Dopo la Seconda guerra mondiale e, più segnatamente, dopo il disimpegno britannico dall’area del Medio Oriente e del Mediterraneo orientale nel 1947, gli Stati Uniti si sono fatti carico, direttamente o indirettamente, di mantenere gli equilibri della regione mediorientale. L’interessamento di Washington a questa regione è stato, e in parte è tuttora, ritenuto indispensabile per il perseguimento e il mantenimento di alcuni interessi fondamentali del paese: dalla sicurezza delle rotte energetiche al contenimento della minaccia terroristica, soprattutto dopo il 2001. Da decenni la politica statunitense nell’area segue diverse direttrici, di cui la prima e più importante è quella rivolta verso lo Stato di Israele, finalizzata a garantire la sua integrità e la sua sicurezza in un ambiente prevalentemente ostile.
Gli Stati Uniti, inoltre, hanno individuato nell’asse arabo-sunnita costituito da Egitto, Giordania e Arabia Saudita (i cosiddetti paesi arabi moderati) un interlocutore stabile nella discussione delle questioni più problematiche della regione. Non a caso la Giordania e l’Egitto sono gli unici due paesi arabi che hanno stretto delle relazioni diplomatiche con Israele e lo hanno riconosciuto come entità statale, mentre l’Arabia Saudita è il primo paese al mondo per riserve di petrolio e l’unico realmente in grado di influenzare le politiche dell’Opec, grazie al ricorso a eventuali sovrapproduzioni petrolifere.
D’altro canto, dal 1979 - anno della rivoluzione islamica di Khomeini - gli Stati Uniti hanno rapporti tesi con l’Iran e attualmente i maggiori sforzi politico-diplomatici nell’area sono volti a controbilanciare la politica estera di Teheran, aggressiva tanto nei confronti di Israele e degli stessi Usa, quanto di quelli degli altri attori arabi.
L’attuale amministrazione statunitense guidata da Obama ha tentato di dare una svolta alla politica di Washington in Medio Oriente, prendendo le distanze dall’unilateralismo che aveva caratterizzato la presidenza Bush e il nuovo corso ideologico sostenuto dalla corrente dei neocon (i neo-conservatori), materializzatosi con l’intervento in Iraq del 2003.
Proprio quest’ultimo episodio, insieme al tradizionale sostegno dato dagli Stati Uniti alle politiche israeliane, ha contribuito a deteriorare l’immagine di Washington agli occhi di gran parte del mondo arabo e musulmano in generale. Nel discorso del giugno 2009 - tenuto simbolicamente presso l’Università al-Azhar del Cairo, il centro più prestigioso della cultura musulmana sunnita - Obama ha assunto toni conciliatori con tutte le anime del mondo islamico. Allo stesso tempo, la Casa Bianca si è adoperata per riallacciare le relazioni diplomatiche con la Siria, alleato dell’Iran nella regione, e ha dimostrato una volontà di dialogo con Teheran stessa. La politica statunitense in Medio Oriente nei primi anni della presidenza Obama ha comunque continuato a basarsi principalmente sulla lotta al terrorismo, grazie alla collaborazione con i regimi dell’area, soprattutto nel Golfo: dallo Yemen all’Arabia Saudita, fino al Bahrain, paese in cui è stazionata la 5° Flotta statunitense.
Negli ultimi due anni Washington ha anche cercato di far tornare al tavolo delle trattative il governo israeliano e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), ma le posizioni oltranziste dell’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu, soprattutto in merito alla questione dei nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est, hanno comportato un ostacolo in tal senso, vanificando fino ad ora i tentativi di mediazione statunitense. Una svolta maggiore è arrivata contestualmente alle rivolte della cosiddetta ‘primavera araba’ scoppiata a inizio 2011, allorché gli Stati Uniti hanno appoggiato le proteste popolari soprattutto in un paese, l’Egitto di Hosni Mubarak, che costituiva un perno della politica statunitense in Medio Oriente. L’intervento militare in Libia dell’aprile 2011 è andato nella stessa direzione, mirando alla destituzione di Gheddafi e comportando un cambio di rotta degli Stati Uniti verso il cambiamento dello status quo.
Se da un lato Washington spera in un possibile ritorno di immagine e credibilità agli occhi delle future classi dirigenti dei paesi interessati dai cambi di regime del 2011, dall’altro la vera sfida per la politica estera statunitense sarà costituita dall’effettiva riuscita nel sostegno a una stabile transizione politica nell’area. Come dimostrato dalla posizione assunta in altri teatri più strategici, come il Bahrain o l’Arabia Saudita, l’interesse primario degli Stati Uniti nella regione è ancora quello del mantenimento di un determinato ordine, per garantire la sicurezza degli approvvigionamenti energetici ed evitare stravolgimenti che possano rendere l’area mediorientale ancora più instabile.