La Prima guerra mondiale
Nella storiografia sui conflitti della prima metà del secolo 20° si è affermata negli ultimi anni la tendenza a inserire Prima e Seconda guerra mondiale in un’unica, grande, catastrofica stagione bellica (Hobsbawm - Pavone - Barraclough), di cui la Grande guerra costituì il primo, tragico atto e la seconda il terrificante epilogo. Alla luce di questa tesi il dibattito sulle conclusioni del primo conflitto mondiale, ai cui inizi si pose il notissimo pamphlet di J.M. Keynes, The economic consequences of the peace, nel quale condannando le riparazioni imposte alla Germania faceva fosche previsioni poi largamente avveratesi, si è identificato sempre più con il discorso sulle vicende del ventennio 1919-39 (in particolare fine dell’egemonia mondiale dell’Europa e nascita dei moderni totalitarismi) e sulle origini della Seconda guerra mondiale; invece il dibattito sulle responsabilità e sulle cause della Prima guerra mondiale ha mantenuto una sua autonomia e anzi ha assunto un’attualità e un’importanza ancora maggiori di quelle già molto grandi avute nel corso degli anni Venti e Trenta del 20° secolo, quando fu impetuosamente sollecitato dall’art. 231 del Trattato di Versailles che costringeva la Germania a riconoscere la responsabilità propria e dei suoi alleati per tutte le perdite e i danni subiti dai governi alleati e dai loro cittadini a causa della guerra.
Per il vero C. Barbagallo osservò sin dal 1923 (Come si scatenò la prima guerra mondiale) che, a rigore, non era giustificato parlare di responsabilità sul piano politico, perché le nazioni si erano sempre fatte guerra tra di loro, trascinate da istinti incoercibili di sviluppo, conservazione, difesa da cui esulava qualunque concetto di responsabilità. Più tardi (1952) lo stesso concetto fu ribadito da F. Curato (La storiografia delle origini della prima guerra mondiale, in Questioni di storia contemporanea), il quale rilevò come nel 1914 non esisteva alcun organismo internazionale al quale i singoli Stati avessero in qualche forma vincolato preventivamente i propri comportamenti, cosa quest’ultima sottolineata nel 1998 anche da J. Keegan (The First World War), ricordando che la stessa corte internazionale dell’Aia non aveva in realtà alcun potere coercitivo nei confronti di alcun Paese. Tuttavia, nel momento in cui l’art. 231 impose concretamente agli Stati sconfitti e in particolare alla Germania e all’Austria, condizioni di pace che agivano in modo sconvolgente sulla loro storia e su quella europea e mondiale, la polemica sulla fondatezza della responsabilità esclusivamente tedesca e austriaca della guerra si accese subito in sede sia diplomatica sia storiografica. Peraltro già nel 1915 E. Durkheim e E. Denis (Qui a voulu la guerre?) avevano affermato che la responsabilità esclusiva della guerra era della Germania e dell’Austria, come comprovavano le condizioni inaccettabili dell’ultimatum dell’Austria alla Serbia e il rifiuto austro-tedesco di ogni proposta conciliante dell’Inghilterra e di qualunque proroga del termine di scadenza dell’ultimatum. Anche altri storici avevano puntato il dito contro le correnti filosofiche, ideologiche e politiche razziste e belliciste che, unitamente al militarismo prussiano, avevano contribuito ad alimentare nella Germania guglielmina un clima di nazionalismo pangermanista dominato dall’idea della cospirazione europea contro la Germania e la sua evidente e progrediente superiorità razziale, economica e militare. Secondo E. Rota la Germania sull’onda di quel clima aveva tentato di imporre un nuovo equilibrio su scala europea e mondiale in cui il primato tedesco si sostituisse a tutti i livelli a quello anglo-francese (La guerra europea e il problema delle sue cause, in «Nuova rivista storica», gennaio-marzo 1917).
I diplomatici tedeschi alla conferenza di pace, pur riconoscendo che la Germania aveva avuto le sue responsabilità nello scoppio del conflitto, sostennero energicamente che nei precedenti cinquant’anni era stato in realtà l’imperialismo di tutti gli stati europei e non solo quello tedesco ad avvelenare cronicamente le relazioni internazionali e a disconoscere il diritto dei popoli all’autodecisione. Inoltre la politica di revanche della Francia aveva esercitato una spinta alla guerra aperta non meno energica e costante del militarismo tedesco. Più specificamente, nel luglio del 1914 era stata la decisione russa di mobilitare a chiudere qualunque possibilità di ulteriore manovra politico-diplomatica per salvare la pace, mettendo di fatto le decisioni ultime nelle mani dei militari di tutti i Paesi. Gli storici tedeschi sopravvennero sostenendo la lacunosità e la falsità delle argomentazioni storiche addotte dai vincitori a sostegno dell’art. 231, rigettando con Alfred von Wegerer la responsabilità della guerra su Russia e Gran Bretagna (Der Ausbruch des Weltkrieges, 1939). Tuttavia la storiografia francese non demordeva. Pierre Renouvin (Les origines immédiates de la guerre, 1927), pur ammettendo che la situazione internazionale nel 1914 era tesa e grave nel suo insieme, ribadì che a far precipitare gli eventi era stata l’azione diplomatica austro-tedesca, decisa a cogliere l’occasione per far scoppiare, in un momento in cui le potenze occidentali e la Russia non erano ancora pronte, una guerra ritenuta da tempo inevitabile. Anche B.E. Schmitt negli Stati Uniti (The coming of the War, 1914, 1930) sostenne la responsabilità della Germania, mentre S.B. Fay puntò il dito contro l’Austria (The origins of the World War, 1928). Infine il francese C. Bloch qualche anno dopo ribadì che la ragione principale della guerra andava ricercata nella volontà della Germania e soprattutto dell’Austria di distruggere la Serbia, la quale costituiva un grave ostacolo alla politica di «inorientamento» austriaco, iniziata con l’annessione della Bosnia-Erzegovina (Les causes de la guerre mondiale, 1933).
Verso la metà degli anni Venti cominciò a farsi strada l’idea che la guerra era stata il frutto non del comportamento di un singolo Stato ma della particolare configurazione del sistema delle relazioni internazionali, che aveva visto l’Europa dividersi in due blocchi contrapposti mediante accordi segreti, i quali avevano finito per rendere inevitabile la guerra all’insaputa della massa dei cittadini; un sistema al quale si cercò di rimediare dopo la guerra, con la creazione della Lega delle nazioni. L’opera che interpretò emblematicamente questa linea che liberava di fatto la Germania dal peso di una colpevolizzazione univoca, fu The international anarchy 1904-1914 dell’inglese G.L. Dickinson, uscita nel 1926. I metodi e l’operato della «vecchia diplomazia» vennero dettagliatamente resi noti soprattutto con la pubblicazione nel corso degli anni Venti, Trenta e Quaranta e, nel caso dell’Italia, dopo la Seconda guerra mondiale, di una nutrita serie di volumi di documenti diplomatici di quasi tutte le potenze che avevano partecipato al conflitto.
Sin dall’inizio degli anni Venti, anche sotto l’onda emotiva di quanto veniva accadendo in Germania in seguito all’impossibilità sempre più evidente di sostenere il peso delle riparazioni di guerra, la tesi dell’unicità della responsabilità tedesca cominciò ad essere attenuata anche per altra via. Uscendo dalla logica delle immediate contingenze diplomatiche e militari E. Fueter nel 1921 (Weltgeschichte der letzten hundert Jahre 1815-1920) attribuì l’origine fondamentale allo scontro tra le maggiori potenze europee tutte alla ricerca sempre più affannosa di sbocchi di mercato per merci e forza lavoro in eccedenza in patria. Anche per Fueter la Germania si era invischiata nella politica antiserba dell’Austria, ma lo scenario dello scontro imperialistico generalizzato faceva dell’attentato di Sarajevo solo la scintilla di una conflagrazione preparata su scenari ben più vasti e non certo da un soggetto unico. Era una tesi abbastanza vicina a quella delle forze politiche e intellettuali marxiste che vedevano la guerra come il prodotto dello sviluppo del capitalismo internazionale. Si oppose però a questa interpretazione il francese É. Halévy, che disegnò un quadro delle borghesie delle grandi potenze europee, inclusa quella tedesca, nel quale l’atteggiamento di industriali, commercianti, finanzieri, agenti di borsa, proprietari di miniere, alla vigilia della guerra contraddiceva radicalmente l’immagine di un capitalismo internazionale principale artefice del conflitto (L’ère des tyrannies, 1938). Per Halévy, nelle diverse crisi tra le grandi potenze che si erano susseguite in Europa sin dal 1870 senza sfociare in guerra aperta, le forze capitalistiche e industriali avevano quasi sempre operato in senso pacifista, sopraffatte infine dai sussulti nazionalisti sia francesi che tedeschi rispetto ai quali le forze imprenditoriali di entrambi i Paesi erano rimaste sostanzialmente estranee. Era questa secondo Halévy la vera chiave per comprendere cause e dinamica della rottura del 1914.I movimenti nazionali e nazionalisti che nell’Europa dell’Est avevano impresso un’accelerazione micidiale alla dissoluzione dell’impero turco fino al 1913, avevano da tempo messo sotto pressione anche l’impero austroungarico. Di fronte al pericolo dello smembramento, la monarchia asburgica riteneva indispensabile eliminare la Serbia per potersi trasformare in una monarchia austro-ungaro-slava. Per Halévy l’origine della guerra non era da ricercare a Occidente, ma a Oriente, dove il pangermanesimo e il panslavismo erano l’un contro l’altro armati per il controllo dell’Europa centro-orientale. La responsabilità della Germania era consistita nell’incapacità della sua classe politica di non farsi trascinare dall’Austria-Ungheria nella guerra contro la Serbia. Assoluzione pressoché completa, invece, per l’Inghilterra e la Francia, a parte l’impennata ultranazionalista della crisi marocchina dal 1911 al 1914.
Una reazione vivace alle persistenti responsabilizzazioni austro-tedesche fu anche quella di Augusto Torre nel 1942 (Alla vigilia della guerra mondiale). Torre contestò a Bloch di non aver mai ricordato i documenti serbi in cui era chiaramente formulata l’aspirazione a creare uno Stato iugoslavo a danno anche delle province meridionali dell’impero asburgico. Di fronte a tale prospettiva, si chiedeva Torre, «l’Austria aveva o no il diritto di difendersi?». Secondo Torre le responsabilità della Serbia e della Russia nel precipitare degli eventi del luglio del 1914 erano state rilevanti. Il governo serbo era stato complice dell’attentato di Sarajevo, perché, pur essendone a conoscenza, non fece nulla per impedirlo. Se la Russia non fosse intervenuta, la Serbia avrebbe dovuto subire una forte umiliazione, ma la Russia avrebbe potuto pur sempre influire per mantenerne l’integrità e l’indipendenza e nel frattempo evitare l’innesco del meccanismo che portò al conflitto. Tuttavia per Torre il contrasto austro-serbo era soltanto una delle questioni che stavano sul tappeto delle relazioni internazionali del nuovo secolo e la cui soluzione si disperava sempre più di poter ottenere con mezzi pacifici: la questione dell’Alsazia-Lorena e lo spirito di rivincita francese, il contrasto commerciale anglo-tedesco, l’aspirazione russa agli Stretti, la politica dell’Intesa di accerchiamento della Germania a chiusura di ogni sua possibile aspirazione egemonica continentale. La guerra, in definitiva, era difficilmente evitabile e gli storici secondo Torre avevano a disposizione tutti gli elementi per «affermare che, se la Germania e l’Austria non vanno esenti dalla responsabilità, anche la Russia, la Francia e l’Inghilterra ne hanno la loro parte».
Qualche anno dopo anche Benedetto Croce, andando al di là delle questioni strettamente diplomatiche, politiche ed economiche, propose nell’ambito della sua Storia d’Europa una lettura non univoca delle responsabilità del conflitto. Egli, pur attribuendo al pangermanesimo e all’esaltazione nietzschiana della guerra come fattore di civiltà e progresso un ruolo di primo piano nel rendere incandescente il clima dei rapporti tra i popoli, le culture e gli Stati europei, non ritenne la Germania unica responsabile di quanto accadde. In Europa all’inizio del secolo 20° forze irrazionali inneggiavano alla potenza, alla violenza, all’esaltazione nazionalistica e imperialistica delle razze e dei popoli. Ma questo «accadde in ogni parte d’Europa, e non nella sola Germania, la quale non fu per questo riguardo né meno né più morbosamente affetta di ogni altro Paese, e non coltivò nessun pensiero del genere che non fosse coltivato altrove, sebbene, conforme a certe sue tradizioni, carezzasse in particolare l’etnicismo o razzismo» (Storia d’Europa, 1948).
Nel secondo dopoguerra la storiografia dei Paesi vincitori tese a rivedere nuovamente il problema delle responsabilità della Prima guerra mondiale, riproponendo l’attribuzione alla sola Germania della responsabilità del conflitto. La storiografia tedesca invece continuò a sostenere che, nonostante la forte presenza di spinte militariste e pangermaniste, la guida della Germania rimase fino al 1917 nelle mani di correnti politiche moderate, che coltivarono ambizioni imperialistiche non superiori a quelle dei governanti delle potenze occidentali. Tuttavia nel 1961 fu proprio uno storico amburghese, Fritz Fischer, sulla base di una vasta documentazione in gran parte inedita, a portare un colpo molto duro a questa tesi, rivelando che propositi aggressivi miranti a stabilire il predominio politico-economico della Germania su tutto il continente erano coltivati ai vertici della direzione politica tedesca già prima del 1914 (Griff nach der Weltmach) e in particolare proprio dal cancelliere Betmann Hollweg, notoriamente liberal-moderato. L’opera di Fischer ebbe un’enorme risonanza anche a livello internazionale. In Germania a essa rispose Gerhard Ritter nel terzo volume della sua monumentale opera Staatskunst und Kriegshandwerk, 1954-68, nella quale, sulla base di documenti inediti e altrettanto importanti di quelli di Fischer, osservò che in realtà, a guerra scoppiata, si era ormai entrati in un clima generale in cui la concezione della vittoria era divenuta per tutti inseparabile dall’idea della pressoché totale distruzione dell’avversario e che se i piani di pace tedeschi resi noti da Fischer erano concepiti in un’ottica di brutale violazione del diritto dei popoli, non troppo diversi erano quelli delle potenze dell’Intesa: nel settembre del 1914 la Russia proponeva a Francia e Inghilterra un piano che prevedeva un vero e proprio smembramento della Germania. Questa avrebbe dovuto non solo restituire alla Francia l’Alsazia e la Lorena, ma anche cederle parti della Prussia renana e del Palatinato. Avrebbe dovuto inoltre dare i territori tedeschi della Posnania orientale e della Slesia meridionale alla Russia o alla Polonia russa, lo Schleswig alla Danimarca, vari territori tedeschi di frontiera al Belgio, e avrebbe dovuto infine subire la ricostituzione del regno indipendente dell’Hannover. Era chiaro dalle argomentazioni di Ritter che il dibattito sulle origini e le responsabilità della Prima guerra assumeva, alla luce della catastrofe della Seconda guerra mondiale e del conseguente smembramento della Germania, un significato etico-politico molto più drammatico di quello pur altamente significativo del ventennio tra le due guerre. Quando Ritter cercava di inquadrare la politica tedesca alla vigilia della guerra e durante la guerra in un’ottica in cui essa potesse essere giudicata non isolatamente, ma alla luce del comportamento di tutte le potenze, egli cercava non solo di offrire un’analisi più complessa, veritiera ed equa delle responsabilità del conflitto, ma anche e soprattutto di individuare nella storia tedesca una tradizione liberale e moderata nella quale la vita della Germania democratica del secondo dopoguerra potesse trovare le sue radici, senza dover condannare in blocco tutto il suo passato e non avere di conseguenza nulla su cui fondare il suo presente e il suo futuro; cosa che invece poteva portare a concludere l’opera di Fischer e degli storici che in quegli stessi anni chiedevano alla Germania il divorzio non solo dall’esperienza nazifascista ma dall’intera sua storia. Che era poi problema storico e storiografico non della sola Germania, ma anche, e sia pure in diverse e meno tragiche proporzioni, dell’Italia.
Gli studi sulla Prima guerra mondiale nei decenni successivi alle opere di Fischer e di Ritter si sono arricchiti di nuove e documentate ricerche, accumulando un patrimonio di conoscenze sempre più ricco e articolato soprattutto sugli eventi strettamente militari e sulla storia economica e politica della guerra (J. Keegan, V.R.Berghahn, Sarajewo, 28 Juni 1914: der Untergang des alten Europa, 1997; N. Ferguson, The pity of war, 1999; D. Stevenson, 1914-1918: the history of the First World War, 2004). Tuttavia le coordinate di fondo del dibattito sulle cause e sulle responsabilità del conflitto restano a oggi sostanzialmente quelle messe a fuoco fino alla discussione delle tesi di Fischer, come emerge anche dal circostanziato volume di James Joll, The origins of the First World War (1983). Joll, pur riconoscendo l’importanza del contributo dello storico amburghese, prende tuttavia le distanze da esso quanto ad attribuzione univoca alla Germania della responsabilità della guerra. Joll riporta l’attenzione sulle disfunzioni complessive del sistema delle relazioni internazionali evidenziate dagli studi degli anni Venti; richiama il progressivo accumularsi negli anni precedenti il conflitto di eventi politici, quali gli esiti delle diverse crisi balcaniche, che anziché risolvere equamente ed efficacemente i problemi sul tappeto finirono per costituire ulteriori premesse di guerra; mette in luce il peso crescente della componente militare, attraverso la frenetica preparazione di piani di guerra dei Paesi entrati nel conflitto; pone infine in evidenza come lo «spirito del 1914» vedesse come tratto comune di tutti i Paesi europei, la «propensione per il rischio, ad accettare la guerra come soluzione per una serie innumerevole di problemi politici, sociali, internazionali... come solo modo di resistere a una minaccia fisica immediata», che furono «gli atteggiamenti che resero possibile la guerra». Una posizione, quest’ultima, molto vicina a quella della Storia d’Europa di Croce, peraltro ignorata nell’opera di Joll.
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