente, crescente, farraginosità della dinamica processuale, accompagnata da paralleli fenomeni di abnorme dilatazione dei tempi necessari per condurre in porto i processi.
Nei casi limite, un imputato può rimanere confinato nei camerotti del consiglio dei X in attesa del sospirato processo anche per decenni (53). Nemmeno la storica prerogativa che fa del giudice patrizio veneziano il deus ex machina sovrano dell’evento processuale, politicamente investito, soprattutto in un potente e prestigioso collegio come il consiglio dei X, dei poteri di mutare e reinterpretare le regole del gioco pur nel quadro di una procedura codificata dalla prassi nei suoi lineamenti essenziali (54), quella prerogativa, dunque, non pare far aggio, nel senso di una possibilità di scavalcare argini formali e adempimenti «burocratici», sulla sclerotizzazione dei tempi processuali.
Non siamo in presenza di una strategia politico-giudiziaria sul modello degli inquisitori di stato, dove si marcisce, o si sparisce letteralmente, senza processo, dai suoi bui anfratti. Lo scrupolo «legale» che comunque guida il giudice del consiglio dei X e i legislatori veneziani ci rivela, a Settecento inoltrato, il senso di una preoccupazione crescente per la «produttività» e per l’efficienza della più potente macchina giudiziaria dello stato. Così, ad esempio, nel novembre del 1795, il consiglio dei X incarica gli avogadori di comun di prendere in esame gli opportuni rimedi al fine di ovviare ai disordini e alle inconcludenze indotti nei processi da presunti fenomeni di patologica proliferazione ed appesantimento dei capitoli difensivi e delle allegazioni (55).
Non mancano casi di unificazione dei processi per reati di criminalità comune, non rientranti nella fattispecie del banditismo, perpetrati da diversi soggetti in realtà territoriali omogenee della Terraferma; nonché notizie sulla costituzione di collegi criminali straordinari ad hoc, composti da soggetti estranei allo stesso consiglio dei X e al patriziato veneziano, a condizione che siano in grado di documentare il possesso del diritto di voto nei consigli cittadini (56). Episodi la cui frequenza è tutta da documentare, eppure emblematici in quanto certificano l’esistenza di una tensione, di una sofferenza nelle strutture del sistema: il massimo organo della giustizia penale veneta tenta di risolvere impellenti problemi di lentezza procedurale e di sovraccarico di incombenze istituzionali allargando la potestas judicandi sia in senso orizzontale, con la costituzione di appositi collegi giudicanti, sia in senso verticale, deviando dal principio che, nei casi delegati per crimini commessi in Terraferma, sia solo ed esclusivamente la cancelleria pretoria del luogo del delitto ad istruire e portare a compimento il processo. Perché, appunto, è del tutto probabile che i componenti di quei collegi criminali straordinari di cui abbiamo fatto cenno siano reclutati anche fra membri del consiglio cittadino che hanno poca o nulla consuetudine con le pratiche giuridiche che si seguono in questi casi.
Inoltrandoci nel XVIII secolo, problemi di natura diversa ed esigenze che richiedono risposte asimmetriche convergono rendendo gelatinoso il funzionamento del consiglio dei X. Il «garantismo» che con forza crescente i sussurri prima, le grida del movimento riformatore poi rendono questione di attualità sul piano europeo, ma anche l’evoluzione autonoma, in rebus, della stessa prassi penale, non sono senza conseguenze, come vedremo, sui meccanismi del suo funzionamento. Così come non sono estranei alla lentezza del suo procedere sia, in mancanza di un’efficiente polizia giudiziaria, lo storico connubio, all’interno della medesima magistratura, della funzione inquirente e di quella giudicante (57), sia la spinta, che non si ha motivo di dubitare venga meno rispetto ai primi secoli dell’età moderna, all’accentramento ovvero al controllo dei fenomeni criminali su tutto l’arco territoriale della Repubblica (58).
Leopoldo Curti focalizzerà su questo punto una delle sue numerose critiche alle ragioni stesse dell’esistenza del consiglio dei X. «On créa [...] le Conseil des X seulement pour le temps du danger», scrive il Curti, ma oggi, continua, cosa ha a che fare con la necessità di garantire la sicurezza dello stato la pretesa del consiglio dei X di giudicare tutti i processi per semplici omicidi commessi con armi da fuoco in tutto lo stato? «N’est-il pas évident que ce sont des subterfuges imaginés uniquement pour soustraire à la Quarantie criminelle la connoissance de presque toutes les causes criminelles de quelque importance?». La verità, per l’esule patrizio, è una sola, e cioè che costituisce un «abus terrible et [...] contraire à la nature de tout gouvernement modéré» la pratica del consiglio dei X di investire «les gouverneurs des provinces du pouvoir de procéder dans leurs jugemens suivant le rite dit du Conseil de X» (59).
Curti solleva il problema del ruolo delle quarantie nel sistema giudiziario della Repubblica. Vanto della giustizia veneta, la quarantia criminal, per la pletorica composizione, per il rito accusatorio pubblico e completamente orale, è la quintessenza stessa di un modo di intendere la giustizia nel sistema veneziano il cui paradigma, ampiamente caricato di significati e simboli retorici, rasenta il mito. La propensione tassonomica dei francesi assegna questa volta a Montesquieu il compito di individuare nelle quarantie uno dei poli di una possibile, auspicabile, ma alla fine imperfetta distinzione dei poteri (60).
La realtà è ovviamente diversa. Semmai, ragionando in termini socio-politici, si può parlare, per la quarantia, nel corso del XVIII secolo, di un contropotere di fatto che offrirà, nella rappresentatività di una frazione della nobiltà che vi si riconosce, prove di una volontà politica non esattamente coincidente con quella dell’oligarchia dei «grandi» che idealmente si raccoglie attorno a simboli come il consiglio dei X, gli inquisitori di stato, il collegio. «Quaranta», «Quarantioti», verranno denominati gli esponenti di questa corrente che ingaggia le sue storiche battaglie nel corso delle tre grandi «Correzioni» della seconda metà del Settecento (61).
Il contraltare alla pubblicità del processo e alla garanzia delle difese in quarantia è la lunghezza e la laboriosità delle procedure, con annessi dibattiti e dispute che possono protrarsi oltremodo, come nel caso delle fasi finali del processo, quando si tratta di definire la sentenza una volta esaurito il dibattimento. In sostanza, nel caso dei processi penali, si propone la parte contenente il quesito se si debba o meno procedere alla condanna. In caso affermativo, e tenuto conto del fatto che, a sentire il Pasqualigo, la maggioranza di un voto, nel foro veneziano, non è sufficiente per giungere alla condanna, si passa all’ennesima discussione, incentrata questa volta sull’entità della pena da irrogarsi al condannato (62).
Ordunque, da secoli la quarantia ha perso la sua battaglia con il consiglio dei X, una decadenza progressiva che la Correzione del 1677 ha codificato istituzionalizzando, di fatto, la disparità all’interno dell’architettura di governo della Repubblica (63). Eppure consiglio dei X e quarantia sono accomunati, agli esordi dell’ultimo secolo di vita dello stato veneziano, da tensioni che, con modalità espressive diverse, mettono in discussione il senso del loro amministrare la giustizia.
Preso l’uno, il consiglio dei X, dalla vertigine dell’onnipotenza, angosciata invece la quarantia, la cui gloria passata ormai si sta perdendo nella stessa memoria storica, dalla prospettiva dell’inessenzialità e dell’oblìo. La retorica della solennità folklorica delle sedute del tribunale, giudicante in civile o in penale, non riesce a dissimulare il male che corrode la credibilità di quel consesso che Goethe (una commedia ben orchestrata di cui si sa già in partenza il finale) o Freschot, del quale abbiamo visto le vedute, individuano, tra l’altro, negli interessi sotterranei che riescono a condizionarne i giudizi.
Del resto una legge votata in maggior consiglio nel 1708, forse l’ennesima che si proponga di ovviare alle esasperanti lentezze nel funzionamento della quarantia criminal, riassume con espressioni felicemente drammatiche lo stato della questione. «Sono più di sedici anni che non si presenta alcun proclamato per il Consiglio di Quaranta al Criminal, ma che si lascia bandire, quantunque potesse far constare della propria innocenza; il che non solo serve a far che il Principe perda i suoi sudditi, ma che il consiglio medesimo perda l’uso della sua accreditata giustizia» (64). Il legislatore intende dunque il pericolo cui va incontro non solo la credibilità della giustizia in generale, ma anche il prestigio, già vacillante, di una magistratura come la quarantia criminal. A che pro consegnarsi alla giustizia dei quaranta, a maggior ragione se innocenti, quando i tempi dei processi sono notoriamente intollerabili? Meglio non presentarsi, tanto più se la longa manus di quel magistrato non è efficiente e spietata al pari di quella di ben più temibili organi come il consiglio dei X e gli inquisitori di stato.
La stessa legge del maggior consiglio adombra la possibilità di limitare la pubblicità dei cosiddetti placiti avogareschi, cioè le accuse sostenute dall’avogadore di comun in quarantia per i delitti di sangue rientranti nella sfera di competenza di quest’ultimo magistrato. «I placiti devono esser sempre fatti a porte aperte, e ciò a terrore dei rei [...] ad esempio degli altri, a soddisfazione dei buoni, acciocché conoscano la retta giustizia, che si fa indifferentemente a tutti», scrive Marco Ferro nel suo noto Dizionario (65). Eppure, la legge del 1708 pare scorgere in quel momento di apparente trasparenza e di garantismo una deviazione dall’obiettivo originario: il placito tenuto sempre e comunque a porte aperte, recita il testo approvato, «fa che si lascino molti in absenza bandire per non fare oggetto all’occhio dell’universale, sopra una banca creduta di contumelia, la propria onorevolezza». Da qui la necessità di regolamentare quel momento fondamentale della procedura (66).
C’est dans les Quaranties que tout bon Vénitien doit mettre sa confiance, ces Corps étant les seuls qui puissent faire tête aux abus méchamment introduits dans les autres Corps dominans et qui ménacent l’Etat de sa ruine, qui seroit déjà consommée sans la résistance des Corps de Quarante, qui réunis balancent tout autre pouvoir factice (67).
A metà strada tra una constatazione oggettiva, un pio desiderio e un programma politico vero e proprio, la comunque ottimistica valutazione di Curti segue di alcuni secoli, al crepuscolo, quella che Gasparo Contarini ha paternalisticamente codificato avant-lettre nel suo famoso prontuario sui magistrati di Venezia. «Cittadini di picciol grado e bassa condizione», cittadini «bisognosi», anche se «da bene» sono coloro che ricoprono gli uffici delle quarantie, scrive il porporato veneziano (68).
Ma, a vedere di Nicolò Donà, proprio il fatto di appartenere alla classe dei «meccanici» rende i «Quarantioti» alquanto «superbi». Essi infatti si portano dietro il bagaglio della memoria del loro poco più che effimero senatorato facendo credere di essere «le più autorevoli e rispettabili persone della Repubblica», complici la profluvie di suppliche che vengono loro presentate dai litiganti ed i titoli «ampulosi et adulatori che ricevono dagl’avvocati mentre trattano i litigi».
Al centro della critica di Donà è la concezione del diritto dei «Quarantioti», la loro pretesa di «riformare le leggi e gli Statuti, di crearne secondo le circostanze de’ casi e di giudicare con falsa prudenza ed arbitrio». Quello che è più singolare in queste note del Donà è come l’ottica conservatrice e filo-oligarchica dei Ragionamenti conduca al rovesciamento — consapevole o inconsapevole è da verificarsi — di alcuni topoi sui quali si regge, ab imis, la filosofia dell’amministrazione della giustizia nello stato patrizio veneziano. Indirettamente la natura politica della giustizia veneta viene posta sotto accusa, identificata come è con le ragioni di una parte, quella soccombente, del patriziato. Quelli che dunque dovrebbero teoricamente costituire gli assi portanti della forma mentis del giudice veneziano, l’arbitrium, la ritrosia se non la dichiarata ostilità nei confronti della tecnica giurisprudenziale, l’ignoranza delle leggi universali e di quelle del proprio paese, si tramutano, nella polemica settecentesca del Donà, in altrettante remore dalle quali sarebbe auspicabile liberarsi. Anche se, va detto, nello specifico delle quarantie, Donà tutto sommato finisce per auspicarne la sopravvivenza così come sono. In una Repubblica come quella veneziana, intende dire l’autore dei Ragionamenti, è meglio che la parte più infima della nobiltà si riconosca in quegli organi, affinché possa sfogare in qualche anfratto istituzionale le sue smanie di protagonismo senza mettere in pericolo la stabilità dello stato. Tanto, il potere, quello vero, non è altrimenti dislocato (69)?
Quale posto occupi invece nella triade ideale del sistema giudiziario della Repubblica l’avogaria di comun è difficile dire. Anche qui delicate competenze in materia giudiziaria stratificatesi nel corso dei secoli e sovrapposizioni interpretative dei contemporanei fanno di questo particolare magistrato un esempio singolare di specchio attraverso il quale è possibile leggere via via modalità della lotta politica e assetto degli equilibri di potere all’interno della Repubblica.
È certo tuttavia che il criterio della polarità tra il principio dell’autorità incarnato dal consiglio dei X e quello della giustizia rappresentato all’opposto dall’avogaria, alla luce del quale sono stati letti tanti episodi nodali della lotta politica a Venezia tra Quattrocento e Seicento (70), non pare più costituire il filo rosso per comprendere la stringente «attualità» dell’ultimo secolo della Repubblica, proprio per il venir meno di uno dei poli storicamente antagonistici. Al pari delle quarantie, l’avogaria di comun, nel corso del Settecento, registra un evidente processo di indebolimento politico anche se le sue prerogative, e non solo in materia di giustizia penale, rimangono ampie e variegate.
Peraltro non manca chi persista nel porne in risalto l’ideale primazia accanto, in una logica di partnership, ad altri organi dello stato veneziano. «Les Avogadors sont les hommes de la République; on les nomme pour cette raison Avogadors du commun; ils rapportent les procés ou il leur plaît, et on ne peut leur refuser le barreau quand ils le demandent», scrive Laugier attribuendo all’avogaria lo status di magistratura di prima classe, quella cioè dove si trattano gli affari di stato (71).
Più disincantato e meno formale il giudizio di Nicolò Donà il quale, pur confermando il grado di autorità dell’avogaria, bilancia questa affermazione sottolineando, anche in questo caso, la natura «plebea» di quell’organo, composto dai «meccanici» che danno «adito alle lor passioni private di manifestarsi» interponendo i loro appelli in tantissime decisioni di altre magistrature. A Roma la Repubblica ha perso la propria libertà a causa del protagonismo dei plebei, a Venezia, dunque, «per rimediare all’origine di sì enorme pericolo altro mezzo non v’è se non tener a freno e limitare l’autorità degli avogadori» (72).
Organo formalmente garante della legge; di appello, di taglio e intromissione di sentenze delle magistrature di Venezia e di reggimenti della Terraferma; rappresentante dell’accusa nella quarantia criminal; responsabile, nella figura di uno dei suoi membri, delle istruttorie nei processi davanti al consiglio dei X senza diritto di voto; titolare di proprie, anche se ormai ridotte, competenze in materia penale e di un peculiare rito processuale (73), l’avogaria di comun, nel contesto veneziano, gode di un prestigio che contrasta con una realtà più prosaicamente dimessa; una realtà che da sé si incarica di delegittimare politicamente e culturalmente il ruolo degli avogadori quali «avvocati di tutti gli oppressi» e di «observatori della leze». Prevale insomma, in una non indifferente platea di patrizi e giuristi veneziani, l’insofferenza per un’interpretazione delle funzioni dell’avogaria, ma anche delle norme stesse che la governano, che si ritiene travalichi le esigenze fisiologiche e minime di una corretta interpretazione della legge.
Differentemente dal caso delle quarantie, non siamo tuttavia necessariamente in presenza di una sorta di antinomia di classe, ad un ormai irriducibile antagonismo sociale tra segmenti strutturalmente disomogenei del patriziato. È stato infatti notato che «gli Avogadori di Comun erano patrizi come gli altri», potevano dunque sedere in altri consigli della Repubblica, compreso il consiglio dei X, «potevano cioè occupare cariche nelle quali dovevano sostenere esigenze diverse da quelle che caratterizzavano tradizionalmente la carica dell’Avogaria di Comun» (74). Ci troveremmo insomma di fronte ad un singolare gioco delle parti che il quadro veneziano e le peculiarità dell’avogaria contribuiscono ad esaltare. Forti anche di un inveterato, seppur residuo, senso dello stato, i patrizi veneziani investiti della carica di avogadori impegnerebbero i loro sforzi per interpretare, con un rigore che però rasenta il filisteismo, il ruolo di garanti della legalità che è loro assegnato dalla «costituzione» veneziana; salvo poi diversamente atteggiarsi quando quegli stessi patrizi si trovano ad occupare gli scranni di altre magistrature, se non addirittura proprio quelli del consiglio dei X.
Non vi è dubbio che è proprio dalle file dell’avogaria che giungono, nel corso del Settecento, la maggioranza degli echi di ora timide, ora contraddittorie, ora coraggiose posizioni riformatrici in campo penale; così pure non è in discussione il fatto che gli uomini di punta che animano le Correzioni della seconda metà del secolo ricoprono, a cominciare da Angelo Querini, ruoli nell’avogaria e sono riconosciuti come esponenti che ne animano e ne sorreggono il vacillante prestigio. Ma sono incontri casuali, per quanto significativi, tra uomini ed istituzioni che rendono possibile il compiuto manifestarsi delle volontà di riforma dei primi e nulla di più.
Bravo conservatore e pratico espertissimo, Bartolomeo Melchiori è lesto nel denunciare, nella sua Miscellanea di materie criminali, un andazzo nel funzionamento dell’avogaria che pare colpirlo particolarmente: «come tre sono gli Avogadori, che non sempre compongono un tribunale individuo, ma ben frequentemente tre separati Tribunali, unico e singolare esempio fra’ Veneti Magistrati, così l’appellante interposta che abbia la sua appellazione innanzi ad uno, e licenziato che resti, non ho dubbio che non possa sottoporre l’atto medesimo a’ riflessi del secondo, e del terzo» (75). In questo caso Melchiori, lungi dall’interpretare il senso dell’esistenza di un organo strutturato come l’avogaria in chiave di garanzia del buon ordine legale, ne mette in evidenza quelli che gli paiono gli oggettivi ostacoli che essa pone ad un corso della giustizia spedito ed efficace.
D’altro canto Leopoldo Curti, pur assicurando che proprio gli avogadori avrebbero potestà d’intromissione anche nelle sentenze del consiglio dei X, sminuisce la valenza pratica di quel diritto in quanto «on trouveroit difficilement un Avogadeur qui voulût s’en charger et bien moins encore qui osât interjetter son appel» (76). Con ciò Curti mette, a modo suo, il dito sulla piaga: un sistema teorico di balance of power come quello veneziano è intaccato, nella prassi, da forti squilibri di potere; solo così si spiega la subalternità psicologica e politica che Curti crede di cogliere nel comportamento apparentemente rinunciatario dell’avogaria di fronte alle decisioni del potente consiglio dei X.
Un fortunato ritrovamento documentario consente di confrontare la valutazione di Curti con quella del conte vicentino Gasparo Arnaldi, detenuto nelle carceri del consiglio dei X con l’accusa di omicidi e violenze. Nel vivo di una vicenda che lo vede drammaticamente coinvolto tra il 1719 e il 1722, l’Arnaldi annota in una sua Raccolta dell’ordine per il quale deve passare un presentato volontario del Consiglio di X le sue impressioni e i suoi giudizi sulla procedura seguita dal collegio giudiziario che lo deve processare. La delusione riguarda proprio il ruolo assunto dall’avogadore in tutte le fasi del processo. Ben al di qua di una funzione di garanzia e di rigoroso rispetto formale delle pur rigide norme che regolano il rito del consiglio dei X (77), secondo Arnaldi l’avogadore, nel suo caso, per imprevidenza, subalternità, fraintendimento del proprio ruolo o che altro, interpreta di fatto liberamente, ma a danno dell’imputato, la sua funzione di custode formale degli arcana del rito.
Errori e inesattezze nei verbali degli interrogatori («costituti»), ma, soprattutto, il tenore alquanto infelice — tale da gonfiare artatamente i fatti e l’aura di pericolosità degli imputati — del pubblico proclama con il quale è stato intimato all’Arnaldi e ai presunti sicari di presentarsi alle carceri del consiglio dei X, costituiscono le colpe più gravi che, a giudizio del conte vicentino, possono essere addebitate all’avogadore che in quel momento cura la vicenda giudiziaria (78). La conseguenza pratica di un simile comportamento, che non si vede come possa essere circoscritto al solo caso dell’Arnaldi, è, per un imputato detenuto dal consiglio dei X al quale la legge non permette di valersi di avvocati difensori, la pericolosa identificazione della posizione dell’avogadore con le ragioni dell’accusa; ergo, il venir meno di un sia pur larvato momento di garanzia legale a fronte del rigore della procedura segreta e inquisitoria del rito.
Peculiarità veneziana è il corollario di magistrature minori investite di specifiche prerogative in materia penale, ma anche civile, che fanno da pendant al consiglio dei X e alla quarantia criminal. Soprattutto i signori di notte al criminal e gli esecutori contro la bestemmia ricoprono un ruolo di una certa importanza nell’organigramma della giustizia veneziana. Investiti i primi della facoltà di inquisire tra l’altro sui reati di furto, di ferimento e aggressione perpetrati nelle ore notturne; i secondi sui delitti contro la cosiddetta pubblica moralità, comprendendovi deflorazioni e bestemmie (79).
Forse più efficacemente, a fronte degli esempi offerti dai grandi tribunali criminali, i frammenti di società civile ed alcuni aspetti della fenomenologia criminale che i processi celebrati di fronte a queste magistrature rivelano danno il senso, sia pur tutt’altro che compiuto, di una quotidianità ora squallida, ora gaudente, ora incredula, nei suoi protagonisti piccoli piccoli, di fronte alla ferrea logica della repressione e agli inesorabili ingranaggi di una macchina giudiziaria che inopinatamente seleziona arbitrariamente le fattispecie penali.
Per determinati reati, o, meglio, comportamenti che la legge configura come reati perseguibili penalmente, il dramma degli inquisiti, che spesso risuona nelle accorate difese degli avvocati quando questi sono autorizzati ad intervenire più o meno esplicitamente, non sta tanto nel tenore delle pene in sé, nemmeno nelle scarse opportunità offerte loro talvolta dal rito processuale — a volta a volta, nel magistrato dei signori di notte al criminal, il rito del consiglio dei X o quello della quarantia criminal, ovvero quello peculiare agli esecutori contro la bestemmia (80) — bensì nella drammatica sproporzione tra gli effetti stritolanti dell’inquisitio e la misura della pena da un lato, e, dall’altro, l’ingenua, disarmante, talora folkloristica compatibilità sociale del reato perseguito.
Forse, più che in qualsiasi altra magistratura di giustizia della Repubblica veneta, è proprio dagli esecutori contro la bestemmia che viene, nel corso del secolo riformatore per antonomasia, il più clamoroso caso, non di circolarità (81), bensì di dissociazione tra società e giustizia; imputabile sia a quello che è stato definito il fenomeno di «clericalizzazione» della magistratura (82), sia ad un vistoso deficit culturale dovuto ad una valutazione di rilevanza del crimine alquanto desueta (83).
Inevitabilmente, al contatto di un clima che il dibattito riformatore e l’evoluzione del costume rendono ricettivo a idee diverse, con la scissione tra l’idea del delitto e quella del peccato su cui Beccaria insisterà particolarmente, la «mala vita», il «mal costume» rivelano la pericolosa genericità della loro rappresentatività quali figure di reato. La moralità pubblica diversamente interpretata diviene dunque la frontiera a cavallo della quale, anche, si misurano gli argini dell’intolleranza in un’epoca «illuminata».
3. Venezia prima e dopo Beccaria, ovvero Venezia nonostante Beccaria
La testimonianza sarebbe da verificare, eppure il dato filologico importa fino ad un certo punto. La folla che nel febbraio 1710 assiste al passaggio del lugubre corteo che accompagna il condannato, legato e trascinato da un cavallo, all’esecuzione capitale «si sarebbe prodigata a gettar cuscini e materassi lungo le calli e i ponti [...] onde attutire le sofferenze dell’impatto del corpo con i selciati» (84). Non sono moltitudini schiamazzanti, né acclamanti la forca, né irridenti verso la sorte crudele del poveraccio. L’immagine granguignolesca che accompagna la fenomenologia dei comportamenti collettivi in queste occasioni è qui sopravanzata da un silenzio commosso e commovente.
Senza dubbio si pone un evidente problema di «legittimità»: quel silenzio e quella solidarietà così ostentata nei confronti del morituro contraddicono apertamente la scala di valori e comportamenti codificati che impongono la pubblica infamia, l’isolamento nei confronti di chi si sia macchiato del delitto di contravvenire al patto che lega gli individui in società. Il problema riguarda il potere e i valori, l’egemonia culturale imposti dalla classe dominante, ma, in questo caso, posta la veridicità dell’episodio, la prospettiva si sposta sul fronte più basso della stratificazione sociale, delle cui voci conosciamo ancora poco, anche se, naturalmente, è troppo presto per parlare di nuova sensibilità (85) o di una modificazione strutturale del comune sentire popolare su alcuni temi cruciali della giustizia.
Prescindere da Beccaria e dall’Illuminismo — per la verità alquanto ovattato in terra veneta (86) — ed esaminare, isolandola da tutto il resto, la parabola secolare veneziana (a voler naturalmente lasciar perdere la prospettiva millenaria) con le verità oggettive che essa rivelerebbe in fatto di amministrazione della giustizia, pare una provocazione intrigante e suggestiva.
La prefigurazione di una sorta di «stato di diritto» in fieri, nella logica propria della tradizione veneziana, in quel suo «sistema giudiziario vagamente paranoico delle diffidenze incrociate e controllate che andavano a costituire una costruzione sofisticata di bilanciamento complessivo», nella «complessità sistematica che faceva dello scontro continuo di poteri, dell’incoraggiata antitesi conflittuale, l’elastico perno autointerpretativo del sistema» (87), e, aggiungiamo, in una prassi giudiziaria apparentemente aliena dagli eccessi repressivi tipici di altre realtà politico-statuali, costituirebbe la vera novità di Venezia prima e a dispetto di Beccaria; oltre l’Illuminismo e la sua epocale volontà di riforma.
La prassi giudiziaria, i processi, insomma il concreto, secolare lavoro delle magistrature di giustizia possono fornire chiarimenti su alcuni aspetti fondamentali del problema di come gli istituti tipici della giustizia dell’Ancien Régime evolvano e trovino o meno attuazione in rapporto alle circostanze e ai tempi. Le leggi e le consuetudini ufficialmente ammesse, granitiche nella loro secolare inamovibilità, rivelano altre realtà, non necessariamente connesse ad una più o meno consapevole volontà di riforma (88).
Il fascicolo sul tema della Tortura de’ Rei, raccolto da Jacopo Chiodo ad uso dell’archivio della Compilazione delle leggi, presenta un vuoto nella legislazione in materia tra il 1418 e il marzo del 1787. È evidente che a Venezia, nell’intervallo tra le due date, ben poco o nulla si è legiferato sulla materia della tortura giudiziaria (89).
Del resto, nonostante l’istituto rimanga formalmente in vigore fino alla fine della Repubblica, la pratica concreta dei tribunali veneziani e della Terraferma segnala, da sempre, una religiosa ritrosia dei giudici di fronte all’ipotesi del ricorso ai tormenti. Anzi, una scrittura cinquecentesca parrebbe addirittura escludere che nella pratica degli esecutori contro la bestemmia si addivenga alla tortura degli imputati (90).
Così, Marco Ferro, nel suo Dizionario, a Settecento inoltrato, può scrivere in proposito, senza tema di incorrere in censure preventive visto che ormai il problema non brucia più, constatando la «quasi generale desuetudine della tortura», una barbarie che va scomparendo grazie alla «dolcezza dei costumi della nostra epoca, ed allo studio dei vantaggi dell’umanità» (91).
In tema di difesa degli imputati davanti ai tribunali di giustizia Venezia può forse rappresentare un esempio, a cominciare dalla pubblicità del procedimento davanti alla quarantia criminal per finire alla figura dell’avvocato dei prigionieri poveri (92). Rimane comunque il rito del consiglio dei X, davanti al quale, ovvero negli organi da esso delegati con il medesimo rito, scorrono tante storie di ordinaria e straordinaria criminalità. Tuttavia la sua apparenza impenetrabile, il suo mito negativo scricchiolano vieppiù nel corso del Settecento.
Il principio dell’esclusione degli avvocati, e in genere dei difensori, dal processo trova crescenti, significative deroghe. Ufficialmente la ritualità della procedura impone fino alla fine la solenne e minacciosa dichiarazione: «dovrai difenderti da solo, con la tua viva voce, senza avvocati o scritture private [...]», eppure, spesso, cioè a dire quando il cosiddetto «reo» può permetterselo, la soluzione pratica è di far scrivere la difesa ad un avvocato facendola figurare tout court come autodifesa dell’imputato (93). È strano (si fa per dire) ma è così, il rito «segretissimo» impone la finzione (l’autodifesa) per un pubblico che non c’è. Ed è una tendenza che si fa avvertire fin dai primi decenni del secolo rafforzandosi nel prosieguo (94).
Ancora più interessante è il fatto che in un certo numero di opere a stampa si ammetta, mercé una censura distratta ovvero noncurante della valenza politico-giudiziaria del problema, che la prassi procedurale del consiglio dei X trovi delle significative, crescenti eccezioni in tema di difesa degli imputati. A Leopoldo Curti il dente avvelenato non impedisce di spiegare che, davanti alla massima autorità di giustizia della Repubblica, l’imputato può «conférer avec des hommes de loi» e «préparer de concert avec eux sa défense» (95).
Non è invece una voce della diaspora quella di Vincenzo Ricci, giurista, assessore nelle principali città dello stato e «noto alla repubblica letteraria per altre dotte sue produzioni di vario genere». La sua presa di posizione circola, benché col mezzo di una stampa formalmente anonima, con la pubblica approvazione delle autorità della Repubblica. La sua Orazione di genere giudiziale proferita a difesa di sé medesimo da un accusato di grave omicidio (96) costituisce un’esplicita presa di posizione contro il rito. L’avvertenza è esplicita: «il rispettabile metodo del Rito sovrano» nella difesa degli imputati li obbliga «ad eseguirla soltanto da se stessi senz’ammettere alcun difensore. Questa criminale aringa per tanto dal chiarissimo autore dettata come se avesse dovuto pronunziarla egli medesimo a difesa altrui, fu poscia, per l’indicato inviolabile metodo, proferita dall’inquisito qual proprio lavoro» (97).
L’ossequio formale all’autorità, la pacata esposizione da parte dell’«accusato di grave omicidio», alias Vincenzo Ricci, delle ragioni della propria innocenza, non impediscono un’analisi appassionata degli inconvenienti più gravi del rito, per concludersi con un forte appello affinché venga esaudita almeno una delle condizioni ritenute indispensabili al fine di una più agevole strategia difensiva — posto che de facto l’intervento dell’avvocato è già assicurato —, cioè a dire la possibilità di «essere posto al confronto dei miei accusatori». «Provegga dunque [conclude Ricci] l’autorità delle leggi, nelle quali riposa la sicurezza pubblica, e la tranquillità del viver civile [...] che l’innocenza possa viver sicura, onde non temano insidie le persone dabbene. La causa, o giudici, è degna che se ne prenda grandissima cura in ogni ben regolato governo, per essere causa comune» (98).
Analoga evoluzione si registra in altre magistrature che si avvalgono di riti inquisitori e segreti a cominciare dagli esecutori contro la bestemmia (99). Aggiungasi che è alla caduta della Repubblica, quando i testimoni e i protagonisti dell’epoca repubblicana squarciano apertamente il velo del silenzio sui segreti più riposti del funzionamento dei meccanismi istituzionali dello stato veneziano, che un patrizio come Marco Zorzi, in epoca repubblicana già avogadore di comun e componente la magistratura dei sopraintendenti al summario delle leggi incaricata di studiare le possibili innovazioni da portare al quadro del diritto veneto, forte della sua conoscenza del funzionamento reale e della casistica dei tribunali veneti, potrà documentare, nei processi celebrati con rito, perfino eccezioni, tutt’altro che infrequenti, al divieto formalmente in vigore di eccepire i testimoni da parte degli accusati (100).
Comunque, prima e dopo Beccaria, l’evoluzione della prassi inquisitoriale veneziana conosce significative eccezioni ad una tradizione e ad una legislazione ufficialmente impermeabili a qualsiasi inquietudine di impronta umanitaria e/o legalitaria. Dall’interno stesso dell’apparato statale le denunce non mancano. Il consultore in jure padre Fanzio, incaricato nel 1760 di giudicare la regolarità di due processi celebrati davanti al Sant’Uffizio contro altrettanti sacerdoti, attacca esplicitamente il rito di quell’organo, con la relativa segretezza delle sue procedure e l’occultamento dei testimoni. Eppure la presa di posizione del Fanzio ha un valore più generale, perché è chiaro che i contenuti del suo attacco alla prassi dell’inquisizione hanno valore, per estensione, in tutti i casi nei quali il rito inquisitorio trova applicazione a Venezia nei più laici tribunali di giustizia (101).
Del resto, storicamente, sensibilità diverse si scontrano continuamente. La tensione prodotta dallo scrupolo legalitario combatte una battaglia sotterranea avverso altre spinte che corrispondono alle necessità dell’efficienza e della rapidità della giustizia. I confini naturalmente non sono mai del tutto netti e chiaramente individuabili, ma quando quello scrupolo legalitario non si confonde con capziosi artifici che nascondono altri obiettivi, si fa strada, nella coscienza di giudici e magistrature come l’avogaria di comun, una sollecitudine più moderna, rispettosa di certi diritti di fatto e compresa di una sensibilità attenta alla pluralità delle circostanze in cui si genera la fattispecie del reato, che l’arcaica legislazione non si sogna neppure di contemplare e di descrivere.
La casistica è estensibile di molto, limitiamoci a una significativa descrizione. Bartolomeo Melchiori difende, nella prima metà del Settecento, una sentenza di morte pronunciata da una corte pretoria della Terraferma che viene invece tagliata dagli avogadori per evidenti disordini procedurali e per «eccesso di autorità». La presa di posizione del giurista è tutta giocata sulle ragioni di una giustizia che produca con immediatezza i suoi effetti assicurando la punizione dei rei, contro e nonostante le formalità procedurali quando sia «certa» la colpevolezza degli inquisiti (102).
Passerà qualche tempo, ma l’equilibrio, obiettivamente difficile, tra le due apparentemente antitetiche esigenze non pare escogitato neppure da Beccaria. Nel Dei delitti e delle pene, l’idea della prontezza della pena (103), di cui l’illuminista lombardo decanta giustamente l’efficacia, non pare trovare neppur parziali correzioni, o meglio un giusto contemperamento, in una considerazione sui mille fili che tengono agganciata l’osservanza della procedura a qualche forma di garantismo. Forse perché la risposta è nelle cose stesse, cioè a dire nell’esistenza di una procedura, negli stati di Ancien Régime, a sua volta da superare senza che alcuna si ponga ormai come modello da cui mutuare idee di rinnovamento.
La contraddizione di Beccaria, che riguarda molteplici aspetti della problematica relativa al rapporto tra difesa del singolo e protezione degli interessi collettivi, a cominciare dal confronto tra accusa e inquisizione, è la stessa di tanti altri giuristi e studiosi di problemi di diritto del Settecento (104). Le aporie della dottrina si incontrano con le difficoltà oggettive dovute alla situazione politica nella quale permangono segnali di rinnovamento accanto a vischiosità nel funzionamento delle strutture istituzionali degli stati. Cambiare alla radice, pubblicamente, concretamente e apertamente il modello di giustizia a Venezia e altrove, al di là di indubbi motivi umanitari che penetrano sempre più nella cultura delle classi dominanti, si pone come impresa delle più ardue.
A Venezia — scrive un corrispondente di Beccaria il 21 maggio 1768 — «tutti sono ansiosi di vederti e conoscerti in persona; allorquando mi si parla di te non si vuol credere che tu abbia solamente trent’anni di età; ti aspettano a braccia aperte e mi si fanno da tutti istanze premurose onde invitarti a venire a Venezia dove quell’istesso che fece proibire il tuo libro ti aspetta, ti desidera, ti loda, ti ammira, ed è del tuo libro intusiasmato» (105). Quattro anni sono trascorsi dalle movimentate vicissitudini della diffusione prima e della proibizione che ne segue, da parte degli inquisitori di stato, del libretto di Beccaria nello stato veneto (106). Eppure quelle vicende sembrano lontanissime nel passato, echi sbiaditi di quello che appare sempre più come un significativo strascico delle aspre contese che si svolgono al tempo della Correzione del 1761, anche se gli osservatori più attenti non mancano di individuare in punti particolari del trattato, come per esempio il capitolo sulle accuse segrete, motivi di serio allarme per il governo veneziano (107). Ora, l’aura che avvolge la fama europea di Beccaria, la sua proposta umanitaria, trovano crescenti, torrenziali consensi nello stato veneto, tra i patrizi della Dominante e della Terraferma così come tra ampi strati di borghesia intellettuale; i nomi dei sottoscrittori dell’edizione del 1781 sono lì, a dimostrare, in tutta la sua evidenza, l’assunto.
Non è ovviamente pensabile che in meno di quattro anni siano cambiate le vedute di ampi settori del ceto dominante della Serenissima (108). Come invece abbiamo visto — nel particolare caso veneziano — il messaggio di Beccaria cala su un terreno già in parte arato da un’evoluzione fattuale della cultura e della prassi giuridica veneziane, a dispetto delle realtà dottrinale e istituzionale che paiono invece impermeabili al mutamento.
Ordunque inessenzialità dell’Illuminismo a Venezia (109)? Per vero dire la novità esplosiva del trattatello dell’illuminista lombardo, a Venezia come nel resto dell’Europa tutta, non pare in nulla inficiata. Proprio nel suo proporsi quale manifesto ideologico e carta riassuntiva di una produzione secolare di orientamenti filosofici e dottrinali finora languidamente confinati in apparentemente inerti frammenti giusnaturalistici, umanitari, contrattualistici che neanche l’Illuminismo più avanzato dei philosophes ha saputo sintetizzare (110); proprio in quella secca, didascalica eppur felice semplicità sistematico-espositiva; proprio in quel repentino diffondersi del messaggio, e degli echi più riposti di quel messaggio, dalla penisola iberica alle lande orientali della Russia del knut, presso un’opinione pubblica europea già matura e compresa delle novità che il secolo ha elaborato, e che la circolazione delle idee tramite strumenti di informazione di crescente successo come le gazzette rende sempre più informata e critica; proprio in tutto ciò risiede la carica dirompente del Dei delitti e delle pene.
Così, ciò che prima è materia di dibattito accademico è ora motivo di clamore e di rumore, di discorrere anche disordinato, di profluvie incontenibile di consensi e astiosi, risentiti dissensi, anche quando l’adesione alla novità assume i caratteri di conformistici allineamenti, ché il restare isolati dalla voce pubblica prevalente può costituire un pericolo non meno grave.
Venezia non giunge ultima, tutt’altro, nel coro dei neofiti, ma la novità si arresta qui e non si tramuta in una nuova filosofia del diritto, in proposte ufficiali e pubbliche di rinnovamento istituzionale realmente efficaci. Tutto resta desolatamente, anche se non troppo, come prima. La prassi giudiziaria e la cultura giuridica hanno accolto e accolgono motivi crescenti di deroga al vecchiume del passato, ma l’equilibrio è delicatamente in bilico; l’arbitrio è in agguato (111); la certezza della legge rimane una vera, grande utopia.
I giuristi poco discutono di riforme nella giustizia, occupati, da sempre, dai passatempi letterari di stampo arcadizzante. Il passaggio dalla giurisprudenza all’economia quale «tendenza di fondo di tutto il moto riformatore italiano», conosce, a Venezia, inedite tortuosità (112). L’eco della lezione di Beccaria sollecita l’etica e la sensiblerie (113), ma le proposte di riforme concrete si fanno desiderare (114). Del resto il complicato equilibrio della formazione statuale veneziana impone scelte drastiche, un prendere o un lasciare. Ritocchi, anche minimi, rischiano di provocare sbilanciamenti in una direzione o nell’altra mettendo in pericolo la stabilità del sistema.
Comunque, mentre le tendenze, pur frammentarie, verso una maggiore umanizzazione di alcuni aspetti del sistema sembrano timidamente continuare in diverse direzioni (115), dilaga una significativa pubblicistica in materia giuridica, soprattutto a partire dagli anni ’80. Gli esempi dei sovrani illuminati, dei nuovi codici che vengono impostati al livello europeo, delle teorie politico-criminali più avanzate fanno scuola.
La storia delle edizioni venete, a partire da quella del 1781, del Dei delitti e delle pene è in parte nota (116). Sembra destinato a specializzarsi in stampe giuridiche il libraio Giovanni Vitto «in Calle lunga a S. Maria Formosa» (117); pubblica, tra l’altro, il testo del Codice leopoldino al quale «l’editor veneto a chi vorrà leggere» premette alcune considerazioni esaltanti l’esempio toscano, al cui confronto la «Carolina [...] può dirsi [...] scritta a caratteri di sangue», e le grandi figure di Beccaria e Filangieri (118); e, ancora, il Civilgerichtsordnung del 1781, opera di Giuseppe II e il Progetto del Barbacovi (119); nel 1782 la prima edizione veneta, «diligentemente corretta e ripurgata», de La scienza della legislazione di Filangieri (120) e il trattatello di Saverio Mattei Che la dolcezza delle pene sia giovevole al fisco più che l’asprezza.
Assieme a tante amenità lo stampatore trevigiano Giulio Trento, figura minore eppure singolare nel panorama culturale e editoriale della Terraferma (121), pubblica, in traduzione italiana, nel 1785, con il falso luogo di stampa di Neuchâtel, la Théorie des loix criminelles di Brissot de Warville (122), trattato che è stato paragonato, per l’importanza e per i contenuti riformatori, a quello di Beccaria (123). Accanto ad una chiara presa di posizione a favore del principio generale della codificazione, cioè a dire di una legislazione completamente nuova, l’edizione italiana del trattato dell’autore francese contiene, a sorpresa, passi che coinvolgono chiaramente nel giudizio la Repubblica veneta e il suo sistema giudiziario, dagli inquisitori di stato al consiglio dei X (124).
L’anonimo traduttore di Brissot (125), dedicando l’opera a Francesco Pesaro, un patrizio particolarmente animato, in questi frangenti, da una consapevolezza crescente della necessità di riforme nello stato veneto, collega direttamente, nel suo Discorso preliminare, l’opera di Brissot, considerato il primo che formula un piano concreto ed organico per sistemare la legislazione criminale dopo la denuncia di Beccaria, al silenzioso fermento che, dal 1784, sta alla base del contraddittorio, limitato tentativo di portare qualche innovazione alla legislazione criminale veneta da parte di una «magistratura di senatori amplissimi, di illuminati giureconsulti» (126).
Insomma, non si può dire che, avvicinandosi alla fine del secolo, il pubblico veneto non legga, non venga informato, più o meno apertamente, sulle novità e su ciò che si discute e si realizza in tutta Europa. Forse molto si legge, si comincia a studiare e ad imparare, gli orizzonti si allargano, ma, alla fine, poco, per non dire nulla, si innova (127).
4. Compilazione, correzione, raccolta delle leggi; ovvero delle riforme mancate
Che l’esigenza di una qualche riforma dell’impalcatura del diritto veneto sia avvertita sono a testimoniarlo gli incarichi che periodicamente — e stiamo al Settecento, ma, in realtà, la tradizione è plurisecolare — vengono affidati ad apposite magistrature appoggiate da valenti giuristi, con l’obiettivo di porre qualche rimedio al disordine imperante nel caotico ammasso normativo che si va incessantemente accumulando nelle cancellerie delle magistrature veneziane. Non vi è tuttavia dubbio che non si vada al di là di mere raccolte documentarie atte ad ordinare e a razionalizzare la legislazione esistente. Immancabilmente, fino alla fine della Repubblica, l’esigenza di una maggiore certezza del diritto si sublima, nel più perfetto stile veneziano, in deludenti, vecchie, noiose diatribe sul nulla, o quasi (128).
A Venezia dunque si corregge, si raccoglie, si scarta, si compila, si rivede, si sceglie tra l’utile e il desueto, si ordina, si classifica, ma, bensì — come del resto in altri stati italiani — non si codifica, non si crea una legislazione, un diritto processuale civile e penale ex novo. Marco Ferro nel suo Dizionario non nega che il diritto veneto «non abbia bisogno di una riforma», a maggior ragione «in questi tempi, nei quali le scienze unitamente alla giurisprudenza fecero i loro maggiori progressi» e in cui «anche i principi conobbero gl’interessi dell’umanità e delle nazioni» e perciò molti di essi pensarono o a riformare o a creare di nuovo il loro codice. «Il nostro codice [scrive il Ferro], è certamente disordinato, e riesce piuttosto un ammasso di leggi obsolete, oscure, tra di loro in contraddizione e mancanti in alcuni punti i più essenziali. Sarebbe perciò essenziale una nuova forma del medesimo, stabilita coi veri fondamenti della filologia legale, esposta con uniformità di stile, completa ed universale» (129).
Affermazioni che inducono qualche interrogativo sulla reale posizione del Ferro, dato che lasciano intuire, nonostante le ammissioni sull’obsolescenza della legislazione veneta, l’ennesima proposta di un semplice riordino del sistema vigente: déjà vu.
Non sono certo illuminanti e produttive, da un punto di vista strettamente politico-giudiziario, nemmeno le contese che a Venezia si accendono attorno alle tre grandi, forse sopravvalutate, Correzioni del 1761, del 1774 e del 1780 (130). Le questioni riguardanti un’organica riforma del sistema giudiziario, quand’anche vengano dibattute, brillano infatti per il corto respiro dell’impostazione. La classe dirigente e dominante, cioè a dire l’oligarchia e i suoi compagnons de route, gioca in difesa. Mettere populisticamente in discussione, come sembrano fare i sostenitori del partito «democratico» soccombente, i pilastri della giustizia veneta, genera reazioni di rigetto che rendono inutili le pacate discussioni sul che fare? concreto per rinnovare il sistema; il rinnovamento non passa dunque certo per la via della Correzione.
A seguito della Correzione del 1780, qualche novità è rappresentata dal tentativo di mettere ordine nel caotico mondo di quelle figure che, nel lessico giuridico veneziano, vengono definite intervenienti, cioè i causidici tuttofare operanti nelle pratiche preliminari delle azioni forensi. Dopo che il problema è stato oggetto di una discussione almeno cinquantennale (131), il maggior consiglio istituisce, il 30 aprile 1781, una commissione «incaricata dell’espurgo degli intervenienti in modo da formare un collegio composto dai cento usciti meglio dalle ricognizioni» (132). Si tratta, forse, di una delle poche riforme che a Venezia non si arenerà stancamente tra l’inerzia e l’indifferenza, mentre una regolamentazione dell’avvocatura si farà inutilmente attendere (133).
Durante le Correzioni, leggi, competenze, attribuzioni, poteri degli inquisitori di stato e del consiglio dei X innescano grandi discussioni e astiose contrapposizioni, eppure siamo sempre all’interno di diatribe che coinvolgono le cosiddette «libertà» del patriziato e gli squilibri istituzionali, politici e sociali che ne dividono le fortune e la dignità di classe. Ma, in realtà, i canali attraverso i quali passano i tentativi di por mano alla legislazione veneta sono invece quelli, soliti, del più silente magistrato dei sopraintendenti alla compilazione delle leggi (134), dei suoi componenti patrizi e dei ben più valenti giuristi che fungono da assistenti.
Nel civile e nel criminale, l’opera tardo-seicentesca di raccolta e riordino delle leggi statutarie portata avanti da Marino Angeli (135) è proseguita stancamente, nel secolo successivo, dal compilatore Giovan Giacomo Mazzi, e, in maniera più decisa e risolutiva, da Angelo Sabini, il quale, secondo il Chiodo, che ci fornisce un riassunto attendibile dei passaggi fondamentali di questa vicenda (136), «dopo aver esposto i suoi pensamenti nel proposito de’ Statuti, offerì per primo lavoro una informe collezione di leggi criminali che furono stampate l’anno 1751». L’eredità di Sabini è in seguito raccolta da Giovan Battista Conti verso il quale Chiodo sembra nutrire una somma ammirazione: «pazientissimo indagatore degli archivi e degli autografi registri e laborioso raccoglitore delle pubbliche leggi in ogni argomento»; il quale Conti, ovvero i patrizi all’epoca facenti parte della magistratura dei sopraintendenti, presenta un «piano astratto che fu accolto con decreto 1781, 22 dicembre» (137).
Tuttavia, nel provvedimento adottato dal senato il 3 giugno 1784, avente per oggetto la creazione di una nuova magistratura denominata degli aggiunti sopraintendenti al sommario delle leggi, incaricata, sulla scorta di un scrittura degli avogadori di comun presentata il 10 aprile dello stesso anno, di studiare un nuovo «piano» riguardante la giustizia criminale, Chiodo individua il punto attorno al quale si avviteranno e si areneranno per 15 anni i tentativi di una riorganizzazione complessiva dello Statuto veneto. Da quel momento, in effetti, due diverse magistrature — appunto gli aggiunti da un lato, i sopraintendenti dall’altro — si occuperanno, senza costrutto per 10 anni, dei due rami, civile e criminale, del diritto vigente nello stato della Serenissima, fino al 4 settembre 1794, quando il senato comanderà la riunificazione delle due «conferenze».
Siamo dunque al 10 aprile 1784; toni passionali e accenti illuministici (138) animano la scrittura degli avogadori di comun Zuanne Dolfin, Ludovico Angaran, Gasparo Gherardini. L’analisi dei problemi in campo è serrata e provocatoria: la materia criminale, in uno stato ben regolato come dovrebbe essere quello veneziano, è particolarmente negletta e non
già apoggiata alle leggi, ma ai pensamenti vari e capricciosi o dei ministri del fisco o dei diffensori dei rei, e al più sostenuta dai casi e dai giudizi, ed anche questi vari secondo le varie intelligenze e circostanze; sicché dove per le più sacre massime legali lo scopo della giurisprudenza criminale deve esser quello di preservar l’innocenza, d’impedir l’impunità dei delitti, di toglier persino ai giudici stessi possibilmente l’arbitrio (139).
Posta in questi termini la scrittura avogaresca mette in discussione alcuni cardini della giustizia veneta a cominciare dall’arbitrio del giudice, ma non meno dura si rivela, in seguito, la sottolineatura della pluralità dei metodi tra la Dominante e la Terraferma e fra le stesse magistrature veneziane (140), per cui si renderebbe necessaria una riunificazione complessiva della legislazione di tutto lo stato veneto (141); poco meno che coraggiosa la denuncia degli abusi del metodo inquisitorio, anche nei casi minori (142); convinta la proposta di separare definitivamente, una volta per tutte, il diritto sostanziale dalle norme che regolano la procedura (143). Lievemente deludente, tuttavia, ma non potrebbe essere altrimenti, il tono della proposta che ruota attorno all’idea di un riordino complessivo della legislazione che accolga anche le esigenze di territori e giurisdizioni poggianti su principi diversi (144).
Il decreto del senato del 3 giugno 1784 (145) istituisce dunque il magistrato degli aggiunti sopraintendenti al sommario delle leggi, ma, a fronte dell’ampio respiro complessivo della scrittura degli avogadori, il consesso legislativo accoglie solamente la parte teoricamente più restrittiva di quella, che interpreta alla fine il compito di una riforma del sistema criminale in termini di riordino e razionalizzazione dell’esistente (146). Un argine preventivo è dunque preposto in partenza ai compiti della neonata magistratura che intanto, contestualmente alla nomina da parte del senato dei suoi membri, elegge come proprio «assistente» una vecchia conoscenza come il giurista Vincenzo Ricci, non nuovo, come abbiamo visto, a caute aperture in senso umanitario del sistema penale veneto (147).
E in effetti il suo Ragionamento intorno alla Collezione delle Venete leggi criminali (148) costituisce probabilmente il primo, forse unico in epoca repubblicana, pubblico e organico intervento dall’«interno» sui problemi della sistemazione e riorganizzazione del diritto veneto. La prosa è decisa quando Ricci indugia sui precedenti storici, sui quali è preciso ed informato, denunciando le inerzie e i fallimenti di secolari tentativi; più larvata e allusiva quando sfiora i temi di scottante attualità (149). Ciò non toglie che egli affronti con piglio vivace alcuni nodi dirimenti della questione, a cominciare dagli inconvenienti indotti dalla particolare natura dello stato veneziano, nel quale le leggi, scrive Ricci,
derivano non pure dalla sovrana potestà legislatrice per eminente suo diritto [cioè a dire il maggior consiglio] ma da vari Consessi ancora ne’ quali ancora per sua volontà fu esso diffuso e siccome la custodia esecuzione e compilazione loro è commessa alle diverse rispettive Magistrature, così uno de’ più forti impedimenti al buon effetto dell’opera potrebbe forse per la natura della cosa essere proceduto dal non facile ed uniforme assenso di tali Potestà e Presidenze, le quali per conseguire il meditato utile fine è necessario che tutte unite concorrano al medesimo oggetto con unanime consentimento (150).
Pur mostrandosi favorevole, in linea teorica, ad un codice sostanziale e processuale per Venezia, «necessario assolutamente ad ogni ben costituito governo», che detti le «regole sicure delle azioni» e serva altresì da «guida infallibile a’ Giudici» (151), Ricci non può che prendere atto, fra le righe, della realtà veneziana e degli insormontabili problemi politico-istituzionali che essa pone ad un rinnovamento radicale del suo sistema giudiziario. La logica delle cose impone ben più modesti obiettivi, la solita razionalizzazione dell’esistente o, al massimo, la sistematizzazione delle «forme dei criminali giudizi». Quando la proposta verte sull’armonizzazione delle differenze tra il sistema della Dominante e quello della Terraferma, è lo stesso Ricci ad incaricarsi di ridimensionarne la portata storicamente innovativa sottolineando come, secondo il suo modo di vedere, già attualmente non esistono grandi differenze nello spirito degli statuti e delle leggi delle due realtà (152).
La proposta del Ricci, approvata dagli aggiunti e fatta confluire in una scrittura informativa diretta al senato in data 22 agosto 1785 (153), rimane dunque «un’ipotesi meramente sistematoria», e dunque inadeguata «se qualcuno avesse immaginato potesse essere qualcosa di più, cioè un sistema generativo di riforma delle concezioni-strutture sostanziali su cui l’amministrazione della giustizia penale veneziana aveva funzionato e continuava a funzionare»(154).
Il prosieguo della vicenda ci tramanda, fino al 1790, una teoria alquanto ripetitiva di scritture informative, rapporti sulla situazione dei lavori di raccolta delle leggi (155), lamentele sugli ostacoli incontrati, soprattutto dal Ricci, nell’opera di esplorazione degli archivi delle magistrature dello stato al fine di trarne delucidazioni e copie di leggi (156). Non mancano per questo coraggiose, anzi radicali, ma alla fine fallimentari, incursioni nella materia carceraria che, tra l’altro, con le ricorrenti proposte di sostituire alla pena del carcere quella del lavoro, paiono porsi allo stesso livello, e forse di più, di precedenti elaborazioni e proposte che scaturiscono dal contesto europeo (157).
Su un altro, altrettanto impegnativo, fronte, quello della tortura giudiziaria, si discute, anche qui senza soverchie autocensure, pur evitando di giungere a deliberazioni formali definitive. Tra il 1786 e il 1787 una scrittura dei capi della quarantia criminal impegna importanti magistrature in un dibattito circolare sulla realtà e l’efficacia della tortura nel sistema veneziano. Gli accenti umanitari dei capi della quarantia, «sgomenti» alla vista dei lugubri strumenti del tormento giacenti nelle stanze riservate dei signori di notte al criminal, si confrontano con le razionali e produttive considerazioni sulla desueta realtà della tortura nelle magistrature veneziane formulate dagli avogadori di comun incaricati dalla signoria di esaminare il problema. «La consuetudine introdusse la tortura, la consuetudine la tolse: par che non vi sia bisogno di legge, dove un male per quella via medesima onde ne è entrato ebbe anche l’uscita», rispondono gli avogadori, che, parrebbe di capire, invitano a lasciar perdere le sterili discussioni sui principi e su istituti non più applicati, e sollecitano a prendere in considerazione riforme ben più radicali, quelle che potrebbero essere introdotte dall’opera di riforma che stanno portando avanti gli aggiunti (158). Il segnale ufficiale e pubblico, che potrebbe essere importante come lo è stato in altri paesi — dalla Polonia a Ginevra — dell’abolizione definitiva (159) della tortura, da Venezia tuttavia non giunge.
Nel gennaio 1791 gli aggiunti comunicano al senato l’avanzamento dei lavori; suona beffardo, quasi comico — ma tant’è: l’efficienza della burocrazia veneziana conosce anche significative défaillances — l’annuncio della «scoperta», nell’archivio della Compilazione delle leggi, della «raccolta» seicentesca di Marino Angeli, e che «tale pregevole raccolta erasi continuata ed accresciuta sino al presente dai suoi successori, sebbene in questi ultimi tempi non piacesse ad alcuno di essi il seguire le traccie lodevoli segnate da quel primo benemerito compilatore» (160).
Il 27 settembre 1791 gli stessi aggiunti presentano un nuovo «piano» che si distingue da quello del 1785 per un’accentuazione dei motivi di critica all’assetto oligarchico della Repubblica. Il richiamo al «Supremo Maggior Consiglio» quale «centro e [...] sorgente di ogni giurisdizione» non è retorica pura, ma bensì la reiterazione di un motivo che percorre, quale filo rosso, tutta la storia delle contese politico-istituzionali della seconda metà del Settecento. Marcare l’accento sulla suprema potestà del maggior consiglio significa inevitabilmente sottolineare la necessità di un riequilibrio di poteri tra gli organi fondamentali dello stato, ergo, porre degli argini al consiglio dei X e agli inquisitori di stato.
Notevole è l’insistenza sulla certezza del diritto assicurata dal rigore di giudici «destinati essi ad osservare le leggi contenute nel codice», al di fuori di qualsiasi valutazione arbitraria. Importante il risalto conferito alla salvaguardia dei diritti degli imputati nei processi criminali, anche se è deludente, pur nella comprensibile genericità dell’affermazione teorica, la mancanza di proposte concrete atte ad inverare i buoni propositi, per cui, ad esempio, la giusta esigenza di concedere al «colpevole» il tempo e i mezzi di potersi difendere non si vede come possa accordarsi con il permettere all’imputato di «farlo da se stesso ne’ processi coperti dall’impenetrabile velo del Rito». A seguire l’illustrazione di un immaginario «albero» della veneta giurisprudenza, con le suddivisioni, ormai canonizzate con le loro diramazioni interne, tra persone, delitti e forme dei giudizi (161).
La parabola sta per compiersi, la morte di Ricci, avvenuta nell’agosto 1793, sembra appesantire ulteriormente l’impasse nell’operato degli aggiunti. Nel civile i sopraintendenti, assistiti da Chiodo, fanno registrare un trend analogo a quello dei colleghi aggiunti al criminale (162). Una scrittura dei sopraintendenti Benedetto Marcello II e Paolo Bembo, datata 2 agosto 1794, oltre a fare il punto della situazione di correzione e collazione sugli autografi delle leggi civili stampate nello Statuto del 1729, pone l’accento su un problema che, è evidente, da sempre deve avere ostacolato la logica delle operazioni di compilazione delle leggi venete, la presenza cioè di molte materie miste con il criminale. Da ciò la prudente riserva dei sopraintendenti sulla produttività di un’opera che prescinda dal progresso dei lavori dell’altra magistratura e la proposta, diretta al senato, di unione in «conferenza» dei due magistrati (163).
L’idea dei sopraintendenti è perentoriamente accolta dal senato veneziano il 4 settembre successivo (164). Non vi è peraltro dubbio che l’ipotesi deve essere stata caldeggiata dal Chiodo.
L’idiosincrasia del compilatore verso la separazione dei due magistrati è rivelata dai suoi appunti autografi appartenenti all’epoca postrepubblicana (165) e da annotazioni coeve allo svolgersi degli eventi. Il 24 agosto 1795, infatti, si tiene quella che è probabilmente la prima e ultima seduta congiunta degli aggiunti e dei sopraintendenti. A sorpresa, almeno secondo quello che afferma Chiodo (166), dal che si deduce che la prassi di far intervenire alle sedute di lavoro di queste magistrature composte da patrizi anche gli assistenti non nobili di quelle non deve essere molto frequente, «fuvvi invitato il Chiodo, con esempio singolare, a dir parere». Invito vano, dato che, come scrive Chiodo, gli sforzi da lui personalmente profusi in quella sede al fine di provare, anche con una memoria scritta, «la necessità e l’utilità dell’unione de’ due Magistrati, onde l’oggetto della riforma de’ due codici civile e criminale riconcentrato fosse com’era prima del 1784 in un solo offizio a maggior perfezione e speditezza dell’opera» risultano inutili. Complici, sempre secondo Chiodo, il «privato interesse de’ ministri nel criminale, i quali temevano un danno od un peso dall’unione e dipendenza del Chiodo. Quindi la scrittura combinata fu di nessun conto».
Proprio gli appunti preparati da Chiodo per la conferenza del 24 agosto, che presumibilmente l’estensore avrebbe voluto si trasformassero in una vera e propria scrittura da inviare al senato, si concentrano sulla necessità di procedere oltre nell’unione delle due magistrature fino alla «condotta più razionale», cioè alla fusione totale di queste in un’unica magistratura affinché «il pubblico» abbia codici «emanati come da un’unica sovranità» (167). In realtà nemmeno la scrittura e le proposte alternative formulate nel prosieguo dalla «conferenza» trovano accoglienza in senato. Il punto controverso è da credersi risieda non tanto, o non solo, nella riluttanza degli aggiunti e dei sopraintendenti (168) ad accettare la prospettiva della riunificazione, a causa, sostengono, della netta distinzione del civile e del criminale; bensì nella proposta, forse provocatoria, chissà, di istituire, per il codice penale, «un collegio di cittadini pratici e conoscitori delle leggi per la formazione ordinata del codice, come fu in ogni tempo e da qualunque governo per la maggiore circospezione e dignità dell’opera praticato» (169).
Prospettiva rivoluzionaria, per Venezia, quella di affidare a tecnici del diritto — da intendersi, naturaliter, non patrizi — il compito di riformare il codice o comunque di por mano alla legislazione veneta con intenti di razionalizzazione dell’esistente. Giuristi, tecnici, pratici del foro, studiosi, tutto può andar bene quando, a latere, si tratta di aiutare nell’opera di indicizzazione e rubricazione; di consigliare sulle migliori soluzioni da adottare al fine di affrontare i problemi che via via si presentano; di suggerire in merito a nuove proposte da avanzare al senato. Eppure il limite oltre il quale ancora il regime aristocratico non va, ed è presumibile non potrà mai andare, è proprio quello di intaccare il monopolio esclusivo ed escludente del patriziato sulle cariche aventi rilevanza politico-istituzionale. Figuriamoci se la questione potrebbe vieppiù porsi nei casi in cui ciò che si adombra è un qualche, sia pur timido, rimaneggiamento in taluni gangli della costituzione veneta.
A mano a mano che ci si avvicina alla fine della Repubblica la vicenda della compilazione veneziana pare esaurirsi da sé, quasi per consunzione, non senza che ostacoli più prosaici di quelli immediatamente politici, come quelli finanziari sui quali i governanti veneziani insistono con particolare zelo, concorrano a frenare e a ridimensionare l’attività della magistratura dei sopraintendenti. A quest’ultima il senato veneto, con decreto del 6 agosto 1796, affida, con la soppressione definitiva del magistrato degli aggiunti, l’intera opera di compilazione, sia nel civile che nel criminale, con il Chiodo assistente unico del magistrato (170).
Nel settore civile l’ultimo atto di una certa rilevanza dei sopraintendenti, quando formalmente vige ancora la separazione rispetto agli aggiunti, è l’approvazione di un piano di rigorosa sistemazione formulato dal Chiodo risalente al 1789 (171). Sulla carta rimane invece un altro piano, ideato ancora una volta dal Chiodo, del 1795, nel quale l’intento di fornire per la prima volta una suddivisione del diritto civile in linea con le grandi elaborazioni della scienza giuridica moderna si accompagna, fra le righe, ad una volontà di proiettare questo nuovo modo di intendere il diritto su tutto l’arco territoriale della Repubblica (172).
Nel settore criminale la parabola è semmai ancora più stanca ed irrilevante. Dopo la scrittura degli aggiunti del settembre 1791 non pare che, da quello che risulta dalla documentazione superstite, ovvero da quella che finora è stato dato reperire, i deboli sforzi ulteriormente profusi abbiano più prodotto alcun frutto (173).
Sfumate le prospettive del codice civile, l’«ipotesi» del codice criminale è ancora più fantasia, a Venezia. Qualche patrizio veneto crederà di giustificare più tardi il fallimento, quando gli eventi si sono già incaricati di porre fine alla millenaria storia della Serenissima, con l’avversità della fortuna, «le pubbliche calamità», «la morte del compilatore [Ricci]» (174), una mera questione di tempo, dunque.
Ma la classe dirigente veneziana non vuole, non ha mai voluto il codice nel senso che tendiamo noi, oggi, ad attribuire a questo termine e che altri principi accolgono invece nel loro orizzonte teorico. Per vero dire, forse, vista l’articolazione particolare della sua realtà statuale, Venezia del codice proprio non ha bisogno.
7. Due secoli addietro la spietata esecuzione di una sentenza emanata dalla quarantia e fatta eseguire dal consiglio dei X per una vicenda dai toni analoghi, in cui le attenuanti a favore dell’imputata di omicidio del marito di cui ha denunciato le violenze paiono largamente prevalenti rispetto al caso settecentesco, rinviano ancora una volta ad un problema di «certezza del diritto», come scrive Alfredo Viggiano, Giustizia, disciplina e ordine pubblico, in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, pp. 825 ss. (pp. 825-861).
8. Cf. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, da intendersi naturalmente come lo studioso che con più coerenza ha teorizzato la stretta connessione tra arbitrium e funzione politica nello stato veneziano.
9. Sostanzialmente diversa la visione di Angelo Ventura, Politica del diritto e amministrazione della giustizia nella Repubblica veneta, «Rivista Storica Italiana», 94, 1982, pp. 589-608: va detto che leggiamo le sue fini osservazioni, espresse nel corso di una discussione con Gaetano Cozzi, come contestuali ad un’analisi della politica dello stato veneziano che riguarda l’epoca medievale.
10. Vedi in G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 319-410, l’importante capitolo d’ampio respiro Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento.
11. Ibid., p. 52.
12. Giovanni Antonio Querini, La giurisprudenza senza difetti, che da se medesima si difende contro il trattato del signor Lodovico Antonio Muratori, Venezia 1743.
13. Per questo non pare allo stato condivisibile l’opinione secondo cui il Querini si farebbe interprete di una tendenza all’interno della classe di governo veneziana favorevole a rapporti di più stretta aderenza alle cerchie romano-pontificie, cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, p. 52. Cozzi tuttavia sottolinea, a proposito della rinnovata fortuna del diritto romano in terra veneziana, il significato di riaffermazione di un principio di autorità dello stato (cf. ibid., p. 68). Sul Querini, scarne le notizie, è da vedersi Emmanuele Antonio Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, p. 28 e V, Venezia 1842, p. 36; Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, 1730-1764, Torino 1969, pp. 168-169; Corrado Pecorella, Studi sul Settecento giuridico, I, L.A. Muratori e i difetti della giurisprudenza, Milano 1964, pp. 152-154, al qual proposito va detto che, proprio perché il Querini non è un pratico in senso stretto, giusta la tradizione dell’avvocatura patrizia nella Repubblica di Venezia, la sua difesa della giurisprudenza e la condanna della degenerazione del foro assume toni accentuatamente moralistici. Conservato in A.S.V., Miscellanea manoscritti, filza 88, si trova un testamento dell’avvocato Giovanni Querini che non sappiamo se è il caso di attribuire di primo acchito all’autore della Giurisprudenza senza difetti.
14. Eccezione, fra le poche, la Sicilia borbonica: alcuno ha intravisto nella lotta antifeudale e nel rafforzamento degli interessi dello stato contro la giurisdizione ecclesiastica le ragioni dell’assunzione del diritto romano a guida del moto riformatore nell’isola. Et pour cause, il Regno meridionale è eccentrico rispetto al dominio del napoletano; cf. Ernesto Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e Ottocento, Napoli 1961, p. 12.
15. Vincenzino Formaleoni, Saggio critico della storia veneta, Venezia 1785, p. 83. Nella sua celebre Histoire il Laugier aveva, del resto pacatamente, fatto notare che «l’Etat de Venise avoit toujours été un Etat libre, mais [...] il n’avoit pas toujours été un etat indépendant. Car on peut avoir ses magistrats, ses loix, et sa jurisprudence à fois, et cependant obéir à un maître [...]. Je dis donc [...] que les Vénitiens ont été dans leur origine sujets de droit de l’Empire Romain»; cf. Marc Antoine Laugier, Histoire de la République de Venise. Depuis la Fondation jusqu’à present, I-XII, Paris 1759: I, pp. 54-55; del resto Laugier pare riprendere le seicentesche tesi di Amelot de la Houssaie.
16. «Il senso dell’opera dello Zuanelli era di dimostrare che diritto veneto e diritto comune dovevano esser visti e studiati unitariamente, come elementi di un unico sistema giuridico», scrive G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, p. 360.
17. La recensione di Scola è pubblicata nel «Giornale Enciclopedico» del gennaio 1774; ma è da vedersi riprodotta in Giornali veneziani del ’700, a cura di Marino Berengo, Milano 1962, pp. 373-376.
18. Ma Scola è un avvocato, e va detto che nelle sue posizioni si può anche più prosaicamente ravvisare l’adesione ad aspetti pratici di alcuni elementi fondamentali del diritto veneto che in Terraferma godono di una crescente fortuna; curiosa, da questo punto di vista, la proposta di un socio dell’Accademia Agraria di Treviso, Cristoforo Milani, il quale, preoccupato dai disagi arrecati alle povere genti delle campagne dalle liti forensi, anche sulle questioni più minute e interessanti la sfera degli interessi precipui della tradizionale famiglia contadina, propone l’introduzione di una «procedura rustica criminale», da intendersi fondata su procedure abbreviate, semplici e sommarie tali da conciliare le occupazioni dei contadini, le esigenze connesse alla necessità di salvaguardare i patrimoni delle famiglie e quelle legate agli impegni dello stato, spesso distolto da ben più importanti incombenze nel campo dell’amministrazione della giustizia da «semplici bagatelle» che, pur non giungendo «a turbare la quiete della società», vengono sublimate alla classe di delitti veri e propri, cf. Dissertazione sopra i mezi co’ i quali devono essere trattati gli agricoltori in uno stato e sopra i principi sui quali dovrebbero essere fondate l’Accademie di Agricoltura, in Treviso, Biblioteca Comunale, ms. 1868, II, cc. 64 ss. Sul tema della diffusione del diritto veneto in Terraferma cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 337 ss. Su un versante analogo a quello dello Scola sembra attestarsi il Sandi, il quale, trattando del diritto penale, constata come nella Repubblica di Venezia mancò chi «formasse un trattato che guidasse li nazionali giudici e forensi alla amministrazione ed al formulante ministero della ragion criminale veneziana; egualmente come sarebbe da desiderarsi mente virile e sodamente addottrinata di consumato giurista che con i suoi commentari servisse alla retta interpretazione, onde non rimanesse l’interpretare al capriccioso ingegno o appassionato cuore di alcuno»; cf. Vettor Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia, II, t. VII, Venezia 1771, p. 350. Sulla timidezza dello spirito riformatore del Sandi è da vedersi il giudizio di Franco Venturi, Settecento riformatore, V, L’Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, 1761-1797, Torino 1990, p. 171, e Francesco Dalla Colletta, I principi di storia civile di Vettor Sandi. Diritto, istituzioni e storia nella Venezia di metà Settecento, Venezia 1995.
19. Su questa figura, cui gli studiosi hanno negli ultimi tempi dedicato un’attenzione crescente, cf., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, all’indice; in una luce nuova Claudio Povolo, Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del ’600 all’anonimo manoscritto dei Promessi Sposi, Venezia 1993 (Memorie dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 50); Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca 1798-1806, Milano 1993, all’indice; e pure la noterella di F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, pp. 401-402.
20. Provvidenze del governo veneto per sistemare le proprie leggi ridotte in sommario con ordine di tempi e munite di osservazioni storiche ed informative opera rassegnata come un preliminare alla riordinazione dello Statuto civile voluto dal decreto dell’Ecc. Sen. 1781 22 dicembre agli Ecc. Signori Sopraintendenti ai Sommari delle leggi Z. Benedetto Giovannelli e Zan Battista Riva dalli due Deputati G. Battista Conti e Andrea Viola l’anno MDCCLXXXIII, in A.S.V., Compilazione Leggi, ser. II, b. 1; una nota manoscritta su un margine del documento attribuisce tuttavia lo studio al Chiodo. Indicativo è invece il tono del dispaccio di un rappresentante della diplomazia veneziana come Simon Cavalli, residente a Napoli dal 1770 al 1778. Egli legge nel decreto del sovrano napoletano, emanato nel 1774, riguardante l’obbligo della motivazione delle sentenze, un ostacolo all’arbitrio dei giudici, costretti ora invece ad emanare i loro giudizi attenendosi alla sola legge e alle circostanze del fatto preso in esame. L’elogio del Tanucci, «uno dei più grandi giureconsulti del secolo presente» ed estensore materiale del decreto, è conseguente, cf. A.S.V., Senato, Dispacci Napoli, filza 154; 6 dicembre 1774, nr. 7. Sul diritto veneziano delle origini è da vedere Lujo Margetiâ, Il diritto, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini-Massimiliano Pavan, Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 677-692: un saggio lineare e pacificamente aderente ad una linea di chiaro accordo con la tesi di un’ampia e ovvia diffusione, ab imis, del diritto romano nelle lagune venete; ciò conferma vieppiù la caratterizzazione politica della sua successiva, teorica, esplicita esclusione dalla gerarchia delle fonti del diritto veneziano. Molto sottile l’affermazione di Del Giudice secondo cui il ricorso al personale convincimento del giudice nei processi veneziani apre di fatto dei varchi alla penetrazione del diritto romano; sarebbe cioè ad intendersi che la cultura del giudice patrizio veneziano è già, naturaliter, impregnata dello spirito del giureconsulto; cf. Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, II, pt. II, Storia del diritto pubblico e delle fonti, a cura di Pasquale Del Giudice, Torino-Milano-Roma-Napoli 1898, p. 160.
21. Michel Porret, Le crime et ses circostances. De l’esprit de l’arbitraire au siècle des Lumières selon les réquisitoires des procureurs généraux de Genève, Genève 1995, p. 52. Zordan riconosce una delle caratteristiche precipue e appariscenti dell’ordinamento veneziano proprio nel ritenere «sempre possibile il reperimento della norma al suo interno» reputandosi «autosufficiente e non eterointegrabile, postulandosi implicitamente come completo», cf. Giorgio Zordan, L’ordinamento giuridico veneziano, Padova 1980, p. 214.
22. Marco Bellabarba, Le pratiche del diritto civile: gli avvocati, le «Correzioni», i «conservatori delle leggi», in Storia di Venezia, VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di Gaetano Cozzi-Paolo Prodi, Roma 1994, p. 799 (pp. 795-824).
23. Zeffirino Giambattista Grecchi, Le formalità del processo criminale nel dominio veneto, II, Padova 1790.
24. Cf. Biagio Brugi, Un manuale di diritto del prof. Angelo Matteazzi (1535-1600) con una pagina sul dominio veneziano dell’Adriatico, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 74, 1914-1915, pt. II, pp. 1861-1880. Su alcuni problemi del rapporto diritto comune-diritto veneto e sul ruolo dei giuristi in Terraferma cf. anche l’introduzione di Claudio Povolo all’opera L’assessore. Discorso del Sig. Giovanni Bonifacio in Rovigo MDCXXVII, Pordenone 1991, su cui è da vedersi la recensione e la messa a punto di Mario Ascheri, «Studi Veneziani», n. ser., 24, 1992, pp. 351-354. Va da sé che il problema coinvolge, nella sua apparente contraddizione, anche le discussioni sul culto della «classicità», cf. le importanti considerazioni di Piero Del Negro, La classicità nella cultura politica veneziana del Settecento, «Studi Veneziani», n. ser. 23, 1992, pp. 183-194.
25. «Venezia non conosce mai lungo l’arco della sua storia una giurisprudenza dottrinale sostanzialmente creativa come quella di diritto comune», cf. Silvia Gasparini, I giuristi veneziani e il loro ruolo tra istituzioni e potere nell’età del diritto comune, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano, a cura di Karin Nehlsen von Stryk - Dietrich Nörr, Venezia 1985, p. 103 (pp. 67-105); da cf. anche le osservazioni di Aldo Mazzacane, Lo stato e il dominio nei giuristi veneti durante il «secolo della Terraferma», in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 577-650 e il limpido quadro dei rapporti tra diritto veneto e diritto romano tracciato da Ernesto Garino, Il diritto civile, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 147 ss. (pp. 147-162).
26. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, p. 226. Più ottimista Guido Carlo Mor, il quale insiste sul principio secondo cui il diritto veneziano «non è, come a prima vista potrebbe apparire, un ‚diritto regionale’: fino al ’600 è il diritto di Creta, di Corone e Modone, fino al 1797 della costa dalmata e dell’Istria, come di Crema, di Bergamo, di Brescia, tutte terre ‚veneziane’ ma non venete»; cf. la Presentazione a Giorgio Zordan, L’ordinamento giuridico veneziano, Padova 1980, p. 7.
27. Siamo forse ai casi limite ma è da vedere la documentazione addotta da Berengo per sottolineare l’estraneità culturale, a XVIII secolo inoltrato, di alcune realtà territoriali della Dalmazia veneta, come le Craine, alle leggi veneziane in materia criminale per esempio; cf. Marino Berengo, Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta alla fine del ’700, «Rivista Storica Italiana», 65, 1954, p. 472 (pp. 469-510). Molto problematica anche per il dominio sulle isole Ionie la trattazione di Marco Folin, Spunti per una ricerca su amministrazione veneziana e società ionia nella seconda metà del Settecento, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 333-347, alla quale si aggiunga Alfredo Viggiano, Venezia e le isole del Levante. Cultura politica e incombenze amministrative nel Dominio da Mar del XVIII secolo, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 151, 1992-1993, pp. 753-795.
28. Si interroga, fornendo una risposta positiva, «circa il contributo del diritto veneziano alla formazione di un sentimento di comunanza» nell’intero stato veneto Luciano Pezzolo, Nella Repubblica veneta: il plurale e il singolare, «Studi Veneziani», n. ser., 21, 1991, p. 265 (pp. 247-268).
29. Ceferino Caro Lopez, Gli Auditori Nuovi e il dominio di Terraferma, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), I, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 261-311 (pp. 259-316).
30. Per più ampie e dettagliate considerazioni sul tema cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 334 ss., tra l’altro da vedersi alle pp. 341-342 le considerazioni sull’uso del rito sommario nel civile da parte dei rettori della Terraferma quale testimonianza della fortuna di alcuni istituti del diritto veneto nell’insieme del dominio. Da vedersi sarebbe il ruolo dei precedenti giudiziari dei grandi tribunali della Dominante nella penetrazione del diritto veneto in Terraferma. Per il XVIII secolo, e per il diritto di famiglia adombra una soluzione positiva Claudio Povolo, Polissena Scroffa, Fra Paolo Salpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, p. 233 e n. 51 (pp. 221-233). Riferendosi alla raccolta a stampa del Pavissi (Giuseppe Pavissi, Storia delle cause civili agitate e di finitamente decise, I-IV, Venezia 1765), Ascheri mette in evidenza l’importanza del precedente nel sistema civile veneziano, cf. Mario Ascheri, Tribunali giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna, Bologna 1989, all’indice. Altre considerazioni sul rapporto tra organi di appello e realtà del dominio nel diritto civile in Ernesto Garino, Fori di Terraferma e foro veneziano. Considerazioni sulla giustizia civile nella seconda metà del ’700, in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, Milano 1981, pp. 174. ss. (pp. 167-178).
31. Gaetano Cozzi, La Repubblica di Venezia in Morea. Un diritto per il nuovo Regno (1687-1715), in L’età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, a cura di Raffaele Ajello-Massimo Firpo-Luciano Guerci-Giuseppe Ricuperati, Napoli 1985, p. 782 (pp. 739-789).
32. Cf. Id., Repubblica di Venezia e stati italiani, p. 350, che tuttavia esclude questa eventualità.
33. Cf., da questo punto di vista, la notazione su alcuni problemi di carattere generale comuni a Venezia e alla Spagna nel campo dell’amministrazione della giustizia e della relativa riflessione sulle fonti dei rispettivi diritti che fa Giovanni Stiffoni, Venezia e Spagna a confronto nei dispacci diplomatici di Leopoldo De Gregorio marchese di Squillace, in Profili di storia veneta. Sec. XVIII-XX, a cura di Umberto Corsini, Venezia 1985, pp. 40-42.
34. Cf. Torino, Archivio di Stato, Regie Costituzioni, mazzo 24, fasc. 3, Stile giudiziario di Francia, Venezia e Milano; fasc. 39, Stile di Venezia nel concernente la revisione delle Sentenze criminali le sessioni straordinarie de’ Magistrati, le tariffe de’ Dritti de’ Tribunali, et j giorni ne’ quali si tiene Tribunale con il relativo sottofasc. Stile di Venezia concernente la giurisdizione de’ giudici inferiori in materia criminale, cc. n.n.
35. O dobrym porzadlai towarzystuva, «Monitor», 62, 3 agosto 1774, pp. 481-488; devo la segnalazione e la traduzione a Mariusz Affek.
36. Cf. «Monitor», 42, 27 maggio 1769, p. 347.
37. Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel Dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, p. 535 (pp. 495-539).
38. M.A. Laugier, Histoire de la République de Venise, IV, p. 12.
39. Per alcuni aspetti particolari della proliferazione della funzione giudiziaria cf. Alessandra Sambo, La spada della giustizia: giurisdizioni, inquisizioni, contenzioso, in I mestieri della moda a Venezia dal XIII al XVIII secolo, a cura di Doretta Davanzo Poli, Venezia 1988, pp. 79-85.
40. Una delle critiche che vengono appunto mosse alla natura del consiglio dei X nel corso dei dibattiti suscitati dalla Correzione del 1761 riguarda, per dirla con il Franceschi, «un’acerba difficoltà legale», il correttore Zeno si chiede infatti se in quel consesso «risieda una piena potestà legislativa e se ai suoi decreti possa darsi il nome di leggi nel senso inteso dai giureconsulti», cf Pietro Franceschi, Storia dei correttori eletti nell’anno 1761, in A.S.V., Correttori alle Leggi, b. 3, c. 97v.
41. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, p. 161.
42. M.A. Laugier, Histoire de la République de Venise, IV, p. 14. Analoga sembra l’ispirazione del Dictionnaire universel des sciences morale, économique, politique et diplomatique [...], nell’analisi del Gouvernement de Venise si tratta del consiglio dei X ponendolo tra i grandi consigli di stato; «tribunaux ordinaires» sono invece considerate le quarantie, cf. il t. XIX (Londres 1783), pp. 554 e 557.
43. In italiano nel testo originale.
44. Claude-Camille-François d’Albon, Discours politiques, historiques et critiques sur quelques gouvernemens de l’Europe, II, Neuchâtel 1781, pp. 152-153.
45. Jean-Jacques Rousseau, Du contrat social, l. IV, 5, pp. 134-135 dell’ediz. Paris s.d. (Flammarion).
46. Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences des arts et des métiers [...], Neuchâtel 1765, t. IV, p. 1088.
47. Gaetano Cozzi, La difesa degli imputati nei processi celebrati col Rito del Consiglio dei X, in Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, a cura di Luigi Berlinguer-Floriana Colao, Milano 1989 (La «Leopoldina». Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ’700 europeo, 9), p. 2 (pp. 1-87), da vedere in generale per ampi dettagli sulla procedura del consiglio. Semmai ancora più suggestivo è, di Id., «Ordo est ordinem non servare»: considerazioni sulla procedura penale di un detenuto dal Consiglio dei X, «Studi Storici», 29, 1989, nr. 2, pp. 309-320. In generale per l’amministrazione della giustizia penale nella Terraferma in rapporto all’attività delle magistrature della Dominante cf. Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, secoli XVI-XVII, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), I, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 155-258. Va da sé che, per molti aspetti, la storia della procedura penale e civile in vigore nella Repubblica di Venezia, dalla Dominante alla Terraferma, deve ancora essere approfondita, soprattutto con riferimento alle concrete articolazioni e all’evoluzione dell’attività processuale delle singole magistrature. Abbiamo citato e citeremo volta per volta gli studi che hanno gettato squarci di luce significativi su molti di questi aspetti, anche se proprio la dispersione dei singoli contributi, in difetto di un’organica ricostruzione generale, induce alcuni evidenti contrasti di valutazione fra i vari autori.
48. «Dalle sentenze e dagli atti non si dà appellazione, portando seco il rito dell’Eccelso l’inappellabilità; non si ammettono lettere avvogaresche, né i consigli di XL non s’ingeriscono in tali processi», cf. Marco Ferro, Dizionario del diritto comune, e veneto, II, Venezia 18452, p. 637. L’imputato Arnaldi, bontà sua, studia i precedenti (e fa bene, essi sono un po’ più importanti di quel che si pensi a Venezia) e le leggi vigenti, pensa ad una revisione del suo processo, ma muore in prigione senza che il suo «sogno» abbia un seguito concreto; cf. G. Cozzi, «Ordo est ordinem non servare», p. 320. In verità un codice settecentesco recante il titolo Origine del Consiglio di X, conservato in Venezia, Museo Correr, mss. Provenienze Diverse, 229, c. 292v, riporta una parte del consiglio dei X del 7 marzo 1576 riguardante «Intromissioni di sentenza col rito anco per disordine»; non siamo tuttavia riusciti a decifrare il breve seguito della frase, la circostanza è del resto da verificare.
49. G. Cozzi, La difesa degli imputati, p. 5.
50. Per furto di «palade» il consiglio dei X incarica i savi ed esecutori alle acque di procedere con le modalità del rito; cf. A.S.V., Compilazione Leggi, ser. I, b. 316, cc. 1124 ss., 26 gennaio 1762. Ma c’è anche chi vorrebbe far tutto da solo, ancora il consiglio dei X annulla infatti un processo celebrato dal magistrato all’Arsenal senza delega e per eventi la cui gravità non richiede l’applicazione del rito; cf. ibid., ms. 704, 9 maggio 1721.
51. Nicolò Donato (o Donà), Ragionamenti politici intorno al governo della Repubblica di Vinegia, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2586.
52. Ibid., c. 125. Se si dovesse giudicare quest’opera del patrizio veneziano dagli spunti racchiusi nella parte dedicata alle magistrature di giustizia crediamo di poter affermare che siamo in presenza di analisi e proposte che rasentano la stramberia e il cervellotico. Probabilmente ha ragione Piero Del Negro quando intravede la novità vera dei Ragionamenti nell’ostentata attenzione al problema delle relazioni politico-sociali tra le diverse classi del patriziato; cf. Piero Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello stato, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 133 (pp. 123-145).
53. G. Cozzi, «Ordo est ordinem non servare», p. 316. Tutta da verificare la circostanza riferita nel corso della Correzione del 1761 dal Malipiero secondo il quale, almeno a sentire la Storia del Franceschi, il 7 giugno 1751 era stata istituita una magistratura interna al consiglio dei X denominata dei «capi usciti», alla quale sarebbe stato affidato il compito di smaltire il carico processuale arretrato, Malipiero parla di 84 processi svolti in un anno, fino a quando quella speciale commissione non venne più rinnovata, cf. P. Franceschi, Storia dei correttori, c. 54.
54. Insiste su questi elementi Gianni Buganza, Il potere della parola. La forza e le responsabilità della deposizione testimoniale nel processo penale veneziano (secoli XVI-XVII), in La parola all’accusato, a cura di Jean-Claude Maire Vigueur - Agostino Paravicini Bagliani, Palermo 1991, p. 137 (pp. 124-138). Da ricordare quello che scrive su questo punto, nei suoi Mémoires, il patrizio fuoriuscito Leopoldo Curti: «la manière de procéder au criminel, suivie par ce corps, s’éloigne de celle de toute autre tribunal connû, et non seulement, il peut la pratiquer lui même», dove quel pratiquer crediamo vada inteso nel senso di una prerogativa di darsi da sé, sovranamente, le proprie regole interne e processuali; cf. [Leopoldo Curti], Mémoires historiques et politiques sur la République de Venise rédigés en 1792, I-II, s.l. 1795: I, p. 79. Sul Curti, essenziale ma efficace il ritratto disegnato da P. Del Negro, Proposte illuminate e conservazione, pp. 143-144.
55. A.S.V., Compilazione Leggi, ser. I, b. 316, c. 1290, 23 novembre 1795. Non si conosce l’esito di questa iniziativa, siamo del resto ai prodromi della caduta della Repubblica.
56. Ivi, Senato, Terra, filza 3050, 13 settembre 1794 e allegati. È un caso di unificazione in un unico processo di diversi episodi di assassinio compiuti nel territorio di Vicenza. Il consiglio dei X constata l’impossibilità di celebrare il processo — 14 volumi, 13 detenuti, 40 inquisiti — in tempi ordinari viste anche le occupazioni dei giudici dello stesso consiglio. Interessante il fatto che ci si richiami a non rari precedenti («casi consimili»). Ad una prima lettura del decreto del 14 maggio 1794 emanato dal consiglio dei X qualche ambiguità potrebbe sussistere sulle personalità dei sedici soggetti che dovrebbero comporre il collegio straordinario; il richiamo a persone che «altre volte abbiano posto voto in questo consiglio» parrebbe costituire un riferimento a membri del patriziato veneziano già componenti del consiglio dei X. Tuttavia la lettura delle successive scritture non lascia spazio a dubbi sulla circostanza che per consiglio si debba intendere quello cittadino di Vicenza. Da notare infine che l’organo straordinario che viene in seguito composto fatica a funzionare per le reiterate rinunce di un certo numero dei suoi componenti.
57. Il problema della polizia si porrà modernamente, a Venezia, solamente al tramonto della Repubblica. È per questo da vedere Paola Tessitori, L’«utopia» di Giuliani. Un progetto di polizia per Venezia (1797), in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 369-382.
58. Sui rapporti tra consiglio dei X e poteri della Terraferma in materia criminale cf. C. Povolo, Aspetti e problemi, pp. 237 ss.
59. [L. Curti], Mémoires historiques et politiques, II, pp. 119-122.
60. «A Venise, le grand conseil a la législation; le pregadi, l’exécution; les quaranties, le pouvoir de juger. Mais le mal est que ces tribunaux différens sont formé par des magistrats du même corps; ce qui ne fait guère une même puissance»; cf. Esprit des loix, XI/VI, Paris 1892, t. I, p. 255.
61. Diverse considerazioni a questo proposito in P. Del Negro, Proposte illuminate e conservazione.
62. Ma è da vedersi l’esposizione da vertigine del modo di «proceder» in quarantia di M. Ferro, Dizionario, p. 528: «la parte del proceder si pone nei placiti al consiglio di XL al criminal, dopo le dispute fatte ad offesa dell’avvogadore, ed a difesa degli avvocati, e quando non sia presa colla pluralità dei voti, s’intende che il reo non merita alcuna pena, e lo si lascia in libertà. Nel caso poi di patta, la quale ha luogo non solo se i voti fossero eguali, ma anche quando ve ne fosse uno solo di più da una parte, allora il proceder si deve ballottare per ben cinque volte; nell’ultima ballottazione poi non si devono computare le palle non sincere, ma pubblicare quello, dice la legge, che per il maggior numero di sì o di nò rimarrà deliberato; se poi avvenisse che anco in tale ultima ballottazione seguisse pendenza, non s’intende presa cosa alcuna, ed in tal caso è tenuto l’avvogadore a parlare nel giorno susseguente. Quando venga preso il proceder, l’avvogadore, i capi, la signoria mandano le parti della condanna; le quali, se sieno più di due, si detraggono quelle che hanno minor numero di palle, cosicché abbiano a rimanere due sole. Queste si ballottano col bossolo affermativo, e col non sincero, e la superiore di voti s’intende presa, quando i voti non sinceri non superino la metà, e non siano eguali agli affermativi, nel qual caso si ballottano cinque volte, e se nessuna parte supera la metà dei voti, si deve mandare un’altra parte differente».
63. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 202-203.
64. Copia della legge dell’11 settembre 1708 in A.S.V., Compilazione Leggi, ser. I, b. 65, fasc. III, cc.1068-1070: si tratta di un provvedimento che tende ad accelerare i lavori della quarantia prevedendo misure di razionalizzazione della distribuzione del lavoro fra i giudici, un aumento delle frequenze delle riunioni di lavoro per esaminare i singoli casi, limitazioni alla pubblicità dei cosiddetti placiti (accuse) avogareschi fatti in quarantia, l’unico magistrato cioè dinanzi al quale essi vengono praticati anche nei casi di delitti di sangue. Una proposta di legge di analogo tenore viene invece stranamente respinta, sempre in maggior consiglio, il 27 dicembre 1677; cf. ibid., b. 136, fasc. II.
65. M. Ferro, Dizionario, p. 443.
66. «Si potrebbe nondimeno questionare se giovi fare i placiti pubblicamente, o se sia meglio farli a porte chiuse; certo è che le leggi pei casi minori permettono la secretezza, e pei casi atroci e gravi i placiti si fanno pubblicamente o secretamente, secondo le circostanze che li accompagnano. La stessa legge stabilisce il metodo col quale devono esser trattati in placiti, e mette regola ad alcuni disordini ch’erano invalsi», così ibid.
67. [L. Curti], Mémoires historiques et politiques, II, pp. 112-113.
68. Della Republica e Magistrati di Venetia libri cinque di Gasparo Contarini [...], mi servo dell’ediz. di Venezia del 1678, p. 112.
69. N. Donà, Ragionamenti, c. 143.
70. È uno dei fili conduttori della ricerca di G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, soprattutto il cap. II.
71. M.A. Laugier, Histoire de la République de Venise, IV, pp. 29-30.
72. N. Donà, Ragionamenti, cc. 136 e 138.
73. Per il rito dell’avogaria di comun cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, p. 103.
74. In., Note sopra l’Avogaria di Comun, in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, p. 555 (pp. 547-557).
75. Bartolomeo Melchiori, Miscellanea di materie criminali volgari, e latine, composta secondo le leggi civili e venete, Venezia 1741, p. 298.
76. [L. Curti], Mémoires historiques et politiques, I, pp. 84-85.
77. Ricordiamo che l’avogadore, nei processi davanti al consiglio dei X, segue, con funzioni di controllo e senza diritto di voto, la procedura in tutte le sue fasi; tra l’altro redige le relazioni e il costituto opposizionale; presenta all’imputato il collegio criminale; procede alla revisione dei capitoli difensivi; legge le allegazioni difensive; chiede solennemente al plenum del consiglio se si intenda procedere o meno alla condanna.
78. G. Cozzi, «Ordo est ordinem non servare», pp. 314-315.
79. Sugli esecutori contro la bestemmia cf. anche Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel ’500-’600. Gli Esecutori contro la bestemmia, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), I, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 433-528.
80. Secondo G. Buganza, Il potere della parola, p. 127, il rito dei signori di notte è quello della quarantia criminal. Da vedersi tuttavia Filippo Argelati, Pratica del foro veneto, Venezia 1751, p. 109, che parla di procedure diverse per altrettante fattispecie di reato, dunque «processo secreto» per i furti; «trattazione della causa con avvocati» per «espilazione di eredità». Rileviamo, a mo’ d’esempio, che in un caso gli interrogatori dei testi sono condotti dalla quarantia criminal, il processo e la sentenza vengono demandati ai signori di notte, cf. A.S.V., Signori di Notte al Criminal, Processi, b. 7, fasc. Domenico Zara, 22 ottobre 177[?], responsabile di omicidio. Sulla peculiarità del rito degli esecutori contro la bestemmia insiste Gaetano Cozzi, Note su tribunali e procedure penali a Venezia nel ’700, «Rivista Storica Italiana», 77, 1965, p. 944 (pp. 931-952), che cita un’ampia casistica. Ma gli esecutori contro la bestemmia possono agire anche su delega del consiglio dei X, in questo caso va da sé che la procedura applicata è quella del rito, cf. A.S.V., Esecutori contro la Bestemmia, b. 75, sentenza dell’8 luglio 1750 in processo celebrato, su delega del consiglio dei X, contro Stefano Ferrone per deflorazione e contagio di «mal gallico». Secondo Buganza è invece tout court il rito del consiglio dei X quello praticato dagli esecutori, cf. G. Buganza, Il potere della parola, p. 126, ove si rifà al Pasqualigo, ma cf. anche dello stesso Il teste e la testimonianza tra magistratura secolare e magistratura ecclesiastica, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 145, 1986-1987, p. 261 (pp. 257-280).
81. Gaetano Cozzi, Religione moralità e giustizia a Venezia: vicende della magistratura degli Esecutori contro la Bestemmia, «Ateneo Veneto», 178, 1991, p. 8 (pp. 7-95).
82. Ibid., p. 23.
83. Giovanni Scarabello, Figure del popolo veneziano in un processo degli Esecutori contro la Bestemmia alla fine del ’700, «Studi Veneziani», 17-18, 1975-1976, p. 338 (pp. 321-398).
84. Lionello Puppi, Il mito e la trasgressione. Liturgia urbana delle esecuzioni capitali a Venezia tra XIV e XVIII secolo, ibid., n. ser., 15, 1988, p. 129 (pp. 107-130).
85. Riferendosi soprattutto al versante del diritto di famiglia Cozzi ha parlato di «sensibilità nuova» rifacendosi non a caso ad una categoria mutuata esplicitamente da Paul Hazard, cf. Gaetano Cozzi, Note su Carlo Goldoni, la società veneziana e il suo diritto, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 137, 1978-1979, p. 147 (pp. 141-157).
86. Sul problema cf. la notevole messa a punto di Paolo Preto, L’Illuminismo veneto, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, pp. 1-45.
87. Gianni Buganza, Post scriptum. Destino veneto e diritto austriaco, «Studi Veneziani», n. ser., 26, 1993, pp. 237-238 e 250 (pp. 197-251).
88. Un invito allo studio del funzionamento concreto delle istituzioni giuridiche veneziane in Enrico Basaglia, Il diritto penale, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 168 (pp. 163-178). Nel caso dell’Inghilterra, in base a queste considerazioni, vi è chi contesta la caricatura di un paese che non conosce riforme nel campo del diritto penale. Anzi, assisteremmo ad un trend di riforme de facto che tra l’altro avrebbe condotto ad una maggior sollecitudine per i diritti degli imputati; cf. Jim A. Sharpe, The Failure to Reform the Criminal Law in Eighteenth-century England: Some Problems of Interpretation, in Illuminismo e dottrine penali, a cura di Luigi Berlinguer-Floriana Colao, Milano 1990 (La «Leopoldina». Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ’700 europeo, 10), pp. 497-499 (pp. 483-500).
89. A.S.V., Compilazione Leggi, ser. I, b. 364. Tra l’altro l’ultima data è rappresentata dalla consulta della signoria.
90. Ibid., b. 87, codice senza titolo e senza carte numerate, successivo alla c. 259 nel quale si trova uno scritto, probabilmente una copia settecentesca, dal titolo Nella materia di biastemia. Informazione. Trattasi di una scrittura inviata da Nicolò Gabrielli all’avogadore Bernardo Zorzi, nella quale si parla del «modo che si osserva nell’officio della Biastemia nel formar delli processi». G. Cozzi, Note su tribunali e procedure penali, p. 945, sostiene che comunque nel Settecento la tortura, negli esecutori contro la bestemmia, è probabilmente un provvedimento alquanto raro.
91. M. Ferro, Dizionario, pp. 803-804.
92. Vittorio Lazzarini, L’avvocato dei carcerati poveri a Venezia, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 70, 1910-1911, pt. II, pp. 1471-1507; Giovanni Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell’età moderna, Roma 1979, pp. 17-18 e 158-159.
93. Sul tema è d’obbligo il rinvio a G. Cozzi, La difesa degli imputati, passim, dove tra l’altro si prende in esame la cultura degli avvocati che intervengono nei processi celebrati con il rito; a p. 19 è da vedersi il caso limite in cui l’imputato, a fronte dell’intimazione delle difese, replica candidamente che si avvarrà di un avvocato.
94. È dei primi decenni del Settecento l’analisi svolta da Bartolomeo Melchiori della procedura con rito nei casi delegati in Terraferma: i costituti, i capitoli a difesa e le allegazioni devono «essere scritte dalli cancellieri e non altrimenti presentate in scritto da rei, né da avvocati o procuratori, col mezzo de’ quali niente s’opera. E così viene praticato dalli cancellieri più pontuali e sebbene viene fatto in contrario non deve imitarsi», è un’esplicita ammissione di una prassi che si sta facendo progressivamente valere anche in Terraferma, cf. Bartolomeo Melchiori, [raccolta di materie criminali], in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2083, cc. n.n.
95. [L. Curti], Mémoires historiques et politiques, I, p. 81.
96. Vincenzo Ricci, Orazione di genere giudiziale [...], I, Brescia 1779; ci serviamo tuttavia della seconda edizione «più corretta» di Brescia dell’anno successivo.
97. Ibid., p. VIII.
98. Ibid., p. 41. Per le prese di posizione dei giuristi veneti sul tema, dal Pasqualigo al Grecchi, cf. G. Cozzi, La difesa degli imputati, pp. 28 ss. Ma è da tener conto, prima di Beccaria, dell’attività dell’avvocato Leopoldo Curti, autore di famose Arringhe stampate a Venezia nel 1755, nelle quali lo scrupolo umanitario è già modernamente inteso come riflessione razionale sul complesso rapporto tra reati e pene.
99. G. Cozzi, Note su tribunali e procedure penali, pp. 945-946.
100. Si tratta del dibattito sulla introduzione del nuovo regolamento giudiziario austriaco nella Venezia ora appannaggio degli Asburgo dopo la caduta della municipalità del 1797. I1 dibattito si svolge in una commissione appositamente costituita nel 1799, cf. A.S.V. (Sezione della Giudecca), Tribunale Revisorio, Protocolli di Sessione, Regia Commissione al Regolamento Giudiziario, reg. 34, cc. 139 ss., seduta del 14 luglio 1801; cf. anche Michele Simonetto, Magistrati veneti e politica giudiziaria austriaca. Problemi e contrasti di potere in una fase di transizione 1798-1805, «Studi Veneziani», n. ser., 26, 1993, in partic. pp. 158-187 (pp. 117-195).
101. G. Cozzi, Note su tribunali e procedure penali, p. 952.
102. L’episodio è descritto in Id., Note sopra l’Avogaria di Comun, pp. 554-555.
103. «Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e tanto più utile», Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, § XIX; cf. l’ediz. a cura di Franco Venturi, Torino 1978, p. 47.
104. Da vedersi in proposito le considerazioni di Ettore Dezza, Note su accusa e inquisizione nella dottrina settecentesca, in Illuminismo e dottrine penali, a cura di Luigi Berlinguer-Floriana Colao, Milano 1990 (La «Leopoldina». Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ’700 europeo, 10), pp. 185-239.
105. La lettera è di Giuseppe Visconti di Saliceto da vedersi ora in Cesare Beccaria, Carteggio, [pt. I: 1758-1768], a cura di Carlo Capra-Renato Pasta-Francesca Pino Ugolini, Milano 1994, p. 628 (vol. IV dell’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, diretta da Luigi Firpo-Gianni Francioni).
106. Sulla vicenda è d’obbligo il rinvio a Gianfranco Torcellan, Cesare Beccaria a Venezia, «Rivista Storica Italiana», 76, 1964, pp. 720-748, ristampato in Id., Settecento veneto e altri scritti storici, Torino 1969, pp. 203-234.
107. Linguet, nei suoi «Annales Politiques et Littéraires», pubblicando gli Anecdotes très singulières sur le livre intitulé des délits et des peines, scrive che «le chapitre des accusations secrètes, quoique très foible et trivial, alarma Venise»; il passo è riprodotto in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 497 dell’ediz. curata da F. Venturi.
108. «Palinodia stupefacente» è stato definito da Cozzi il revirement veneziano che attribuisce, in parte, anche ad una sorta di adesione ad una moda che accomuna nel consenso i philosophes; «Di quello stesso favore partecipava, dunque, anche Cesare Beccaria [...]: non preoccupava più; si sapeva che non mirava a sovvertire particolarmente il governo della Repubblica; e così quella sua umanità, quel suo levarsi contro le crudeltà e le ingiustizie, ora piacevano. Non ci si accorgeva, però, che se non turbava più la classe dirigente, convinta di poter controllare il moto di idee suscitato dalle lumières, il libro continuava ad esercitare un’azione capillare, giungendo agli strati inferiori della popolazione, quelli dove le ingiustizie e le crudeltà avevano un suono aspro, sofferto, dove la volontà di rivolta contro di esse poteva diventare rovente», cf. Gaetano Cozzi, Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel Settecento, in AA.VV., Sensibilità e razionalità nel Settecento, II, Firenze 1967, p. 386 (pp. 373-421).
109. Anche nel caso dell’Inghilterra non manca chi attribuisce l’evoluzione in senso umanitario e garantista della prassi giudiziaria a motivi estranei al dibattito dottrinale europeo e soprattutto illuminista; cf. John M. Beattie, Crime and the Courts in England. 1660-1800, Oxford 1986, p. 621.
110. Insiste su questo punto, nel senso che il «problema penale si sposta al centro degli interessi dei philosophes solo con l’opera di Beccaria», Giovanni Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976, p. 459. Deciso nell’attribuire a Beccaria la capacità di amplificare idee che in Europa erano ormai mature Jean Graven, Beccaria et l’avènement du droit penal moderne (1738-1794), in Id., Grandes figures et grandes oeuvres juridiques, Genève 1948, p. 183.
111. È da sottoscrivere dunque l’affermazione secondo cui «ciò che più pesava ai sudditi della Repubblica veneta non era la severità delle condanne penali — che anzi erano piuttosto miti — ma l’assoluta discrezionalità degli organi giudiziari ed in particolare degli Inquisitori di Stato»; cf. Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956, p. 155. È dunque qui il punctum dolens di tutto il sistema veneziano; il cosiddetto «livello concreto — e non tecnico — di protezione giuridica del singolo» (esaltato da G. Buganza, Post scriptum, p. 251) corrisponde esattamente alla sacrale discrezionalità dei giudici, cioè a dire alla celebrazione del fatto in sé. Per un contesto come quello ginevrino sono da vedersi le positive considerazioni sul ruolo dell’arbitrio del giudice (positivo), distinto da quello del sovrano (negativo) di M. Porret, Le crime et ses circostances, p. 23.
112. Notoriamente il Leitmotiv è stato formulato da F. Venturi, Settecento riformatore, I, pp. 581-582. A guardare tuttavia il volume di Settecento riformatore dedicato alla Repubblica di Venezia, le coordinate sulle quali sono state calibrate le precedenti ricerche paiono mutate. Dei problemi della giustizia nell’età veneta delle riforme, nonostante la ponderosa serie di non indifferenti studi in proposito, nel volume di Venturi si celebra la pratica inessenzialità.
113. La citazione di Beccaria e dei grandi riformatori del secolo XVIII si rivela del resto, in molti pubblicisti, una sorta di obbligato richiamo retorico sempre più inflazionato col tempo, a cominciare dal Ferro e dal suo Dizionario. Chiaramente beccariana e di ispirazione contrattualistica, come in verità finora mai abbiamo constatato in altri esponenti del patriziato, è una Orazione sopra le leggi criminali di Gian Domenico Tiepolo (A.S.V., Archivio Tiepolo, II, b. 51, c. 158), netta e senza reticenze nel denunciare il principio della vendetta sul quale si fonda la legislazione criminale e nel contestare lo squilibrio tra qualità del reato e quantità della pena, per cui si finisce per «più severamente punire una bestemmia ed uno spergiuro anche leggero, che un ladrocinio, un omicidio, un tradimento ecc.». Ma, insomma, tutto rimane lì, inerte, nel più perfetto stile del discorso politico veneziano.
114. Lo stesso Giovanni Scola, pur impegnato dal suo «Giornale Enciclopedico», che sarebbe per questo da esaminarsi in dettaglio, in una interessante discussione su molteplici aspetti del problema riguardante i fondamenti del diritto di punire, è interessato, da vero enciclopedista, a tanti altri aspetti culturali e sociali del vivere civile. È singolare invece che proprio un «tecnico» e non un giurista come il Lorgna rifletta, sia pure frammentariamente e in appunti inediti, sull’opportunità e sull’efficacia di un codice per la Repubblica veneta. Egli accoglie e sviluppa implicitamente motivi propri del giurista aquilano Giacinto Dragonetti (1738-1818), uno dei riconosciuti protagonisti della battaglia regalista e antifeudale nel Regno di Napoli. Dragonetti riscuote fama europea, seconda solo forse a quella di Beccaria, quando non viene confuso con questi, a partire dal 1766, quando a Napoli pubblica un Trattato delle virtù e de’ premi, nel quale, tra l’altro — ispirandosi a Diderot e a Shaftesbury — si schiera per una legislazione premiale nel campo dell’amministrazione della giustizia secondo una linea più utilitaristica ed efficientista rispetto a quella di Beccaria (devo questi giudizi a un parere di Raffaele Ajello che ringrazio). Nel Veneto il trattato è diffuso a puntate dal «Corrier letterario» di Griselini nel 1766 e ristampato in volume dal libraio Graziosi nel 1767; la segnalazione è di G. Torcellan, Cesare Beccaria a Venezia, p. 737 e n. 35; è un’edizione che tuttavia non siamo ancora riusciti a reperire: secondo l’Union Catalogue della Library of Congress di Washington, quella veneziana di pp. 72 dovrebbe essere la seconda in assoluto dopo quella di Napoli. Singolare strascico ottocentesco della fortuna di Dragonetti nel Veneto è un’edizione di Delle virtù e de’ premi stampata a Este, senza note tipografiche, nel 1841. Il tema è da approfondire, le carte di Lorgna in merito sono state brevemente studiate da Calogero Farinella, L’accademia Repubblicana. La Società dei Quaranta e Anton Mario Lorgna, Milano 1993, pp. 77-78. In generale anche se in parte fuorviante è da vedersi Benedetto Croce, Il libro «Delle virtù e dei premi» del Dragonetti, in Id., Aneddoti di varia letteratura, III, Bari 1954, pp. 118-120; AA.VV., Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa (Convegno di studi per il 2508 della nascita), Roma-Bari-Milano 1990, all’indice.
115. Computo della carcerazione preventiva nelle condanne emanate dalla quarantia criminal (A.S.V., Compilazione Leggi, ser. I, b. 316, cc. 1264 ss., 21 aprile 1789 in quarantia criminal). Ridimensionamento del valore della prova testimoniale su cui si basa quasi esclusivamente il processo veneziano (ivi, Consiglio di X, Criminali, filza 157, fasc. anno 1783, 5 dicembre 1783, caso ex podestà di Asola contro Tosio: il processo contro Tosio, accusato di aggregare banditi e vagabondi non è valido, i testimoni sono solo de auditu «che in un fatto pubblico non fanno prova, o appena servono ad inquirendum», un processo dunque solo testimoniale con labili indizi); la stessa prova testimoniale è peraltro esaltata quando si tratta di portarla a discarico dell’imputato, anche in processi già formati e avanzati, celebrati con il rito (ibid., fasc. anno 1784, 29 marzo 1784, a Verona si rischia di condannare un imputato di omicidio sulla base di «indizi rimoti», si integri il processo già formato con altra testimonianza, anche se proveniente da un assassino matricolato); embrionali, ma pur sempre discrezionali, garanzie contro gli arresti arbitrari eseguiti senza aver constatato tempi, modalità e «de corpore delicti» (ivi, Signori di Notte al Criminal, reg. 2, c. 300, caso Baseggio, sentenza dell’avogaria di comun in merito ad arresto eseguito dai signori di notte, 20 dicembre 1785, il registro dovrebbe essere un capitolare, dunque la sentenza potrebbe anche costituire, si fa per dire, giurisprudenza); abbassamento della soglia di classe con la quale si trattano le azioni penali nei confronti di attentati alla pubblica autorità (ivi, Consiglio di X, Criminali, filza 159, fasc. anno 1793, caso Trento contro popolani di Bergamo: secondo l’avogaria di comun il difetto dell’inquisizione contro i popolani di Bergamo accusati di essersi sollevati contro il podestà Ottavio Trento sta da un lato nelle circostanze del delitto, in quanto non pare esservi premeditazione bensì giustificato rancore nei confronti di note malversazioni; dall’altro nel fatto che l’accusa è partita, ex post, da «lettere private» del Trento, dopo dunque la sua uscita di scena quale podestà di Bergamo, ciò dunque rafforza l’idea che si tratti di una contesa privata tra due soggetti aventi scarsa rilevanza pubblica). Sulle nuove concezioni in materia di rapporti tra malattia mentale e imputabilità cf. Michela Dal Borgo, La giustizia penale veneta e la malattia mentale: il caso di un contadino bellunese (1779), «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 137, 1978-1979, pp. 703-717 (anche nel Veneto si può rilevare un «atteggiamento più attento e critico nei confronti dell’imputabilità dei malati mentali», p. 705); e ancora della stessa I capi del Consiglio dei Dieci e la malattia mentale: considerazioni sulla realtà e sulla tutela degli alienati nel secondo ’700 veneziano, ibid., 139, 1980-1981, pp. 285-300 (si pone l’accento sulla contemporanea tendenza ad assolvere gli alienati mentali e a segregarli). Molto contraddittorio e vivissimo il fermento che scaturisce, sulla scorta dei notevoli mutamenti culturali dell’ultima parte del Settecento, attorno al diritto di famiglia, soprattutto in relazione al problema del divorzio, cf. Gaetano Cozzi, Note e documenti sulla questione del «divorzio» a Venezia (1782-1788), in «Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico in Trento», 7, 1981, pp. 275-360.
116. Oltre al citato Torcellan, Mario Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano 1989, all’indice.
117. Qualche cenno ibid., all’indice.
118. Riforma della legislazione criminale negli Stati di S.A.R. il Granduca di Toscana, Venezia 1787, pp. n.n.; la copia conservata in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciava, 65 C 144, presenta delle note manoscritte al testo della Leopoldina di qualche interesse il cui tono è sostanzialmente conservatore. Peraltro dura è la censura dell’arbitrio del giudice: «le leggi e non l’arbitrio debbono punire i delitti. Quelle sono imparziali, questo soggetto a passioni».
119. Secondo Maria Rosa Di Simone, Legislazione e riforme nel Trentino del Settecento. Francesco Vigilio Barbacovi tra assolutismo e illuminismo, Bologna 1992, p. 36, l’ediz. veneziana ha tre ristampe.
120. «Con particolare cura Ludovico Antonio Loschi dirigeva questa edizione, pubblicando un volume dopo l’altro, confortato anche dalla lettera che Filangieri gli scrisse riconoscente, dopo aver ammirato la correzione dell’edizione veneta, confrontata con la disordinata e negligente stampa napoletana», cf. Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di Franco Venturi, Milano-Napoli 1962, pp. 622-623. Prima della stampa dell’edizione veneta l’opera di Filangieri è già ampiamente diffusa e apprezzata nel Veneto; Alberto Fortis, scrivendo al cavaliere napoletano, lo informa che a Padova la sua persona ha suscitato «elogi quasi entusiastici», mentre «la lettura della Scienza della legislazione à rapito i migliori e più dotti», cf. la lettera datata S. Pier d’Arzignano, 29 dicembre 1780, conservata a Napoli, Museo Civico Gaetano Filangieri, Archivio Filangieri, A, vol. 28, fasc. 17. Giovanni Scola scrive una recensione al libro di Filangieri per il «Giornale Enciclopedico» (t. IV, aprile 1781, pp. 66 ss.) ove esalta il progresso delle scienze a Napoli che paragona nientedimeno a quello che si svolge in Europa.
121. Su di lui è ora da vedersi Sante Rossetto, La stampa a Treviso. Annali di Giulio Trento (1760-1844), Firenze 1989.
122. Jacques-Pierre Brissot de Warville, Teoria delle leggi criminali, I-II, Neuchâtel [ma Treviso] 1785.
123. Citiamo da G. Cozzi, Politica e diritto, p. 393, nelle pagine seguenti la fortuna veneziana dell’opera e l’uso di questa nel quadro dei tentativi di rinnovamento del diritto veneto. Ha segnalato e commentato questa traduzione anche Franco Venturi, Settecento riformatore, IV, La caduta dell’Antico Regime, 1776-1789, 1, I grandi stati dell’Occidente, Torino 1984, pp. 459-461.
124. Vi è naturalmente da interrogarsi sui motivi che inducono uno stampatore periferico come il Trento a pubblicare un’opera non esattamente conformista come quella di Brissot. La spiegazione in termini pratici, vale a dire «l’opportunità di stampare un’opera che offriva lavoro alla tipografia», è avanzata da S. Rossetto, La stampa a Treviso, p. 55; in questo senso è da vedersi, in generale, M. Infelise, L’editoria veneziana, p. 73.
125. Alla fine del tomo I dell’edizione italiana è pubblicata una lettera firmata da «G.A.L. Assessore», indirizzata al traduttore chiamato «Nobile Signor Conte», nella quale si esalta l’intrapresa editoriale.
126. J.-P. Brissot de Warville, Teoria delle leggi criminali, I, p. IX.
127. Per la fortuna di tante altre pubblicazioni di diritto in territorio veneto cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, cap. IV.
128. Di nuovo viene tuttavia pensato, nel 1786, il Codice per la veneta marina mercantile, del quale altri si occuperà in questo volume della Storia di Venezia, ma è anche da vedersi l’importante studio di Giorgio Zordan, Il codice per la veneta marina mercantile. I quarant’anni di elaborazione al tramonto della Repubblica, Padova 1981. Nella tradizionale logica compilatoria si inserisce invece il Codice feudale della Serenissima Repubblica di Venezia del 1780.
129. M. Ferro, Dizionario, pp. 752-753.
130. V., anche per le indicazioni bibliografiche, F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, capp. 2, 16, 19.
131. Cf. Miscellanea materie forensi, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1885 (= 9075), 5 maggio 1753 «Scrittura notabile del Sindico con Terminazione di Piano per istituire un Collegio di Sollecitatori [...]». Nel 1772 il maggior consiglio incarica, senza esito, una commissione formata da componenti la quarantia criminal, dei conservatori ed esecutori alle leggi (deputati alla sorveglianza sull’attività degli avvocati) e del magistrato del sindico (vigile sugli intervenienti) di studiare la realizzazione di due collegi per le rispettive figure di agenti del foro, cf. Ernesto Garino, Note sul problema dell’avvocatura in Lombardia e a Venezia nella seconda metà del XVIII secolo, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, a cura di Aldo De Maddalena-Ettore Rotelli-Gennaro Barbarisi, II, Cultura e società, Bologna 1982, pp. 1002-1003.
132. E. Garino, Note sul problema, p. 1005. Secondo Cozzi la legge è «ampia e omogenea [...] più di quelle analoghe adottate di recente nelle città della Terraferma», cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, p. 379. Cozzi si riferisce alle riforme dei fori civili di Terraferma che prevedono la costituzione di appositi collegi di causidici e forme di sorveglianza in loco, gestite dai collegi stessi, sull’attività dei forensi. Queste riforme vengono decretate, città per città, nel corso degli anni ’70 del Settecento; cf. E. Garino, Fori di Terraferma. Nel citato fascicolo intitolato Miscellanea materie forensi conservato alla Biblioteca Marciana, il quale dovrebbe essere appartenuto, come si evince da una nota, a Carlo Contarini — sodale del Pisani nella Correzione del 1780 — «per difendere, se occorreva, il decreto 30 aprile 1781», contiene una copia di una «Gazzeta» dell’epoca con la riproduzione del testo di una legge napoletana del 2 gennaio 1781 riguardante regole e ordini dei forensi. Il residente veneziano a Napoli Gasparo Soderini informa in effetti la signoria, con un dispaccio da Caserta del 26 dicembre 1781, che «si è stabilito un regolamento per gl’esercenti la professione del foro civile quale sta sotto à torchi: l’immenso stuolo di questi sarà per la prima volta diviso in tre categorie, cioè avvocati, avvocati e proccuratori, e solo proccuratori. Sarà proibito a’ secondi di parlar nelle due camere supreme, alla terza classe sarà vietato assolutamente l’arringo in qualunque tribunale, e quelli che vorranno ascriversi a cadauno dei tre ordini rispettivamente saranno d’ora innanzi obbligati ad avere un tempo prescritto di preventivo studio di prattica ed a subire un esame», cf. Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli, Dispacci, XXI, 19 settembre 1778 - 17 agosto 1790, a cura di Mara Valentini, Roma 1992, p. 196. Comunque, tra i precedenti più immediati, è da vedersi la scrittura Pensieri di persona anonima circa alla rifforma delli Sollecitatori di Venezia (in Miscellanea di materie forensi, 4 settembre 1780), nella quale si ripropone l’istituzione del collegio.
133. Sicuramente il collegio degli intervenienti ha continuato a funzionare. Rileviamo la sua attività alla metà degli anni ’80 in una contesa con l’avogaria di comun a proposito di avvocati ordinari. A Venezia, una legge del 1537 disciplina la professione forense. In base a questa normativa chiunque può praticare nel civile e nel criminale, subordinatamente all’assistenza di un avvocato patrizio, al quale viene conferito il diritto di praticare nel foro quale «avvocato ordinario» senza del quale, formalmente, non si può agire in giudizio. All’inizio del Settecento, tuttavia, si prescriverà agli aspiranti avvocati di addottorarsi nello Studio di Padova, per cui la figura dell’avvocato ordinario, secondo Gaetano Cozzi, diventerà desueta nel corso del tempo, cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 325-326. Una scrittura del 2 maggio 1783 di Vettor Sandi e di Giovanni D’Albertis, commissionata dalla signoria sulla spinta di una supplica degli avvocati ordinari patrizi capeggiati da Alessandro Priuli che protestano per la violazione della legge del 1537, si sofferma sul problema degli avvocati ordinari e sulla pratica da loro adottata di far trattare l’intero iter delle cause ad avvocati non ordinari e a intervenienti. Gli autori della scrittura si chiedono, fornendo una risposta negativa e appellandosi continuamente al diritto comune, se questa consuetudine sia o meno abrogante del dettato della legge, la quale continua a distinguere gli avvocati ordinari da quelli cosiddetti straordinari, cioè tutti gli altri. Deve essere questo tra l’altro l’inizio di quella contesa, cui si accennava, tra il collegio degli intervenienti e l’avogaria di comun che, da quello che si desume da una supplica dell’Alcaini, rappresentante gli intervenienti, non è improbabile abbia imposto, con una disposizione del 17 novembre 1785, che la pratica del patrocinio delle cause nel foro veneziano fosse ricondotta entro gli argini legislativi della legge del 1537, ristabilendo con ciò la gerarchia dei gradi forensi e delle loro peculiari prerogative per quanto riguarda l’esercizio della professione; il materiale su tutta la vicenda in Venezia, Museo Correr, ms. Correr, 579. Prima delle violente discussioni sul tema dell’abolizione della figura professionale dell’avvocato che si terranno durante la municipalità provvisoria di Venezia del 1797 (su cui mi tocca citare Michele Simonetto, Un dibattito sull’avvocatura durante la Municipalità provvisoria di Venezia del 1797, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 147, 1988-1989, pp. 263-277) qualche velata anticipazione si ha, in questo senso, anche durante la Repubblica: per esempio l’anonimo autore di un opuscolo intitolato Dell’ufficio del giudice, Venezia 1768, vorrebbe l’abolizione tout court degli avvocati.
134. Sulle competenze cf. Andrea Da Mosto, L’archivio di stato di Venezia, Roma 1937.
135. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani.
136. Jacopo Chiodo, Oggetti ed utilità della Compilazione delle leggi venete. Suo stato ed uso che potesse farsene nei cambiamenti. Informazione, diretta a Giacomo Giustinian, Deputato agli archivi durante la I dominazione austriaca, 11 marzo 1799, in A.S.V., Compilazione Leggi, ser. II, b. 1, fasc. Codice o capitolare per l’ufficio dei compilatori delle leggi, atti e memorie epoca veneta e I austriaca 1229-1799. In questa scrittura del Chiodo siamo già alla storia, dunque, dei tentativi di riforma del diritto veneto.
137. Si sofferma sulla scrittura, sottolineandone le proposte relativamente radicali di complessiva riforma, o meglio, riordino, dello statuto veneto recante la firma di Zan Benedetto Giovanelli e Zan Battista da Riva G. Cozzi, Politica e diritto, pp. 386-389.
138. «Tutta la relazione [...] è frutto del travaglio morale» provocato dal trattato di Beccaria, cf. ibid., p. 390, il quale Cozzi inoltre sostiene che i contenuti della relazione degli avogadori vanno al di là di quelli stessi di Beccaria, nel senso che viene data un’ovvia importanza anche alle questioni della procedura e al problema delle garanzie processuali; evidentemente Cozzi collega tra l’altro l’analisi degli avogadori e le circostanze della loro proposta di riforma alla diffusione a Venezia della Théorie des loix criminelles di Brissot tramite la cerchia del Pesaro. La scrittura è interamente pubblicata da Cozzi alle pp. 407-421.
139. Ibid., p. 409.
140. Ibid., pp. 410-411.
141. «Una [...] delle maggiori riforme che potesse compiere lo stato veneziano», ibid., p. 392.
142. Ibid., p. 410.
143. Ibid., p. 415.
144. Di grande interesse il fatto che Jacopo Chiodo, riferendosi esplicitamente alla scrittura del 10 aprile 1784, ne tragga degli spunti per delle riflessioni onde «adattare le regole indicate in detta scrittura alla legislazione in generale ed a tutti li codici», forse, un po’ oltre gli stessi avogadori, Chiodo pensa ad una sistemazione non meramente compilatoria del diritto penale veneto; cf. A.S.V., Compilazione Leggi, ser. II, b. 1, fasc. Codice o Capitolar, Memoria delle avvertenze d’aversi per trascegliere o per connettere le leggi nella riduzione de’ codici, dicembre 1796, nr. 30.
145. Originale ivi, Senato, Terra, filza 2803, copia ivi, Compilazione Leggi, ser. II, b. 42, vol. Scritture e decreti. I primi tre aggiunti — Prospero Valmarana, Girolamo Arnaldi, Paolo Bembo — vengono nominati dal senato con decreto dell’11 agosto 1784, cf. copia ibid.
146. Giovanni Scarabello, Progetti di riforma del diritto veneto criminale nel Settecento, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), II, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1985, p. 382 (pp. 381-415).
147. Non molte le notizie su questa interessante figura intellettuale. Di origini istriane, si laurea a Padova «in utroque», esercita le mansioni di assessore in varie città dello stato veneto. Accademico degli Agiati di Rovereto dal 1759 si appassiona anche di filosofia ed economia. A Brescia pubblica nel 1762 una Dissertazione fisico-morale intorno i sensi, che aveva a suo tempo recitata al circolo del Mazzucchelli due anni avanti (cf. la recensione de «La Minerva o sia Nuovo Giornale de’ Letterati d’Italia», nr. 1, 1762, p. 269). In generale pare confrontarsi, da posizioni cautamente riformatrici, sui principali temi che sono oggetto di dibattito nell’epoca; cf. in breve Pietro Stankovich, Biografa degli uomini distinti del’Istria, Capodistria 1888, pp. 295-296.
148. Vincenzo Ricci, Ragionamento intorno alla Collezione [...], Venezia 1785, esiste un’altra edizione del 1786. Il Ragionamento è del resto ripubblicato nella «Raccolta Ferrarese di Opuscoli Scientifici e Letterari di chiarissimi autori italiani», 18, 1786, pp. 1-42, stampata a Venezia, dal 1779, dal Coleti. E. Basaglia, Il diritto penale, p. 172 n. 57, ipotizza che l’intervento del Ricci sia, in parte, un’estrapolazione di alcuni contenuti della scrittura degli avogadori del 1784, non è tuttavia da escludere anche l’eventualità contraria, cioè che l’intervento degli avogadori non costituisca altro che l’apposizione formale di una firma ad un testo frutto dell’elaborazione del giurista Ricci. Del resto molte delle scritture delle due magistrature che si occupano del sistema del diritto civile e criminale sono elaborate e proposte dai giuristi ed assistenti di quelle a cominciare, per sua stessa ammissione, da Jacopo Chiodo. Sul Ragionamento e il suo contesto cf. anche, in breve, G. Scarabello, Progetti di riforma, pp. 385 ss.
149. G. Scarabello, Progetti di riforma, p. 386 n. 3, ha notato alcune differenze di toni tra la versione per la stampa e quella di un manoscritto conservato in A.S.V., Consultori in jure, b. 476.
150. V. Ricci, Ragionamento, p. 43 (mi servo dell’ediz. 1785, che del resto è uguale a quella dell’anno successivo).
151. Ibid., p. 8.
152. Ibid., p. 56.
153. A.S.V., Compilazione Leggi, ser. II, b. 42, vol. Scritture e decreti; l’approvazione del senato è del 18 settembre 1785, cf. ivi, Senato, Terra, reg. 408, cc. 225-226.
154. G. Scarabello, Progetti di riforma, p. 387, che esalta invece (p. 388), quale modello insuperato, la scrittura degli avogadori del 10 aprile 1784. Negativo il giudizio sulla scrittura degli aggiunti da parte di G. Cozzi, Politica e diritto, p. 404.
155. Da vedersi comunque il rapporto riassuntivo sulla situazione inviato dagli aggiunti al senato in data 23 aprile 1788, cf A.S.V., Compilazione Leggi, ser. II, b. 44, vol. Scritture e decreti. Da segnalare, di un certo interesse, il decreto di approvazione del senato della suddetta scrittura in data 2 maggio 1788, con l’accenno ai «lumi e cognizioni» da acquisire «intorno le pratiche forestiere», cf. ivi, Senato, Terra, reg. 410, cc. 246-247.
156. Ad esempio, Vincenzo Ricci agli aggiunti, 10 settembre 1787, afferma che l’opera di collazione delle leggi sarebbe stata condotta con più celerità se non vi fossero state «le note e prudenti riserve» del consiglio dei X «di permettere a persone non autorizzate l’accesso» nel loro archivio, cf. ivi, Compilazione Leggi, ser. II, b. 45, Memorie di studi, di titoli e d’indici di leggi da riscontrar.
157. G. Scarabello, Carcerati e carceri, pp. 181 ss., il quale sottolinea la novità assoluta, anche a confronto di altri modelli continentali, del progetto organico degli aggiunti, cioè, di fatto, del Ricci, del 24 settembre 1789; la necessità di prevedere pene alternative come il lavoro forzato, si concretizza nella proposta di abolizione tout court del carcere per tutti, tranne che per i ladri e i nobili.
158. Interpreta in questo senso lo spirito della scrittura degli avogadori G. Cozzi, Politica e diritto, p. 402.
159. La cronologia delle varie scritture dovrebbe essere la seguente (riduciamo in termini moderni il «more veneto»): la scrittura dei capi dei quaranta è del 29 febbraio 1786, la risposta della signoria con l’incarico agli avogadori di studiare il problema è del 15 dicembre 1786, la consulta degli avogadori è del 9 febbraio 1787, la parte della signoria con cui si demanda agli aggiunti di esaminare la consulta degli avogadori nel quadro dell’opera in corso di riforma della legislazione criminale è del 29 marzo 1787. La scrittura degli avogadori e la parte della signoria del 1787 sono stati pubblicati da [Graziano Ravà], Della sapienza veneta in materia criminale, Venezia 1867, un dubbio rimane sulla data della parte della signoria del 29 marzo: in A.S.V., Collegio, Notatorio, reg. 189, cc. 90v-91, si legge infatti 29 marzo 1789. L’osservazione di G. Cozzi, Politica e diritto, p. 400 n. 35, sulla mancata comprensione da parte del Ravà dello spirito e del significato delle scritture relative a questo problema di politica giudiziaria, crediamo vada intesa, anche, nel senso che la prospettiva apologetica del Ravà non gli ha consentito di scrivere una delle cose più importanti, e cioè che a Venezia, formalmente, la tortura rimane in vigore fino alla fine della Repubblica.
160. La scrittura, a firma Benedetto Marcello, Marco Zorzi, Gasparo Gherardini, è del 10 gennaio 1790 m.v., in A.S.V., Compilazione Leggi, ser. II, b. 42, vol. Scritture e decreti.
161. Ibid. Il «piano» è approvato dal senato il 29 marzo 1792, cf. ivi, Senato, Terra, filza 2975, in allegato si conserva l’albero della giurisprudenza veneta così come è formulato nella scrittura degli aggiunti del 27 settembre 1791. Una breve analisi della scrittura degli aggiunti in G. Cozzi, Politica e diritto, pp. 404-406.
162. Una disamina dell’opera di compilazione effettuata nel civile dai sopraintendenti e dal Chiodo alla fine del Settecento in G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 385 ss.
163. A.S.V., Senato, Terra, filza 3049, inserta legge 4 settembre 1794.
164. Oltre alla succitata collocazione dell’originale cf. copia in ivi, Compilazione Leggi, ser. II, b. 42, vol. Scritture e decreti.
165. J. Chiodo, Oggetti ed utilità, dove si accenna alla poco produttiva diversificazione di metodi e all’inutile duplicazione delle ricerche fra i due magistrati.
166. A.S.V., Compilazione Leggi, ser. II, b. 1, fasc. Codice e Capitolare [...], sottofasc. Sommari e memorie del codice e leggi in quanto principalmente riguarda la persona e le opere del compilator delle leggi ed archivista Giacomo Chiodo, 28 aprile 1807.
167. Ibid., nr. 7, 24 agosto 1795, «per la seduta in Conferenza […]».
168. Che non sono più quelli che avevano velatamente caldeggiato la proposta di unione del 2 agosto 1794, ora i nuovi sopraintendenti sono Zuanne Sagredo e Giacomo Diedo; i nuovi aggiunti sono invece rappresentati, oltre che dal vecchio Valmarana, da Francesco Ludovico Curti e Mattio Balbi.
169. Ibid., b. 42, vol. Scritture e decreti; un’annotazione autografa del Chiodo in calce a questa scrittura ci informa che essa «non fu mai adottata dal Senato».
170. Copia della deliberazione ibid., b. 1, fasc. Codice e Capitolare [...]. Realisticamente Chiodo, in un appunto autografo, rileva come la soppressione degli aggiunti sia avvenuta, a suo parere, «per oggetto d’economia», ibid., sottofasc. Sommari e memorie del codice.
171. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani, pp. 385-388, in cui si sottolinea il carattere innovativo dell’insistere del Chiodo sulla vera lezione, in senso filologico, della legge; motivo che si scontrerebbe con la concezione dell’arbitrium dei giudizi veneziani, noncuranti dell’esattezza dei testi.
172. Ibid., pp. 388-392, il quale ne sottolinea l’eccentricità rispetto allo spirito del diritto veneto.
173. Il 18 settembre 1796 il senato incoraggia il proseguimento dell’opera dei sopraintendenti; l’ultimo riferimento esplicito al problema della sistemazione della legislazione criminale veneta si può rinvenire in un decreto dello stesso senato datato 18 febbraio 1796 m.v. (1797), nel quale, dopo avere preso atto della volontà dei sopraintendenti di proseguire nella loro opera, si concede il pubblico finanziamento dell’intrapresa; cf. A.S.V., Senato, Terra, filza 3125.
174. Ivi (Sezione della Giudecca), Tribunale Revisorio, Protocolli di Sessione, Regia Commissione al Regolamento Giudiziario, reg. 34, cc. 139 ss., si tratta di Marco Zorzi e siamo nel 1801.