di Beda Romano
I programmi di coalizione in Germania hanno il merito di essere chiari. Non mancano le ambiguità costruttive, come le chiamano i banchieri centrali: frasi che permettono – se necessario – di rivedere le proprie posizioni e aggiustare il tiro. Eppure le quasi duecento pagine preparate dai socialdemocratici e dai cristiano-democratici in due mesi di trattative in vista della formazione di un nuovo governo di grande coalizione – il terzo esecutivo di questo tipo dal 1949 (dopo quelli del 1966-69 e del 2005-09) – rivelano quale sia la visione tedesca dell’Europa. Non c’è in questo momento nell’establishment politico tedesco la volontà o il desiderio di marciare spediti verso un’Europa più federale. Piuttosto, lo spirito è quello di ottenere un’Europa confederale, nella quale prevalga sempre il ruolo dei singoli governi nazionali. Non per altro, la Germania rifiuta ancora la mutualizzazione dei debiti pubblici, la prospettiva di una garanzia unica dei depositi bancari europei, la nascita in tempi rapidi di uno strumento finanziario federale con cui gestire le crisi creditizie. Ha chiesto e ottenuto che da Francoforte la vigilanza bancaria della Banca centrale europea (ECB) riguardi le grandi banche, mentre i piccoli istituti di credito rimarranno tendenzialmente sotto l’egida delle autorità nazionali. Lo stesso meccanismo unico di gestione delle crisi bancarie sta nascendo con un’impronta confederale più che realmente federale.
Molti osservatori puntano il dito contro una Germania egoista ed egemonica, colpevole di non aiutare sufficientemente i paesi più deboli della zona euro e di introdurre troppi ostacoli e intoppi tutte le volte che si tratta di mettere in comune le forze per uscire dalla crisi economica. Più in generale, c’è senz’altro da parte della Germania quella mancanza di fermezza istituzionale e di lungimiranza politica che la dovrebbe indurre a fare scelte coraggiose, trascinando con sé gli altri paesi europei verso un’Europa più coesa. In questo senso, la cancelliera Angela Merkel ha dimostrato di avere una visione troppo geopolitica dell’Unione Europea. Eppure, accusare il paese di essere diventato euroscettico e di avere atteggiamenti assertivi sarebbe un errore di analisi. Dopotutto, la forza della Germania non è anche forse il riflesso della debolezza dei suoi partner? E la lenta integrazione europea non è forse la conseguenza di un europeismo freddo, sempre più radicato anche in altri paesi? Secondo un sondaggio pubblicato alla fine del 2013 dal centro di ricerche londinese Opinium Research, il 55% dei tedeschi considera la presenza della Germania nell’Unione Europea una buona cosa (la percentuale dei francesi è appena del 36%). Alla domanda se la partecipazione del paese all’EU comporti più benefici o più svantaggi, il 35% dei tedeschi opta per i vantaggi; solo il 16% dei francesi faceva altrettanto. Dopo aver proposto in varie occasioni ma senza successo – forse anche perché l’iniziativa è stata presa troppo timidamente – di puntare su un’Unione più federale, associando una mutualizzazione dei debiti pubblici a una cessione di sovranità, la Germania si è richiusa pericolosamente su se stessa.
Preoccupata dall’evoluzione dell’Unione, a cui contribuisce paradossalmente anche la stessa strategia politica tedesca, la Repubblica Federale ha affidato un ruolo crescente nell’iter decisionale europeo alle proprie istituzioni nazionali. La Corte costituzionale di Karlsruhe è chiamata a valutare le principali decisioni europee. Il Bundestag a Berlino deve approvare volta per volta i pacchetti di aiuto finanziario ai paesi in difficoltà. La Bundesbank a Francoforte è una voce spesso critica della politica monetaria nel consiglio direttivo della Banca centrale europea. È facile attribuire il crescente controllo delle istituzioni tedesche sulla vita politica europea a una presunta volontà egemonica della Germania. In realtà, è il risultato di scelte europee controverse che, ad Amburgo o a Stoccarda, a Colonia e a Dresda, preoccupano il cittadino tedesco. La Germania aveva firmato il Trattato di Maastricht ormai vent’anni fa con l’impegno che non vi sarebbero stati salvataggi dei paesi partner e monetizzazioni dei debiti pubblici. Oggi questi due principi sono stati messi drammaticamente in dubbio dallo sconquasso finanziario, economico e debitorio, tanto da indurre la
Repubblica Federale a fare delle sue istituzioni di Karlsruhe, Berlino e Francoforte gli snodi essenziali della politica europea.
In questo contesto anche la politica economica dell’Unione continuerà nel futuro prevedibile a essere la somma di scelte nazionali, più che un volano continentale. In Germania, il programma di coalizione presentato alla fine del 2013 prevede un piano di investimenti infrastrutturali, l’adozione
di un pedaggio sulle autostrade, l’introduzione di un salario minimo e nuove misure per incentivare l’immigrazione (tra le altre cose consentendo agli stranieri diventati cittadini tedeschi di mantenere la doppia nazionalità). Il tentativo è anche di rafforzare la domanda interna, su cui pesano un’innata preoccupazione del futuro e il crescente invecchiamento della popolazione, così da aiutare le esportazioni dei paesi partner. Agli osservatori più critici e agli economisti più keynesiani, gli impegni del nuovo governo Merkel possono sembrare timidi e insufficienti per sostenere le economie nazionali del Sud Europa. È possibile, ma in un contesto confederale sembra essere oggi il massimo possibile.