La politica nell’Europa occidentale
Se qualcuno, nel novembre 1999, avesse chiesto ai leader europei della sinistra, riuniti a Firenze con Bill Clinton per partecipare alla conferenza dal titolo Il riformismo nel XXI secolo, di fare un pronostico su quanti governi il loro schieramento avrebbe guidato dieci anni dopo, probabilmente nessuno avrebbe dato la risposta corretta. Nella primavera del 2009, subito dopo le elezioni europee, la risposta è la seguente: tre (quelli di Gordon Brown in Gran Bretagna, di José Luis Rodríguez Zapatero in Spagna e di José Sócrates Carvalho Pinto de Sousa in Portogallo), rispetto ai tredici in quel momento al governo. Come dire: in dieci anni si sono praticamente invertite le parti tra i due schieramenti. Come è stato possibile questo ribaltamento? È opportuno analizzare alcuni mutamenti avvenuti nel corso del primo decennio del nuovo secolo nella politica dell’Europa occidentale. Il focus è soprattutto sui quattro maggiori Paesi: Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna. In parallelo, si esaminano alcune evoluzioni dello spazio politico dell’Unione Europea. In particolare, occorre comprendere, dieci anni dopo la nascita della moneta unica, su quali ambiti il processo di integrazione ha subito, soprattutto negli ultimi cinque anni, importanti battute d’arresto.
Che fine ha fatto la terza via?
Agli inizi del 2000 differenti partiti di sinistra governavano in 13 dei 15 Stati dell’Unione Europea (UE): tra i Paesi più grandi faceva eccezione la sola Spagna. La straordinaria vittoria del New labour di Tony Blair, nel maggio 1997, con la fine della lunga era conservatrice (e, per la Gran Bretagna, del cosiddetto secolo conservatore), sembrava aver aperto importanti e inedite prospettive di governo per la sinistra. Poche settimane dopo la vittoria laburista, al di qua della Manica, anche i socialisti di Lionel Jospin vincevano (questa volta a sorpresa) le elezioni. Pochi però rifletterono sul fatto che l’esito delle elezioni era in larga parte dovuto alla struttura della proposta politica. Proprio come l’anno prima per la vittoria dell’Ulivo in Italia era stata decisiva la corsa in solitario della Lega Nord, così il Parti socialiste (PS) francese vinse soprattutto grazie alla presenza di candidati del Front national di Jean-Marie Le Pen al secondo turno in molti collegi, decisiva nel sottrarre consensi alla destra moderata di Jacques Chirac. Se a questo elemento si aggiunge il fatto che, nelle elezioni del 2002, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder fu in grado di evitare la prospettiva della grande coalizione soprattutto grazie alla popolarità conquistata nella gestione dell’emergenza alluvioni nelle settimane precedenti il voto, ecco che l’immagine di una sinistra che domina l’Europa agli inizi del nuovo secolo risulta in buona parte rivista e ridimensionata.
Detto questo, i socialisti di Jospin tornavano dopo quattro anni al Palais de Matignon, avviando così la più lunga coabitazione tra le due teste dell’esecutivo francese, per dirla con Maurice Duverger, e la cosiddetta esperienza della gauche plurielle. La distanza tra le due sinistre al governo a Londra e Parigi era in realtà molto più ampia delle poche centinaia di chilometri che separano le due capitali europee. Jospin e Blair, infatti, agli inizi del nuovo secolo rappresentavano le stelle polari di due prospettive di governo di difficile conciliazione: da una parte, all’insegna di una completa (e secondo alcuni troppo zelante) conversione al predominante credo neoliberista (Blair è stato accusato di aver proseguito nel solco di molte politiche di matrice thatcheriana), dall’altra, di una sinistra che rifiutava, nel Paese europeo più ostile alla globalizzazione e al mercato, di adattarsi al primato di quest’ultimo, cercando di regolarlo in maniera rigida con dosi massicce di intervento dello Stato.
Nelle parole di Blair, la terza via doveva riuscire a «conciliare le due più grandi correnti di pensiero del centrosinistra – quella socialdemocratica e quella liberale – il cui divorzio aveva tanto danneggiato, nel Novecento, la causa progressista in Occidente». Posto che quest’aspirazione faticava a trovare seguito in buona parte della sinistra europea, vuoi a causa di una maggiore ortodossia ideologica, vuoi per un più generale deficit di liberalismo nel sistema politico, dopo un decennio Blair lasciava a Brown, nel 2007, un’eredità in chiaroscuro. Da una parte la riduzione della povertà, il miglioramento dei servizi pubblici, in particolare di quello sanitario, dall’altra un Paese fermo all’ultima posizione nella classifica sulla diseguaglianza dei redditi in Europa. Secondo molti studiosi la guerra in ῾Irāq avrebbe contribuito a offuscare l’immagine di Blair, unico leader della sinistra europea in grado di portare avanti politiche riformiste e di vincere tre elezioni di seguito. Altri autori ritengono invece che la scelta di appoggiare la guerra fosse coerente con l’impostazione politica di Blair. In particolare, in uno dei discorsi più famosi e audaci dell’ex premier laburista, quello tenuto a Chicago nella primavera del 1999, egli aveva teorizzato, ben prima dell’11 settembre 2001, il diritto di ingerenza per fini umanitari (Blair’s Britain, 2007). Comunque sia, ma ciò prescindeva dall’eredità blairiana, pochi mesi dopo il trasloco di Brown dal numero 11 (sede del ministero del Tesoro) al numero 10 di Downing street, si sarebbe anche palesata la forte fragilità del sistema finanziario, fiore all’occhiello dell’economia britannica, coinvolto da alcuni dei tracolli bancari più vistosi nel continente.
Che dire degli altri Paesi? In una recente analisi sulle socialdemocrazie al potere in Europa a cavallo tra vecchio e nuovo millennio (Merkel, Petring, Henkes, Egle 2008), si sono individuate tre matrici: una liberale (Gran Bretagna, oltre ai Paesi Bassi, caratterizzata da nuovi obiettivi di policy oltre che da nuovi strumenti per ottenerli, soprattutto con l’intervento dei privati), una tradizionalista (classici obiettivi e strumenti: Francia, come detto, ma anche Germania, almeno nel primo anno di Schröder, poi di più difficile classificazione) e, infine, una modernizzatrice (obiettivi classici, con nuovi strumenti), nei Paesi scandinavi. Traiettorie sicuramente diverse, ma in ogni caso condizionate, da una parte, dagli imperativi della Banca centrale europea, dall’altra, da eredità difficilmente sradicabili (anche perché talvolta condivise) dei precedenti governi di centrodestra.
Per molti elettori italiani di centrosinistra il caso spagnolo, con la doppia vittoria di Zapatero nel 2004 e nel 2008, rappresenta oggi una sorta di riferimento privilegiato, in un’Europa progressivamente spostatasi a destra. È difficile collocare in maniera univoca l’esperienza di governo del Partido socialista obrero español (PSOE) nella tripartizione sopra citata, anche a causa della struttura istituzionale del Paese. Se infatti Zapatero, oltre alla laicità dello Stato e alla promozione delle politiche di genere, nel suo primo mandato ha posto grande attenzione a classiche politiche di sinistra come l’aumento del reddito minimo e un welfare più inclusivo, buona parte delle ricette da lui messe in atto ha bisogno della collaborazione delle comunità autonome, non sempre governate da maggioranze amiche e/o disposte a cooperare senza contropartite.
Partiti socialdemocratici sono oggi al potere anche in Germania e Austria, ma in tutti e due i Paesi si tratta di governi di coalizione, e solo in Austria il Partito socialdemocratico esprime il cancelliere. In entrambi i casi, i partiti non sfuggono dal quadro di arretramento elettorale che coinvolge lo schieramento di sinistra nel corso del primo decennio del 21° secolo.
In Francia, infine, l’esperienza di governo di Jospin è stata da molti giudicata positiva per quanto riguarda la complessiva riduzione della disoccupazione, ma deludente per due altri versanti. In primo luogo per l’incapacità di modernizzare, snellendolo e soprattutto adattandolo ai cambiamenti del mercato del lavoro, il proprio apparato di welfare. In secondo luogo per il grande investimento in una politica, quella delle 35 ore, solo in piccola misura in grado di aumentare l’occupazione in maniera duratura. Più in generale, il Parti socialiste si trovava intrappolato dalla logica perversa della lunga coabitazione con Chirac. Questa favoriva un clima di disinteresse per la politica, a causa della percezione che non vi fossero differenze significative tra i due principali candidati. Così, con l’approssimarsi della fine della legislatura e il calo dell’occupazione, emergeva tutta l’incapacità del PS di fornire risposte adeguate ai problemi sociali, sicurezza in primis. Da qui una serie di errori in campagna elettorale, che aprirono la strada al sorpasso di Le Pen alle elezioni presidenziali del 2002. Sebbene non fossero dati del tutto nuovi, nel senso che da anni si parlava già di gaucho-lepenisme, il 25% del voto operaio a Le Pen (contro il 13% a Jospin) o il dimezzamento del consenso nel gruppo chiave del settore pubblico – dal 32% al 18% tra 1995 e 2002, con lo stesso candidato presidente – evidenziavano tutti i limiti dell’esperienza di governo socialista (Le vote de tous les refus, 2003). Per spiegare il clamoroso sorpasso, non bastava certo la dinamica di ‘censimento’ che il primo turno delle elezioni francesi tradizionalmente presenta, che non incentiva in alcun modo il compattamento della proposta politica all’interno di uno schieramento (Baldini, Pappalardo 2009).
In conclusione, se oggi non si parla praticamente più di terza via, rimane da vedere quanto ciò si debba al recepimento di alcune istanze liberali nel corpus della sinistra riformista o quanto invece ciò sia legato all’indubbia crisi che tale schieramento, più in generale, sta vivendo. Le ragioni sono molteplici e hanno a che fare con uno o più dei seguenti temi: la scarsa presenza di leader capaci di comprendere il contesto istituzionale in cui conquistare il consenso elettorale; l’incapacità di rispondere alle paure che, la globalizzazione prima, l’11 settembre poi, hanno contribuito a diffondere nei ceti popolari, tradizionale constituency dei partiti di sinistra; la più naturale sintonia della destra con lo spirito dei tempi (Simone 2008). Tutto ciò mentre la crisi economica scoppiata nel 2008 apre scenari di difficile interpretazione: il crollo delle certezze del neoliberismo porterà al ritorno delle sinistre? O, piuttosto, a un ulteriore successo delle destre, nella loro versione populistico-protezionista o in quella xenofoba, all’insegna della chiusura contro le varie minacce esterne di turno, dall’invadenza cinese dei mercati globalizzati a quella degli extracomunitari, all’idra multiforme del terrorismo? Comunque andrà a finire, per capire quello che è successo e che succederà nel futuro prossimo, occorre osservare alcune importanti trasformazioni nel delicato rapporto tra partiti, istituzioni e leader.
Presidenti, istituzioni e partiti
A prescindere dalla collocazione politica, secondo molti analisti la politica europea, e più in generale quella delle democrazie occidentali, si sarebbe mossa, nell’ultimo quarto del 20° sec., verso una marcata ‘presidenzializzazione’, in continuo rafforzamento (The presidentialization of politics, 20072). Il termine è un po’ vago, ma poco importa. Segnala che, anche in assenza di specifiche trasformazioni nella forma di governo e negli equilibri istituzionali, i processi politici sono attualmente caratterizzati da un forte protagonismo dei leader, capaci di costruire sempre più a propria misura gli esecutivi che guidano, i partiti che comandano, le campagne elettorali (ovviamente permanenti) che conducono. Quanti elettori sarebbero oggi in grado di indicare un leader di sinistra capace di esercitare questi ruoli in maniera adeguata, oltre a Zapatero, che peraltro, un anno dopo la sua seconda vittoria, appare in crescente difficoltà nel gestire la crisi economica? Blair è stato sicuramente il primo leader ‘presidenziale’ della sinistra, ma la sua stella si è appannata con l’appoggio incondizionato alla guerra di Bush in ῾Irāq, per non dire della generale diffidenza verso la sua figura di ampia parte della sinistra, soprattutto quella radicale. Comunque sia, chi meglio della coppia Silvio Berlusconi-Nicolas Sarkozy, pur nelle indubbie differenze presenti tra i due leader, incarna questo ruolo di presidente che controlla il proprio partito e governa il Paese a partire dall’imperativo presenzialista? Detto altrimenti, e allargando lo zoom oltre i maggiori Paesi, la destra avanza in Europa anche grazie alla presenza di politici capaci di mettersi in sintonia con l’archetipo di successo del nuovo secolo: un leader che sa comunicare (magari anche perché controlla, direttamente o indirettamente, il sistema dei media), che riesce a fare breccia in un arco ampio di ceti sociali (senza farsi problemi a usare toni populisti) e che controlla il proprio partito in maniera diretta e verticistica (senza darsi pena del rispetto formale, ma a volte anche sostanziale, della democrazia interna, cioè del tradizionale meccanismo dal basso sul quale si erano costruiti i partiti di massa). E, last but not least, che riesce a dare risposta alle domande (soprattutto di protezione) che arrivano dal territorio.
Qual è, in questo contesto, il ruolo delle istituzioni? Tutte le democrazie, e non solo quella italiana, immersa in una infinita transizione politica e in una continua e spesso confusa ricerca di nuovi modelli da importare, sono periodicamente sottoposte a richieste di rinnovamento della propria architettura istituzionale. Negli ultimi dieci anni si possono sottolineare alcune importanti tendenze.
Rapporti centro-periferia
Anche a causa delle pressioni provenienti dall’Unione Europea, in molti Paesi – e non solo nei più grandi – si sono rafforzati i livelli intermedi di governo, cioè le Regioni. In alcuni casi, come nel Regno Unito, ciò è avvenuto grazie a un importante processo di devolution che ha portato alla nascita di parlamenti in Scozia e Galles e al ripristino del difficile processo di pace in Irlanda del Nord. Se in Francia, patria del centralismo, su questo versante ci si è limitati a un pur significativo inserimento delle regioni nel testo costituzionale (2003), gli assetti federali di Germania e Spagna sono oggetto di continua ridefinizione, nel primo caso senza che ci si riesca a liberare della cronica trappola delle decisioni congiunte (con intoppi dovuti alla sovrapposizione di competenze e funzioni tra Länder e Stato federale), nel secondo con un complesso processo di revisione degli statuti e la periodica insorgenza dei nazionalismi. Più in generale, queste trasformazioni istituzionali si accompagnano ad altri due fenomeni degni di rilievo: il revival dei partiti etnoregionalisti, considerati in via di estinzione fino a trent’anni fa, e la presenza di identità territoriali multilivello, ossia di cittadini che si identificano simultaneamente con più livelli di governo. Mentre il primo elemento potrebbe far pensare alla rinascita di fenomeni di nazionalismo di tipo escludente, il secondo indica che in molti casi, anche se sicuramente non in tutti, un ritorno del localismo possa conciliarsi con modelli di identificazione ‘plurima’ nelle istituzioni. Su queste tendenze si innesta un altro importante elemento con il quale i sistemi politici europei devono oggi fare necessariamente i conti: la multilevel governance. È infatti evidente che i processi politici in molti settori chiave, dall’ambiente ai fondi strutturali, sono oggi sempre più cogestiti, oltre che dagli Stati nazionali e dalla Commissione europea, anche dalle Regioni.
Istituzioni e modelli di democrazia
La Francia, spesso guardata con invidia dall’Italia per il suo sistema elettorale e/o per il sistema di governo semipresidenziale, è il Paese che più nettamente sta rinnovando le istituzioni centrali, a partire dai nodi venuti al pettine con la lunga coabitazione Chirac-Jospin e soprattutto a seguito dello shock dopo la conquista del ballottaggio da parte di Le Pen alle presidenziali del 2002 (La Francia di Sarkozy, 2007). Proprio da quell’anno, il mandato quinquennale e la fondamentale inversione del calendario elettorale tra presidenziali e legislative hanno iniziato a rafforzare la figura del presidente. Ma non è ancora possibile sapere fino a che punto il limite di due mandati presidenziali introdotto da Sarkozy nel 2008 rappresenti, insieme a un aumento dei poteri del parlamento e alla possibilità dei cittadini di richiedere referendum abrogativi, un effettivo contrappeso. Negli altri grandi Paesi europei, il dibattito sulle riforme istituzionali non ha la stessa intensità che ha in Italia o in Francia: questi sono i due Paesi in cui vi è storicamente minor condivisione, tra i principali partiti, sulle regole del sistema e sull’opportunità di riforme costituzionali. Si tratta del retaggio della forte polarizzazione presente nell’immediato dopoguerra, con forti partiti antisistema: anche se in Francia la Quinta repubblica ha compiuto 50 anni nel 2008, a sinistra non è del tutto sparita l’ostilità al modello gollista che l’unico presidente socialista della Repubblica, François Mitterrand, ebbe a definire un «colpo di Stato permanente».
Mentre Germania e Spagna sono soprattutto occupate ad adattare le diverse matrici federali alle sfide dell’europeizzazione (ma nel secondo Paese pesa in maniera decisiva tanto la presenza del nazionalismo basco quanto il difficile processo di riforma degli statuti delle comunità autonome più in generale), nel Regno Unito vi sono stati, nell’ultimo decennio, importanti trasformazioni che, secondo alcune letture radicali, avrebbero messo in discussione il tradizionale ‘modello Westminster’. La patria del modello maggioritario di democrazia avrebbe visto significative revisioni in conseguenza delle seguenti trasformazioni: a) aumento del potere del parlamento (nei confronti del governo) e, in questo ambito, potenziamento della House of lords; b) devolution, con la nascita di nuovi parlamenti con competenze in importanti settori di policy (tra cui sanità, istruzione, trasporti); c) approvazione dello Human rights act e nascita di una Corte suprema; d) fiorire di organismi non maggioritari e non partitici, i cosiddetti QUANGOS (Quasi Non-Governmental Organisations).
A questi fattori si oppongono però importanti motivi di stabilità nel sistema, centrati soprattutto sul mantenimento del sistema elettorale maggioritario a un turno, fondamentale per difendere il modello Westminster descritto ormai un quarto di secolo fa da Arend Lijphart in due dei suoi fondamentali capisaldi: un sistema sostanzialmente bipartitico (dove cioè due soli partiti sono alternativamente in grado, da soli, di formare il governo), la permanenza del carattere non scritto della costituzione. Se pensiamo che la devolution non riguarda ben l’85% della popolazione del Regno Unito – cioè l’intera Inghilterra – e che alle prossime elezioni vi sarà probabilmente un arretramento nel voto ai partiti minori rispetto al 2001 e al 2005, è plausibile che, nel lungo periodo, quello che ne uscirà sarà un modello Westminster solo parzialmente rivisto (Constitutional futures revisited, 2008).
Personalizzazione e cambiamento dei partiti
Più in generale, la presidenzializzazione sembra allora indicare che, a prescindere dalle specificità istituzionali con le quali si governano oggi i maggiori Paesi europei, vi è una tendenza comune a una più accentuata personalizzazione della politica, a tutti i livelli territoriali di governo. Se per l’Italia il protagonismo di sindaci e presidenti di Regione è una novità degli ultimi 15 anni, legata al meccanismo dell’elezione diretta, per gli altri Paesi si può dire che rappresenti invece un connotato con radici ben più profonde, per quanto diversificato: si pensi alle differenze tra la cosiddetta pratica del cumulo dei mandati in Francia (Chirac è stato sindaco di Parigi per 18 anni, dal 1977 al 1995, mentre ricopriva ruoli politici di primo piano a livello nazionale) e il ruolo di trampolino di lancio che storicamente rappresenta, in Germania, la presidenza di un Land (Schröder la ottenne prima di diventare cancelliere, così come il suo sfidante del 2002, Edmund Stoiber). In questo decennio, il trend che può essere segnalato nella personalizzazione politica locale è allora quello che vede il sostanziale fallimento – con l’eccezione importante di Londra – dell’introduzione del modello dell’elezione diretta del sindaco in Gran Bretagna.
È da almeno vent’anni che in Occidente si parla insistentemente di crisi dei partiti. Ma i partiti sono sempre lì, anche se non sono più gli stessi di quarant’anni fa, quando si diffuse il modello (tipico delle formazioni socialiste) del partito di massa, nel momento stesso in cui, come ebbe a notare il politologo Otto Kirchheimer, venivano meno le condizioni sociali per un suo capillare e duraturo radicamento e nascevano tendenze ‘pigliatutto’ (catch-all). I partiti europei del 21° sec. sono diversi soprattutto perché hanno sempre meno iscritti e attivisti, e sono sempre più spesso guardati con diffidenza dall’opinione pubblica. Per sopperire a questa incerta legittimità essi stanno sempre più cercando di conquistare stabili fonti di finanziamento che li rendano più autonomi sia dalle quote degli iscritti, sia dal collateralismo, in particolare nel caso dei sindacati. Se il New labour è nuovamente il partito che ha sperimentato mutamenti più radicali, rendendosi autonomo, già a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, dalla vera e propria dipendenza organizzativa e finanziaria delle Trade unions, la tendenza più significativa degli ultimi anni (Gran Bretagna a parte) è quella che vede una sempre maggiore dipendenza dei partiti europei dalle fonti pubbliche di finanziamento, usate per sopperire al progressivo venir meno delle quote di iscrizione.
Di conseguenza, quasi ovunque i partiti europei sono oggi organizzazioni più leggere e flessibili rispetto a vent’anni fa: l’ultimo decennio, indipendentemente dai mutamenti formali sperimentati in alcuni Paesi, o progettati in altri, non ha fatto altro che rafforzare questa tendenza verso una maggiore personalizzazione, con strutture più snelle e sempre più ritagliate attorno alla figura del leader. Vi sono eccezioni a questi trend, come quella dei socialisti francesi, che sembrano esprimere un certo ritardo della sinistra nel comprendere la centralità dell’aspetto organizzativo per la competitività sul mercato elettorale. Più in generale, i partiti di sinistra, al governo alla fine degli anni Novanta, si sono in molti casi modernizzati, ma non sempre sono riusciti a rispettare le loro promesse di riforma, spesso a causa della presenza di veti nel loro campo di riferimento. Inoltre, come dimostrano molte parole d’ordine oggi in voga a destra, dal conservatorismo compassionevole di David Cameron all’economia sociale di mercato di Angela Merkel, fino al protezionismo nazional-popolare di Sarkozy, le destre sembrano aver individuato parole chiave grazie alle quali posizionarsi stabilmente nel tradizionale terreno di conquista della sinistra. La sola eccezione, almeno fino al 2008, sembra quella del Partido popular in Spagna, impegnato in una strategia di opposizione frontale e spesso pregiudiziale verso Zapatero: la cosiddetta politica della crispación (lett.: «muro contro muro») non ha però dato i frutti attesi (La Spagna di Zapatero, 2009).
In prospettiva comparata, occorre però segnalare che in Italia le dinamiche di personalizzazione sono generalmente più forti rispetto agli altri Paesi europei, soprattutto a causa del generale indebolimento dei partiti conseguente alla radicalità della trasformazione del sistema politico nei primi anni Novanta, con la delegittimazione dei partiti di governo della prima Repubblica a seguito delle inchieste di Tangentopoli. Al contempo, si può però anche notare che la moda delle primarie che ha decisamente preso piede nel centrosinistra italiano negli ultimi anni supera tutte le tendenze di apertura al voto degli iscritti che diversi ‘cugini’ europei hanno messo in atto nell’ultimo decennio: l’apertura, se non accompagnata da un’adeguata attenzione al territorio e al vero coinvolgimento delle strutture di base, rischia di diventare un omaggio sterile al ‘direttismo’.
Non vi sono dati aggiornati per verificare l’ipotesi di un omogeneo spostamento a destra dell’elettorato in quest’ultimo decennio, ipotesi che sembrerebbe ovvia considerando le sole cifre con le quali siamo partiti, cioè il numero di governi controllato dai partiti dei due schieramenti. Gli strumenti più affidabili, ossia le inchieste elettorali condotte a livello nazionale, contengono spesso domande con formulazioni diverse e, quindi, di difficile comparabilità. In ogni caso, sarà necessario attendere alcuni anni per avere dati sull’intero periodo. Pochi possono però negare che le strategie di alcuni leader di destra siano state cruciali per ribaltare lo scenario politico rispetto agli inizi del nuovo secolo. Non si può però dimenticare che in nessun grande Paese europeo – tranne la Gran Bretagna uscita da quasi vent’anni di thatcherismo – la sinistra agli inizi del 21° sec. è stata in grado di raccogliere vittorie elettorali nette e non legate a particolari alchimie coalizionali o eventi congiunturali.
La tortuosa via verso Lisbona
Dieci anni fa nasceva la moneta unica che per l’Italia ha rappresentato un ancoraggio fondamentale alle più solide economie del continente, oltre che un pungolo decisivo nel processo di riforma della finanza pubblica. L’anno 2000, per l’Europa, vuol dire Trattato di Nizza: ancora oggi, a causa dei referendum francese e olandese del 2005 e di quello irlandese nel 2008, è quello vigente. Perché questi tre referendum hanno rallentato così tanto l’approvazione dei trattati?
Se guardiamo ai dati dell’Eurobarometro, lo strumento della Commissione europea per conoscere l’orientamento dell’opinione pubblica, non riusciamo a scorgere chiare tendenze rispetto a dieci anni fa: il sostegno alle istituzioni è altalenante, e addirittura leggermente in crescita nell’ultima rilevazione disponibile, quella di dicembre 2008. Occorre tuttavia andare oltre questo pur importante indicatore. Il vero problema è infatti che l’UE, una volta raggiunto l’obiettivo della moneta unica, nel 1999, non è stata in grado di fornire alcun altro progetto ideale attorno al quale motivare i leader nazionali, se non quello di scaldare gli animi dei suoi oltre 500 milioni di cittadini, peraltro storicamente tiepidi verso le lontane istituzioni europee (L’Europa di carta, 2009).
Nel 2000 veniva anche lanciata la strategia di Lisbona, che mirava a costruire una crescita economica sostenibile e una maggiore coesione sociale. Obiettivi importanti per confermare il successo dell’UE come grande area di sviluppo ed equità senza pari al mondo, ma non legati a un progetto forte come quello del mercato o della moneta unica, sebbene quest’ultima sia stata inizialmente vista (in Italia molto più che all’estero) come potenziale fonte di inflazione. Ebbene, nove anni dopo il lancio dell’agenda di Lisbona, il bilancio sulla strada percorsa, mentre non sono ancora quantificabili le conseguenze della crisi economica esplosa nel 2008, è pieno di incertezze, e in fondo alle classifiche sui singoli criteri (innovazione, liberalizzazioni, occupazione e inclusione sociale, sviluppo sostenibile, ammodernamento delle imprese) ritroviamo quei Paesi che, con un acronimo non proprio gratificante, una certa stampa britannica chiama i PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna; Tilford, Whyte 2009).
Il fatto che la crisi abbia portato le economie dell’Est sull’orlo del tracollo, da una parte ci conduce a individuare uno degli argomenti per spiegare l’indebolirsi dell’europeismo, e cioè l’allargamento del 2004 (sia perché alcuni nuovi membri contendono alla Gran Bretagna il primato dell’euroscetticismo, sia perché è diffusa la percezione che l’ingresso sia stato in alcuni casi troppo frettoloso: nel 2009 oltre la metà dei francesi e dei tedeschi lo pensa, e l’argomento consolida ulteriormente le fortune di diversi partiti euroscettici); dall’altra non può farci dimenticare che c’è un’altra strada per Lisbona, quella dell’omonimo Trattato firmato nel 2007, che verrà (ri)sottoposto nell’ottobre 2009 agli elettori irlandesi: per la prima volta dalla nascita ufficiale dell’UE con il Trattato di Maastricht, le istituzioni europee non sono state modificate nel loro funzionamento per quasi un decennio.
Ovviamente vi sono molteplici cause alla base di questo stallo istituzionale. Secondo la corrente più ‘eurofila’, la mancanza di un progetto sarebbe, assieme all’assenza di leader ‘forti’ ispirati a un avanzamento dei processi sovranazionali, come erano stati Helmut Kohl, Mitterrand o Jacques Delors, tanto per citare alcuni dei protagonisti degli anni Novanta, uno dei fattori decisivi. Per altri, in realtà, lo stallo segnala che si è raggiunto un plateau al di sopra del quale si potrà andare solo con piccoli cambiamenti di tipo incrementale. In altre parole, gli ultimi anni dimostrerebbero che non possiamo più ispirarci allo slogan del primo Trattato di Roma, di oltre mezzo secolo fa, che parlava di una «unione sempre più stretta fra i popoli d’Europa», ma che occorre comprendere veramente cosa significa quanto citato nel preambolo del secondo Trattato di Roma (quello, non approvato, del 2004, poi largamente riesumato nel Trattato di Lisbona) dell’«unione nella diversità». Se allora è possibile che lo stop irlandese alla seconda strada che porta a Lisbona (quella più propriamente politica, che consiste soprattutto nella nascita di una figura di presidente fisso dell’Unione, di un alto rappresentante come vice con le funzioni di politica estera, di un processo decisionale più snello ed efficiente) sia solo temporaneo, all’orizzonte rimangono comunque diversi dubbi, soprattutto legati alla capacità dell’UE di agire da protagonista sullo scenario internazionale.
In questo contesto, la crisi economica del 2008 ha rafforzato i dubbi, già presenti in larga parte dell’opinione pubblica europea, su un ulteriore allargamento nei prossimi anni. Il caso più scottante è quello della Turchia, la cui adesione (che, in ogni caso, richiederà tempi molto lunghi) è apertamente osteggiata dall’asse franco-tedesco, cioè da Sarkozy e Merkel, nonostante l’appoggio dato, nella sua prima visita presidenziale in Europa, da Barack Obama. La stessa crisi ha però contribuito a rafforzare, almeno nelle élites di alcuni Paesi, la percezione che l’euro sia stato uno scudo importante, soprattutto per molte economie fragili. Così, se il «Financial Times» (A Union afflicted by expansion blues, 4 maggio 2009) stigmatizzava che nessuno avesse festeggiato, nel maggio 2009, i cinque anni dell’allargamento – ricordando però l’importanza di mantenere ben saldi i criteri per l’adesione, cosa non fatta per gli ultimi accessi di Bulgaria e Romania nel 2007 – nello stesso periodo alle porte dell’UE sembravano bussare nuovi potenziali Paesi membri da tutte le direzioni: dall’Islanda all’Ucraina, dalla Croazia all’Albania. Certo, il fatto che il primo semestre del 2009 sia stato guidato dalla presidenza ceca non ha contribuito a dare smalto all’azione comunitaria in un anno così importante per il futuro dell’UE sotto tutti gli aspetti, politico, sociale ed economico.
Chi segue il dibattito europeo sa che, al di là degli specifici meriti del processo di allargamento, che con la duplice ondata del 2004 e 2007 ha portato il numero dei Paesi membri a 27, in questi anni le diplomazie europee sono state soggette a forti tensioni. Nel giugno 1999 nasceva la Politica europea di sicurezza e difesa (PESD). Pochi mesi dopo il cruciale vertice franco-britannico Chirac-Blair di Saint-Malo, nel quale venivano superate le ostilità britanniche al rafforzamento delle strutture militari dell’Unione Europea, sembrava così aprirsi una prospettiva per superare uno degli storici ostacoli a un più compiuto processo di integrazione sovranazionale: quello appunto dell’uso coordinato della forza. In quei mesi, all’incapacità di reazione europea di fronte alla guerra scoppiata con la disgregazione della Iugoslavia negli anni Novanta, era seguito un intervento europeo sotto le bandiere della Nato nella guerra del Kosovo. Dieci anni dopo, se guardiamo oltre la forte spaccatura sulla guerra in ῾Irāq, si devono sottolineare importanti progressi nell’impegno dell’Europa in diversi scenari di guerra, non solo nei Balcani, ma anche in Libano o in altre missioni in Africa. Le vie per Lisbona sono lunghe e tortuose sia nella dimensione socioeconomica, sia in quella politica. Tuttavia, la strada fatta è comunque tanta ed è possibile che un giorno i passi falsi dei referendum verranno interpretati anche come salutari momenti di riflessione sull’identità dell’Europa, soprattutto se inquadrati nella nuova prospettiva del dialogo transatlantico apertasi con l’elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti.
Alla ricerca del civis europeo
Sarebbe un po’ ingeneroso, pochi giorni dopo le elezioni per il Parlamento europeo del giugno 2009, ricordare che non ha perso validità l’analisi dello storico inglese David Marquand che, proprio trent’anni fa, in vista delle prime elezioni dirette, parlava di «deficit democratico». Il problema è certamente ancora aperto, se è vero che, oggi come allora, la distanza tra l’opinione pubblica europea e un processo decisionale di difficile comprensione, rimane molto ampia. Se è vero, inoltre, che ancora oggi le elezioni europee si vincono praticamente solo su temi nazionali, nonostante il costante aumento dei poteri del Parlamento europeo negli ultimi anni. In realtà i maggiori studiosi dell’integrazione europea si confrontano in modo intenso sull’effettiva permanenza di tale deficit, che dipende in ultima misura da quale concezione della democrazia si adotta per quello strano ibrido che è l’Unione Europea. Da una parte, alcuni (Andrew Moravcsik, Giandomenico Majone) ritengono che non vi sia deficit, e che le peculiarità dell’architettura europea siano tutto sommato compatibili con una diversa concezione della democrazia, rispetto a quella che abitualmente si applica agli Stati nazione. Dall’altra, vi sono studiosi (Simon Hix su tutti; cfr. Hix 2008) che sostengono invece come sia fondamentale affrontare di petto il problema della legittimità, che si riassume nel fatto che solo la metà dei cittadini ritiene positiva l’appartenenza del proprio Paese all’UE. In questo senso, le proposte, più o meno futuribili, includono l’elezione diretta del presidente della Commissione, un generale rafforzamento dei meccanismi di accountability e un intervento più diretto in settori chiave del mercato del lavoro, per favorire l’occupazione. In sintesi, una maggiore politicizzazione delle istituzioni sovranazionali dell’UE che semplifichi il quadro attuale, non certo aiutato dalla diffusa percezione dell’opacità della commissione Barroso.
Se ci limitassimo ad analizzare i valori della partecipazione al voto nelle elezioni europee, il quadro sarebbe in effetti abbastanza fosco: dal 63% del 1979 al 43% del 2009 la differenza è molto forte, e supera quella tendenza all’aumento dell’astensionismo che gran parte delle democrazie occidentali ha sperimentato, nello stesso arco temporale, per le elezioni nazionali. Ma se restringiamo il focus dal livello europeo a quello nazionale, il rapporto tra cittadini e politica più in generale, nell’ultimo decennio, è caratterizzato dalla crescita di sentimenti antipolitici, oltre che dalla conferma di trend già evidenti negli anni precedenti, quali appunto il calo della partecipazione, degli iscritti ai partiti e del livello di party attachment degli elettori, oltre che dalla periodica insorgenza di formazioni populiste e antiestablishment.
Ovviamente questo non significa ignorare il problema del deficit democratico, sulla base dell’assunto secondo cui, siccome i cittadini votano di meno alle elezioni nazionali (di ‘primo ordine’), non ci si potrebbe attendere che un trend in discesa per il voto europeo (di ‘secondo ordine’). È però essenziale considerare i dati sopra citati nel contesto più ampio delle trasformazioni della partecipazione politica nelle democrazie europee. Ebbene, su questo aspetto non si può ignorare un altro dato essenziale: il comportamento di voto, per quanto spesso guidato da identificazioni di schieramento, è sempre meno frutto di una scelta di appartenenza di lungo periodo e sempre più sottoposto, oltre che all’opzione dell’astensione, a quella del cambio di partito da un’elezione all’altra (o da un tipo di elezione all’altra). Il fenomeno è ben conosciuto in Italia, dal momento che nella transizione avviatasi nel nostro Paese negli ultimi quindici anni, il predominio elettorale del centrodestra non viene scalfito da una mobilità di voto che si mantiene entro il perimetro dello schieramento. Allargando però lo spettro a tutte le maggiori democrazie occidentali avanzate, l’indice di volatilità, che rileva quanti elettori cambiano partito da un’elezione all’altra (e che ebbe proprio nelle elezioni italiane del 1994 il livello record di 36) è ovunque in ascesa (Baldini, Pappalardo 2009). Questo segnala che, al di là degli specifici problemi con i quali si confronta la sfera politica europea, in tutto l’Occidente le scelte di voto sono sempre meno stabili e radicate. Con tutto quello che ciò comporta in termini di efficacia dei sistemi elettorali nel determinare le strutture dei sistemi partitici, oltre che di composizione e stabilità degli esecutivi e, più in generale, di capacità dell’ingegneria istituzionale di risolvere efficacemente le patologie dei diversi sistemi politici.
Accanto a queste tendenze, occorre sottolineare che i principali Paesi europei mantengono alcune specificità, a dispetto della comune collocazione in processi quali la globalizzazione o l’europeizzazione dei sistemi politici e soprattutto delle politiche pubbliche. In particolare, la Spagna è l’unico Paese dell’Europa occidentale in cui, grazie al ritorno alla democrazia alla fine degli anni Settanta, il trend delle iscrizioni ai partiti appare sostanzialmente stabile negli ultimi 25 anni; al contrario, in Francia tale livello è sistematicamente basso, circa la metà rispetto alla media europea del 5% di iscritti sugli elettori. O ancora, si potrebbero citare i dati sul persistente euroscetticismo presente in gran parte dell’elettorato britannico, o sulla grande importanza che le elezioni regionali rivestono, rispetto a omologhe consultazioni in altri Paesi, tra l’elettorato tedesco. Insomma, da uno sguardo d’insieme sui grandi Paesi europei non si segnalano evidenti segni di uniformazione del comportamento politico dei cittadini. Non sorprende quindi rilevare che recenti studi concludano che non si può parlare di un’identità europea al singolare (European identity, 2009). Allo stesso modo, non esiste un civis europeo predominante, anche se in molti Paesi l’identificazione con la propria nazione convive in maniera virtuosa con quella europea.
Poteva forse apparire scontato, ma così come esistono in ogni Paese diverse modalità di avvicinarsi alla politica, allo stesso modo le importanti tendenze che coinvolgono molte democrazie occidentali, dall’apatia all’antipolitica, non cancellano alcune tradizionali specificità nazionali ancora oggi osservabili. Non esiste quindi un unico modello di cittadino di fronte al mutevole scenario politico europeo. Ciò che semmai i partiti cercano di conquistare oggi è un elettorato sempre più scettico e sospettoso, non più disposto a firmare assegni in bianco come un tempo.
Prima e dopo la crisi economica
Dovrebbe ormai essere evidente che questo primo decennio del 21° sec. che va a chiudersi ha rappresentato un periodo sia di innovazione, sia, sotto altri aspetti, di grande continuità. Nel primo solco si collocano certamente i due maggiori fenomeni ai quali abbiamo dedicato la nostra attenzione: il predominio elettorale della destra a livello europeo e una certa crisi dell’europeismo, largamente confermata dalle elezioni europee del 2009. Per entrambi i punti abbiamo cercato di capire cosa si nasconde dietro i numeri del cambiamento, a partire dall’interpretazione stessa del dato numerico. Per la personalizzazione e la trasformazione dei partiti si può parlare di rafforzamento di cambiamenti già in atto nel precedente decennio. Nel secondo ambito, cioè quello della sostanziale continuità, troviamo invece la permanenza di diverse specificità nazionali sia per quanto concerne le architetture istituzionali (che comunque hanno visto un nuovo protagonismo delle regioni), sia nell’orientamento dei cittadini verso la politica, che si conferma distante, quando non apertamente scettico o addirittura disgustato, al punto da considerarlo ormai un aspetto strutturale con il quale fare i conti.
Le particolari dinamiche in corso a livello comunitario sono state colte in un’analisi a caldo sulle cause della vittoria del no nel referendum irlandese del giugno 2008 (L. Caracciolo, Il trionfo dell’Euronoia, «la Repubblica», 14 giugno 2008). L’euronoia potrebbe essere il risvolto europeo di tendenze presenti nell’orientamento politico di molti cittadini verso i rispettivi sistemi politici nazionali. In questo senso, le opzioni di voice, cioè di protesta più o meno forte e articolata, diventano facilmente spendibili soprattutto a livello europeo: come è evidente dalle inchieste postreferendum irlandese, molti elettori intendevano esprimere uno scontento nella consapevolezza che la vittoria del no non li avrebbe penalizzati: visto che l’economia iniziava a rallentare e il Paese non traeva più i soliti benefici dalla propria appartenenza comunitaria – anzi, rischiava di perdere parte dei poteri di veto che i vecchi trattati lasciano ai piccoli Paesi – allora tanto valeva far sentire la propria voce, senza interrogarsi sulle conseguenze politiche del risultato. O forse, nei casi più informati, nella consapevolezza che «nessuno sarebbe stato lasciato indietro» e che un nuovo negoziato avrebbe portato almeno a qualche revisione. Se infatti il risultato irlandese ha stupito perché il Paese è tradizionalmente tra i più europeisti, ed è diventato negli anni Novanta la ‘tigre celtica’ anche grazie ai fondi europei, le analisi di quel voto hanno mostrato che, tra le diverse componenti del no, quella puramente euroscettica era minoritaria rispetto alla conservazione del particolare status del Paese (neutrale, antiabortista), o degli assetti comunitari (un proprio commissario a Bruxelles) o, infine, alla percezione dell’offuscamento dell’incapacità dell’UE di fare da scudo verso la montante crisi economica.
Questo punto è cruciale per l’intera evoluzione dei sistemi politici europei: sono soprattutto i gruppi sociali più periferici (tanto in senso geografico quanto in senso economico: operai e lavoratori non specializzati in genere, o coloro che rimangono ai margini del mercato del lavoro) ad aver votato contro gli ultimi trattati, tanto in Irlanda nel 2008, quanto in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005. Con l’avanzare della crisi in tutta l’Europa, è possibile che l’aumento della disoccupazione (o comunque la percezione del rischio di cadere nella precarietà) favorisca i partiti che esprimono una tendenza protezionista e slogan populisti. Ciò diventa più importante in quanto la crisi rischia di travolgere anche il ceto medio, tradizionale sostenitore della globalizzazione e dell’integrazione europea.
Rimangono aperti interrogativi importanti, che potranno trovare qualche risposta nei prossimi mesi. Il primo e più immediato riguarda la capacità della sinistra di recuperare terreno, grazie alla crisi economica che ha messo in discussione alcune certezze del liberismo. Le elezioni del 2009 hanno messo in evidenza la capacità delle destre di affermarsi su piattaforme keynesiane, mostrando l’incapacità della sinistra di cogliere le opportunità di riscatto a seguito del declino del modello liberista (B. Valli, La destra keynesiana che batte il socialismo, «la Repubblica», 9 giugno 2009). La possibilità dei partiti di sinistra di tornare a governare dipende dalla loro capacità di dare risposte chiare all’incertezza che pervade la società rispetto al futuro. Da questo punto di vista, sebbene quelle europee siano ancora oggi elezioni di ‘secondo ordine’, nelle quali cioè gli elettori votano, come si dice, con il cuore più che con il cervello, alcuni segnali arrivati da Strasburgo sono preoccupanti. Rimane da vedere se i messaggi populisti di chiusura avranno successo anche nelle prossime elezioni politiche, a partire da quelle tedesche del settembre 2009. Se così sarà, l’intera Europa rischia di entrare, in chiusura di questo primo decennio del nuovo secolo, e nel momento in cui uno scatto di innovazione nelle istituzioni europee si fa sempre più urgente, in una difficile fase di turbolenza politica.
Bibliografia
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