di Ugo Tramballi
La Carnegie di Washington ha appena pubblicato un interessante libro intitolato «The Uncertain Legacy of Crisis – European Foreign Policy Faces the Future». La tesi, sfortunatamente condivisibile, è che cinque anni di crisi economica hanno cambiato sia il modo col quale la EU si specchia nel sistema internazionale che il modo col quale il mondo interagisce con noi. La crisi ha accelerato il relativo declino dell’Europa: è ormai difficile vendere come armonioso e vincente il nostro modello. La severità della crisi, inoltre, ha spinto i singoli governi europei a dedicarsi più intensamente alla diplomazia economica e commerciale, mettendo da parte i principi di fondo dell’Unione. Una valutazione della politica estera del governo Letta non può prescindere da questo quadro generale: la spiegazione dell’incerta eredità di questo tempo sulla proiezione della EU nel mondo è anche lo specchio dello stato della diplomazia italiana. Ma prima di affrontare come la presidenza del consiglio, la Farnesina e il ministero della difesa cerchino di garantire il nostro profilo nel mondo, è necessaria un’osservazione generale. La politica estera è praticamente scomparsa dal dibattito interno e forse dall’interesse nazionale: non ne parlano i pur numerosi talk show radio-televisivi, è irrilevante nelle pagine dei giornali. Se si eccettua l’Europa – ormai un tema di politica interna – e molto più raramente la vicenda dei due marò in India, non capita mai che i partiti citino nei loro dibattiti o nelle loro polemiche una questione internazionale né la posizione italiana su questa o quella crisi. Nonostante la nostra geografia e le pericolose instabilità mediorientali, quasi rifiutiamo di considerare che una forte e attiva politica mediterranea sia prioritaria quanto la legge di stabilità o la riforma elettorale. In questo quadro è stato difficile che il governo dedicasse tempo e risorse economiche alla diplomazia. Oltre ad averne avuto poco dell’uno e dell’altro, farlo sarebbe stato impopolare. Gli stessi viaggi all’estero di Enrico Letta sono stati regolarmente condizionati dal dibattito e dalle emergenze della politica estera. Come la gran parte dei ministri degli esteri ‘politici’, Emma Bonino ha dato la sua impronta. Il filo della sua politica estera ha seguito quello della sua intera storia politica e personale: europeismo, impegno attivo nell’affermazione dei diritti umani e della giustizia internazionale. L’Europa non è solo il luogo dove risolvere i nostri problemi ma dove fare scelte comuni; e l’atlantismo, nel quale gli Stati Uniti chiedono agli europei impegni più concreti, per Bonino non è stata solo sicurezza ma anche affermazione e promozione dei valori democratici che distinguono l’Occidente. Essendo riconosciuta come una potenza economica (per quanto in crisi) e non politica, da tempo la diplomazia commerciale è al centro della nostra politica estera. La crisi e la constatazione che il nostro export è l’unica voce positiva nel nostro deprimente quadro economico, hanno spinto il governo a incrementare questa attività. Soprattutto a favore della piccola e media impresa: un marchio di fabbrica del sistema italiano ma privo della forza di affrontare da solo il mercato globale. Sono state avviate iniziative lodevoli come ‘Destinazione Italia’ che cerca non solo le opportunità nei mercati già emergenti ma anche in quelli potenziali. Tuttavia il tentativo più politico di definire una posizione verso i fronti di crisi a sud (Medio Oriente e Golfo) e ad est (Balcani, Ucraina, Russia), come quello economico di promuovere nuovi mercati, scontano la crisi. «Migliorare l’equilibrio fra le priorità e gli strumenti della politica estera» è il linguaggio diplomatico della Farnesina per dire che la coperta è drammaticamente corta. Le disponibilità del ministero sono lo 0,2% del bilancio dello Stato. Sono stati chiusi consolati e ridotto il personale di molte ambasciate in Occidente per aprire sedi nuove in Turkmenistan, Saigon e altre sedi. Quando la Gran Bretagna investe per la Siria 150 milioni di dollari e l’Italia 38, fatalmente questo si riverbera sul peso politico del nostro paese in un’area di crisi estremamente sensibile per noi. Ma anche la razionalizzazione del personale, anche le nuove sedi aperte dove i mercati sono più promettenti, alla fine hanno effetti limitati. Mediamente i nostri uffici commerciali hanno 2-3 funzionari: più o meno come i Paesi Bassi o la Danimarca, mentre i nostri alleati e concorrenti economici ne hanno una cinquantina. Nella strategica Pechino ne abbiamo quattro, la Francia una quarantina.