di Mario Del Pero
Barack Obama ha in più occasioni sottolineato l’inutilità di immaginare grandi strategie di politica estera destinate a essere invariabilmente superate da eventi e problemi non prevedibili né, in larga misura, controllabili. Nel corso dell’ultimo anno un susseguirsi di crisi improvvise ha però messo in grave difficoltà questo approccio pragmatico e cauto. Esso rispondeva all’esigenza, politicamente pressante, di limitare l’esposizione globale degli Usa, riducendo gli impegni militari del paese; e sembrava essere permesso dall’assenza di minacce sostanziali alla sicurezza degli Stati Uniti.
Tre erano (o, meglio, dovevano essere) i pilastri fondamentali della politica estera obamiana. Il primo era rappresentato dal rinnovato focus sul teatro dell’Asia-Pacifico, dove maggiore, ma anche più profonda e contraddittoria, è la rete d’interdipendenze strategiche ed economiche che coinvolgono gli Stati Uniti. Qui l’obiettivo era sia di attivare un meccanismo di contenimento regionale della Cina sia di continuare il suo processo di cooptazione e integrazione in un ordine regionale ancora a leadership statunitense. Strettamente collegato a questo, era il secondo pilastro: il graduale disimpegno da un Medio Oriente ingestibile e, comunque, meno importante oggi per gli Usa alla luce del loro parziale affrancamento dalle risorse petrolifere della regione. Anche in questo caso, l’auspicio era quello di coinvolgere nella gestione dell’ordine regionale un passato nemico, l’Iran, e di riattivare il processo di pace arabo-israeliano, il cui arenarsi era considerato fattore fondamentale dei problemi dell’area. Terzo e ultimo: il pieno riconoscimento della marginalità geopolitica di un’Europa stabilizzata e quindi non più centrale per la sicurezza statunitense e l’auspicato reset delle relazioni con la Russia, il cui deterioramento era almeno in parte attribuito all’atteggiamento ostile e provocatorio tenuto dall’amministrazione Bush.
Questi pezzi diversi non andavano a comporre un mosaico organico e a definire quindi una ‘grande strategia’. Si sperava, però, che coltivati con attenzione e pragmatismo essi potessero in una qualche misura incastrarsi e permettere agli Usa di continuare a beneficiare di un’egemonia globale da perseguirsi con costi, oneri e rischi minori. Le condizioni necessarie al raggiungimento di tale obiettivo – collaborazione delle altre potenze e assenza di crisi internazionali significative e impreviste – sono però venute meno. Due teatri, quello ucraino e quello iracheno-siriano, meritano di essere qui evidenziati a dimostrazione dell’impossibilità, per gli Usa di Obama, di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati un anno fa.
In Ucraina, le proteste che hanno determinato la caduta del governo filo-russo di Viktor Yanukovych hanno aperto una crisi che ha portato gli Stati Uniti in rotta di collisione con la Russia. La successiva annessione russa della Crimea, l’ingerenza anche militare di Mosca, lo stato di guerra civile nell’est del paese e le dure sanzioni statunitensi ed europee hanno creato una situazione che molti hanno paragonato agli anni della Guerra fredda. Un’analogia storica, questa, approssimativa e certo abusata, ma utile a ricordare come la stabilità geopolitica europea non sia data, gli antagonismi di potenza – in questo caso quelli tra Russia e Stati Uniti – pesino ancora nelle relazioni internazionali e l’auspicio degli Usa di poter continuare a esercitare un’egemonia soft e consensuale si scontri contro resistenze crescenti e sconti, comunque, la riduzione dell’influenza e della stessa potenza americana.
Ancor più grave, e complessa per Washington, è stata la crisi apertasi in Siria e in Iraq in conseguenza dei successi militari del cosiddetto Stato islamico (Is, in uno dei diversi acronimi in uso), che ambisce a creare un califfato nei territori iracheni e siriani. Emerso nel contesto della guerra civile che da più di tre anni devasta la Siria, l’Is ha espanso con metodi brutali l’area sotto il suo controllo inducendo in ultimo l’amministrazione Obama ad autorizzare un intervento militare, nella forma di bombardamenti aerei e sostegno alle forze – in particolare curde – che si oppongono al nuovo Stato islamico. A fianco degli Usa si sono schierati gran parte dei suoi alleati nella Nato e nella regione, fatta eccezione per la Turchia che ha tenuto un atteggiamento ambiguo dettato anche dalla sua volontà di non avvantaggiare i gruppi dell’opposizione curda. La vicenda è però rivelatrice di quanto illusori siano stati sia i risultati ottenuti in Afghanistan e in Iraq, sia l’effetto positivo delle cosiddette primavere arabe per gli interessi statunitensi in Medio Oriente. Che sono ora nuovamente minacciati da un radicalismo islamico capace di mutare forme e strategie e di beneficiare dell’estrema fragilità di assetti geopolitici regionali fragili e da ricostruire.