Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel mondo romano officine e botteghe, cantieri edili, arsenali e porti divengono lo scenario di conoscenze pratiche assai avanzate. Artigiani, navigatori, architetti e costruttori di macchine sono protagonisti attivi della pratica della scienza di questo periodo: anche se queste conoscenze non sono entrate se non marginalmente nella letteratura del tempo, i reperti archeologici illustrano chiaramente il livello raggiunto dagli artigiani. Sintomatico il caso del vetro, la cui produzione non diviene soltanto un fatto di costume, ma favorisce anche l’acquisizione di innovative conoscenze in campo scientifico e tecnico.
Uno dei settori che meglio si presta alla valutazione delle ricadute sui saperi tecnico scientifici delle attività che avevano luogo nelle officine e botteghe è quello della produzione vetraria. L’impressionante e progressiva diffusione degli oggetti in vetro nel mondo romano dipende da una profonda innovazione tecnologica legata sia a precise indagini sperimentali che a riflessioni sulla composizione della materia e sulla sua funzionalità scientifica. Oggetto d’arte e di uso quotidiano dalle straordinarie funzionalità, il vetro non è solo un fatto di costume che attraversa tutti i ceti sociali, ma anche un materiale di cui si percepisce l’importanza per produrre significativi avanzamenti della conoscenza. Plinio (Nat. Hist., 36, 65-68) attribuisce l’invenzione del vetro ai Fenici, che ne fecero una vera e propria industria e la principale attività economico-commerciale di quell’area geografica. Oggi sappiamo che l’introduzione del vetro dovette in realtà avvenire in Mesopotamia nel corso del III millennio a.C. per poi diffondersi in Egitto.
Plinio menziona i tre ingredienti essenziali, soda, silice e calce, che sotto l’azione del fuoco e attraverso varie fasi di lavorazione ottengono il vetro, assumendo diverse colorazioni, dimensioni e forme a seconda del trattamento. La trasparenza, la qualità più apprezzata, dipende dalla purezza degli ingredienti. Quando Plinio scrive questo brano, la tecnica della soffiatura ha già rivoluzionato la lavorazione del vetro, rendendola rapida ed economica. La mancanza di reperti archeologici non permette di conoscere la fisionomia delle fornaci, che dovevano essere realizzate in modo da mantenere la temperatura di fusione attorno ai 1000-1300° C, così da trattenere il calore e diffonderlo uniformemente sugli ingredienti del vetro. La costruzione di fornaci è il presupposto per l’apertura di officine vetrarie, che sorgono numerose anche in Italia, spesso gestite da artigiani orientali. Il cospicuo numero di ritrovamenti archeologici e i numerosi riferimenti nelle fonti letterarie testimoniano la varietà di usi cui il vetro viene destinato. Il vasellame domestico in terracotta e in metallo viene progressivamente sostituito da quello in vetro, cui si riconoscono particolari e apprezzate qualità per la conservazione di frutta, cibi e bevande, sostanze farmaceutiche. Inodore e trasparente, il vetro consente finalmente di controllare lo stato delle sostanze contenute all’interno del recipiente.
Si tratta di una rivoluzione di costume che trova conferma anche nell’arte, dove il vetro trasparente diviene il soggetto prediletto specialmente nel genere delle nature morte. Alla diffusione di questo materiale si lega anche il celebre episodio, narrato da Petronio (Satyricon, 51), della presunta scoperta della tecnica per realizzare un vetro infrangibile da parte di un artigiano: presentatosi all’imperatore Tiberio, sarebbe stato messo a morte onde evitare che i metalli finissero con l’essere svalutati dall’invenzione di una phialam vitream che, buttata in terra, non frangebatur. È interessante osservare che proprio a questo episodio hanno più volte fatto riferimento gli storici della scienza, i quali hanno ritenuto di dovervi scorgere una prova inconfutabile dell’avversione delle classi di potere della società romana imperiale verso il progresso, traendone spunto per delineare i contorni di una politica volutamente ostile nei confronti dell’innovazione tecnologica. A tal proposito, le vicende recenti degli studi hanno ormai dimostrato come la sola ricostruzione letteraria non possa offrire uno spaccato del reale svolgimento dei fatti, per comprendere i quali occorre che il dialogo tra le fonti sia totale. È nota la valutazione negativa del lavoro degli artigiani da parte delle aristocrazie latine, che attraverso le parole di Cicerone e Seneca hanno consegnato ai posteri il disprezzo di questa parte di società nei confronti delle attività che si svolgevano dentro officine e botteghe; tuttavia, in direzione opposta va l’abbondantissima documentazione archeologica, che nello specifico mostra quanto fossero apprezzati e diffusi i lavori dei vetrai.
Inoltre la notevole diffusione del vetro trasparente dimostra come, sin dall’antichità, questo materiale sia stato impiegato anche nell’ambito delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, generando talvolta risultati innovativi.
Numerose testimonianze letterarie indicano che oggetti in vetro e cristallo di rocca, opportunamente lavorati, hanno stimolato una serie di osservazioni relative alla possibilità di impiegare questi materiali per modificare la visione naturale. Considerate prevalentemente come ornamenti femminili, molte lenti giacciono nei depositi dei musei archeologici in Italia e in Europa. Eppure, le caratteristiche di questi vetri dovevano essere già note presso la civiltà mesopotamica; alla metà dell’Ottocento l’archeologo Austen Layard, scavando l’area occupata dal palazzo reale di Sargon II (re dal 722 al 705 a.C.) a Ninive, entrato nel vano che avrebbe poi indicato come Sala del trono, si era imbattuto in un pezzo di cristallo di rocca dal profilo ovale, convesso, un po’ rovinato sulla superficie e recante sul bordo il segno di una cornice nella quale doveva essere stato inserito. L’oggetto venne immediatamente descritto come una lente, specificando che poteva trattarsi del più antico esemplare noto, oppure, in alternativa, di una lente ustoria. Del resto, alcuni testi in cuneiforme rinvenuti nel palazzo di Sargon parlano espressamente di “lenti per aumentare la vista adoperate dagli astronomi di corte”, un dato che sembra adattarsi particolarmente bene alle notevoli conoscenze astronomiche e astrologiche dei popoli mesopotamici, la cui precisa e dettagliata ricognizione della volta stellata potrebbe essere dipesa, almeno in parte, anche da mezzi di ausilio della vista. Noto come “lente di Sargon”, questo ritrovamento ha alimentato una certa curiosità sul tema dell’utilizzo del vetro presso gli antichi. Alla ricerca di reperti analoghi, gli studiosi hanno individuato oggetti lenticolari in vetro provenienti da scavi archeologici effettuati in Egitto, a Cartagine, a Creta e al Kunsthistorisches Museum di Vienna è possibile ammirare una lente d’ingrandimento di epoca romana, proveniente da Mainz dove fu rinvenuta nel 1875 nel corso dello scavo di un’antica officina vetraria. Interessante la testimonianza di Luis Dutens, un viaggiatore francese ammesso nel 1766 a visitare il palazzo reale di Portici dove allora si conservavano i reperti provenienti dalle città vesuviane: “ho visto, nel gabinetto di antichità del re di Napoli a Portici, diverse lenti di ingrandimento o lenti migliori di quelle che sono in uso tra i nostri incisori oggi” (Dutens, Recherches sur l’origine des découvertes attribuées aux modernes: où l’on démontre que nos plus célèbres philosophes ont puisé la plupart de leurs connaissances dans les ouvrages des anciens et que plusieurs vérités importantes sur la religion ont été connues des sages du paganisme, Paris, Chez la veuve Duchesne, 1766, pp. 223-224). Questi oggetti erano certamente impiegati come ausilio della vista dagli incisori di pietre dure, tra i quali raggiunsero la celebrità Mirmecide e Callicrate, il primo per aver realizzato una quadriga in avorio che poteva essere coperta dalle ali di una mosca, il secondo perché capace di modellare formiche talmente piccole che nessuno riusciva a riconoscerle (Plinio, Nat. Hist., 7, 21). Non dovevano essere rare meraviglie e curiosità di tal genere, se nel medesimo brano Plinio ricorda anche l’esistenza di una copia dell’Iliade scritta su una pergamena e chiusa dentro un guscio di noce. Del resto, in molti musei archeologici è ancora oggi possibile ammirare pietre dure di minuscole dimensioni che recano sulla superficie elaborate e complicate scene mitologiche e ritratti difficilmente apprezzabili ad occhio nudo.
Per quanto concerne la lettura, era noto e diffuso il sistema di utilizzare piccole sfere in vetro riempite d’acqua che, appoggiate sul rotolo scritto, avrebbero ingrandito la grafia dei testi. Seneca infatti dichiara che “[…] tutte le cose sono più grandi se guardate attraverso l’acqua. Le lettere, per quanto sottili e scure, si vedono più grandi e più chiare attraverso un contenitore pieno d’acqua. La frutta sembra più bella di quanto non sia se galleggia in un vaso di vetro. Le stelle sembrano più grandi quando le vedi attraverso le nuvole, perché la nostra visione cresce in un composto […]. Ciò sarà dimostrato se riempi un vaso con l’acqua e vi metti un anello dentro. Allora, sebbene l’anello giaccia sul fondo, la sua immagine è riflessa sulla superficie dell’acqua. […] Perché è così notevole che l’immagine del Sole sia riflessa più ampiamente quando lo si vede attraverso una sostanza mista, dal momento che questo è il risultato di due motivi? In una nuvola vi è una sostanza come il vetro, che riesce a trasmettere la luce e c’è anche qualcosa come l’acqua” (Naturale Quaestiones, I, 6, 5).
La precisa conoscenza di questa proprietà dell’acqua inserita in un contenitore di vetro trasparente è dunque registrata da Seneca che mette in evidenza la fallacia dell’organo visivo. Se il naturalista generalizza la proprietà ingrandente dei fluidi, Aulo Gellio (16, 18) afferma che “una parte della geometria relativa alla vista si chiama ottica [… ] Questa scienza fornisce anche spiegazione delle illusioni ottiche, come l’ingrandimento degli oggetti visti nell’acqua, e la piccola taglia di quelli che sono lontano dagli occhi”.
Altri usi erano legati alla possibilità di combattere i difetti della vista. Plinio (Nat. Hist., 37, 16) afferma che Nerone, miope, si serviva di uno smeraldo, naturalmente concavo, per guardare gli spettacoli nell’anfiteatro. Un verso della Cistellaria (atto I, scena 1) di Plauto, “quando tornai verso casa egli mi seguì con lo sguardo per mezzo del suo conspicillum finché non raggiunsi la porta”, ha scatenato un vivace dibattito su questo termine, la cui comprensione risulta ancora oggi oscura; le ipotesi suggerite spaziano dal tubo ottico a un luogo sopraelevato per meglio osservare ciò che avviene in lontananza.
Notizie cui i moderni tendono a dare poco credito riguardano, inoltre, le proprietà ustorie delle lenti. L’esistenza di oggetti messi in circolazione espressamente per le loro caratteristiche ustorie è chiaramente registrata in un passo delle Nuvole (vv. 765-772), commedia che Aristofane mette in scena ad Atene nel 423 a.C.: Strepsiade, afflitto dai creditori, vuole trovare un modo per non pagarli. Decide che la soluzione migliore è apprendere l’arte dei sofisti, grazie alla quale riuscirà, con la sola dialettica, a convincere delle sue ragioni i suoi interlocutori. Mentre prende lezioni da Socrate, il maestro lo invita a considerare la possibilità di essere citato in un processo che termini con l’obbligo di pagare una multa di cinque talenti.
Davanti a questa eventualità Strepsiade, con evidente soddisfazione, dichiara che ricorrerebbe all’incendio della tavoletta sulla quale è indicata l’ammenda, concentrando su di essa i raggi del Sole per mezzo di una piccola sfera ustoria in cristallo acquistata al mercato cittadino. Evidentemente, almeno nelle grandi città come l’Atene della seconda metà del V secolo a.C., doveva essere possibile acquistare lenti o sfere per accendere il fuoco. A tal proposito le fonti letterarie contengono anche altre indicazioni, per esempio il passo in cui Plinio (Nat. Hist., 37, 10) riferisce che in campo medico l’applicazione di globi in cristallo di rocca o in vetro direttamente sulla parte colpita è vivamente consigliata per la cauterizzazione delle ferite.
L’importanza dell’uso del vetro trasparente appare chiaramente anche nel settore della pneumatica, materia di studio nata come conseguenza dei dibattiti sulla natura del vuoto. Diversamente dalla meccanica, che come disciplina teorica si pone l’obiettivo di spiegare i principi che determinano il funzionamento di oggetti osservabili nella vita di tutti i giorni, la pneumatica necessita di apparati che vanno inventati, progettati, costruiti. Nella Pneumatica Erone presenta un cospicuo numero di dispositivi attraverso i quali dimostrare le teorie ipotizzate: alcuni di essi hanno nel vetro il componente essenziale, per mezzo del quale è possibile far capire i meravigliosi effetti prodotti dalla contiguità degli elementi. Per esempio, nel paragrafo 52 dell’opera Erone propone la costruzione di un corno potorio riempito d’acqua, munito di un piatto con due fori e dotato di un coperchio in vetro. È il vetro a permettere, grazie alla trasparenza, di osservare il fenomeno dell’acqua sospinta verso l’alto, dunque contro natura, e successivamente incanalata verso il basso dopo un divertente effetto a fontanella che ogni spettatore può apprezzare. Nel paragrafo 56 Erone descrive una ventosa in vetro per aspirare il pus dalle ferite, mentre in precedenza (paragrafo 30) si era soffermato su una variante dell’eolipila, un congegno che mostra come l’aria, riscaldata e costretta all’interno di uno spazio chiuso, si trasformi in energia meccanica capace di far muovere alcune sagome che cominciano a danzare.
Infine, un altro settore che trae notevoli stimoli dall’impiego del vetro trasparente è quello dell’astronomia. Sin dal VI secolo a.C. erano comparsi i globi celesti, statici e decorati con le personificazioni delle costellazioni. L’iconografia antica dimostra chiaramente che alcune di queste sfere erano realizzate in vetro o in cristallo di rocca. Nel celebre mosaico che raffigura i filosofi nell’Accademia di Platone è raffigurata una scatola che contiene una di queste sfere, il cui colore rimanda al vetro o al cristallo. Altrettanto può dirsi del globo celeste nelle mani di Urania, nel grande affresco rinvenuto nella villa di Murecine nei pressi di Pompei. Una eco di questi planetari si trova ancora nel paragrafo 46 della Pneumatica di Erone, dove è descritta la costruzione di una sfera trasparente e chiusa con al centro la Terra, a imitazione del cosmo. In un curioso epigramma intitolato In sphaeram Archimedis, scritto dal poeta Claudiano negli anni 395-404, viene descritto il famoso planetario meccanico che Archimede avrebbe costruito a Siracusa e che Marcello avrebbe portato a Roma dopo la presa della città, racchiuso dentro una sfera di vetro trasparente. Ferme restando le cautele necessarie nel commentare questo brano, è certo che nella cosmologia greca si riteneva che la materia dell’universo fosse, contrariamente a quella del mondo sublunare e terreno, incorruttibile. Di qui la definizione di cielo cristallino e vitreo che ricorre sovente nei trattati di astronomia greca: alla purezza del cristallo veniva associata l’incorruttibilità del cielo.