La previdenza nello sport nella società moderna
È noto che lo sport ha subito nel 20° secolo, e soprattutto dopo il secondo dopoguerra, profondi cambiamenti sociali, trasformandosi da attività di evasione, forma di divertimento e di confronto campanilistico, in vera e propria attività professionale, intorno alla quale ruota un giro di affari che coinvolge milioni di persone e interessi di enorme entità.
Non si vuole certo affermare che si tratti di un fenomeno nuovo. Nel passato, anche in quello remoto, lo sport ha avuto grande importanza e sono esistiti personaggi, entrati nella storia e nella aneddotica generale, che hanno dedicato la propria vita e affidato la propria fama all'attività sportiva. Nella Grecia antica alcuni atleti, come per es. il lottatore Milone, godettero di fama e onori pari, se non superiori, a quelli dei principi del pensiero e di generali vittoriosi. E tale realtà si è mantenuta nei secoli anche se, in molti casi, l'attività sportiva era concentrata quasi esclusivamente tra soggetti di bassa estrazione sociale ‒ nell'antica Roma, gli schiavi ‒ che in tal modo riuscivano ad affrancarsi e a raggiungere un lustro e un benessere insperabile, ovvero era patrimonio dei ceti più elevati, come accadeva per la caccia e l'equitazione nel Medioevo.
Ma si può dire che solo con il 20° secolo lo sport è diventato fenomeno di massa, soprattutto con l'impetuoso sviluppo dei mezzi di comunicazione, che hanno portato nelle case di tutti gli spettacoli sportivi, prima riservati ai relativamente pochi che potevano essere accolti negli stadi, nei circuiti o sulle strade, dove i moderni mezzi di locomozione avevano introdotto nuove forme di sport: dal ciclismo, all'automobilismo e al motociclismo.
Questa diffusione dell'attività sportiva e le vicende di alcuni campioni ‒ che, dopo aver dedicato gran parte della loro vita e delle loro energie fisiche e mentali a uno sport si sono trovati, spesso in età ancora relativamente giovane, sprovvisti dei pur minimi mezzi di sussistenza ‒ hanno cominciato a far nascere, specie in una nazione particolarmente attenta alle istanze sociali come l'Italia, l'idea di una tutela previdenziale specifica per coloro che si dedicano, in forma professionale, all'attività sportiva. E l'esigenza appare ancor più pressante, in ragione delle modificazioni che si sono verificate nella pratica sportiva, nella quale le pretese di 'spettacolo' hanno richiesto prestazioni di livello sempre più alto, e, di conseguenza, allenamenti sempre più stressanti e impegnativi: una partecipazione, dunque, assoluta, che esclude la possibilità di svolgere altre attività che possano costituire valide alternative di lavoro nel caso in cui l'impegno sportivo debba, per qualsiasi motivo, cessare. Questo limita ulteriormente la vita media dell'atleta, già di per sé breve, circoscrivendola al periodo di maggior vigore fisico: impensabile agli inizi del 21° secolo che un atleta possa rimanere sulla cresta dell'onda per 30-35 anni, come invece avveniva agli inizi del 20°.
Questa premessa chiarisce le ragioni per le quali lo sport necessiterebbe di una previdenza che rispondesse a criteri e presupposti diversi da quelli validi per la generalità dei lavoratori: la brevità della vita lavorativa, il rischio di incidenti che possono compromettere in modo definitivo il prosieguo dell'attività, la difficoltà di riconvertirsi ad attività diverse, renderebbero quanto mai auspicabile che si disegnasse un sistema di tutela basato su parametri affatto speciali. Né dovrebbero scoraggiare tale iniziativa le notizie degli emolumenti faraonici che vengono assicurati ai campioni di sport come il calcio, l'automobilismo o il motociclismo: questi rappresentano eccezioni in un mondo intorno al quale gravitano centinaia di migliaia di atleti, allenatori, preparatori atletici, la maggior parte dei quali beneficia di compensi neppure lontanamente paragonabili a quelli cui si è fatto riferimento, e per i quali l'evento che determina la cessazione della capacità di guadagno ‒ sia esso la vecchiaia, la malattia o l'infortunio o altro ‒ significa la perdita dei mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia.
Tale stato di cose ha risvegliato in Italia la sensibilità della categoria che pratica lo sport più noto e diffuso, il calcio, i cui organismi rappresentativi hanno cercato di promuovere iniziative nella direzione di una previdenza specifica per i loro tutelati. Sarebbe stato auspicabile che queste proposte fossero accolte e adottate dalle altre federazioni sportive e dagli atleti delle varie specialità, onde dar vita a un movimento che portasse il maggior numero di persone possibile a condividere le conquiste sociali. Invece, si può tranquillamente dire che parlare di 'previdenza dello sport' in Italia è quantomeno improprio, visto che tutt'al più si può parlare di previdenza del calcio e, in minoranza, della pallacanestro. Dagli ultimi dati disponibili, infatti, oltre il 90% dei poco più di 5000 assicurati alla previdenza degli sportivi professionisti riguarda il calcio e il basket, e l'85% il solo calcio.
In definitiva, pur sussistendo i presupposti per ampliare la platea della popolazione assicurata, una serie di ostacoli di carattere sostanziale e normativo ha impedito che un'iniziativa, meritevole di migliore sorte, assumesse l'ampiezza che le dimensioni del fenomeno sport avrebbero richiesto e richiederebbero. Le cause di ciò sono svariate, ma non certo convincenti, se si tiene conto dell'importanza e della valenza sociale del problema. Prima vi erano le resistenze frapposte dalle federazioni sportive interessate, alle quali era affidato il compito di attribuire la qualificazione di sportivo professionista: esse temevano infatti che la parola 'professionismo' potesse determinare difficoltà per la partecipazione degli atleti a manifestazioni sportive di rilievo, quali le Olimpiadi. Venuta meno questa preoccupazione, essendo ormai le Olimpiadi e i principali meeting aperti a tutti, indipendentemente dalla qualificazione dell'attività svolta ed essendo stato posto fine all'equivoco che faceva considerare dilettanti gli atleti che percepivano centinaia di milioni, quando non addirittura miliardi, a titolo di 'rimborso spese', il problema continua a permanere, forse per la lievitazione dei costi che gli oneri previdenziali addosserebbero alle società.
Qualunque ne sia la causa, resta il fatto che finora, oltre al calcio, solo cinque federazioni sportive hanno riconosciuto la qualifica di professionisti ai loro affiliati: il basket, di cui si è già detto, il ciclismo, il pugilato, il motociclismo e il golf. Ma il riconoscimento ha avuto un effetto decisamente limitato, tenuto conto del numero assai esiguo degli atleti di queste specialità che risultano assicurati nella previdenza specifica. Considerati i bacini di partecipanti alle stesse, è chiaro che numerose sono le difficoltà che devono essere superate perché si possa finalmente parlare in termini concreti di previdenza nello sport.
D'altra parte occorre anche riconoscere che gli ultimi provvedimenti di riforma, adottati per rendere compatibile la spesa previdenziale con il sistema economico e attenuarne le tensioni, hanno determinato una notevole attenuazione dei requisiti che avevano caratterizzato la previdenza sportiva all'atto della sua istituzione, al punto che oggi la stessa si differenzia in misura abbastanza marginale da quella in vigore per la generalità dei lavoratori.
Riepilogando brevemente, e a grandi linee ‒ ricordando che si tratta di una normativa fluida e soggetta a frequenti provvedimenti di revisione e riforma ‒ la storia della previdenza obbligatoria per gli sportivi professionisti in Italia, si ricorda che essa ha avuto inizio nel 1973 per i calciatori e gli allenatori di calcio, per estendersi, con un provvedimento normativo del 1981, a tutti gli atleti professionisti (almeno in teoria, come appena detto). La normativa presa in considerazione contemplava istituti che tenevano presenti le caratteristiche specifiche di tali 'lavoratori', garantendo loro prestazioni in linea con quelle vigenti per i lavoratori assicurati nel regime generale. Tali caratteristiche, come si è già anticipato, si sostanziavano nella relativa brevità della vita lavorativa, nell'alto rischio di interruzione traumatica dell'attività, nell'irregolarità dei compensi percepiti, e anche nella difficoltà di riconvertirsi ad altra attività. Tenendo conto di tali presupposti, i requisiti per maturare il diritto alle prestazioni erano stati fissati in limiti molto più contenuti rispetto a quelli vigenti nell'assicurazione generale obbligatoria, ed erano anche più bassi di quelli riconosciuti a lavoratori addetti ad attività usuranti: l'età pensionabile, infatti, era fissata a 45 anni per gli uomini e a 40 per le donne.
Il processo di riforma, attuato nel 1995 che ha interessato la totalità delle gestioni previdenziali, con l'obiettivo di ridimensionare la spesa a tale titolo ‒ attuato sia con un diverso sistema di calcolo che ha ridotto il livello di copertura, sia con una elevazione dei requisiti necessari ad acquisire il diritto alle diverse prestazioni ‒ ha avuto riflessi anche sulle forme specifiche e quindi anche sulla previdenza degli sportivi. Essa continua a presentare aspetti di maggior favore, ma alcune conquiste della prima ora risultano ridimensionate. In particolare, l'età pensionabile, che rimane il requisito più significativo e che è fissata per la generalità dei lavoratori a 57 anni, dagli sportivi può essere raggiunta aggiungendo alla propria età anagrafica un anno ogni quattro di attività effettivamente svolta nella qualifica di sportivo, fino a un massimo di cinque, così da arrivare a maturare tale requisito al compimento del 52° anno di età (47° per le donne), dopo vent'anni di contribuzione piena in una delle qualifiche che consentono di rientrare nella categoria di sportivo professionista. Naturalmente, se il periodo di vita lavorativa è inferiore, l'età pensionabile si eleva, tenuto conto che il numero di anni di bonus sarebbe inferiore.
Altri vantaggi permangono, ma indubbiamente l'esigenza di contenere il trend della spesa pensionistica ha determinato una minore rispondenza delle caratteristiche della previdenza a quelle che sono le esigenze dell'attività sportiva. Né è prevedibile che in prosieguo di tempo la situazione possa subire inversioni di rotta, essendo anzi da non escludere che un peggioramento della situazione economica possa determinare un ulteriore 'giro di vite'. Sarebbe, comunque, auspicabile che venisse presa in considerazione la possibilità di riconoscere alle categorie dello sport una forma di tutela particolare per gli eventi che determinino il venir meno della possibilità di lavoro nell'attività prescelta (invalidità specifica).
Le prospettive, quindi, di una migliore copertura dei rischi previsti da assicurazione ‒ anche e, forse, soprattutto nello sport ‒ sono strettamente legate allo sviluppo della previdenza complementare, la cui introduzione a fianco e a integrazione di quella obbligatoria, si configura per il futuro, più o meno prossimo, lo strumento per portare le rendite che si percepiranno al termine dell'attività lavorativa a un livello tale da consentire il mantenimento di un adeguato tenore di vita. Ma la previdenza integrativa stenta a decollare e ad acquisire quei lineamenti che dovrebbero renderla preferibile a forme di assicurazione privatistiche, verso le quali è probabile che finisca per orientarsi il mondo dello sport, come avviene nella maggioranza dei paesi, nei quali tale attività ha acquisito un rilievo notevole nella società civile.