La produzione e la circolazione del libro
Negli ultimi anni del Cinquecento e nel primo Seicento l'industria tipografica a Venezia è ancora una delle attività economiche di maggior rilievo nella città: essa dà lavoro a quattro o cinquecento persone (1), e con almeno trentaquattro torchi attivi immette sul mercato italiano ed europeo una quantità di opere a stampa di molto superiore a quella prodotta da ogni altra città italiana.
Il primato veneziano in Italia è fuori discussione, attorno alla stampa si muovono ancora interessi e capitali cospicui. Eppure quell'industria, così vitale, era di molto inferiore a ciò che era stata qualche decennio prima: alla metà del Cinquecento, quando la stampa veneziana aveva toccato il suo culmine quantitativo, i torchi erano molto più numerosi, forse centoventicinque, forse centotrentadue, forse addirittura centocinquanta. Si tratta di valutazioni posteriori e tutt'altro che precise: esse danno l'idea tuttavia delle imponenti dimensioni della produzione veneziana di allora, che raggiungeva il 40% di quella italiana (2). Poi il numero dei torchi era calato: a settanta, sembra, nel 1588, a una quarantina nel 1596 e infine a trentaquattro, come si è detto, nel 1598 (3). Anche queste cifre appaiono approssimative, ma evidenziano comunque la forte riduzione subita dalla capacità produttiva veneziana. Secondo una stima, peraltro assai tarda, i soli Giunti impiegavano una trentina di torchi nell'epoca d'oro: tanti quanti erano attivi nell'intera città, stando ai dati forniti dall'Arte, nei primi decenni del Seicento (4).
Le ragioni di tale grave ridimensionamento della tipografia veneziana sono indicate tradizionalmente nell'attività repressiva della Controriforma e in particolare nell'azione della congregazione dell'Indice. È questa l'opinione espressa nel 1765 dal soprintendente alle stampe Gasparo Gozzi e fatta propria dai riformatori dello Studio di Padova, e la storiografia successiva non si è discostata da tale punto di vista sino a data assai recente (5). Oggi si tende a porre piuttosto l'accento su altri fattori di crisi (6): anzitutto il peso crescente della concorrenza straniera, rafforzata dai provvedimenti protezionistici dei governi. Anche su questo piano l'azione della Curia si dimostrava particolarmente pericolosa, dato che i pontefici non esitavano ad impegnare armi anche spirituali a favore degli stampatori romani di loro elezione, cui cercavano di affidare l'intera produzione dei libri religiosi, fonte primaria di lucro sin dai primordi della stampa. La Spagna tendeva a favorire Anversa e aveva concesso, nel 1571, alla casa dei Plantin, la maggiore delle Fiandre, l'esclusiva della vendita dei libri liturgici per la Spagna e le Americhe: un immenso mercato, da cui gli esportatori veneziani avevano tratto cospicui guadagni, ormai si chiudeva (7).
Anche se la crisi della tipografia veneziana non era dovuta soltanto all'imperversare degli Indici, ci pare innegabile che gli effetti di essi siano stati di un certo peso, tanto più che si sommavano a quelli degli altri fattori negativi cui si è accennato. In particolare negli anni fra il 1560 e il 1580 il grandinare dei divieti, la situazione di incertezza giuridica e morale determinata dalla formulazione spesso tecnicamente imprecisa delle disposizioni, il moltiplicarsi dei processi, dei sequestri e dei roghi di partite spesso imponenti di libri rendevano sempre più rischioso il mestiere di libraio: mentre le stesse cause, cui si aggiungeva l'iniziativa dei predicatori e dei direttori spirituali, che talvolta andavano addirittura oltre la lettera della norma, creavano disorientamento e timore nei potenziali acquirenti di libri, sempre esposti a sanzioni spirituali e secolari e comunque ad angosciosi turbamenti di coscienza. Non era questo il clima propizio per il prosperare di un'Arte che più di ogni altra ha bisogno del libero commercio degli scritti e delle idee. Oltre all'impoverimento culturale di un'editoria coartata e repressa in mille modi, si verificava una perdita di attrazione nei confronti degli investitori: il capitale cerca sempre e dovunque investimenti remunerativi, ma soprattutto sicuri, o comunque tali da presentare margini ragionevoli di rischio. Ormai invece i rischi avevano superato ogni prevedibilità, in una società che assisteva sgomenta al divieto di stampare e di leggere autori come Luciano di Samosata. Restava, è vero, la possibilità di investire nell'editoria religiosa ed è su di essa che concentrano le loro energie stampatori che, come i Giolito, avevano offerto il meglio della letteratura laica contemporanea. Ma la capacità di assorbimento del mercato, anche per un settore così favorito dai tempi come quello religioso, aveva dei limiti, e gli stampatori che non potevano vantare i legami internazionali e l'esperienza che nel campo possedevano i Giunti, e pochi altri, erano condannati al declino. Non è un caso che nel secondo Cinquecento i maggiori stampatori, a cominciare dagli stessi Giunti, che pure non erano certo sfavoriti dalla Controriforma data la loro secolare specializzazione religiosa, tendano a dirottare una parte rilevante dei loro capitali verso attività di esito meno incerto.
Si è detto nel precedente volume delle resistenze veneziane all'applicazione dei primi Indici e della disperata resistenza dei librai all'entrata in vigore dell'Indice di Paolo IV, il cui ottuso fanatismo mutilava pesantemente ogni ramo della cultura: segno che l'introduzione dell'Indice a Venezia non era un episodio secondario, bensì un fatto che colpiva al cuore l'industria tipografica. A quel primo Indice romano, esteso a Venezia già nella primavera del 1559, ne era seguito un secondo, detto Tridentino, promulgato da Pio IV nel 1564 (8). Le suppliche, le richieste, le insistenze di uomini di cultura d'ogni paese avevano indotto la Curia a mitigare l'assurda durezza dell'Indice del Carafa, ma la formula introdotta, quella del "donec corrigatur", che consentiva di mantenere in commercio un libro anche non pienamente ortodosso purché depurato delle parti sospette, non giovava del tutto all'Arte tipografica, dato che ogni libro si trovava esposto al rischio di tagli e correzioni non volute dall'autore, con conseguente danno economico e calo di prestigio per l'editore. Si videro circolare capolavori della letteratura italiana "espurgati", come il Decameron, le Novelle del Bandello, gli Hecatonmithi di G.B. Giraldi Cinzio, il Cortegiano del Castiglione. I censori non esitavano ad intervenire stravolgendo il senso di passi cruciali di opere contemporanee: così un passo in cui Niccolò Franco consigliava di leggere tranquillamente Erasmo, nonostante i divieti ecclesiastici, e di agire liberamente nella scelta delle proprie letture, viene trasformato, senza alcun segnale che renda avvertito il lettore dell'interpolazione, in un suggerimento di contenuto del tutto opposto (9).
Gravissima conseguenza della rottura dell'unità cristiana e della guerra condotta da Roma contro la cultura d'Oltralpe, in gran parte coinvolta nella condanna dell'eresia, fu la perdita di scambi assidui e fecondi tra la filologia germanica e quella italiana. La messa al bando di autori come Erasmo e Gesner impoverì la cultura umanistica e ne fece scadere il livello, con pesanti conseguenze anche sulla stampa: la vasta produzione di studi sull'antichità e l'ampia messe di edizioni di classici, su cui editori come Aldo avevano costruito la loro fortuna, si inaridì. Nel Seicento la grande erudizione antiquaria è ormai trasferita a nord delle Alpi.
Gli anni peggiori per il mondo del libro, a Venezia, furono quelli in cui venne a crearsi una piena solidarietà d'intenti e d'azione fra la Chiesa e lo Stato: come si è già ricordato, gli anni che vanno dal 1560 ai primi anni Ottanta. Da un lato la situazione internazionale, in cui appare dominante la Spagna, braccio secolare della Chiesa, non consente alla Repubblica una vera libertà d'azione diplomatica; dall'altro il timore di una rivoluzione sociale che pare implicita nella predicazione di alcune correnti protestanti aliena alla Riforma l'animo di molti patrizi (10). Prevaleva ormai nel governo della Repubblica l'opinione di coloro "che anteponevano a tutto la pace, che volevano la Repubblica saldamente legata alla Curia romana, che vedevano nella Compagnia di Gesù una presenza ormai indispensabile nella vita di uno stato cattolico" (11). Sono gli anni in cui la repressione contro gli eterodossi è più dura, gli anni, come si è accennato, dei sequestri e dei roghi di libri (12). Sono anche gli anni in cui il potere si concentra nelle mani di un'oligarchia che trova espressione nel consiglio dei dieci con la zonta: un organo che finisce con l'esautorare il senato, gestendo in proprio la politica estera e la politica religiosa della Repubblica, secondo una linea pacifista e filoromana. Naturalmente questa visione della politica e della cultura non era propria di tutto il patriziato, ma di una parte soltanto di esso: un forte partito di idee opposte, fautore di una piena indipendenza della Repubblica nei confronti di Roma, ostile alla Spagna e alla Compagnia di Gesù, attendeva il proprio momento (13).
Il punto di svolta è segnato dalla vicenda costituzionale del 1583: come noto, il maggior consiglio rifiutò più e più volte di eleggere la zonta, sino a determinare l'abolizione di quest'organo e la riduzione entro i propri limiti originari del potere del consiglio dei dieci. I rapporti di forza tra il partito filocuriale e quello dei "giovani" stavano dunque cambiando a favore di questi ultimi, mentre l'orizzonte internazionale si andava facendo più propizio alle forze protestanti: la rivolta dei Paesi Bassi, sostenuta efficacemente dall'Inghilterra, si rivelava indomabile e minava la potenza spagnola, mentre in Francia il calvinista Enrico di Navarra sembrava avviarsi a prevalere sulle opposte fazioni. Nel 1589 Venezia lo riconosceva re di Francia, con dispetto della Spagna e del pontefice: ormai la Repubblica si era allontanata da Roma.
Gli effetti del nuovo corso si vedono assai presto anche in materia di stampa. Il governo veneto comincia ad occuparsi degli stampatori e a proteggerne gli interessi, in contrasto con la Curia romana. Vari episodi, nel corso del nono decennio del secolo, rivelano un nuovo atteggiamento negli organi della Repubblica. Naturalmente l'evoluzione non avviene senza contrasti: proprio in quegli anni, nel 1587, vengono giustiziati per la diffusione di libri proibiti Pietro Longo e Girolamo Donzellino. E anche quando i "giovani" sono in maggioranza al senato può accadere un tragico fatto come quello della consegna di Giordano Bruno all'Inquisizione romana: nella Repubblica, grazie al continuo mutare della composizione degli organi sovrani, era sempre possibile il formarsi di una maggioranza, in seno al singolo consiglio, di opinione diversa da quella prevalente.
Nel 1590 la resistenza contro la Bolla di Sisto V che vorrebbe imporre un privilegio mondiale per la stampa della nuova Vulgata della Bibbia, dovuta alle cure del papa in persona, a favore della Tipografia Apostolica Vaticana, è strenua e decisa: dato che la nuova Bibbia esclude tutte le altre, accettarla significherebbe gettar via enormi scorte di Bibbie, breviari, messali stampati secondo la vecchia Vulgata. E l'ambasciatore veneziano Alberto Badoer riesce a bloccare l'applicazione della Bolla. Più tardi una battaglia analoga viene condotta contro un simile privilegio emesso per la Vulgata curata da Clemente VIII nel 1592, e ancora nel 1594 contro un privilegio concesso a Domenico Basa per i libri liturgici da lui pubblicati. Nel 1596 un privilegio papale a protezione di un nuovo Pontificale Romano viene dichiarato nullo dal senato. Anzi il senato fa di più: dichiara aboliti tutti i privilegi papali, presenti, passati, futuri nel territorio della Repubblica (14).
Altrettanto decisa è la partecipazione dei rappresentanti veneziani a Roma, Alberto Badoer e Paolo Paruta, alla gestazione del nuovo Indice che Clemente VIII Aldobrandini incomincia a preparare sin dalla sua ascesa al soglio. L'azione dei diplomatici veneziani è diretta ad attenuare la severità della nuova norma; quando poi il nuovo Indice viene promulgato, nel 1596, le obiezioni dei librai vengono fatte proprie dal governo veneziano, che si batte per ottenere clausole speciali, atte a salvaguardare da un lato la piena sovranità della Repubblica, dall'altro gli interessi degli stampatori (15). E Venezia riesce ad ottenere soddisfazione su alcuni aspetti di grande importanza dal punto di vista giurisdizionale: nel territorio della Repubblica la correzione dei libri "sospesi", contenenti cioè passi da espurgare, non doveva essere attuata da Roma, ma localmente dal vescovo; la facoltà, concessa ai vescovi e agli inquisitori dal nuovo Indice, di proibire "altri libri non espressi nell'Indice" stesso, poteva venire esercitata solo "rarissime volte" e mai "senza giustissima causa", e sempre con l'intervento dei "signori assistenti", vale a dire dei tre assistenti (o savi) all'eresia; infine il VI paragrafo del capitolo De impressione librorum, secondo il quale stampatori e librai dovevano impegnarsi con giuramento a svolgere la loro attività "catholice, sincere ac fideliter", attenendosi agli Indici e ai decreti ecclesiastici ed escludendo dal mestiere chiunque fosse affetto dalla peste ereticale, non poteva trovare applicazione nel territorio della Repubblica. Come osservava Leonardo Donà, il più autorevole ispiratore della politica veneziana in quegli anni, era in gioco l'autonomia della giurisdizione laica: stampatori e libri "non hanno a dipendere da altri che dal suo principe".
Era questo il primo movente della ferma e gelosa difesa delle ragioni veneziane: la rivendicazione dell'indipendenza della Repubblica da qualsivoglia autorità, compresa quella ecclesiastica. Tuttavia non mancava la volontà di proteggere l'Arte della stampa, così duramente provata. Ma ormai il male era fatto: la stampa veneziana non aveva più lo slancio e la vivacità di un tempo, e i vincoli confessionali continuavano a soffocarla, moltiplicati dallo zelo di predicatori e confessori. Un'altra causa di decadenza veniva individuata, dai contemporanei, nella moltiplicazione degli errori di stampa, le "grandissime incorrezioni" lamentate da Paolo Paruta (16), ma si trattava più che altro di una conseguenza delle difficoltà in cui l'Arte si dibatteva: produrre edizioni correttissime costava assai, e in momenti difficili pochi stampatori potevano permetterselo. Nel campo specifico della produzione dei caratteri di stampa, la Francia aveva soppiantato Venezia sin dalla metà del Cinquecento: punzoni e matrici Garamond e Granjon si vendevano ormai in tutta l'Europa, anche a Venezia (17). Essi facevano già parte dell'attrezzatura delle tipografie veneziane.
Del declino e delle sue cause gli stampatori erano perfettamente consapevoli. Dal 1549 essi erano riuniti nella Corporazione o Università degli stampatori e librari (o libreri), che doveva prendersi cura dei problemi dell'Arte. Essa tuttavia cominciò a riunirsi regolarmente e ad operare in maniera continuativa solo dal 1571. Da quella data l'Università si adoperò per contrastare il declino, ma senza successo: anzi con la sua visione strettamente corporativa, volta ad impedire ogni attività ai non iscritti o matricolati, e ad imporre rigide regole ai matricolati, essa forse - pur con le migliori intenzioni - contribuì a rendere l'Arte meno dinamica e reattiva. Lo Stato, dal canto suo, faceva proprie quasi sempre le istanze dell'Arte, intervenendo con una precisa e puntigliosa legislazione, anch'essa ispirata a criteri protezionistici e corporativi, la cui utilità si rivelò nel complesso assai dubbia.
Prima cura dell'Arte, l'esclusione di chi non avesse i necessari requisiti di capacità ed esperienza, determinati il 27 aprile 1572: per esser matricolato l'aspirante doveva essere stato per cinque anni garzone (e per essere certi dei termini bisognava che il garzone si iscrivesse nei registri tenuti dalla magistratura della giustizia vecchia) e poi per tre anni continui lavorante. Bisognava poi che l'idoneità del candidato venisse valutata dal priore e dalla banca (gli organi esecutivi dell'Arte). Una tassa di 5 ducati (10 per i forestieri) consentiva alla fine l'accesso all'"Università" (18). Vi furono delle resistenze: così nel 1578 Pasqualin Savioni, "sonador di cornetta e musica per le chiese e feste", chiese l'iscrizione, venne escluso in quanto "principiante nell'arte", pretese una votazione formale e venne infine respinto definitivamente (19). Certo egli non aveva i titoli; ma non li aveva, un secolo prima, Gerardo da Lisa, anch'egli suonatore oltreché maestro di scuola, eppure ciò non gli aveva impedito di divenire uno stampatore degno d'attenzione. Del resto, neppure Aldo Manuzio aveva i requisiti elencati nella deliberazione sopraricordata del 1572. Anche per i librai si pretendevano i titoli: nello stesso 1578 il cerretano Francesco Fiorentino venne respinto per la misera entità del suo commercio e gli venne imposto "che si disbratti dai libri che ha da vender in termine di giorni tre" (20).
Ai non matricolati era vietato stampare: anzi, come venne stabilito dall'Arte nel 1583, non ci si poteva nemmeno servire di un prestanome iscritto. Tuttavia si ammetteva che gli autori potessero stampare in proprio le loro opere, pagando una tassa all'Università: ciò perché essi, "fatte le sue composicioni" non hanno "mai bene fintantoché non vedono in luce esse composicioni, et più mirano a l'honore che a l'utile" (21). D'altro canto appariva giusto che contribuissero in qualche modo alle spese della Corporazione.
Sempre al fine di salvaguardare le peculiari competenze e i privilegi degli iscritti, l'Arte teneva sotto osservazione la Corporazione dei "librari di carta bianca", per evitare che essa sconfinasse dal proprio ambito, la vendita di risme di carta non scritta, e si ingerisse nella pubblicazione di opere a stampa (22).
Stava poi molto a cuore all'Università la materia dei privilegi di stampa. Nel 1580 si stabilì che chi stampasse un'opera nuova, mai prima stampata, dovesse "darla in nota" al priore dell'Arte: con questo atto il privilegio era conseguito per dieci anni, durante i quali non si poteva "far alcuna concorrencia". Se si trattava invece della ristampa di un'opera già in precedenza stampata da altri, una volta datala in nota al priore si acquisiva il privilegio per cinque anni; naturalmente bisognava che fossero passati i dieci anni previsti dalla stampa precedente dell'opera (23). Il privilegio del senato rimaneva riservato a opere di grande mole, impegno o prestigio e durava, di regola, vent'anni. Questo regime, che aveva l'indubbio pregio di disciplinare la concorrenza selvaggia e spesso sleale che aveva dominato gli anni eroici della stampa, rimase in vigore, con modeste varianti, sino alla caduta della Repubblica. Quanto al prezzo, se si trattava di ristampa esso veniva fissato, presumibilmente d'accordo con lo stampatore, dal priore; se l'opera invece era nuova bisognava portarla ai provveditori di comun, che determinavano il prezzo a norma del decreto del consiglio dei dieci del 1534.
Perché il privilegio fosse veramente efficace, bisognava peraltro proteggere lo stampatore che l'aveva conseguito anche dalla concorrenza straniera: se si importavano senza controlli libri dall'estero, potevano trovare diffusione nello Stato opere stampate all'estero e protette invece da privilegio nello Stato. Per questo i librai sollecitavano controlli doganali per evitare l'introduzione di simili libri, mentre - come si accennerà - erano i primi ad eludere i controlli ispirati a finalità censorie.
La protezione giuridica dei matricolati non era l'unica preoccupazione dell'Università: molte cure vennero anche dedicate ai problemi strettamente economici, come l'esportazione dei caratteri e la fornitura della carta. Del primo aspetto l'Arte si occupò sin dal 1578: Pietro Deuchino "francese, zittador" (gettatore di caratteri) aveva chiesto di poter portare fuori di Venezia "lettere zittade". La banca, presieduta dal priore Vincenzo Valgrisi, fu chiamata a decidere se una simile esportazione fosse di danno o di beneficio all'Arte; "fu detto a messer Piero Dehuchino che andasse un poco fuori" e si mise ai voti la parte "se si deve lasciar portare le lettere zittade fuori di Venezia come si ha fatto per il passato". Una prima votazione diede risultato pari (sei a favore, sei contro); alla seconda votazione prevalse il no (24). Evidentemente quando la stampa prosperava esportare i caratteri era un'operazione commerciale come le altre; ora si temeva che Venezia si impoverisse e che si arricchisse la concorrenza estera, fattasi temibile.
Anche l'esportazione della carta dava preoccupazione. Nel 1578 l'Arte delibera di "aricordar" al governo "che è di grave danno che sia fatta così gran quantità di carta grossa per il Levante, e che non si trova a bastanza carta da stampar in questa città" (25).
Nonostante tante attenzioni, e in parte forse anche a causa di queste, la stampa continuò a decadere per tutto il secondo Cinquecento (26). Il 28 dicembre 1602 la banca dell'Università constatava amaramente che l'Arte "che per altri tempi soleva esser floridissima, per molte cause et abusi è venuta in tanto sterminio che in breve sarebbe per ridursi alla totale dissolutione", e rilevava che i riformatori dello Studio di Padova frastornati dalle molte opinioni e memoriali ascoltati e ricevuti si trovavano in "grandissima pertubatione" d'animo. Vi era quindi un clima denso di tensione, indizio della gravità della crisi e dell'incertezza sugli "ottimi rimedi" da adottare: "piaccia a nostro Signor Dio di dare il vero lume di poter operare tutto quello ne è bisogno a gloria sua et per salute nostra", concludevano gli intervenuti, tradendo una profonda preoccupazione (27). Frutto delle discussioni, dei "ricordi" consegnati, delle proposte scambiate e vagliate fu un complesso di norme emanate dal senato e dai riformatori nel 1603, di ampiezza tale da costituire un vero codice della stampa, base e fondamento di tutta la legislazione futura.
Un primo provvedimento dei pregadi, del 20 febbraio, cui dava esecuzione una terminazione dei riformatori del i o marzo, vietava rigorosamente l'emigrazione degli "artefici di stampe", che fossero o no matricolati, e l'esportazione di torchi, caratteri, inchiostro e ogni altro materiale di stampa (28). Seguiva poi, il 21 maggio, un ampio decreto del senato, in cui si affrontavano tutti i punti ritenuti più importanti per la rinascita dell'Arte (29). Anzitutto la "incorretione" delle edizioni: per eliminarla veniva prescritto che i compositori leggessero "con diligentia" le forme in piombo assieme ai proti e ad altre persone "sufficienti", in modo che la prima correzione avvenisse sulla forma stessa; indi, tratto il foglio a stampa, questo dovesse esser corretto dal revisore o dal correttore, il quale doveva essere persona competente, approvata dai riformatori. Veniva poi rivisto il meccanismo della censura, cui si accennerà oltre. Veniva prescritto l'uso di bei caratteri, buoni inchiostri, buona e bella carta, e si imponeva l'inserimento dell'Errata e l'indicazione del nome del correttore. Si ribadiva il divieto di esportazione di cui al precedente decreto e si rivedeva la disciplina dei privilegi: la durata del privilegio per chi stampasse i libri nuovi era fissata in vent'anni, in dieci per le ristampe. Queste potevano riguardare opere stampate all'estero, nel qual caso non vi era questione di data, oppure stampate a Venezia, e in tal caso dovevano esser passati vent'anni dalla stampa del libro precedente. Se invece fossero trascorsi solo dieci anni, il privilegio durava solo cinque anni.
Per evitare l'accaparramento di privilegi da parte di chi non avesse serie intenzioni di stampare effettivamente l'opera, si prescriveva che la stampa dovesse incominciare entro un mese e proseguire poi al ritmo di mezzo foglio al giorno. Veniva infine ribadito il divieto di concedere privilegi per opere stampate fuori Venezia: anzi per evitare che il senato potesse in futuro largheggiare in materia, si ponevano severe strettoie (per un'eventuale concessione si richiedeva una maggioranza di cinque sesti).
Un'ultima disposizione riguardava la Pubblica Libreria: ad ogni stampatore era fatto obbligo di consegnare un esemplare, rilegato in pergamena, di ogni libro stampato al bibliotecario di S. Marco, che doveva rilasciare una "fede" attestante l'avvenuta consegna.
Com'era prevedibile, neppure questi provvedimenti valsero a ridare all'Arte l'antico slancio. Per di più il decreto, a quanto pare, non fu osservato per parecchio tempo. Come si apprende da una supplica presentata ai riformatori dal noto stampatore Marco Ginami, il priore e la banca dell'Università non si preoccuparono per nulla di controllarne l'osservanza; mentre a norma del decreto del 1603, avrebbero dovuto "andar spesso vedendo, inquirendo et osservando come venga eseguita la presente parte, et almeno ogni tre mesi venir a refferir" ai riformatori (30). Evidentemente al priore, che era allora Ricciardo Amadini, "non piaceva detta parte". Vi dovevano essere forti contrasti nell'Arte: l'opposizione faceva capo agli Alberti, Giovanni e Bartolomeo. Il primo insultò persino la banca: "Buffoni, andate a governar delle piegore!" esclamò nel corso di un'accesa discussione (31). Bartolomeo, divenuto priore nel 1613, cercò di eseguire i prescritti controlli, ma non riuscì a farsi obbedire. Predispose un'"appellatione" ai riformatori, ma il 30 agosto morì, e i successori non diedero corso alla cosa. Tuttavia i riformatori dovettero aver notizia delle difficoltà del momento e presero la decisione di nominare un soprintendente alle stampe, che curasse l'osservanza della parte del 1603, visto che l'Università non vi provvedeva. La scelta cadde in un primo tempo, sembra, su tale don Lauro Testa; ma dell'opera di questi nulla si sa, mentre ben noto è il suo successore, Giovanni Sozomeno, dottissimo greco-veneto. La nomina è del 13 aprile 1614 (32). Un successivo provvedimento ribadiva l'obbligo degli stampatori di sottoporre i testi al soprintendente per la correzione finale e nominava alcuni correttori delle stampe, unici autorizzati, a salvaguardia della bontà delle edizioni (33).
Una relazione del Sozomeno ai riformatori, di qualche anno dopo, traccia un sintetico quadro della situazione della stampa dopo il suo intervento: a suo dire vi era stato un notevole progresso: "ora i libri sono assai meglio trattati. Non nego già che non potessero vedersi di più perfetti ancora", egli dichiara, "ma avuto riguardo alla qualità dei tempi, alla misera condizione de stampatori, che da quattro o sei anni in poi sono per il più poverissimi, alle picole mercedi [...] che si danno ai correttori, è quasi impossibile ridurre questo negotio all'ultima perfettione". Dunque, vi è un netto divario tra un'élite di stampatori di prim'ordine, che più oltre egli dichiara "non inferiori ad Aldo né al Giolito" e la massa degli altri: i primi, "che correttissimi compaiono alla luce del mondo", sono il Muschio, il Baba, il Pinelli, il Sarzina, il Salis e "qualch'altro". In tutto dunque "una mezza dozzina di perfetti stampatori": un numero non da poco secondo il Sozomeno, dato che ormai si lavorava appena con "una trentina di torcoli", mentre in altri tempi i torchi attivi erano cento e più, per cui era più facile che emergessero stampatori valenti. Che la stampa attraversi un periodo difficile, gli pare evidente, ed egli ne individua la causa nei "travagli ne quali d'alcuni anni si trova l'Italia": una situazione che fa sì che "non scorrendo il denaro et havendo difficultà li nostri mercanti di riscuotere li crediti loro nelle città di aliena giurisdizione, li negozi non camminino con quel fervore che si dovrebbe" (34). Vi era dunque una carenza di liquidità, una mancanza di mezzi di pagamento diffusa tale da render difficile il commercio librario di esportazione: un'analisi persuasiva, anche se non esaustiva, circa le cause della crisi di un'industria, come quella della stampa veneziana, che produceva soprattutto per i mercati esteri, in Italia e Oltralpe. È noto del resto che la situazione economica europea andava peggiorando di molto attorno al 1620: al diminuito afflusso dell'oro americano, che impoveriva l'Impero spagnolo, si aggiungeva la guerra, che incominciava a devastare la Germania e si avviava a farsi generale, mentre l'Impero turco si svenava nei conflitti col mondo iranico (35). Anche la stampa, come ogni altra attività produttiva, risentiva della congiuntura economica, destinata ad un peggioramento continuo nei decenni successivi.
Nonostante ciò, la stampa veneziana, pur con le difficoltà segnalate dal Sozomeno, continuava a mostrare una notevole vitalità, anche sui mercati esteri, come si rileva dai dati relativi alla Fiera di Francoforte, cui si accennerà meglio oltre: fino al 1630, la presenza veneziana è cospicua. E anche la produzione, almeno dal punto di vista numerico, non sembra diminuire. Che tale resistenza fosse merito del Sozomeno (che accenna sia pur molto sobriamente ai miglioramenti da lui ottenuti sotto il profilo della qualità delle edizioni) è vivacemente contestato dalla relazione del Ginami sopra ricordata. A suo avviso, il mal noto Lauro Testa che avrebbe preceduto il Sozomeno nella carica e il Sozomeno stesso avrebbero determinato per incompetenza, "per non essere della professione", addirittura "la destruzione dell'arte". Essi, "godendo solo del tirar il stipendio" (considerevole: 300 ducati), "altro non facevano che a nominar correttori per le stampe et non volerne, conforme al loro capriccio": inoltre si ingerivano "nel far stampar libri et a mercatarne"; avendo essi anche l'incarico di revisore alle dogane, avevano "lasciato introdur in questa città tanti libri de quali noi godemo li privilegi [...] fomentandosi per ciò le stampe forestiere". Ciò "per la loro poca cognitione e pratica", e forse anche, insinua il Ginami, "con segreta intelligenza di librai". Da un lato lasciavano entrare libri che danneggiavano la stampa cittadina, dall'altro non si accorgevano nemmeno di libri esteri ostili alla Repubblica. Bisognava, secondo il Ginami, ridare l'autorità in materia di stampa a chi se ne intendeva: al priore e alla banca, che non solo potevano "invigilare" sull'osservanza della legge, ma anche suggerire una razionalizzazione della legislazione. "Nella qualità e osservanza delle leggi consiste il buon governo non nella molteplicità", conclude saggiamente il Ginami. Non sappiamo quale esito abbia avuto la supplica; certo è che la carica di soprintendente alle stampe non venne più assegnata ad alcuno dopo il Sozomeno; e questi, divenuto nel 1626 custode della Libreria di S. Marco e poi, nel 1630, pubblico lettore di filosofia aristotelica, rinunciò probabilmente all'incarico di soprintendente.
Un'altra fonte di problemi per l'Arte era rappresentata, a dire del Ginami, dalle interferenze delle magistrature: così vi erano correttori "cassati da altri magistrati", diversi dagli unici competenti, i riformatori, "come fu il Pinardi dall'Ill.mo sig. avogador Caotorta". E potremmo aggiunger il caso di Lorenzo Pichi la cui immatricolazione fu imposta nel 1612 dai provveditori di comun (36).
D'altro canto all'autorità gli stampatori ricorrevano spesso a loro protezione, soprattutto verso la concorrenza straniera, in particolare quella degli stampatori sostenuti dalla Curia romana: concorrenza pericolosa, perché riguardava le opere di gran lunga più vendute, quelle di carattere religioso, e insidiosa, perché non di rado sorretta dalle armi spirituali. Così nel 1604 i librai si appellano contro un "motu proprio" romano che mirava ad imporre l'uso di un "messale ricorretto", con grave pregiudizio degli stampatori veneziani che avevano nei magazzini il precedente messale, e chiedono l'applicazione della legge del 14 giugno 1596 del consiglio dei dieci, che negava efficacia - come si è detto sopra - a "motu proprii et privilegi prohibitivi" concessi da Roma a danno di librai veneziani (37). Anni dopo, nel 1613, il caso si ripete: era stato stampato a Roma un breviario monastico riformato per l'Ordine di s. Benedetto, e il generale dell'ordine ne aveva imposto l'uso "contro la libertà della nostra arte", come osservano i librai, e con danno "a' particolari" che avevano stampato libri analoghi (38). Due episodi che mostrano l'insistenza con cui Roma cercava di estendere il proprio predominio nel settore delicatissimo della stampa, erodendo l'area di libertà rimasta agli stampatori veneziani.
In mezzo a tante difficoltà la stampa a Venezia continuava, come si è detto, a mostrare notevole vitalità: ma un evento terribile l'avrebbe messa sia pure temporaneamente in ginocchio. Si tratta della peste del 1630, la famosa pestilenza del Manzoni, quella che si concluse con l'edificazione della mole magnifica della Madonna della Salute. Sotto la bufera, in mezzo alla morte e al dolore, non si stampa praticamente più nulla. L'Università degli stampatori non si riunisce più: dal 17 febbraio 1630 alla metà del 1632 non vi è alcuna registrazione nel libro degli atti dell'Arte. Finalmente, nell'agosto, i superstiti, usciti dall'incubo, si ritrovano, fanno il punto della situazione e propongono i rimedi (39). Non c'era da sperare che si tornasse ai tempi mitici in cui si lavorava con centocinquanta torchi; sarebbe stato già molto se l'Arte si fosse mantenuta sui livelli dei venticinque anni precedenti, in cui "ha continuato l'essercitarsi con soli 30 torcoli". Ormai invece i torchi erano ridotti a cinque, e per di più non c'era lavoro. Bisognava fare qualche cosa, e i librai si rivolgono ai pregadi esponendo i mali e chiedendo aiuto. Il primo punto parte dalla triste constatazione che l'Arte si avvale ormai di "operatori di nessuna qualità per esser morti parte et le restanti ridotti altrove, et li più a Milano", dimentichi dei numerosi divieti di emigrazione. Bisognava quindi richiamarli e altresì "allettar gli esteri, con qualche essentione e premio", per esempio perdonando gli "operarii banditi et in disgratia". Secondo punto, la mancanza di carta: "non potersi haver carta da stampa di nessuna sorte", perché la fabbricavano solo "per mandar fuori dallo Stato e per Milano in particolar". Il rimedio suggerito è che su cento colli, venticinque si facciano "per stampare per servitio dello stato". Terzo aspetto, "la difficoltà del poter haver caratteri". Restava a Venezia un solo "zittadore, che è del continuo preoccupato et impegnato a lavorare per fuori della città e dello stato", nonostante le proibizioni. "E stiamo anco del continuo con tema che essendo egli di natione estera et lui solo possedendo le matrici di caratteri non possi fuggiendo spostarle altrove, il che sarebbe il totale esterminio dell'arte nostra": così gli stampatori, che non hanno per il momento un rimedio da offrire, ma che sperano evidentemente in un aumento del lavoro tipografico, tale da garantire al gettatore di caratteri guadagni sufficienti.
Come osserva Mario Infelise, le difficoltà dell'Arte sono in parte amplificate. Lo spostamento di operai specializzati da una città all'altra era sempre avvenuto; Milano non sembra esser stato un polo d'attrazione così allettante, a differenza di Roma che invece costituiva un costante pericolo; la presenza di un solo fabbricante di caratteri non era una novità, risaliva già al Cinquecento (40). Reale invece la crisi nella produzione della carta, date le devastazioni prodotte dalla peste tra i cartai della Riviera di Salò, le cui aziende soddisfacevano la gran parte del fabbisogno veneziano (41). Il momento era certo grave, ma passò rapidamente. Molti operai probabilmente tornarono assai presto, i torchi ripresero a lavorare: nel 1634 sono già sedici le stamperie in attività. Nel 1643 le stamperie attive sono ventitré, e i torchi più di trenta. Pietro Ciera ne ha quattro e gli eredi Giunti e Baba associati ne hanno quattro anch'essi, tre ne ha Giovan Pietro Pinelli, Giovan Battista Combi e Paolo Gueriglio ne hanno due, gli altri diciassette hanno un torchio e mezzo, un torchio o mezzo torchio. Anche la produzione salodiese di carta, come dimostrato da Ivo Mattozzi, si riprende: dopo una quindicina d'anni dalla peste è già a livelli inferiori di appena un terzo a quelli precedenti (42). La crisi è dunque superata.
Non bisogna quindi prender troppo alla lettera valutazioni pessimistiche come quella espressa nel 1638: "L'Università nostra de librari e stampatori fu in ogni tempo la più cospicua d'ogni altra di questa città. Pare non di meno da alcuni anni in qua che sia non solo declinata ma quasi annichilata" (43). In questa e altre occasioni lo scopo è quello di persuadere le autorità della miseria dell'Arte per evitare imposizioni fiscali o per ottenere provvedimenti favorevoli. Certo, non si era più nell'aureo Cinquecento, ma si stampava e si vendeva ancora: non più purtroppo alla Fiera di Francoforte, ove i Veneziani sono assenti dal 1630 al 1641 e non ricupereranno mai più le antiche posizioni; ma in ambito italiano Venezia è sempre al primo posto. Neppure il quadro drammatico che l'Arte fa di se stessa nel 1660 convince del tutto. "Non vi è arte alcuna [...] che sia in questi tempi più infelice", esordisce lo scritto, che mostra le stamperie "ridotte a pochissime faccende", i torchi "a pena 20 in tutta l'arte", i matricolati in gran parte lavoranti disoccupati di stamperie intenti a vendere poche decine di libri su banchetti o addirittura "con ceste caminando per la città" (44). La ragione di una pittura così nera sta nella conclusione del documento: la richiesta che l'Università sia "in parte sollevata" dagli oneri fiscali che gravano su di essa.
Quanto le valutazioni circa l'andamento dell'Arte siano influenzate dagli scopi che si propongono gli autori dei vari scritti si ricava dal raffronto fra i seguenti dati: nel 1658 i torchi sono, secondo l'Arte, una ventina (45); altrettanti secondo la citata scrittura del 1660; appena quindici secondo il gettatore di caratteri Marco Filippi, che nello stesso anno chiede di essere autorizzato ad esportare caratteri all'estero e che ha quindi tutto l'interesse a dimostrare che la domanda veneziana è insufficiente: secondo lui, i pochi torchi rimasti gli potevano dar lavoro per solo tre mesi all'anno (46). Attorno al 1670, secondo altri gettatori di caratteri, che si facevano forti della precedente autorizzazione a Marco Filippi per chiedere un'analoga licenza, i torchi sarebbero stati appena sei o sette (47). Nel 1676 le deposizioni dei testimoni in un procedimento aperto contro Gian Francesco Bolis di Fermo, che aveva "ordinato caratteri per formar stampe" al fine di portarli irregolarmente fuori di Venezia, divergono notevolmente: secondo il "forma caratteri" Carlo Nó i torchi attivi sarebbero appena dodici, mentre per Stefano Curti priore dell'Arte ne lavorano trentadue circa, e venticinque o trenta secondo Benetto Miloco (48). Ci sembra in conclusione che si possa affermare che il numero dei torchi attivi abbia oscillato tra i venti e i trenta dalla ripresa dopo la peste sino alla fine del secolo. Una situazione quindi inferiore a quella del primo trentennio del Seicento, ma da essa non molto lontana: non paragonabile allo straordinario rigoglio del pieno Cinquecento e nemmeno al grande sviluppo del Settecento (nel 1735 i torchi saranno novantaquattro), ma neppure corrispondente al fosco quadro dipinto interessatamente dagli stampatori stessi.
Nella seconda metà del secolo, come ha rilevato Mario Infelise, si cominciarono poi a porre le basi per la grande ripresa settecentesca. "Il punto di forza trainante furono i libri liturgici, richiesti in tutto il mondo ispanico, compresa l'America latina, e nell'intera Europa cattolica e ortodossa" (49). Ancora una volta il libro religioso costituiva la maggior fonte di guadagno. Verso la fine del secolo, nel 1688, un corrispondente della Stamperia patavina del Seminario scrive che le stampe dei Baglioni e dei Ciera "sono le migliori che corrino nelle stamperie, compresivi Hanversa e Parigi" e che "hanno più spaccio" (50). E altre aziende veneziane operanti nello stesso campo, ma anche in altri, giunsero ad elevati livelli di produzione e di ricchezza, come si accennerà oltre.
Vanno quindi considerate con molta cautela le professioni di povertà che gli stampatori ripetono in varie circostanze per impietosire gli organi sovrani e ottenere alleggerimenti nella pressione tributaria. Nella prima parte del secolo operano aziende come quella dei Giunti, la cui cospicua ricchezza si consolidava anche in palazzi e terre. Ma anche uno stampatore ardito e avventuroso, ma non particolarmente solido patrimonialmente, come Giovan Battista Ciotti poteva offrire al Boccalini, come si dirà, 3.000 ducati per la sola prima parte dei suoi Ragguagli di Parnaso; e pure ciò non bastava, se altri si assicurava l'ambito titolo (51). Nel 1664 Francesco Baba dichiara di aver impiegato "più di 4.000 ducati" nella stampa di un'opera giuridica, le Controversie forensi di Francesco Negro Ciriaco "in tre grossi volumi" (52). Si trattava di cifre non da poco: un palazzo sul Canal Grande costava come quattro o cinque di quelle edizioni. Nel 1648 gli eredi di Giovan Battista Combi dichiarano che la stampa dell'opera De vulneribus Christi del padre Francesco Quaresimo da essi già quasi ultimata avrebbe comportato la spesa di 2.000 ducati (si trattava di cinque tomi in folio di cinquecento fogli ciascuno) (53). Gli investimenti sono quindi di grossa entità, e mal si conciliano con il miserevole quadro di un'Arte "annichilata". Secondo padre Angelico Aprosio, alla morte del noto stampatore Sarzina, nel 1641, il suo patrimonio ammontava "tra libri, robbe e danari il valsente di XX.Milla ducati" (54). Sempre secondo l'Aprosio, lo stampatore Paolo Gueriglio "haveva tratti da Principe, non da Mercatante", e rifiutava signorilmente la "sordidezza di cavar danari col mezzo delle Dedicatorie": non dedicò mai libro ad alcuno "che non fusse amico, e per segno d'amore" (55). Comportamento questo non certo indicativo di una situazione di povertà. Alla sua morte egli lasciò vari immobili, crediti e liquido (56). Nella casa di Andrea Giuliani, morto nel 1680, si trovarono sessantuno quadri, diamanti, oro, argento (57). L'inventario dei beni di Bonifacio Ciera, redatto nel 1686, comprende case a Venezia, una villa con ventisei campi a Carbonara e vari altri cespiti (58). I Baglioni riusciranno a raggiungere una ricchezza tale da consentire loro, nel 1716, l'ingresso in maggior consiglio, previo esborso della consueta formidabile cifra di 100.000 ducati.
Certamente non tutti erano di quel calibro nell'Arte. Questa comprendeva ogni sorta di persone: bastava soddisfare requisiti minimi previsti dalla già ricordata deliberazione dell'Arte del 1572 (un periodo di servizio come garzone di cinque anni seguito da un triennio come lavorante) e l'ammissione era garantita, salvo un sommario esame da parte degli organi dell'Università circa la competenza tecnica del richiedente. Doveva trattarsi di una formalità o poco più, se vi erano dei matricolati analfabeti: ne apprendiamo l'esistenza da una parte del 1670 che vieta l'ammissione di chi non sappia leggere e scrivere (59). Anche il libraio Giacomo Batti, peraltro non matricolato, processato per aver venduto libri proibiti, dichiara il 22 maggio 1648: "Io non leggo libro alcuno" (60). Bisognava poi pagare la tassa di ammissione di 5 ducati (10 per i forestieri): una cifra modesta, da corrispondere una sola volta. Da tutto ciò erano poi esenti i figli dei matricolati, sicché non vi era alcuna selezione seria dal punto di vista patrimoniale. Bisogna altresì considerare che l'Università non comprendeva solo gli stampatori, nei quali si deve presumere una qualche consistenza patrimoniale, per il possesso del torchio (valutato, se usato, attorno ai 100 ducati) (61) e per il finanziamento delle edizioni, nonché per gli stipendi dei lavoranti e garzoni: di essa facevano parte anche i librai, e fra questi c'era il ricco negoziante con ampie vetrine in Merceria e il povero diavolo che andava in giro a vendere lunari e preghiere ammucchiati in una cesta. Su queste misere frange faceva leva la Corporazione per dipingere la propria indigenza, ma non erano certo i poveri cerretani che davano il tono all'Arte, anche se questa, organismo con finalità di mutuo soccorso, li accoglieva e talvolta se ne preoccupava.
Peraltro negli anni 1666-1671 l'Università cercò da un lato di restringere i criteri di ammissione, escludendo chi fosse palesemente inadeguato, dall'altro di attrarre possibili capitalisti, che fossero sprovvisti dei requisiti professionali ma avessero disponibilità di mezzi. In quest'ultima prospettiva si decise, il 21 marzo 1666, di ammettere senz'altro chi offrisse di pagare 50 ducati di "buona entrata", naturalmente con ballottazione della banca a favore del capitolo: ne approfittò subito Cristoforo Ambrosini, che venne accolto come libraio. I ducati furono portati a 100 effettivi nel 1669: li pagò Niccolò Glychis. Poi Antonio Bossio pagò un acconto di 35 (62). Dopodiché l'iniziativa, che si sperava avrebbe attratto "soggetti di conditione opulenta", venne a cadere e si tornò ai vecchi sistemi.
Per selezionare i matricolati dal punto di vista delle competenze, si decise nel 1671 di fissare la forma dell'esame di ammissione, distinguendo quello per gli stampatori, di carattere. tecnico, riguardante il meccanismo della tipografia, e quello per i librai, di cultura generale. All'aspirante veniva chiesto di precisare "quali siano li principali scrittori" di patristica, sacra scrittura, teologia, diritto, medicina, chimica, chirurgia, storia ecclesiastica e profana, poesia, politica, matematica, architettura, aritmetica, e infine "i libri comunali" e "i libri principali prohibiti per potersene astenere" (63). Si trattava di un quadro molto ampio, che richiedeva una notevole preparazione, e l'esame certo servì a ostacolare immatricolazioni indesiderate.
Nonostante i tentativi ricordati, il livello patrimoniale medio dei matricolati rimase assai modesto. Le aziende avevano una dimensione famigliare: le stamperie impiegavano quattro o cinque lavoranti e un garzone, i librai talvolta un lavorante o un garzone, talaltra nessuno. Naturalmente i librai, che potevano divenire maestri senza necessità di un capitale se non minimo, sufficiente per l'acquisto di un certo quantitativo di libri da vendere, erano molto più numerosi degli stampatori. Questi erano di solito una ventina attivi contemporaneamente, mentre i librai erano settanta, ottanta e anche di più.
Come tutte le corporazioni di mestiere, l'Arte si preoccupava di garantire a tutti gli appartenenti un minimo di protezione verso i più ricchi e altresì qualche fonte di sussistenza. Per quel che riguardava gli stampatori, era essenziale garantire a tutti la possibilità di stampare i libri detti "comunali": quelli cioè considerati fondamentali per l'istruzione, o comunque così diffusi da non poter essere in alcun modo oggetto di privilegio a favore di un singolo stampatore. Essi dovevano restare, al pari dei libri religiosi, patrimonio comune: eppure vi fu chi tentò il colpo di conseguire il privilegio non per uno ma addirittura per tutti i libri "comunali". Nel 1641 Giovan Battista Combi presentava una supplica alla signoria, chiedendo il privilegio tanto "ecclesiastico quanto di altra sorte": una richiesta così ardita veniva motivata dalla "pessima carta e scorretione" delle edizioni che si facevano nella città, tali che "non sono ricevute in altre parti et sono reiette dai studiosi". Il Combi si impegnava a stampare tali libri in dodicesimi o in sedicesimi, "in carta bella da scrivere, con frontispizio in rame all'uso oltremontano", e altresì correttissimi. Era naturale che l'Arte reagisse. Il collegio delegò la materia ai riformatori, dinanzi ai quali parlarono per il Combi celebri avvocati come Niccolò Crasso e Enrico Corner, per l'Arte Domenico del Prà e "l'Ecc.mo Pozzo", sinché il Combi finì per ritirare la domanda, che avrebbe privato, se accolta, molti stampatori di una fonte sicura e tranquilla di reddito (64).
Si sentiva peraltro la necessità di una qualche disciplina. Nel 1669 il priore e la banca constatavano che "i libri comunali, che servono per le scuole e per lo studio" erano stampati "pieni di errori e con lamentazioni dei maestri delle scuole medesime, e che ciò nasce per la concorrenza dei librai poveri per vendergli più buon mercato dell'altro"; perciò decidevano che tali libri andassero distribuiti tra tutti i matricolati poveri che volessero concorrere, mediante estrazione a sorte (65). In tal modo a tutti gli stampatori minori era assicurata almeno la stampa di qualche libro scolastico.
Per quel che riguarda i librai, l'Arte si preoccupava di garantire a tutti un minimo di guadagno, disciplinando in particolare la vendita festiva. Questa doveva essere assai ambita e redditizia, a giudicare dal ripetersi dei divieti, evidentemente non osservati. Nel 1613 l'Arte manifesta il suo sdegno verso quei librai che, "sotto colore di metter fuori santi vendono l'historie e libri profani, et tengono le porte delle botteghe aperte ma tirate appresso, et invitano le persone se li bisognano libri et li conducono in bottega vendendo in sprezzo di Dio e delle leggi sante" (66). Ma molti continuarono a tenere in non cale il precetto festivo, sinché nel 1654 l'Arte decise di consentire la vendita "a qualche povero matricolato", stabilendo dei turni: concorsero in quindici, fra i quali Agostino Bindoni, discendente dell'illustre famiglia di stampatori cinquecenteschi. Forse egli era economicamente decaduto, o forse i librai ammessi alla vendita festiva non erano tutti così poveri come dicevano. Fra i richiedenti furono scelti sei nomi, poi portati a otto. Nel 1664 si era comunque daccapo, tutti continuavano a vendere di festa, e i divieti ripresero a fioccare, al solito poco osservati (67).
Oltre a disciplinare la concorrenza, come avveniva in tutte le confraternite, l'Arte assisteva i matricolati indigenti e ne dotava, se necessario, le figlie. Curava la propria difesa davanti alle diverse magistrature e riscuoteva le varie tasse e imposte che poi versava alla milizia da mar e agli altri organi dello Stato; dirimeva, in via conciliativa, controversie tra i membri (68).
Per tutta la sua storia l'Arte rimase saldamente nelle mani dei maestri; vi furono dei tentativi da parte dei lavoranti di costituire una propria Corporazione che ne tutelasse i diritti nei confronti dei titolari delle aziende, ma senza successo. Il primo ebbe luogo nel 1586: centotré fra i compositori e torcolieri si riunirono nella sede dell'Arte, elessero i rappresentanti, ma poi la cosa finì in nulla. Nel 1638 furono i provveditori di comun a prendere l'iniziativa, invitando i lavoranti a formare i loro capitoli. Lo scopo era certamente fiscale: una volta associati, i lavoranti potevano essere tassati. Ma l'opposizione dei maestri fece fallire la cosa. Nuovi tentativi ebbero luogo nel Settecento, ma sempre senza esito (69).
I maestri, compatti nei confronti dei loro salariati, erano non di rado in conflitto tra di loro. Nel 1586 G.B. Somasco "parla arrogantemente mettendo confusione", ricorre, contro la banca, ai provveditori di comun e, soccombente, si appella ai dieci savi, ma poi "se remosse da detta appellatione". Nel 1613 Alessandro Vecchi attacca pesantemente il priore Bartolomeo Alberti, qualificandolo di "furbo, vituperoso furfante" (70). Negli anni 1625-1626 si creò un aperto conflitto tra il priore Antonio Pinelli e un gruppo di matricolati che facevano capo a Marco Ginami (71). Fra questi ultimi vi erano Roberto Meietti, Giovanni Gueriglio, Marco Varisco, Giovanni Antonio Giuliani. Il contrasto verteva sui criteri di gestione dell'Arte, ma celava motivi personali, rivalità di interesse, aspirazioni al predominio. Le cose giunsero al punto che l'Arte si sdoppiò: Ginami e il suo gruppo si riunivano in casa dello stesso Ginami o di Roberto Meietti, mentre le sessioni presiedute dal Pinelli avevano luogo nella sede dell'Arte, in un locale del convento dei Domenicani ai SS. Giovanni e Paolo. È possibile che vi fossero anche delle implicazioni di ordine politico: il gruppo del Ginami sembra accogliere alcuni degli stampatori meno ossequienti alle disposizioni romane in tema di censura. Forse la spaccatura tra i due gruppi riflette la divisione della classe dirigente, in cui si contrapponevano i partiti contrari e favorevoli a Roma, con evidenti riflessi in tema di libertà di stampa, di importazione di libri, di vendita degli stessi. Sopravvenne poi la peste, e il conflitto rientrò.
Le riunioni avvenivano, come si è accennato, in locali di proprietà del convento dei SS. Giovanni e Paolo. Nel 1641 l'Arte diede mandato a tre rappresentanti affinché concludessero un accordo con i padri per la locazione di un ambiente adatto, che venne identificato in una stanza del convento al piano terreno, nel primo chiostro, sottostante alla sala del noviziato e contigua alla sede della Scuola degli specchieri. Gli stampatori e libreri si assicurarono la facoltà di "fabricarselo a loro modo", il canone venne fissato in 30 ducati l'anno (72). Nel 1660 esso ammontava a 36 ducati (73). Nel 1656 si decise di abbellire la sala e si raccolsero all'uopo contribuzioni volontarie. Fra i cinquantasette sottoscrittori emersero Francesco Baba, con un'offerta di 180 lire, Niccolò Pezzana e Bonifacio Ciera con 124, G.B. Turrini con 100, Paolo Baglioni e Paolo Gueriglio con 93, Pietro Pinelli con 62. Si decise poi di scegliere "tre persone delle migliori quali siano obbligati assistere alla fabbrica": risultarono eletti Cristoforo Tomasini, Paolo Baglioni e Giulio Donadei (74).
Nel 1673 la decorazione era a buon punto; mancavano ancora sette quadri e si decise di farli dipingere da Pietro Negri e dal veronese Giacomo Antonio Bagetti: il primo avrebbe curato "inventione" e disegno, il secondo il colore. La spesa prevista era di 25 ducati correnti, mentre altri 30 ducati erano necessari "per far dorare il filetto delle soase [cornici]" (75). Nulla rimane oggi, dopo le devastazioni del secolo scorso, di questo che doveva essere un ricco e raffinato ambiente barocco.
Se si prende in esame la varietà dei libri, fogli, incisioni, avvisi prodotti nel Seicento, il panorama appare animato, ricco di voci diverse e di contrasti, tutt'altro che smorto e privo di slancio e d'interesse, come troppo spesso si ripete. Manca a tutt'oggi un completo censimento della stampa secentesca, per cui è d'obbligo riferirsi al repertorio più agile, comodo e completo, il catalogo dei libri dell'epoca conservati alla British Library: esso elenca tremiladuecentocinquantatré edizioni veneziane, pari al 26,3% del totale delle edizioni italiane del secolo, sempre limitatamente ai possessi di quella grande biblioteca (76). Ma la cifra è di certo molto inferiore all'effettiva produzione veneziana. Secondo i conteggi di Marco Santoro, le edizioni conservate dalla British Library sono appena il 24% delle edizioni napoletane note, l'8,5% delle messinesi, il 6% delle piacentine, il 7,5% delle urbinati, l'8,3% delle bresciane. Come dato complessivo, a fronte delle cinquemilanovecentosettantanove secentine di cui si ha notizia sulla base delle ricerche specifiche relative alla produzione tipografica dei luoghi ora indicati, Londra conserva milletrenta edizioni, pari al 17% del totale. Applicando lo stesso coefficiente al dato relativo alle edizioni veneziane, si giunge a una cifra di circa diciannovemila edizioni per il secolo (77).
Da altri repertori si possono ricavare rapporti diversi, ma comunque tali da confermare il fatto che la produzione veneziana del secolo era di gran lunga superiore a quella presente nella grande biblioteca britannica. Ad esempio, quest'ultima conserva trentuno edizioni giuntine uscite tra il 1619 e il 1655, mentre il Camerini ne censisce ben trecentocinquantacinque: più di dieci volte tanto (78). È naturale che le edizioni dei Giunti, in prevalenza religiose, siano poco presenti nella protestante Inghilterra. Maggiore invece la presenza relativa ai libretti d'opera: dell'editore Francesco Nicolini, il grande letterato Apostolo Zeno possedeva duecentosettantasette libretti, usciti fra il 1658 e il 1698, mentre la British Library ne segnala sessantacinque, circa il 21% di quelli zeniani: di Giacomo Batti lo Zeno possedeva ventotto libretti, contro i sette di Londra (79). Simili raffronti si potrebbero moltiplicare. Ben poco poi rimane della letteratura effimera (foglietti, avvisi, preghiere) che usciva in gran quantità, praticamente senza alcun controllo neppure censorio. Se si potesse tener conto anche di questa produzione, si giungerebbe a cifre di gran lunga superiori alle diciannovemila edizioni ipotizzate come sopra.
Utili dati fornisce la distribuzione cronologica delle opere conservate a Londra. Quelle prodotte nel primo decennio sono settecentotredici, nel secondo cinquecentoquattro, nel terzo quattrocentonovantanove: vi è dunque un calo notevole tra il primo decennio e i successivi, in armonia con quanto si è detto circa le difficoltà attraversate dall'economia veneziana ed europea. Poi la situazione peggiora ancora, nel decennio 1630-1640, in rapporto alle devastazioni della peste: le edizioni sono soltanto duecentodieci. Nei decenni successivi le cifre si stabilizzano: centoottantasette nel 1651-1660, duecentosessantatré nel 1661-1670, duecentoottanta nel 167 1-1680, duecentodiciotto nel 1681-1690; la cifra di centoquarantasei dell'ultimo decennio sembra dipendere più dal formarsi delle raccolte del Museo che da un reale calo di produzione, dato che proprio in quegli anni si andava preparando la grande rinascita settecentesca. Naturalmente tutte queste cifre hanno un valore puramente indicativo: esse riflettono tutt'al più l'andamento dell'editoria veneziana, senza pretendere di avvicinarsi ai dati effettivi, forse di quattro o cinque volte superiori (80).
Gli stampatori attivi nel secolo a Venezia sono molto numerosi: quattrocentocinquantatré, stando ad una vecchia classificazione, quella del Boffito, trecentonovantaquattro dei quali presenti nelle collezioni della British Library (81). Come nell'aureo Cinquecento, la cifra copre le realtà più diverse: vi è chi stampa con torchi propri, chi invece opera con quelli di altri assumendo il rischio relativo; vi è chi vende i libri da lui stesso stampati in propri negozi, chi si rivolge ad altri per la vendita. Enorme poi la differenza tra le condizioni economiche, di potere e di prestigio di un'élite di grandi aziende e la massa delle altre.
Al vertice, sino alla metà del secolo, la casa dei Giunti, di antiche tradizioni (si trattava del ramo veneziano dell'illustre famiglia trasferitosi a Venezia nel 1477), specializzata sin dall'origine nella stampa di opere religiose e liturgiche, un'attività che si svolgeva in un ambito europeo, rivolgendosi ad una clientela che andava dalla Polonia all'Ungheria alla Spagna. Nel secondo Cinquecento, sino al 1602, l'azienda fu in mano a Luc'Antonio Giunti, figura di grande capitalista oltre che di eminente editore: reso accorto dai rischi che l'editoria correva nell'era della Controriforma, egli diversificò gli investimenti nei campi più diversi, commerciando in zucchero, pepe, vetro e ferro lavorato con la penisola iberica, in tessuti con la Francia, in olio, frumento, tessuti, ferro con il Regno di Napoli. I suoi libri, al pari dei suoi capitali, percorrevano l'intera Europa, le operazioni finanziarie da lui impostate raggiungevano Anversa, Londra, Roma, Milano. Nel contempo una parte degli investimenti si indirizzava al mercato fondiario: la proprietà immobiliare dei Giunti fu da lui portata a quattrocento campi (82). Alla sua morte, nel 1602, i figli Tommaso II e Giovan Maria ne continuarono l'opera, seguendo l'amministrazione dell'imponente patrimonio ma non trascurando l'attività editoriale: tra il 1602 e il 1618 escono circa centocinquanta edizioni, prevalentemente di carattere religioso, secondo le tradizioni della casa, ma anche giuridico e medico. Morto Tommaso nel 1618, Giovan Maria rimase solo alla testa del vero e proprio impero finanziario della famiglia: Tommaso aveva infatti lasciato soltanto due figlie, che andarono spose a due gentiluomini di casa Foscarini. Non riuscendo a seguire da solo l'intero complesso, Giovan Maria chiamò in aiuto un congiunto fiorentino, Bernardo di Filippo, il quale si trasferì a Venezia e diresse l'azienda editoriale sino al 1643, assistito anche dal fratello Modesto, stampando novantuno edizioni sino al 1630 e, dopo un intervallo di due anni dovuto alla peste, altri trentatré titoli. Nel 1643 Bernardo ritornò a Firenze, e gli eredi di Tommaso si associarono a Francesco Baba, pubblicando quaranta titoli tra il 1645 e il 1650, e successivamente a Gian Giacomo Hertz, stampando altre otto edizioni. Nel 1651 gli eredi di Tommaso rimasero soli, e continuarono sino al 1657, con un'altra trentina di edizioni. Poi decisero di cedere l'azienda: la acquisì Niccolò Pezzana. Cessava così, dopo quasi due secoli, la gloriosa casa dei Giunti. Il palazzo della famiglia, acquistato a S. Stae da Luc'Antonio per 150.000 ducati, passò in casa Foscarini e rimase nel patrimonio degli eredi sino a che l'ultimo del ramo non lo lasciò al nipote Marco, futuro doge. Un altro Bernardo Giunti, figlio di Bernardo, aveva svolto un'importante attività editoriale tra il 1608 e il 1614, associandosi a Giovanni Battista Ciotti e realizzando ottantacinque edizioni. La società si sciolse nel 1614 e Bernardo, rimasto solo, stampò altri sette titoli sino al 1627, dedicandosi principalmente al commercio librario (83).
A fianco dei Giunti, nello stesso loro campo, la stampa di libri sacri e liturgici, si afferma sin dal primo Seicento la casa dei Ciera, con Bonifacio e Pietro, destinata a continuare l'attività per tutto il secolo (84). La prosperità dei Ciera è notevole: nel 1643 hanno quattro torchi attivi, al pari degli eredi Giunti in società con Baba, e sono quindi al primo posto per capacità produttiva; nel 1639 sono al quarto posto tra i maggiori contribuenti. La stampa di libri religiosi è sempre la risorsa maggiore e chi riesce ad inserirsi in quel mercato ottiene i risultati economici migliori. Sulla stessa base si fonda la fortuna di un'altra casa, quella dei Misserini, sorta con Niccolò, attivo dal 1581 al 1635, ma che non dovette durare a lungo: la loro casa è indicata fra quelle un tempo "opulenti" e accostata addirittura a quella dei Giunti nella relazione stesa nel 1660 dal priore dell'Arte, che peraltro la dichiara ormai estinta (85).
La stampa di opere di argomento religioso è certamente la più redditizia, come si è detto, e non è monopolio di alcuno; su tali testi non è possibile rivendicare alcun privilegio; essi rappresentano per tutti una sorta di assicurazione, che consente con gli utili che se ne ricavano di finanziare altre iniziative. Buona fonte di guadagno è anche la stampa degli atti ufficiali della Repubblica. Stampatore ducale è dal 1606 al 1615 Francesco Rampazzetto, la cui casa è attiva a Venezia dal 1553 (un altro Francesco aveva stampato sino al 1576 un'ottantina di edizioni). Dal suo stabilimento in calle delle Rasse escono, oltre agli atti pubblici, trattati militari, opere storiche, come quella dello Stringa sulla chiesa di S. Marco, e persino un fortunato gioco di società, Il laberinto, opera di Andrea Ghisi. Un altro stampatore condivide col Rampazzetto l'onorifico incarico di stampatore ducale: Antonio Pinelli, fondatore ai primi del secolo di una delle maggiori tipografie veneziane, che rimarrà attiva fino al secondo Settecento. I Pinelli non si limitano alla stampa degli atti pubblici, il loro catalogo comprende testi storici e giuridici, ma anche opere letterarie di attualità: anzi, essi sono tra gli stampatori favoriti dell'Accademia degli Incogniti, alla cui influenza sulla vita intellettuale veneziana si accennerà oltre (86). Un settore in cui essi si distinguono è quello della stampa in greco, rivolta ai Greci di Venezia e del Levante; in tale campo i Pinelli primeggiano a lungo, a fianco di un'altra casa cui si accennerà oltre, quella dei Giuliani (87).
Venezia nel primo Seicento, e anche oltre, è ancora un grande e vivace centro di diffusione per le opere letterarie e scientifiche, una formidabile cassa di risonanza per la divulgazione delle novità culturali. È a Venezia che Traiano Boccalini è impaziente di recarsi per pubblicare i suoi Ragguagli di Parnaso: pur di potersi avvalere dei torchi veneziani egli non esita ad abbandonare il posto nell'amministrazione pontificia. Era già in contatto con Giovanni Battista Ciotti, uno dei più intelligenti librai-stampatori veneziani, che gli aveva offerto una cifra cospicua (17.820 lire venete, quasi 3.000 ducati) per la sola prima centuria; ma poi conclude nel 1612 con Pietro Farri, discendente da una vecchia famiglia di tipografi, attiva sin dal 1540 a Venezia (88). Dato che il Farri era un semplice tipografo, l'edizione fu probabilmente finanziata da un capitalista.
È Venezia che il poeta principe dell'epoca, Giovan Battista Marino, sceglie per pubblicare molte delle sue opere, valendosi principalmente del già ricordato Ciotti. I rapporti tra il poeta e il suo editore furono talvolta tempestosi: il Marino ebbe più volte a lagnarsi, e violentemente, di lui, per la terza parte della Lira (1614), che qualificò "la più sciagurata impressione del mondo", a causa degli errori tipografici, per la Galeria (1619), che dichiarò stampata "sconciamente", e in altre occasioni, senza peraltro mai interrompere i rapporti col Ciotti e continuando ad avvalersene. Questi era senza dubbio una figura di rilievo. Già alla fine del Cinquecento il suo negozio era un ritrovo di uomini d'ingegno: lo frequentò anche Giordano Bruno, che vi veniva spesso "a vedere e comprar libri". Era particolarmente introdotto nei migliori ambienti letterari: a dire del Marino, prima di impiegare i suoi denari in una stampa poteva procurarsi facilmente "il giudicio e il consiglio" dei più celebri letterati (89). Si è detto della sua offerta al Boccalini; nel 1613 stampò le Rime di Fulvio Testi, che più tardi, nel 1617, ristampandole a Modena presso il Cassiani, si esprimerà aspramente su di lui, chiamandolo "mezzo fallito e tutto ignorante" (90). Sempre nel 1613 si assicurò il consenso del Tassoni per la ristampa dei Pensieri, ma poi lasciò cadere la cosa, suscitando l'ira del poeta. Personaggio irrequieto, privo di scrupoli, anzi addirittura losco (era, sembra, una spia al soldo della Spagna), il Ciotti incorse più volte nei fulmini del Santo Uffizio, subendo multe, arresti e processi per l'importazione e la stampa di libri proibiti. Capace di grandi disegni, aveva progettato di stampare le opere del Campanella e quelle del de Thou, ma in entrambi i casi il rischio troppo alto lo indusse a rinunciare. Dal 1607 al 1615 fu in società con Bernardo Giunti, stampando con lui un'ottantina di edizioni. I suoi rapporti internazionali andavano da Francoforte, ove risulta costantemente presente (e qui, sembra, stampò varie edizioni con la falsa indicazione di Colonia) (91), a Parigi, a Palermo, ove stranamente decise di trasferirsi attorno al 1625: e, come riferisce lo Stigliani, "là, nello spazio di sei mesi, fallì, impazzì, accecò e morì".
A Tommaso Baglioni toccò invece l'onore di curare l'edizione di una novità non letteraria, ma scientifica, di prim'ordine: il Sidereus Nuncius di Galileo (1610) (92). Già in precedenza, nel 1607, egli aveva stampato, di Galileo, La difesa contro le accuse di Baldassare Capra. Il Baglioni era un agente e socio dell'intraprendente editore Meietti, legato all'ambiente del Sarpi e dei "giovani". Sarà poi il figlio Paolo a fondare la fortuna della sua casa, facendo leva soprattutto sul libro religioso.
Altro editore geniale, capace di influenzare con la sua attività la storia letteraria, è il cremonese Barezzo Barezzi (93). Giunto a Venezia attorno al 1578, apprende il mestiere presso Francesco Ziletti e nel 1591 incomincia a lavorare in proprio stampando un'opera del letterato napoletano Tommaso Costo, cui resterà sempre legato; poi continua con altre opere in prevalenza di letteratura e storia, sino a che nel 16o6 inaugura una produzione nuova ed originale: una sua traduzione dallo spagnolo (era riuscito ad imparare da sé la lingua e a formarsi da autodidatta una cultura) del primo libro del romanzo picaresco di Mateo Alemàn, Guzmán de Alfarache. Ad esso farà seguito nel 1615 il secondo. Un nuovo appassionante genere letterario fa così il suo ingresso in Italia. Nel 1622 il Barezzi pubblica il capolavoro del genere e nel contempo il suo capolavoro di traduttore vivace, libero, inventivo: il Lazarillo de Tormes. Per il momento egli si limitava alla prima parte (la seconda uscì nel 1635): fu, a giudicare dalle ristampe, un successo. Seguì, nel 1624, la versione della Pícara Justina, e nel 1630 quella del Gerardo di Céspedes y Meneses, romanzo quest'ultimo non picaresco, ma "psicologico, sentimentale" che il Barezzi rende con vero talento. L'azienda continuerà con il figlio del Barezzi, Francesco, che si cimentò anche nelle traduzioni dallo spagnolo, sulle orme del padre, ma senza le scelte felici di questi.
Ad un altro stampatore veneziano, Andrea Baba, si deve la prima edizione in Italia del sommo capolavoro della letteratura spagnola, il Don Chisciotte di Cervantes, di cui uscì nel 1622 il primo volume, il secondo nel 1625 (94). La grande letteratura spagnola entrava così con forza, nella sua forma più innovativa, il romanzo, nella cultura e nel gusto italiani: anche in Italia il romanzo è la grande novità letteraria del secolo. Il Baba, uno dei pochissimi stampatori ritenuti dal Sozomeno degni di Aldo e di Giolito, è attento alle novità di successo: stampa opere di Maiolino Bisaccioni, di Fulvio Testi, di Luigi Manzini, di Virgilio Malvezzi. Un altro Baba, Francesco, considerato dal punto di vista tecnico il miglior stampatore alla metà del secolo, stampa opere letterarie (Berni, Marino, Achillini), ma anche storiche ed erudite. Per alcuni anni, dal 1644 al 1650, si associa a Tommaso Giunti, stampando con lui una quarantina di edizioni, soprattutto testi religiosi e qualche classico. La casa continuerà ad operare sino al 1673.
Altra notevole famiglia di stampatori, quella degli Alberti: Giovanni, attivo tra il 1585 e il 1619, Oliviero, tra il 1595 e il 1610, Bartolomeo, tra il 1600 e il 1613. A Giovanni l'Accademia della Crusca affidò la prima edizione del suo celebre vocabolario: ed è significativo il fatto che per un'impresa culturale fiorentina sia stato scelto uno stampatore di Venezia. Sembra che la decisione sia stata influenzata dai prezzi particolarmente convenienti, sia della carta veneziana, sia della stampa stessa (95).
Bartolomeo firmava i suoi frontespizi anche con il nome di Ginami (la ragione non è chiara). Suo figlio, Marco Ginami (o Ginammi) è personalità di rilievo nell'Arte: egli stampa in lingua italiana (un recente studio elenca centosettantatré suoi titoli) e anche in slavo, in caratteri cirillici, continuando con successo un filone aperto dagli Alberti. Attento a seguire le inclinazioni dei lettori, offre la traduzione delle opere di fra Bartolomé de Las Casas (tra il 1626 e il 1645), che gridano l'infamia dell'atroce sfruttamento spagnolo dell'America: lettura quanto mai gradita al forte partito antispagnolo dominante a Venezia (96). La prima edizione della Istoria o brevissima relatione della distruttione del/Indie Occidentali, uscita nel 1626, è dedicata dall'editore a due personaggi che Gaetano Cozzi ha fatto rivivere, rappresentativi fra tutti della mentalità e del costume dell'epoca: i due amici "eroi" Nicolò Barbarigo e Marco Trevisan, la cui singolare vicenda aveva suscitato sensazione e ammirazione negli ambienti colti e aristocratici di tutta l'Italia (97). Segno che il Ginami coltivava utili relazioni con alcuni degli esponenti più in vista del patriziato, come si desume da varie altre dediche. Evidentemente è negli ambienti patrizi con cui è in relazione che il Ginami trova incoraggiamento per stampare, sia pure con un falso nome d'autore, opere di due scrittori vietati, ma certo non privi di appassionati lettori: Niccolò Machiavelli e Pietro Aretino. Il primo era largamente diffuso in Italia sia nella traduzione latina di Silvestro Tegli, ristampata più volte in terra protestante, sia nelle stampe anonime ginevrine, dette "testina". A Venezia in particolare Francesco Sansovino aveva continuato a stamparlo sino al 1596, sia pure omettendone il nome (98). I patrizi lo apprezzavano molto (lo afferma anche, come si accennerà, frate Fulgenzio Manfredi) per l'ovvio interesse che i suoi precetti offrivano agli uomini di Stato. Nel 1620 il Ciotti aveva stampato gli Aforismi politici e militari del grande fiorentino. Nel 1630 il Ginami pubblica i Discorsi politici e militari, e li ristampa nel 1648, evitando solo di usare il vero nome dell'autore, che cela sotto quello di Amadio Niecollucci. Le sue edizioni non escono alla macchia, tutt'altro: la prima dedicata ad Agostino Dolce, segretario del consiglio dei dieci, la seconda a Marc'Antonio Ottobon, dell'eminente famiglia cittadinesca prossima all'ascesa al patriziato e addirittura al soglio pontificio.
Dell'Aretino il Ginami pubblica in prevalenza opere religiose, ma anche il dialogo Le carte parlanti e i poemetti La Sirena, Marfisa e Angelica (1630). L'autore è celato sotto il nome di Partenio Etiro. Le dediche sono dirette a Bertucci Valier, futuro doge, Battista Nani, storico e senatore di immenso prestigio, Girolamo Corner, Girolamo Zane futuro capitano generale nella guerra di Cipro, Giorgio Foscarini e altri personaggi di primo piano. L'élite politica era dunque pienamente consapevole di questo e di altri strappi all'Indice, e anzi, come si dirà oltre, molto spesso li autorizzava.
Alcune illustri, antiche case sono ancora attive nei primi decenni del secolo. I Sessa, risalenti al secolo XV, sono presenti sino al 1629, con venticinque edizioni censite nella British Library, di argomento medico, giuridico, liturgico. Attivi sin verso il 1610 gli Scotti, anch'essi sorti nel Quattrocento, che peraltro non stampano più con torchi propri. Continua sino al 1606 la celebre casa dei Giolito. Chiude nel 1611 Grazioso Percaccino, attivo dal 1561, e negli stessi anni cessa la casa di Altobello Salicato.
Per lo più le aziende risalgono al secondo Cinquecento. I Bertano, editori soprattutto di opere giuridiche, sorti attorno al 1570, rimangono attivi per tutto il Seicento (99). I Giuliani (o Zulian) risalgono a Francesco, attivo dal 1584: la loro azienda continuerà anch'essa per tutto il secolo XVII. Nel catalogo di Giovanni Antonio troviamo la Civil conversazione del Guazzo (1621), le lettere di Luigi Groto (1616) e altre opere di successo; ma ciò che più caratterizza la casa è la stampa in greco: essa eredita anche la prestigiosa marca tipografica dell'editore greco Cunadis (100). Gli Imberti risalgono al 1585: Domenico fiorisce sino al 1620, i successori saranno ancora operosi nell'ultimo quarto del secolo. Antonio Turrini opera tra il 1592 e il 1619; la famiglia continuerà a stampare sino al 1665 circa. Ricciardo Amadino (1583-1621) è specializzato nell'editoria musicale; opera anche in società con Giacomo Vincenti, la cui famiglia è attiva sino alla fine del secolo. In campo musicale eccelle sempre la vecchia casa dei Gardano; nel 1611 l'azienda passa nelle mani di Bartolomeo Magni e continua sino al 1668, mantenendo il nome, la marca e il prestigio (101). Chiude nel 1603 Damian Zennaro, ma continuano, sia pure con minori risultati, i congiunti Girolamo, Giovanni e Andrea (102). Proseguono sino al 1622 i Bonfadini (103). Prima ancora che editore è incisore Giacomo Franco († 1610), noto per le serie incise raffiguranti la vita pubblica e sociale veneziana (104); e incisori sono alcuni dei Bertelli, attivi anche a Padova.
Specializzato in drammi per musica, favole, commedie, poesie anche vernacole è Angelo Salvadori, al pari di Alessandro de Vecchi. Lucio Spineda (1601-1630) alterna solide edizioni mediche a storie di tipo popolare; prevalentemente mediche sono le edizioni di G.B. Bertoni (1603-1617), al pari di quelle di Francesco Bolzetta, attivo soprattutto a Padova.
Carattere comune alla più parte degli stampatori o editori citati è la varietà del catalogo, includente libri delle materie più svariate: ciascuno poi coltiva un proprio campo più specialistico. I libri religiosi sono patrimonio di tutti, ma c'è, come si è visto, chi si ritaglia una fetta maggiore. Altra ottima fonte di guadagno, i libri giuridici: se ne conoscono trecentoottantasette stampati a Venezia nel secolo, contro i quattrocentoottantaquattro del Cinquecento (le percentuali rispetto alla produzione italiana sono del 14,5% contro il 31,6% del secolo precedente: il calo è dovuto soprattutto alla concorrenza napoletana (105)). Importante lo spazio lasciato alla letteratura amena, alle favole, ai drammi e alle commedie, alle opere per musica, al romanzo: stando ad un'aggiornata bibliografia a Venezia sarebbero uscite cinquecentoventicinque tra edizioni, riedizioni e ristampe di romanzi, una percentuale pari al 60% dell'intera produzione italiana, che ne conta ottocentosettantasette (106). Ridotta di molto la produzione di classici tranne che per la scuola.
Anche se la concorrenza straniera ha ormai sottratto vaste aree alla diffusione delle edizioni veneziane (la presenza di Anversa, Parigi, Lione, Ginevra è soverchiante in molte regioni e il mondo protestante è ormai autosufficiente, molte città anche in Italia hanno una loro tipografia), la stampa a Venezia non ha perduto il suo respiro internazionale. I contatti dei migliori editori vanno ben al di là dei confini dello Stato: si è visto Ciotti in rapporto con Parigi e Palermo; il suo progetto di stampare il Campanella nasce dall'amicizia con lo Scioppio, erudito tedesco che ne possedeva i manoscritti; i suoi autori appartengono alle più diverse regioni italiane. I musicisti di tutta l'Italia continuano a portare i loro manoscritti ai Gardano, certi di una stampa corretta e di una vasta diffusione (107). La stampa in greco e in slavo si rivolge ai vasti mercati del Levante e del Nord-Europa. È normale che gli stampatori tengano fondachi e succursali in altre città italiane; pure un libraio di modesto rango come Angelo Salvadori stampa e vende anche a Vicenza e a Pesaro.
La prova della competitività internazionale della stampa veneziana anche nel primo Seicento è data dalla presenza alla famosa Fiera di Francoforte (108). Già nel Cinquecento la posizione di Venezia è molto solida: dal 1546 al 1576 è sempre al primo posto tra i partecipanti stranieri, tranne nel 1568, in cui è superata da Anversa. Il numero delle opere presentate dai Veneziani è in media cinquantadue, contro le trentadue di Anversa, ove il colosso dei Plantin invia in media quattordici opere. Parigi e Lione seguono a distanza. Nel 1577 e nel 1578 vi è un calo, in evidente connessione con la famosa peste, chiusa con la costruzione della chiesa del Redentore, con diciotto e ventiquattro opere inviate; vi è subito una ripresa, con cinquanta opere nel 1579, poi la media si mantiene bassa sino alla fine del secolo (trentuno opere, contro le trentasette di Anversa, le quattordici di Parigi, le ventidue di Lione). A partire dal 1600 vi è una netta ripresa; in quell'anno i Veneziani sono presenti con novantadue opere, nel 1601 con novantacinque, nel 1602 con centoventisette, nel 1603 con centotrentanove, nel 1604 con centoquarantasei. È questa la punta massima: poi si scende ad una media di cinquantasei sino al 1617. Da quell'anno sino al 1630 la media sarà di ventotto. La presenza di Anversa si mantiene invece costante dal 1600 al 1630, con una media di sessantasei opere annue. Di molto inferiori Lione e Parigi. In rapporto alla cifra totale delle opere inviate alla Fiera la percentuale della presenza veneziana è del 6,6% nel periodo 1564-1599, del 5,1% dal 1600 al 1617 (8,2% negli anni 1600-1606), nel periodo 1606-1630 soltanto del 2,2%.
Artefici del rilancio della partecipazione veneziana alla grande Fiera alla fine del secolo sembrano essere anzitutto i Franceschi, presenti con sette opere nel 1590 e poi ancora nel 1591, 1592, 1601, 1602; i Giunti; il Ciotti, che invia addirittura quarantacinque titoli nel 1600 e quaranta l'anno dopo; e soprattutto i Meietti, presenti sin dal 1592 con varie opere quasi ogni anno. È probabile che essi agissero anche per incarico di altri. Nel 1603 domina la scena una Societas Veneta: sulle centotrentanove opere presentate dai Veneziani, centotrentasei sono della società, che stampa non solo a Venezia, ma anche a Vicenza e Treviso, e altresì fuori dello Stato veneto, a Milano, Roma, Firenze, Siena. Lo stesso avviene l'anno dopo: su centoquarantasei opere portate a Francoforte dai librai veneziani, centosette sono della società, che continua almeno sino al 1619 (109).
Il calo, in termini assoluti e relativi, che si verifica a partire dal 1618 sembra in evidente connessione con lo scoppio della guerra dei Trent'anni, che rendeva meno sicuri i mercati tedeschi. Ma il crollo si ebbe con la peste del 1630: da allora per dieci anni non vi fu nemmeno un libro veneziano a Francoforte. Nel 1641 ve n'è uno, poi pochi, pochissimi o nessuno.
La peste, come si è detto, fu un colpo durissimo per la città, e per la stampa in particolare. Ma Venezia si riebbe, e l'industria tipografica anche. Troviamo in attività assai presto, nel 1632-1633, Giunti, Baba, Pinelli, Baglioni, Ginami, Tomasini, Vincenti, e molti altri fra stampatori ed editori. Nel 1634 un elenco compilato ad uso dei riformatori dello Studio di Padova include diciotto stamperie (110). I nominativi elencati sono quelli degli stampatori provvisti di torchi propri; ma vi erano, come noto, gli imprenditori che si assumevano il rischio dell'edizione senza gestire una tipografia in proprio, come Antonio Bariletti, Marc'Antonio Brogiollo, Cristoforo Tomasini, proprietario di un'importante libreria a S. Zulian. Gli stampatori con torchi propri si trovavano poi in condizioni assai diverse: tra i ricchissimi Giunti e Francesco Valvasense, che stampava più per conto di altri che in proprio (uno dei suoi maggiori committenti era, come si accennerà, Giovan Francesco Loredan, il celebre patrono dell'Accademia degli Incogniti), vi era un abisso dal punto di vista del patrimonio, del profitto e del prestigio.
Qualche anno dopo il libraio Tomasini, nella testimonianza resa al processo contro il Valvasense, cui si accennerà oltre, elenca dieci tipografie attive (ma l'elenco non pare completo) (111). Fra tutti gli stampatori egli dà maggior credito a Francesco Baba, che definisce "più intelligente di ogni altro". Anche il patrizio Pietro Michiel, teste al processo (e, come amico del Loredan, assai benevolo verso l'imputato), dichiara che il Baba "stampa meglio di tutti" e che quindi vuoi comandare, "pretende la maggioranza" nell'Arte (112) La tipografia degli eredi Salis (o Salicis) era gestita interamente da due donne, madre e figlia, che stampavano in esclusiva per il libraio Tomasini. Facevano quasi tutto da sole: "non tengo se non un huomo per il torcolo", dichiara Laura Salicis Grisoni, allora settantasettenne, "et per il restante faccio con mia figlia" (113).
I più interessanti dal punto di vista della storia culturale, ma anche politica, sono, fra gli stampatori dell'epoca, quelli che gravitano attorno ad un'istituzione e ad un personaggio singolari: l'Accademia degli Incogniti e il suo principe, Giovan Francesco Loredan, che si assumono il non facile compito di trasferire sul piano letterario ed editoriale i sentimenti anticuriali e antispagnoli nutriti più o meno apertamente dalla maggioranza del patriziato. Ad essi accenneremo oltre, in relazione al tema della censura. Si trattava di aziende di notevole importanza anche economica, soprattutto quelle di Paolo Gueriglio e di Giacomo Sarzina. Il bizzarro bibliofilo fra Angelico Aprosio li menziona con amicizia e rispetto, assieme a Marco Ginami e ad altri due librai stampatori che occupano una posizione di grande rilievo nel secondo Seicento: Sebastiano Combi e Gian Giacomo Hertz.
Il primo apparteneva ad una famiglia di stampatori attiva sin dalla fine del Cinquecento e già in buone condizioni economiche nei primi anni del secolo. Ma il grande salto avviene attorno al 1650, quando Sebastiano Combi si associa ad un giovane olandese Giovanni de la Noue, che probabilmente era giunto a Venezia come agente degli Elzevier di Leida. Grazie ai legami internazionali dell'olandese e del fratello uterino di lui, Andries Fries (o Andrea Frisio), i Combi-La Noue divennero il perno di una grande organizzazione di commercio librario europeo. Comperavano dai grandi mercanti ed editori stranieri, soprattutto olandesi, e rivendevano ad altri mercati italiani, in particolare in Toscana, ed esportavano, via mare, soprattutto ad Amsterdam, donde poi balle di libri si dipartivano per Colonia, Augusta, Francoforte, Basilea. La situazione nelle varie piazze era seguita dal Frisio, che si spostava di città in città per controllare il buon esito delle operazioni e stabilire contatti. Le grandiose proporzioni di questo traffico internazionale, degno delle tradizioni mercantili veneziane, risaltano dal carteggio dei Combi-La Noue col grande bibliotecario mediceo Magliabechi e sono state messe in luce dagli studi di Alfonso Mirto (114). Nulla quindi di più lontano dal vero di una chiusura all'Europa del mercato veneziano del libro nel Seicento.
Legato soprattutto al mondo germanico è un altro mercante di dimensioni internazionali, Gian Giacomo Hertz (115). Immatricolato nel 1645, grande importatore di libri all'estero, seppe fare della sua libreria la più fornita della città: attorno ad essa gravitava una clientela di patrizi, letterati, uomini di scienza che nei libri disponibili nei suoi magazzini trovavano gli strumenti per entrare in contatto con la cultura d'Oltralpe. Alla sua morte, alla fine del secolo, l'azienda si divise fra i due figli: l'inventario redatto alla morte di uno di questi, Michele, nel 1721 evidenzia circa dodicimila titoli per varie decine di migliaia di volumi. Nel contempo Hertz stampava libri di varia natura, di botanica, di diritto, d'arte e di storia e altresì tentava uno dei primi esperimenti nel genere delle riviste letterarie dando vita al "Giornale Veneto de' Letterati".
Altro stampatore di prim'ordine del secondo Seicento è Niccolò Pezzana (116). Nato a Trino, si era trasferito giovanissimo a Venezia, lavorando presso i Gueriglio e i Giunti. La sua ascesa fu straordinaria: nel 1657 riuscì a rilevare l'azienda giuntina, in declino dopo la partenza di Bernardo Giunti per Firenze, divenendo proprietario di una delle più antiche e gloriose case editrici europee. Egli rimise in sesto i bilanci dell'azienda e la rilanciò su larga scala, mantenendo il tradizionale marchio del giglio. Nel 1691 la nipote di lui, Angela, sposò Giambattista Baglioni, suggellando così un'alleanza con quest'ultima importantissima azienda.
Le fortune della casa Baglioni, sorta, come si è accennato, con Tommaso, erano andate via via crescendo. Tommaso aveva sposato Orsa Ginami, e il figlio Paolo aveva così ereditato nel 1657 le non irrilevanti sostanze e relazioni di quella famiglia di stampatori. Paolo si dedicò al libro religioso, conseguendo grandi successi economici. Nel 1684 i Baglioni ottenevano la cittadinanza originaria. Ormai la ricchezza e i legami famigliari erano tali da consentire senza difficoltà l'ultimo passo nell'ascesa sociale di una casa: l'acquisto del patriziato. Ciò avvenne, caso unico nel mondo degli stampatori, nel 1716, mediante il consueto esborso della formidabile cifra di 100.000 ducati, che Giambattista Baglioni poté versare senza compromettere la solidità della sua azienda (117).
Proseguono poi nel secondo Seicento le fortune dei Pinelli, dei Gueriglio, dei Ciera, dei Vincenti, dei Valvasense e di molti altri; sorgono e si affermano quelle dei Conzatti, Tramontin, Prosdocimo, Albrizzi, destinati questi ultimi a notevoli successi nel nuovo secolo. Alla fine del Seicento gli stampatori attivi sono ventisette e i librai una settantina (118): un quadro di grande animazione, che prepara lo slancio straordinario del Settecento.
Bisogna poi tener conto delle iniziative di personaggi estranei all'Arte, ma suscitatori di energie in campo tipografico. Il patrizio Marco Contarini, procuratore di S. Marco, signore splendido e fastoso, decise di dotare la sua principesca villa di Piazzola non solo di due teatri (uno capace di accogliere quattrocento spettatori, l'altro mille), di un conservatorio con trentotto fanciulle dedite alla musica, al canto e al ricamo di merletti e arazzi, di una biblioteca specializzata in opere musicali, ma anche di una stamperia, di dimensioni ragguardevoli: in una stanza vi erano tre torchi per la stampa di incisioni in rame, in un'altra si intagliava a bulino e acquaforte, in una terza vi erano altri tre torchi. Al tutto attendevano le fanciulle "povere e di onesta famiglia" che il procuratore generosamente assisteva: e difatti i libri usciti dalla stamperia di Piazzola recano l'indicazione "nel luogo delle Vergini" come data topica (119). Non si potrebbe immaginare iniziativa meno commerciale e più mecenatesca: i libri musicali stampati venivano donati (assieme a una lampada per leggerli) agli invitati, che si godevano gli spettacoli musicali offerti dal procuratore. Se ne stamparono undici in tutto, tra il 1680 e il 1686. Si stamparono poi L'orologio del piacere, un raffinato libretto in cui si descrivono le feste magnifiche offerte dal patrizio al duca di Brunswick nel 1685, e tre voluminose opere del gesuita Louis Maimbourg, tradotte in italiano, per le quali evidentemente il procuratore aveva una particolare predilezione. L'ultima opera stampata fu l'Idea architettonica universale di Vincenzo Scamozzi. Con la morte del Contarini (1687) la stamperia cessò di operare e Girolamo Albrizzi rilevò i torchi, assieme all'opera dello Scamozzi, che presentò come edizione propria (120).
Un altro patrizio veneziano, il vescovo di Padova Gregorio Barbarigo, futuro santo, fondò una stamperia ad uso del seminario della sua diocesi, nel 1684: ciò perché non gli riusciva di trovare in commercio opere di alta erudizione scritte in ebraico, copto, aramaico, greco. "Facciamo", egli disse, secondo le testimonianze di un contemporaneo, "facciamo noi un torcoletto": producendo i libri di cui c'era necessità per gli studi dei seminaristi nel seminario stesso, egli poteva soddisfare integralmente le richieste, senza darsi pensiero del costo (121). Nel 1694 la stamperia aveva raggiunto dimensioni considerevoli: i torchi erano quattro, i dipendenti ventiquattro. Tuttavia non si vedevano utili, date le finalità erudite e religiose dell'iniziativa, anzi nel 1697, alla morte del munifico vescovo, vi erano forti preoccupazioni per l'avvenire dell'azienda. Ma il nuovo vescovo, Giorgio Corner, risolse il problema convogliando la produzione della tipografia sul mercato veneziano: un capace agente della ditta Combi-La Noue, Giovanni Manfré, aprì un negozio in Merceria, venne accolto nell'Arte e incominciò un'attività commerciale fortunatissima, per lui e per il seminario (122).
Vivacissima poi la presenza sulla scena culturale e tipografica veneziana del geniale minorita Vincenzo Coronelli, insigne cosmografo, poligrafo, inventore, matematico, idraulico, nonché per qualche tempo generale dell'Ordine, che avvalendosi di una quindicina almeno di tipografi e librai veneziani (ma anche di non pochi stranieri) fece uscire una produzione imponente di opere di ogni genere (123): scientifiche, storiche, di attualità, enciclopedie (la sua, purtroppo incompiuta, fu la prima moderna, mezzo secolo in anticipo su quella francese), manuali, almanacchi.
Per tutto il Seicento rimane poi animato il campo della stampa in lingue straniere. Continua la stampa in slavo, nei vari caratteri cirillici (ecclesiastico e civile), anzi il Seicento fu il secolo d'oro per la stampa in cirillico bosniaco, o "bukvica" (124): vi si distinsero Pier Maria Bertano che pubblicò nel 1616 una raccolta di omelie poi più volte ristampata, Marco Ginami, e soprattutto i Pezzana. La stampa in ebraico, riavutasi dalle persecuzioni inquisitoriali, continuò ad opera delle case Di Gara e Zanetti e soprattutto di quella Bragadin, che era stata protagonista del tragico dissidio con la casa Giustinian, da cui era derivata la distruzione del Talmud. Nel 1631 sorse una nuova stamperia ebraica ad opera di Giovanni Vendramin, anch'egli patrizio, che si fuse poi con quella dei Bragadin. Anche Giacomo Sarzina si cimentò nella stampa ebraica, stampando varie opere del dottissimo Leone da Modena, al pari di Giovanni Calleoni (Cagion o Cajun), di Lorenzo Pradotto e di altri (125). Nonostante le continue difficoltà determinate dal timore degli interventi censori, la stampa in ebraico, che si rivolgeva alle ricche comunità della diaspora, non venne meno.
Prospera la stampa in greco, in cui primeggiano per tutto il secolo i Pinelli e i Giuliani. I libri religiosi e liturgici costituiscono la parte maggiore della produzione, ma non mancano opere letterarie, storiche, scientifiche. Mentre i Pinelli stampano soprattutto testi sacri, i Giuliani divulgano opere di autori importanti per il mondo greco come Margunios, Caludis e Vlascos. Accanto a Pinelli e Giuliani stampano in greco de Polonio, Zanetti, Dusinelli, Ceruti, nei primi decenni del Seicento, Giovanni Vittore Savioni e gli eredi di Altobello Salicato verso la metà del secolo. A questi ultimi è dovuta una ventina di edizioni di carattere liturgico e scolastico, uscite tra il 1643 e il 1646, fra le quali uno dei più bei libri greci illustrati, le Favole di Esopo (1644) (126). Nella seconda metà del secolo si verifica un fatto nuovo, di grande importanza per lo sviluppo della tipografia greca e per la cultura neoellenica. Due grandi mercanti greci residenti a Venezia decidono di intervenire direttamente, con il peso dei loro capitali e delle loro relazioni commerciali nella madrepatria, nel settore librario: si trasformano in stampatori e aggiungono i libri ai prodotti lavorati che esportano in Grecia (da cui importano cuoio, cera, seta, lana, olio), dando così alla produzione e alla diffusione del libro greco un impulso formidabile (127). Venezia, da secoli il maggior centro dell'ellenismo in Occidente, diviene la capitale culturale del mondo greco ed esercita un'influenza incalcolabile sulla rinascita anche politica della madrepatria ellenica. L'importanza delle stamperie veneziane in lingua greca appare tanto più evidente se si considera il fallimento dell'unico serio tentativo di impiantare una tipografia greca nel territorio dell'Impero ottomano, allora inglobante la gran parte del mondo ellenico: nel 1627 l'impresa fu tentata dal grande patriarca Cirillo Lucaris, avvalendosi della capacità tecnica di Nicodemo Metaxàs, ma il tentativo fallì soprattutto per le mene dei Gesuiti, che temevano le simpatie calviniste del patriarca, e non fu più ripetuto (128).
Il primo grande mercante-stampatore greco, non solo cronologicamente ma anche per l'importanza e le dimensioni dell'azienda da lui creata, è Niccolò Glykis. Nato a Giannina nel 1616, si stabilisce a Venezia e nel 1670 acquista la tipografia di Orsino Albrizzi. L'anno stesso chiede e ottiene, sborsando senza batter ciglio i 100 ducati che, come già si è detto, l'Arte gli chiede per supplire alla mancanza dei requisiti prescritti, l'iscrizione all'Università degli stampatori e libreri, e incomincia un'attività che si protrarrà sino al 1854. L'entusiasmo e i mezzi di cui dispone gli consentono di concepire il disegno di ottenere addirittura il privilegio venticinquennale per la stampa degli otto libri più importanti per la chiesa ortodossa. L'istanza, del 15 gennaio 1671, viene respinta per le proteste di Andrea Giuliani (129), ma è indicativa dell'ampiezza dei piani del Glykis, che stampa tra il 1670 e il 1693 (anno della morte), ben centosei edizioni, in prevalenza religiose. L'attività verrà continuata dai discendenti.
L'esempio del Glykis è seguito qualche anno dopo da un altro grande mercante, l'epirota Nicolò Saros, stabilitosi a Venezia alla metà del secolo. Nel 1681-1682 egli stampa due libri in società con Michelangelo Barboni e successivamente, nel 1686, crea un'azienda sua, che continuerà sino al 1707 stampando quarantacinque titoli: morto il Saros nel 1697, gli eredi, dopo dieci anni, cederanno l'azienda ad Antonio Bortoli (130).
Degna di nota anche l'editoria in armeno. Rimangono due opere stampate dagli eredi di Altobello Salicato nel i 642-1643 (131); successivamente ottenne un privilegio un greco di Atene, Angelo Benesello, che applicò all'impresa "l'opera e il denaro, ma distratto dall'emergenza di sua fortuna" non riuscì a fare alcunché. Il 25 settembre 1660 Giovan Battista Bonis chiese un analogo privilegio ventennale, ma non ci sono note sue stampe (132). Nel 1678 incominciò la produzione di Michelangelo Barboni, di cui restano, sino al 1690, tredici edizioni. Negli anni 1685-1687 operano Giacomo Moretti, Gasparo Seriman (Sehrimanean), Nahapet Kiulnazar e altri (133). Finalmente nel 1695 ottiene un privilegio per tutta la stampa armena Antonio Bortoli, che conserverà il monopolio sino alla venuta a Venezia del padre Mechitar di Sebaste e all'apertura di una fiorente tipografia armena nell'isola di S. Lazzaro. Nel 1788 un accordo tra i padri mechitaristi e il successore di Antonio, Francesco Bortoli, ridurrà quest'ultimo a poco più di un prestanome (134).
Vivace per tutto il secolo la tipografia musicale, soprattutto grazie alla ricordata attività di Bortolo e Francesco Magni, continuatori dei Gardano, attivi sino al 1643, sino al 1668 il secondo (135). Importante anche la produzione di libretti d'opera, in cui si distingue, come già si è accennato, Francesco Nicolini (136).
Vivace anche la produzione di incisioni. Il Boffito nomina solo ventuno incisori veneziani contro i quarantadue di Roma, ma il suo elenco è assai sommario; mancano molti nomi anche importanti e non si considera neppure la schiera degli artisti che lavoravano per padre Coronelli: una quindicina di collaboratori interni ai Frari, oltre ai vari esterni (137). La cifra del Boffito andrebbe quindi almeno raddoppiata.
All'inizio del secolo operava con successo, come si è accennato, Giacomo Franco, la cui eredità venne raccolta da Stefano Scolari. Nei primi anni del Seicento un ramo della grande famiglia dei Sadeler, incisori presenti ad Anversa, Monaco, Praga, Bruxelles, aveva a Venezia un negozio e un laboratorio; i rami pervennero poi ai Remondini di Bassano (138).
Marco Boschini, autore di celebri descrizioni in poesia e in prosa delle opere d'arte di Venezia, era abile incisore, importante anche nella cartografia: gli sono dovute carte famose del Regno di Candia, della Dalmazia, dell'Arcipelago greco, del territorio vicentino (139). La cartografia sarà poi coltivata da padre Coronelli, eminente cosmografo, dal cui laboratorio usciranno moltissime carte, sciolte e in volume. Carte geografiche e mappamondi erano assai diffusi nelle raccolte veneziane (140); spesso "descrittioni del mondo" ornavano le pareti, non di rado nell'ingresso, e vi era chi, come il doge Leonardo Donà e un oscuro patrizio, Zan Barbaro qm. Giacomo detto "scoasera", ne aveva un'intera collezione (141).
Fra gli altri incisori di maggior rilievo nel secolo, si ricordano Giacomo Piccin e la figlia Isabella, che nel 1660 si fece monaca ma continuò a lavorare il rame, rifornendo di ingenue ma vivaci incisioni la gran parte degli stampatori della città e anche i Remondini di Bassano (142); Odoardo Fialetti; i Valesio; Domenico Zenoi; Alessandro dalla Via; Domenico Rossetti, attivo anche come incisore di monete; i frati Francesco Maria Ferri e Giambattista Moro, collaboratori del Coronelli al pari dei laici Tommaso Giusti e Pietro Ridolfi. Nel 1679 giunge a Venezia, da Udine, sedicenne, Luca Carlevarijs, che aprirà la grande stagione dell'incisione settecentesca con le sue celebri Fabriche e vedute di Venetia del 1703 (143).
Anche nelle produzioni specialistiche c nell'incisione Venezia mantiene dunque nel Seicento, contrariamente a quanto troppo spesso si ripete, le sue caratteristiche di grande centro di produzione e di vivace mercato.
Si è accennato agli effetti dell'attività repressiva della Controriforma sulla produzione e sul commercio del libro. Va peraltro sottolineato il fatto che il controllo sulla stampa era a Venezia interamente riservato allo Stato, almeno dal punto di vista formale. Lo strumento attraverso il quale si effettuava il controllo preventivo sull'uscita dei libri era la licenza di stampa. Tale istituto sorse nel lontano 1527, per venire incontro alle proteste di alcuni frati che si ritenevano lesi da una pubblicazione, ma rimase pressoché inutilizzato sino al 1542, anno in cui il consiglio dei dieci, ai cui tre capi spettava il rilascio della licenza di stampa, rinnovò la prescrizione, con gravi sanzioni per chi non avesse ottemperato all'obbligo di munirsi dell'autorizzazione. I capi dei dieci non potevano certo leggere tutti i manoscritti da stampare, e perciò delegavano la cosa a revisori: almeno due, secondo la legge del 1527 (144). Probabilmente almeno uno dei revisori era un ecclesiastico, ma non vi era alcuna previsione legislativa in materia, sicché l'ingerenza della Chiesa nel processo della censura preventiva era ufficialmente nulla. Inoltre, nonostante le severe previsioni della legge, gli stampatori continuavano a stampare senza licenza, oppure se la procuravano a buon mercato: portavano ai dieci, e dal 1544 ai riformatori dello Studio di Padova, la fede di due o tre persone qualsiasi che dichiaravano non esservi nel libro nulla di contrario alla legge e ottenevano dal segretario dei riformatori una fede riassuntiva sulla base della quale i tre capi del consiglio dei dieci emettevano la licenza di stampa.
Tutto ciò poté durare fintantoché il patriziato non ebbe interesse a un controllo rigoroso della stampa; ma all'incirca attorno il 1560 la situazione mutò. Prevalse da un lato il timore dell'eresia come forza di disgregazione sociale, dall'altro la necessità diplomatica di un'alleanza con le forze trionfanti di Roma e della Spagna. Incominciarono anni oscuri, si disposero ispezioni presso i librai per sequestrare libri proibiti; si bruciarono libri ebraici, si decise infine di rendere effettivo il controllo preventivo. Nel 1562 i riformatori pubblicarono un decreto con cui si organizzava in modo nuovo l'istituto della licenza di stampa (145); e fu per la stampa un colpo durissimo. Si stabiliva che per ottenere la fede dei riformatori si dovessero presentare tre attestati: uno dell'inquisitore, o di "altra persona ecclesiastica che abbia carico al Tribunal dell'Inquisitione"; uno di un "lettor publico", di un professore quindi all'Università di Padova o alla Scuola di S. Marco o di Rialto; e uno di un segretario ducale. La ripartizione dei compiti, anche se non precisata, doveva essere la seguente. L'inquisitore doveva esaminare l'opera dal punto di vista della dottrina cattolica; al professore spettava accertarsi che non vi fosse nulla "contra Préncipi [lesivo cioè di Stati stranieri], né contra li buoni costumi"; il segretario ducale esaminava il libro alla luce della politica corrente e si accertava che non vi fosse nulla contro lo Stato che potesse aver ripercussioni negative in materia diplomatica. Una volta ottenute queste tre distinte fedi, lo stampatore si presentava al segretario dei riformatori, che emetteva un certificato attestante che le tre fedi erano state depositate. Con quest'ultima fede lo stampatore si recava al consiglio dei dieci, e i tre capi gli rilasciavano infine la licenza di stampa (146).
Il processo era macchinoso, e in ciò era già un difetto: prima di ottenere la licenza passavano uno, due o forse tre mesi. Inoltre veniva per la prima volta legalizzata la presenza ufficiale dell'autorità ecclesiastica, anche se il testamur inquisitoriale si inseriva in un procedimento totalmente laico. Da quella data non fu più possibile per molti anni stampare opere eterodosse: la Controriforma aveva vinto. Nel 1566 fu disposto che le licenze di stampa, una volta ottenute, andassero registrate presso gli esecutori contro la "biastema" in un apposito libro (147). Mutato il clima politico, venuti al potere uomini diversi, le difficoltà in cui si dibatteva l'Arte della stampa vennero prese in ampia considerazione. Tuttavia ciò non modificò se non marginalmente il sistema giuridico della censura preventiva. Nel 1603 l'ampia legge del senato in materia di stampa si limitava a sopprimere uno dei tre revisori, "il lettor publico". Peraltro il clima di crescente tensione tra il governo della Repubblica e la Chiesa romana, che si manifestava in incessanti conflitti sulle più disparate materie, rendeva probabilmente meno difficile in via di fatto eludere il vaglio inquisitoriale.
Giunse poi la grande battaglia politica e ideologica dell'Interdetto, che mostrò ad un'Europa stupita e ammirata la determinazione con cui Venezia sapeva difendere la propria libertà e i suoi poteri giurisdizionali. Si moltiplicarono, con l'ovvio assenso del governo, libelli, trattati, pubblicazioni d'ogni genere volte a sostenere le ragioni veneziane, e in genere a difendere la giurisdizione laica. Molte di tali stampe uscirono dai torchi dei Meietti, in prima fila non solo nel commercio di libri antipontifici, ma anche nella produzione di essi (148). Nel contempo, rotto ogni argine inquisitoriale, la città veniva inondata di scritti anticuriali italiani e stranieri. Durante il conflitto, la fede dell'inquisitore venne sostituita da quella di alcuni "reverendi teologi" o di "sette teologi" (149): i quali altri non erano che il Sarpi e il Micanzio, ispiratori della lotta anticuriale, Giovanni Marsilio e altri religiosi totalmente guadagnati alle ragioni veneziane. Il grande ideologo dell'indipendenza e della dignità della Repubblica, Paolo Sarpi, teorizzò anche in tema di censura, con la consueta acutezza e rigore logico, la piena sovranità dello Stato (150). Da un lato, i libri "perniciosi al buon governo" andavano proibiti: tutti quelli contrari all'interesse dello Stato, in particolare quelli che in nome della religione ne minavano l'autorità. Dall'altro, il concordato del 1596 andava osservato scrupolosamente: i libri contenuti nell'Indice clementino andavano proibiti, perché lo Stato vi si era impegnato; ed è questa certo la ragione, come ha suggerito Gaetano Cozzi, della soppressione di vari libri proibiti nella biblioteca di Leonardo Donà. Il doge doveva dare l'esempio (151). Invece per i divieti successivi bisognava distinguere: se la proibizione riguardava materia di fede, si doveva accettarla, se era motivata da considerazioni diverse, si doveva valutare nel merito. Comunque in nessun caso una proibizione romana doveva essere automaticamente valida nell'ambito dello Stato: il divieto poteva acquisire efficacia solo se fatto proprio dal Santo Uffizio di Venezia o della città del Dominio: nella capitale tale organo non poteva deliberare senza l'assenso degli assistenti laici patrizi, nelle città suddite senza la partecipazione del rettore veneziano, il che ne faceva un organo dello Stato.
Anche dopo la composizione diplomatica della grande controversia dell'Interdetto, i rapporti con Roma rimasero conflittuali, non solo sul piano della politica generale per le forti inclinazioni veneziane verso il fronte antiasburgico, cui la Repubblica non lesinava aiuto finanziario e sostegno diplomatico, sino a giungere allo scontro armato con la guerra di Gradisca, ma anche specificamente in materia di libri. La Curia romana si sforzava in ogni modo di "abattere da fondamenti e distruggere il Concordato", estendendo a dismisura le proibizioni di libri con ogni sorta di espedienti (152); dal canto suo la Repubblica opponeva una ferma resistenza, non ammettendo che i divieti romani venissero pubblicati senza il preventivo vaglio dell'autorità pubblica (il che si tentava continuamente da parte di sinodi, vescovi, inquisitori) e rifiutando l'attuazione di bandi ispirati chiaramente a finalità temporali e non religiose. Di contro, la Repubblica vietava la pubblicazione di opere dirette a sostenere l'onnipotenza ecclesiastica a danno del potere laico. La Chiesa partiva favorita, per l'opera incessante di confessori, predicatori, inquisitori, accesi di sacro zelo; ma anche lo Stato aveva i suoi consultori in jure e i suoi savi all'eresia.
I contrasti incominciarono subito, con il rifiuto opposto dalla Repubblica al divieto di un'opera che Roma voleva proibire, il De doctrina politica di Henning Arnisaeus: ne scrive preoccupato il nunzio Gessi al cardinale Borghese il 5 gennaio 1608. E poi continuarono; il nunzio ricorreva al Collegio e "qualche volta" otteneva soddisfazione, ma spesso non vi riusciva (153). L'autorità ecclesiastica insisteva nei suoi tentativi di ignorare quella civile, ma questa reagiva: nel 1633 gli inquisitori di Udine vogliono pubblicare senza l'assenso laico la proibizione di quattordici libri decretata dalla Congregazione dell'Indice, il luogotenente chiede lumi a Venezia, e fra Fulgenzio Micanzio risponde netto: "Non conviene lasciar stampare né pubblicare decreti di prohibitione de libri fatti da chi si sia, venghi onde si vuole, altramente la previsione del concordato rimarrebbe snervata, destrutta et di nessuno valore, con sommo pregiudicio del Pubblico" (154). E aggiunge: "se li libri in tali decreti contenuti et nominati sono cattivi, prohibirli con decreto del Santo Officio con la pubblica assistenza et esseguirlo o per editto o con precetti et comandamenti a soli librari, o come sarà stimato più opportuno". È la presenza dei rappresentanti dello Stato nell'organo ecclesiastico che legittima l'eventuale proibizione. Quanto poi al caso specifico, i libri vengono sottoposti ad attenta analisi dall'eminente consultore e nessuno di essi appare "Cattivo": risulta evidente che non ragioni religiose, ma politiche sono alla base della proibizione, per cui non si deve dare esecuzione al decreto romano. L'anno dopo un libraio di Bergamo fu fatto "ritenere" perché aveva stampato divieti romani non fatti propri dallo Stato, "accioché il di lui castigo fosse di esempio agli altri" (155). I tentativi di dare esecuzione a divieti romani senza passare per l'autorità statale erano peraltro continui: un metodo particolarmente insidioso era quello di inserire negli Indici che si pubblicavano da parte degli inquisitori titoli la cui proibizione non era stata approvata dallo Stato, il che poteva passare inosservato: e ciò di fatto spesso accadeva (156).
Una guerra di nervi continua si consumava tra Chiesa e Repubblica, che talvolta assumeva aspetti clamorosi, come nel caso in cui l'inquisitore, con prepotenza quasi provocatoria, pretendeva di proibire la pubblicazione dell'opera storica scritta per pubblico decreto dallo storiografo della Repubblica, Andrea Morosini, l'Historia Veneta, perché vi si trattava in modo non gradito alla Curia della controversia dell'Interdetto. Naturalmente il senato autorizzò la stampa, precisando che l'inquisitore doveva rivedere i libri "per causa solamente di religione", e che nella storia del Morosini non vi era parola che potesse recare pregiudizio alla religione (157).
In alcuni casi peraltro bisognava, per rispettare i principi, accettare, anche se di mala voglia, le proibizioni romane: fu questo il caso, particolarmente spiacevole, dell'assurdo divieto di pubblicare opere de mobilitate terrae et de immobilitate solis, emesso nel 1616. Si colpiva Copernico per non attaccare direttamente Galileo, matematico del granduca di Toscana (158). Paolo Sarpi, pur rilevando che il libro di Copernico era stato "stampato già poco meno di 100 anni, veduto e letto da tutta Europa", che "sopra la dottrina di quello è fondata la corretione dell'anno fatta da papa Gregorio Xiii", e che per il passato esso non era stato "censurato né dal Concilio di Trento né in Roma", non poteva dare parere sfavorevole al divieto di stampa perché si trattava di proibizione che non toccava gli interessi dello Stato (159). Si trattò di una proibizione funesta perché la stampa di opere scientifiche si spostò verso la libera Olanda, ove nulla poteva l'oscurantismo inquisitoriale (160).
Esisteva comunque un altro metodo, che non fosse il puntiglioso conflitto giurisdizionale con Roma, per lasciare libero corso alla stampa di opere proibite o destinate a certa proibizione: ignorarle ufficialmente. "Innumerabili sono quelli libri che si veggono stampati senza licenza del Magistrato e del Padre Inquisitore", osserva una nota redatta attorno alla metà del secolo da un funzionario dei riformatori. "Rari quelli con l'imprimatur, ma questi sono doppo il '45", aggiunge l'appunto, che registra poi vari casi di libri stampati regolarmente e altri libri usciti senza licenza dei capi dei dieci (161). Negli anni del pieno accordo fra Stato e Chiesa non sarebbe stato possibile, ma ora lo Stato era propenso a chiudere consapevolmente gli occhi circa la stampa di libri proibiti, anzi addirittura ad incoraggiarla.
Un artificio usato in Francia e in molti Stati italiani per aggirare le norme della censura era quello di apporre sul libro un falso luogo di stampa: il che avveniva con l'accordo dello Stato, che evitava così di coinvolgere ufficialmente la propria responsabilità nella pubblicazione di un'opera che non si poteva autorizzare in base alle norme vigenti ma di cui non si voleva impedire l'uscita (162). Tale metodo, che verrà regolamentato nel Settecento, appare usato di frequente nel periodo in cui, come si accennerà, la stampa veneziana è dominata dall'Accademia degli Incogniti, all'incirca gli anni 1631-1650.
Come esso funzionasse risulta chiaramente da una deposizione dello stampatore Francesco Valvasense, che caso assai raro era stato imprigionato e processato nel 1648 per reati di stampa dal Santo Uffizio. Fra i molti addebiti fattigli, vi era quello di aver stampato un'opera del frate olivetano Antonio Santacroce, i Frammenti istorici della guerra di Candia, usciti con l'indicazione di Bologna e senza licenza. Richiesto delle ragioni del fatto, egli riferisce che il segretario dei riformatori si era recato nella sua tipografia e gli aveva espressamente detto di stampare undici o dodici fogli dell'opera "col finger che fossero stampati in Bologna", raccomandandogli il segreto: "mi disse che non dovessi dir niente". Quanto alla licenza di stampa, "mi disse che lui farebbe la nota nelle sue filze". Interrogato sul perché in precedenza egli avesse negato di aver stampato i Frammenti, il Valvasense rispose che "aveva negato perché detto Secretario l'haveva pregato di secretezza". Circa il resto del libro, riferisce il tipografo, "l'autore mi disse che fu stampato in Bologna" (163). In alcuni casi quindi era l'autorità stessa a favorire la stampa dei libri non ortodossi; in altri casi essa vi consentiva; tutto avveniva sotto l'occhio vigile e benevolo delle magistrature che avrebbero dovuto vietare l'uscita dei libri. Evidentemente il partito antiromano collocava i suoi uomini nelle posizioni giuste, e questi dirigevano con discrezione il mercato clandestino. Su questi libri veniva apposta la scritta "con licenza dei superiori", o "superiorum permissu" (dizione adottata anche per la Storia di Andrea Morosini), e non è pensabile che la Repubblica non fosse consenziente. Non aveva quindi tutti i torti un povero libraio, Giacomo Batti, inquisito in un processo parallelo a quello del Valvasense, che si difendeva dicendo di non aver saputo che i libri che gli avevano sequestrato fossero proibiti: come dirà il suo difensore davanti al Tribunale, egli "videbat in calce per paginam ipsos omnes impressos esse de licentia superiorum" e avrebbe dovuto svolgere approfondite indagini per appurare se essi fossero stati poi vietati dall'autorità ecclesiastica con atto accolto dallo Stato (164).
Il fenomeno ora descritto assunse le sue massime proporzioni, come si è detto, nel ventennio 1630-1650. Dopo la morte del doge Nicolò Contarini, l'ultimo dei grandi protagonisti della lotta giurisdizionale, il governo veneto sembra attenuare certe punte della sua battaglia antiromana; ma la maggioranza del patriziato rimane ferma nella sua avversione alla prepotenza curiale e alla Spagna, e trova il suo portavoce letterario e propagandistico in una singolare istituzione, che raggruppa spiriti scapigliati, originali, bizzarri, uniti dal desiderio di rompere la cappa di piombo imposta alla cultura dalla Controriforma: l'Accademia degli Incogniti, di cui è anima e mecenate il patrizio Giovan Francesco Loredan (165). Gli accademici reagiscono al clima oppressivo di quegli anni, dominati dallo spirito controriformistico, con ogni sorta di stravaganze letterarie e di comportamenti anticonformisti. Ma la loro non è solo vana ostentazione di spirito ribelle. In un'Italia così pesantemente condizionata da Roma e dalla Spagna, il loro atteggiamento diventa un segno di resistenza, un polo di attrazione per chi non si rassegna, né intellettualmente né politicamente, alla pesante atmosfera ovunque imperante. Con il tacito appoggio di una parte rilevante del patriziato, l'Accademia diventa uno dei centri europei della resistenza antiromana; e strumento della sua azione è proprio la stampa. Mario Infelise calcola che "non meno del 50% dei titoli privilegiati tra il 1632 e il 1642 ha relazioni più o meno dirette" con gli ambienti dell'Accademia (166). E a tale cospicua cifra va aggiunta tutta la produzione sotterranea, che - come si è accennato - sembra aver avuto dimensioni considerevoli.
Il patrono degli Incogniti, sorti nel 1629 ma attivi dopo la peste, è l'appena nominato Giovan Francesco Loredan, patrizio veneziano eminente per nobiltà, censo, relazioni, scrittore egli stesso di romanzi al suo tempo molto apprezzati, lettere, saggi satirici. Quando incominciano le riunioni dell'Accademia è ancora giovanissimo (era nato nel 1607): da allora per vent'anni almeno non vi sarà libro antiromano, uscito a Venezia, che non abbia in lui o nella sua cerchia di amici l'autore, il mecenate, il diffusore o l'editore. L'influenza dell'Accademia è amplissima sull'editoria che produce i suoi frutti alla luce del sole e altresì su quella che, per troppa virulenza antiecclesiastica, deve uscire clandestinamente. Ma anche la produzione legale, che esce con le prescritte autorizzazioni, è spesso intrisa di anticlericalismo e di spirito antiromano: segno che è questo l'atteggiamento ancora prevalente nel patriziato, che ha spostato la battaglia dal piano politico e giurisdizionale (terreno su cui peraltro non mancano gli scontri) a quello culturale e letterario, con risonanze non solo nella repubblica delle lettere ma anche nelle cancellerie. Un atteggiamento del resto largamente condiviso a Venezia: per restare nell'ambito della stampa, apprendiamo dalla protesta di alcuni stampatori che nel 1628 il segretario dei riformatori, Rizzardi, che doveva rilasciare la fede necessaria per l'ottenimento della licenza, teneva un comportamento bizzarro e quando gli era stato portato il libro di un gesuita aveva scacciato lo stampatore "dicendo non voler dar licenza di opere di gesuiti" (167).
Fino alla sua morte, nel 1641, Giacomo Sarzina fu lo stampatore favorito degli Incogniti. Attivo sin dal 1611, egli aveva stampato opere di erudizione e di letteratura: del Marino, del Pona, del Tasso, del Cremonini; era molto legato al letterato trevisano Guido Casoni, primo fondatore dell'Accademia poi dominata dal Loredan (168). Fu probabilmente attraverso il Casoni che il Sarzina entrò in contatto col Loredan, divenendone il principale collaboratore nel mondo della tipografia (169). A partire dal 1632 escono dai suoi torchi molte opere del Loredan stesso, del Pona, del Casoni, di altri accademici, e anche quelle dell'infelice e geniale giovane Ferrante Pallavicino. Questi, come noto, era stato costretto dalla famiglia a prendere la tonaca di canonico regolare lateranense, e aveva sfogato il suo livore verso quel sistema sociale che l'aveva sacrificato abbandonandosi ad una vita sregolata e scrivendo una serie di opere ribollenti di sdegno per l'ipocrisia imperante, colme di sberleffi alla Chiesa e ai benpensanti. Perseguitato dal nunzio, braccato dagli agenti segreti, riuscì a sopravvivere e a pubblicare, grazie all'appoggio del Loredan e dei suoi amici; ma la satira contro papa Urbano VIII gli fu fatale. Attratto con l'inganno da un'infame spia ad Avignone fu torturato orribilmente e decapitato a 29 anni di età (170).
Il Sarzina, forte dell'appoggio e delle commesse degli Incogniti, divenne il tipografo più attivo di Venezia; nel periodo compreso tra il 1631 e il 1641 uscì dai suoi torchi, secondo i calcoli di Mario Infelise, il 20% delle opere assistite da privilegio; al secondo posto il Ginami con il 13,1 %, al terzo il Tomasini con il 10,3%, in posizioni inferiori gli altri. Naturalmente, come osserva lo stesso Infelise, ciò non significa ch'egli fosse il maggior imprenditore, dato che le grandi aziende di antiche tradizioni, che stampavano per mezzo di svariati tipografi e operavano anche con un'organizzazione commerciale propria, disponevano di mezzi e realizzavano utili assai superiori; tuttavia quella del Sarzina era una posizione di tutto rispetto (171). Il bizzarro letterato e bibliofilo fra Angelico Aprosio di Ventimiglia parla di lui con considerazione. Come egli stesso ci dice, il Sarzina aveva sposato la vedova dello stampatore Fioravante Prati; rimasto vedovo aveva in mente di sposare la vedova di un altro stampatore, Giacomo Scaglia. Una sorella di lui aveva sposato un altro tipografo, Taddeo Pavoni. Il matrimonio tra stampatori e vedove o parenti di stampatori era costume antico, e giovava a rafforzare le aziende. L'Aprosio ci dà anche notizia della morte improvvisa del Sarzina, avvenuta mentre egli attendeva a comporre nella sua tipografia (172).
Anche se il Sarzina era il tipografo favorito dell'Accademia, egli non era il solo: come rileva Infelise, "la produzione degli Incogniti è ampiamente presente nei cataloghi dei vari stampatori e librai di quegli anni: Cristoforo Tomasini, Giacomo Scaglia, gli eredi Gueriglio, Andrea Baba, Pietro Bertano e persino, in grandi quantità, in quella dello stampator ducale Pinelli" (173). L'Accademia aveva davvero un ruolo preponderante nella cultura e nella editoria veneziana. Dopo la morte del Sarzina, una posizione privilegiata nei confronti dell'Accademia ottenne Paolo Gueriglio, appartenente ad una famiglia attiva sin dal 1591. Giovanni Gueriglio aveva stampato nel primo trentennio del secolo opere giuridiche, botaniche, mediche e anche, in concorrenza col Barezzi, la seconda centuria dei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini, nonché varie altre opere di letteratura. Paolo era uomo di cultura, oltreché imprenditore importante, e padre Aprosio ne parla con rispetto. Lo stesso Loredan gli si rivolge nelle sue lettere con considerazione e amicizia. Un altro stampatore particolarmente vicino all'Accademia negli anni posteriori alla morte del Sarzina fu Giovanni Turrini, che stampò fra l'altro varie opere del Pallavicino dopo la tragica morte di questi.
Servire l'Accademia e il suo patrono era cosa tranquilla e redditizia per la parte legale e autorizzata dell'editoria promossa dagli Incogniti, meno per la parte clandestina. Stampare libri esplosivi, apertamente sbeffeggianti il papa, la Curia, l'ipocrisia bacchettona, comportava dei rischi, anche nella libera Venezia. Anzitutto per l'autore: Ferrante Pallavicino, a seguito delle pressioni del nunzio Francesco Vitelli, fu arrestato nel 1641. Tuttavia dopo sei mesi di detenzione fu liberato: aveva prevalso la corrente antiromana, in un momento in cui la tensione tra Urbano VIII e la Repubblica andava montando (ci si avvia alla guerra di Castro) (174). In un significativo consulto del 1° ottobre 1641 fra Fulgenzio Micanzio in persona si muove in sua difesa, giustificandone gli eccessi con le finalità moralistiche e calcando invece la mano contro gli abusi e le perfidie della corte romana a danno della Repubblica (175). Se peraltro l'autore, vero o presunto, è membro del patriziato, nessuno osa toccarlo: Giovan Francesco Loredan è sospettato di essere autore del Divortio celeste, di contenuto ferocemente antiromano, e nemmeno il nunzio osa chiedere una qualche sanzione.
Ma anche stampatori e librai correvano grossi rischi. Il 9 maggio 1643 sono condannati a dure pene il libraio Giovan Francesco Picenini "all'insegna della Venetia sotto le Procuratie Vecchie", il libraio Salvador di Negri e il compositore di stampe Gregorio Facchinetti, responsabili materiali della stampa e della vendita di due opere scandalosissime del Pallavicino, la Baccinata e la Retorica delle puttane. Il Picenini in particolare doveva remare su una galera con i ferri ai piedi per cinque anni, oppure se inabile starsene per dieci anni "in una prigion servata alla luce". Tuttavia il 17 novembre egli già rivolgeva una supplica per la sua liberazione, e non è improbabile che gli venisse concessa, se lo si ritrova nel 1652 e nel 1660 di nuovo accusato e blandamente condannato per analoghi reati (176). Autori e librai appaiono pedine di un gioco politico molto più grande di loro: li si condanna per concedere qualche cosa a Roma e al partito filoromano in senato, li si lascia andare per le ragioni opposte. La condanna e l'arresto segnano il momentaneo prevalere di una tendenza, la liberazione l'affermarsi dell'altra.
Cinque anni dopo, il carcere e il processo toccano a un libraio, Giacomo Batti, e a un tipografo, Francesco Valvasense, molto vicino quest'ultimo al Loredan (177). La causa scatenante è un libretto tradotto dal tedesco, dal titolo Che le donne non siano della spetie degli huomini. Discorso piacevole, uscito con false note tipografiche (in Lione, per Gasparo Ventura, 1643), giudicato una scandalosa enormità, mentre l'autore tedesco, Valente Acidalio, e il traduttore, Horatio Plata romano, avevano intenzioni più che altro facete. Ma la vicenda si spiega meglio se si accetta l'ipotesi dello Zanette, che il Plata altri non sia che Giovan Francesco Loredan, che avrebbe composta e stampata la sua traduzione per punzecchiare scherzosamente un'amica letterata, la monaca ribelle Arcangela Tarabotti (178). Vi fu chi tra i nemici politici del Loredan colse al volo l'occasione per colpire, sia pure indirettamente, l'autore-editore dell'operetta, e gli esecutori materiali - non potendosi raggiungere il vero bersaglio - furono costretti a pagare anche per lui.
Presso il Batti, accusato di aver rilegato e venduto il libro, si trovò in una cassetta chiusa a chiave una bibliotechina proibita, una sorta di antologia della produzione libertina antispagnola. C'era anche un foglio sciolto, la Devotione mandata a Carlo Magno da papa Leone da portar adosso, che invece apparteneva al filone della superstizione popolare: si trattava di una sorta di preghiera magica che, a portarla con sé, proteggeva da ogni male. Vecchi relitti di credenze magiche confluivano con opere di alto livello letterario a formare l'universo sommerso della stampa clandestina. Non si trovò invece il libro sulle donne tradotto dal Plata: il Batti ammise di averne avuto copia da un soldato sconosciuto, che se l'era ripreso. Il povero libraio, arrestato nel maggio del 1648, venne condannato il 16 luglio all'abiura solenne: il giovedì successivo venne condotto sulla Piazzetta per ricevervi, conformemente al dettato della sentenza, "tre squassi di corda"; giudicato "inabile a simil pena di tortura" rimase, sempre secondo il dispositivo di condanna, legato alla corda per un quarto d'ora, indi fu condotto sulla porta maggiore della chiesa di S. Marco e vi rimase per un'ora intera "con la candela accesa nella man destra, con la corda al collo et con un epitaffio scritto a lettere grosse contenenti la causa delle sue colpe". Indi fu ricondotto in prigione; il 28 luglio chiese gli arresti domiciliari ("la sua casa per prigione") che gli furono concessi con la "piezeria" di Giovanni Antonio Giuliani; poco dopo fu liberato del tutto. A parte la ripugnanza che suscita in noi la pubblica umiliazione, il Batti se la cavò dunque con poco: se la colpa era evidente, altrettanto manifesta era la sua ignoranza: "è ignorantissimo, né matricolato nell'arte" aveva detto di lui il Giuliani; "huomo di poco negotio et poveraccio" l'aveva definito Filippo Antonio Sguarci. Non era il caso di infierire su di lui.
Più lunga la detenzione del Valvasense, incarcerato il 21 aprile e liberato solo il 2 marzo del 1649 per essere prigioniero in casa; la piena liberazione ebbe luogo il 13 luglio successivo. Gli riuscì di evitare una sorte peggiore perché non si poté provare che il libro circa la diversità delle donne fosse uscito proprio dai suoi torchi. Durante il processo il Loredan l'aveva aiutato quanto poteva: Mario Caldana, compositore del Valvasense, che poteva essere un teste pericoloso, fu da lui fatto allontanare da Venezia; Iacopo Menegatti vicentino, anch'egli operaio del Valvasense, che aveva testimoniato ai suoi danni il 9 giugno, fu visto il 25 luglio in compagnia di due "manegacomio", due bravi del Loredan, "che lo menarono via"; raggiunto dagli Inquisitori a Verona mesi dopo, si rifiutò di tornare dicendo di aver ricevuto "gran minacci" e che a Venezia non si sarebbe sentito sicuro. Il nome del patrizio fu fatto più volte, Giacomo Batti dichiarò espressamente che "il Valvasense prattica il Loredano, da dove deriva questo libro" (quello incriminato), ma il Tribunale, pur verbalizzando, non prese il minimo provvedimento. Non si fanno domande su di lui, non si pensa neppure a sentirlo come teste; tutti, è chiaro, sanno che il vero responsabile è lui, ma l'Inquisizione si arresta sulla soglia delle dimore patrizie.
I due episodi cui si è fatto cenno, quello del Picenini e quello del Valvasense, sono i due maggiori incidenti subiti dal Loredan e dalla sua cerchia; poca cosa se si pensa alla quantità di libri proibiti, o aventi caratteristiche tali da comportare una sicura proibizione, che uscivano a Venezia per iniziativa degli Incogniti e con la benevola acquiescenza dell'autorità. Molti andarono poi perduti, perché oggetto di caccia spietata da parte dei benpensanti, sicché ne resta solo il titolo (come quell'Anima di Renier Zen, che per il suo contenuto anche politico neppure il Loredan osò far stampare) o neppure quello. La mole di questa produzione risalta nelle parole di Francesco Baba, che depone il 13 maggio 1648 nel processo contro il Valvasense: "so che quasi ogni giorno uscisse [= esce] fuori qualche libro cattivo e sospetto che si stampa in Venezia, ma non so da chi". Richiesto poi "se crede che questo libro sia stampato in Venezia", il Baba rileva che il tipo di carta, con la filigrana "della Balestra", è veneziano, che il libro "non è stato in fagotto né in sopresso", non è quindi mai stato spedito, e aggiunge: "oltre, in altra città d'Italia non si stampano tali libri". Venezia ha il monopolio della stampa libera.
Non tutti i librai erano d'accordo: il Baba stesso prende le distanze dal Valvasense, anche se lealmente non si sente di accusarlo in mancanza di prove sicure (il carattere usato per il libro incriminato poteva appartenere a qualunque tipografo) e per un altro libro, le Rivoluzioni di Napoli, fa il nome del Valvasense, sia pure per sentito dire. Il libraio Giacomo Batti, al quale viene richiesto, agosto 1648, se sapesse chi aveva stampato l'Anima di Ferrante Pallavicino, depone che un altro libraio, Marc'Antonio Brognolo, gli aveva detto in segreto che era stato il Valvasense "e che era una vergogna che uscissero alle stampe tanti sporchessi di libri prohibiti".
I libri proibiti che si producevano a Venezia erano dunque tanti, e circolavano largamente, nelle classi colte (179). Opere scottanti come l'Anima sopracitata, in cui a detta del nunzio si parlava del papa "come di Macometto", si trovavano persino "in mano di monache": lo lesse infatti suor Arcangela Tarabotti, che dimostra di aver avuto conoscenza anche del Corriero svaligiato e di altre opere esplosive (180). La proibizione anzi ingolosiva: "occultamente stampano", dichiara il doge al nunzio, "perché questi librai vendono in secreto; pare anco che habbino più riputatione et si vendono meglio". E il nunzio assente e aggiunge: "ne pigliano due o tre di nascosto alla volta, et se vagliono due o tre lire, le vendono una o poi doppie" (181). Si trattava comunque di una circolazione clandestina, con tutti i limiti e i rischi relativi: in molte case patrizie se ne poteva parlare liberamente, specialmente in casa Loredan, altrove forse era consigliabile maggior cautela. Certo negli anni d'oro degli Incogniti si poteva parlare, e certo anche leggere, con straordinaria libertà: il frate Antonio Rocco, professore di filosofia aristotelica, poteva far pubblica professione di ateismo senza che il Santo Uffizio, pur perfettamente informato, facesse alcunché. Il Rocco era intimo del Loredan, e tanto bastava (182).
Questa singolare ed unica situazione di Venezia, in cui "ogn'uno stampa quello li piace" (183), viene modificata da un evento storico di drammatica portata: l'attacco turco a Candia. Dinanzi alla terribile minaccia, che Venezia deve affrontare impiegando sino allo stremo tutte le sue risorse, anche la battaglia antipapale passa in secondo piano: anzi del papa si ha bisogno, perché può fornire aiuti diplomatici, in denaro, in navi. Le fortune degli Incogniti cominciano quindi a declinare; forse lo stesso processo al Valvasense è l'indizio di un indebolimento della posizione del Loredan. Certa prova del mutamento avvenuto nel clima politico è la legge in materia di stampa approvata dal senato il 24 settembre 1653, la cui premessa sembra scritta appositamente in odio al Loredan e ai suoi (184): vi si parla di "stamparie prohibite", dalle quali l'Arte della stampa "resta grandemente pregiudicata, per l'impressione clandestina di opere empie, obsene, malediche et pregiuditiali all'honor del Signor Dio, decoro de Prencipi et interesse de privati". Viene poi severamente vietato ai privati non iscritti all'Arte dei librari di stampare "libri, scritture, o altra cosa benché minima" e di tenere in casa torchi o caratteri da stampa, si richiamano le leggi circa la licenza di stampa, ormai concessa direttamente dai riformatori e non più dai tre capi dei dieci, ma sempre previo l'ottenimento della fede dell'inquisitore ecclesiastico. Il divieto di tenere torchi in casa colpiva chiaramente le tipografie clandestine, da cui si sospettava uscissero le opere vietate.
Nonostante le nuove norme, continuarono ad uscire opere tutt'altro che ortodosse, come la Secreteria di Apollo del Santacroce, scritte nello stile di Ferrante Pallavicino, il cui ricordo permaneva vivissimo, come testimonia l'uscita di una sua vita scritta dal Brusoni e di altre opere a lui ispirate. Tuttavia la stretta di freni era evidente, e una tappa successiva, gravissima, si ebbe colla terminazione dei riformatori del 4 febbraio 1655 m.v. (= 1656) in cui si ordinava agli stampatori di apporre su ogni libro sia l'indicazione della licenza dei riformatori stessi sia "quella del padre inquisitor generale" (185). In tal modo la fede inquisitoriale, che prima di allora era solo un atto preliminare necessario all'ottenimento della licenza, che rimaneva un provvedimento esclusivamente statuale, veniva ora a porsi sullo stesso piano del permesso rilasciato dai riformatori: si assisteva così ad un'abdicazione giurisdizionale sino a poco tempo prima impensabile. Si trattava di una nuova tappa del riavvicinamento a Roma, che aveva un prezzo evidente anche in termini di sovranità (186). I trionfi di Lazzaro Mocenigo e di Lorenzo Marcello ai Dardanelli facevano passare ormai queste delicate questioni in secondo piano. Tuttavia ai Veneziani la gravità della cosa non sfuggiva e quarant'anni dopo, a seguito di laboriose trattative con Roma, si tornerà al regime precedente (187).
Nel 1657 Si ebbe il clamoroso episodio conclusivo di questo processo di ripiegamento: la riammissione dei Gesuiti, espulsi, come noto, nel momento più caldo della lotta dell'Interdetto e ora richiamati con decreto del senato. Pochi gli oppositori, tra cui Giovanni Soranzo, venerando senatore, già eroico bailo a Costantinopoli, che si fece "portar in braccio così mezzo cadavero in pregadi per opporsi anch'esso nel miglior modo che seppe" (188). Fra i favorevoli invece anche il Loredan, desideroso di ricostruire su nuove basi la sua carriera politica, facendo dimenticare il passato. Ma poco gli giovò: tre anni dopo, nel 1660, egli subì il rovescio di un'elezione alla modesta carica di provveditore a Peschiera, incarico inadeguato al prestigio di chi era stato inquisitore di Stato, membro del consiglio dei dieci, più volte senatore. Simili infortuni non erano rari nelle carriere patrizie, e non era difficile risollevarsene; ma il Loredan, che pure si mostra pieno di energia e di interessi anche durante il soggiorno a Peschiera, non ne ebbe il tempo. Nel 1661 egli moriva improvvisamente; ma l'età eroica della sua vita era ormai chiusa da tempo.
Sin qui si è detto dei rapporti tra censura e stampa, e delle opere proibite stampate e vendute a Venezia. Ma il mercato veneziano non offriva certo solo quelle: opere stampate all'estero e condannate dalla censura ecclesiastica affluivano a Venezia in grandi quantità, molto più che in ogni altra città d'Italia.
L'importazione clandestina di libri posti al bando aveva prosperato anche negli anni più cupi della Controriforma veneziana, sino a che l'esecuzione di due figure eminenti in quel commercio, il libraio Pietro Longo e il medico Girolamo Donzellino, aveva reso più cauti venditori e acquirenti. Poi, con il progressivo distacco tra la Chiesa e la Repubblica, il commercio riprese vivacemente. Ne erano oggetto principale libri sacri in volgare, scritti di Lutero, Calvino e altre figure eminenti della Riforma, opere del Machiavelli, scritti di carattere scientifico dovuti ad autori riprovati. Molti editori stranieri producevano appositamente opere proibite destinate al mercato clandestino italiano, e quindi in italiano: a Parigi, Lione, Colonia, Anversa, Amsterdam, Rotterdam, Ginevra, Basilea, Poschiavo (al confine svizzero) si svolgeva una singolare attività editoriale il cui scopo era di fornire agli Italiani gli strumenti culturali e scientifici di cui essi avevano un disperato bisogno ma che la Chiesa romana non tollerava. E fu proprio Venezia il maggiore punto di raccolta di questa produzione, che veniva poi smistata ad altre piazze italiane o venduta nella città stessa. A tale commercio fornivano la loro opera i maggiori librai, particolarmente quelli più interessati al traffico internazionale, come Meietti, Ciotti, Combi.
Naturalmente si trattava di un commercio illegale. Una legge del consiglio dei dieci del 1547 vietava severamente di introdurre nello Stato libri "che trattano contra l'honor del Signor Dio et della Fede Christiana"; nel 1559 il Tribunale dell'Inquisizione, con l'assistenza dei tre deputati laici, disponeva che i libri provenienti dall'estero non potessero essere "tratti in dogana" senza che venisse consegnato al Tribunale un elenco dei libri stessi. Tale disposizione rimase fondamentale in materia per i secoli successivi.
Tuttavia i modi per eludere la legge esistevano, e venivano ampiamente usati. Titoli falsi per celare contenuti proibiti; libri leciti posti nella parte alta del pacco, a coprire i libri illeciti; libri o capitoli sospetti spediti in fogli sparsi; trasporti occulti al di fuori delle dogane; tutto ciò di frequente avveniva. Inoltre la compilazione degli elenchi richiesti dal decreto del 1559 era cosa così laboriosa, in una città che importava libri a migliaia, che certamente non si andava tanto per il sottile nei controlli (189). Se ciò avveniva negli anni in cui lo Stato e la Chiesa concordavano nella repressione, tanto più facile fu l'importazione di tali libri quando l'alleanza si logorò sino a rompersi.
Negli anni eroici dell'Interdetto non vi sono ostacoli all'ingresso di libri proibiti, anzi tutta la pubblicistica avversa all'invadenza pontificia nelle cose di Stato è la benvenuta. Ma entrano anche libri chiaramente protestanti, che trovano un punto di diffusione particolarmente attivo nella casa dell'ambasciatore inglese sir Henry Wotton, ove sono di casa Sarpi e Micanzio (190). Chiusa la grande controversia con il ben noto compromesso del 1607, la situazione per molto tempo non cambia. Il calvinista ginevrino Jean Diodati, giunto a Venezia nel 1608, descrive ammirato la situazione a Philippe de Duplessis-Mornay: nella città regna "grande et universelle liberté de lire, deviser, contredire, condamner et se moquer tout publiquement". L'afflusso di libri d'ogni genere dall'estero continua indisturbato: "nombre infini de livres y sont entrés et y entrent à flot tous les jours". Non solo, tali libri sono letti con passione, passano di mano in mano: "sont tant avidement recueillis, qu'ils se les arrachent des mains les ungs aulx autres". Anche un certo numero di copie della traduzione del Nuovo Testamento, opera del Diodati, erano giunte a Venezia e vi erano state subito distribuite. Quanto all'Inquisizione, scrive il Diodati, "est tonte énervée par le contrepoids qu'y donne le senateur qu'y assiste" e che si oppone sempre "à toute violence" (191).
Nel traffico dei libri eterodossi dall'estero si distingue il libraio Meietti, "un pessimo huomo" dal punto di vista del cardinale Borghese, "più degno del fuoco che del favore di un principe cattolico"; "et nondimeno [aggiunge il cardinale] la Repubblica intercede per esso ogni settimana col mezo dell'ambasciatore" (192). Non solo quindi si tollera l'intrusione di libri antiromani, la si incoraggia. Quattro balle di libri contenenti scritti in difesa del potere laico giungono a Venezia da Parigi nel 1608 grazie al segretario privato dell'ambasciatore veneziano in Francia, Pietro Priuli. Il segretario era Giovanni Francesco Biondi, avventuroso personaggio, futuro romanziere di successo; a Venezia egli fece depositare i libri nella casa stessa del Priuli, ove molti si recavano a consultarli, fra cui Paolo Sarpi (193). Gli ostacoli alla libera circolazione dei libri esteri giungevano non dal governo veneto ma dagli Stati che quei libri (provenienti dall'Olanda, o da Poschiavo in terra elvetica, o da altre terre libere) dovevano attraversare. "Ella non potrebbe immaginarsi quanto siamo custoditi dall'innamorati della nostra libertà" scrive con dolorosa ironia Paolo Sarpi a Jéròme Groslot de l'Isle, "così in casa con spie, come nelli circostanti paesi con guardie aperte. In Ispruch et in Trento fannosi diligenza e ricerche esquisite che non siano portati libri qua. Hanno in Bergamo, Verona et in Venetia stessa diligentissime spie per esplorare a chi siano inviati pacchetti" (194). Sono gli Asburgo di Spagna e d'Austria che impediscono come possono il commercio dei libri con la libera Venezia, non lo Stato veneziano. Talvolta la loro opera poliziesca aveva successo, come quando "si scoprì in Trento una gran quantità di libri heretici" che il Meietti "faceva andare a Venetia" e che il cardinale Madruzzo spedì a Roma; ma certo altre volte i pacchi arrivavano a destinazione. Di contro, Venezia ostacolava la diffusione di libri ad essa avversi, evitando, ove possibile, lo scontro aperto e agendo sui librai: "s'è fatto intendere ai librari che non vendano il libro del signor cardinale Bellarmino", scrive il cardinale Borghese nel 1610, "ma non n'è già fatta prohibitione" (195).
Erano anni straordinari, quelli, per Venezia e per l'Europa: mentre il sapere scientifico compiva vertiginosi balzi in avanti, grazie a Keplero, William Gilbert, Bacone, Galileo, nuove speranze di libertà si diffondevano, un mondo nuovo e migliore pareva avvicinarsi (196). Poi venne il disastro della Montagna Bianca, nel 1620, incominciò la devastazione della Germania, le forze oscure dell'Europa ripresero il sopravvento. Ma a Venezia lo spirito di libertà fu più duro a morire che altrove, e i libri che lo convogliavano continuarono per lungo tempo ad arrivare. C'erano due falle, certo volutamente mantenute, nel sistema di controllo doganale veneziano: non era previsto alcun controllo doganale sui pacchetti, purché di modeste dimensioni, inviati direttamente a un privato non libraio; e nessuna dogana era stata prevista al fontego dei Tedeschi, proprio il luogo ove i mercanti della Germania, in buona parte di religione riformata, abitavano e tenevano le loro merci (197). Non è difficile immaginare quanti libri eterodossi siano giunti là indisturbati dalla Germania, e si siano diffusi a Venezia, e in Italia, per quella via.
Col riavvicinamento a Roma reso necessario dalla guerra di Candia, anche alla libertà d'importazione di libri si cominciò a porre qualche freno: ma bisognò attendere il decreto del 24 settembre 1653, lo stesso che colpiva le stampe clandestine, in odio al Loredan e alla sua corrente. La norma che ribadisce il divieto d'importazione di libri "contro l'honor del Signor Dio et Religione Cattolica et contro li Prencipi" ha lo stesso sapore: è un colpo di freno contro i "libertini". Al capo X della legge si vieta a chiunque riceva libri dall'estero "in balle, botte o fagotti" di aprirli "senza la presenza del Deputato all'estrazione de Libri Forastieri" (198). Sino a quel momento dunque ricevere libri esteri a casa era perfettamente legale, qualunque cosa vi si contenesse. Ma anche dopo la legge dovette essere poco osservata se si trovano in pieno Settecento lamenti di funzionari che non sanno come controllare il contenuto dei pacchi provenienti dall'estero e indirizzati a privati.
Quanto alla libera importazione attraverso il fontego dei Tedeschi, si provvide ad istituire anche là una postazione di controllo doganale, ma solo a data incredibilmente tarda: il 26 maggio 1712. Solo allora "fu provveduto che tutte le diligenze le quali dal pubblico deputato si pratticano per le due dogane" (da terra e da mar) si estendessero anche al fontego (199).
Tuttavia bisognava far qualcosa per dare a Roma e al partito filoromano in senato l'impressione che ci si preoccupava del problema, e nel 1610 si affidò a Giovanni Sozomeno il compito "di rivedere i libri esteri". Probabilmente il dotto greco-veneto, così gradito al patriziato che lo colmava di incarichi e di onori forse perché assai abile ad assecondare gli intenti politici di chi lo eleggeva, svolse l'incarico allo stesso modo in cui si adoperò per il controllo dei libri a stampa nella sua qualità di soprintendente: non fece nulla, o quasi. Il 2 gennaio 1631 m.v. gli successe don Giuseppe Penzuoli, dottore in legge, che avrebbe dovuto "tenere un catastico di tutti i libri che capitano in dogana con lo specifico dell'autore, del luogo e delle materie, e riferirne, prima che si diano fuori, ai riformatori il contenuto". Ma fu vano comando: "li libri alla dogana non venivano presentati, oppure da doganieri senz'altro venivano contro l'intenzione pubblica licenziati". Così il Lodoli: ma è probabile che l'intenzione pubblica fosse proprio quella, e che il povero Penzuoli avesse ben pochi mezzi per imporre la sua autorità. Egli rimase in carica sino al 1661 gli succedette padre Giacomo Amore somasco, indi Stefano Cosmi, anch'egli somasco, che dovette fronteggiare "non una ma più dogane", quella da mar e quella da terra, e infine, nel 1678, Vincenzo Todeschini, il quale, constatato "il notabile scandolo in la città" determinato da "l'introduzione e spargimento di certi libri con dottrine ereticali per via del Fondaco dei Tedeschi" si faceva promotore di un provvedimento che limitasse la libera importazione per quella via; e l'ottenne, ma dopo oltre trent'anni, nel 1712, come si è detto (200).
Sembra dunque evidente che non vi fu mai, salvo brevi periodi nel momento del connubio cinquecentesco tra la Curia romana e il governo dei "vecchi", una seria volontà dello Stato veneziano di impedire la libera importazione di libri di qualsivoglia contenuto. Gli ostacoli venivano, più che dallo Stato, dalle coscienze dei lettori turbate e commosse da predicatori e confessori.
Resta da vedere come reagissero i Veneziani, esposti a sollecitazioni così diverse: da un lato uno Stato fondamentalmente tollerante, ma diviso al suo interno (fra cattolici tendenzialmente intransigenti, giurisdizionalisti antiromani al punto da simpatizzare per i protestanti, "libertini" irreligiosi), e quindi non costante nelle sue decisioni; dall'altro la Chiesa, persecutrice di ogni diversità d'opinione ma a sua volta generatrice, con la sua intolleranza, di dissensi interni, per cui si vedono frati e preti arruolarsi sotto le bandiere della ribelle Accademia degli Incogniti, professare l'ateismo, scrivere opere deliberatamente blasfeme e immorali: ovvia reazione al deprimente squallore del conformismo imperante.
Dal punto di vista della Curia romana, Venezia è un nido di eretici. L'11 luglio 1609 il nunzio scrive al cardinale Borghese circa un supposto colossale invio di Bibbie protestanti (si parlava di ottomila copie): in realtà "tali bibie" i librai non le hanno, e nemmeno "se ne vedono in mano di alcuno". D'altra parte, egli aggiunge, "è bene verisimile [...] che trovandosi in Venezia molti heretici et altre persone di poca pietà e devotione, fra essi vi siano anco alcune di queste bibie", anche se egli non crede "che sia gran numero" (201). La defezione dal gruppo sarpiano e il trasferimento a Roma di fra Fulgenzio Manfredi, che pagherà con la morte sul rogo la propria follia, rafforzò la Curia nella sua persuasione. Egli informava infatti il papato delle convinzioni eterodosse del patriziato, documentandole anche con l'elenco dei libri antiromani che circolavano fra i "grandi ct litterati": alcune opere di protestanti inglesi, la Institutio christianae religionis di Calvino, scritti antipapali di Francesco Guicciardini e del Petrarca. "La maggior parte de nobili", egli aggiunge, "tengono o con licenza o senza, il Machiavello". Fra la gente modesta circolavano, a suo dire, i Settanta salmi di Davide tradotti in rime volgari italiane, il Nuovo Testamento tradotto in italiano, con postille ereticali, due dialoghi, di Mercurio e di Caronte l'uno, l'altro di Lattanzio e di un arcidiacono, in cui si parlava delle guerre del Cinquecento che erano culminate col Sacco di Roma. La diffusione di tali opere era attribuita dal Manfredi all'ambasciatore britannico, sir Henry Wotton (202).
Dinanzi alla libertà veneziana in materia di libri, il nunzio si dichiara impotente: "Tengo bene", egli scrive, "che in Venetia ci sia gran quantità di libri prohibiti et che gli abbia chi gli vuole, et per la grande libertà che in questa et anco in altre cose vogliono questi signori che qui sia, io credo che in questo tempo non vi sia rimedio". Egli poteva ammonire i librai, "ma con li nobili et anco con gli altri, che li hanno, non vi si può far cosa alcuna". Anzi, era meglio non parlare di libri nemmeno nelle prediche: "Et se li predicatori toccheranno il punto de libri si può tener certo che subito haveranno de travagli".
Questa era la situazione negli anni in cui Sarpi e i suoi amici dominavano nel governo. Ma anche dopo la libertà lamentata dal nunzio non venne meno. Si è visto come si leggessero persino nei conventi opere come quelle del Pallavicino. Nel 1650 si potevano trovare opere fulminate da vecchi divieti, come i Ragionamenti dell'Aretino e il Pasquino in estasi del Curione, e altre fresche di condanna, come l'Anima di Ferrante Pallavicino, il Corriero svaligiato e il trattato sulla diversa "spetie" delle donne e degli uomini che era costato così caro al Batti e al Valvasense (203). Le cose peraltro andarono via via mutando, anche se i controlli rimasero sempre blandi, e le letture dei Veneziani si orientarono sempre di più verso l'ortodossia.
I libri proibiti erano peraltro una quota soltanto del mercato: una parte importante, indicativa, ma pur sempre una quota, e non la maggiore. Di essi si occupavano librai intraprendenti, pronti a correre gravi rischi, come Roberto Meietti, che andò incontro a sequestri di grosse partite di merce, come quello da lui subito a Trento, cui si è accennato. Il Meietti era un libraio di respiro internazionale (si è detto della sua presenza a Francoforte), e i suoi rapporti con l'estero lo favorivano nella parte clandestina della sua attività. Il suo catalogo di vendita, uscito nel 1602, elenca ben settecentocinquantanove titoli stranieri, a prova del fatto che Venezia conservava ancora i suoi legami col mercato europeo (204). Si è detto del Ciotti, anch'egli attento al mercato straniero e a quello clandestino. Ma molti altri librai smerciavano soltanto materiale tranquillo.
"Thomaso Boato librer all'insegna del Spirito Santo, posta in contrà del Santo Aponal", il cui inventario viene redatto il 5 marzo 1622, sembra rappresentare il libraio di media dimensione, rivolto ad una clientela locale priva di grandi pretese (205). Il suo magazzino offre un quadro degli interessi del lettore medio. Il Boato non tiene nessun libro proibito, ma ha invece una quantità di opere devozionali di consumo, destinate alla pratica spirituale quotidiana (e quindi votate ad un rapido deperimento): sessantadue copie dello "Sposalizio dell'anima fidele", cinquantatré dei "Quattro novissimi" di Luca Pinelli, cinquantatré di "Cristo in passione. Tragedia", diciotto della "Dichiaration del simbolo", ventiquattro della "Meditation del SS. Sacramento" e così via. Ha poi molte opere mediche: soprattutto manuali, testi di uso pratico. Anche per il diritto predomina la manualistica: numerosi consilia, "Pratiche criminali e canoniche". Vi sono poi manuali di buon comportamento sociale, come la "Civil conversation del Guazzo" e gli "Ordini del cavalcare del Grisoni". In materia militare si trovano le "Fortificazioni del Lorini" e un trattato "Sopra le marche dei cavalli". Vi sono poi manuali di commercio, opere di matematica e di geografia. Numerosi i dizionari e le grammatiche: vi sono cento "vocabulari tedeschi", un dizionario "Galesini", una "grammatica Emanuel", nove grammatiche ebree e anche un lotto di dodici "Pentateucon ebraico". Pochi i classici, molte le opere di letteratura moderna: rime dell'Ariosto, del Tasso, di Menon e Begoto (in vernacolo), il Pastor fido; molte opere di Giulio Strozzi, di Girolamo Rocchi, molte tragedie e favole pastorali. È presente la musica: trentotto madrigali per la Beata Vergine di Gioseffo Zarlino.
Vi sono poi varie opere di informazione quasi giornalistica, come le "Esequie del granduca", un volumetto che tratta delle cerimonie funebri dedicate a Cosimo II di Toscana dalla comunità fiorentina di Venezia, e le "Lettere del generai Venier". Vi sono infine dei giochi, come Il laberinto di Andrea Ghisi, "nel qual si contiene una tessitura di duemiladuecentosessanta figure che apprendolo tre volte con facilità si può saper qual figura si sia immaginata": un fortunato passatempo di società, di cui il Boato ha ben trentacinque copie.
Il negozio del Boato conteneva insomma ciò che poteva servire al lettore di poche pretese, che pensava alla salute dell'anima e a quella del corpo, a una buona amministrazione dei propri interessi, a un onesto intrattenimento e a un'informazione sufficiente sulle cose del mondo. Era certamente questa la merce che più si vendeva. Anche il formato dei libri offerti in vendita è tale da non intimidire: a parte due messali di Clemente VIII in rame, e il De cultura ingeniorum del Possevino, il Boato sembra tenere solo libri piccoli, fra cui un Dante in sedicesimi, più facilmente vendibili per il basso prezzo.
Basta del resto considerare quali fossero i libri "comunali", quelli di uso prevalentemente scolastico che si ritenevano di sicuro smercio e che pertanto erano considerati patrimonio comune di tutti gli stampatori, nessuno dei quali poteva sottrarli agli altri attraverso il meccanismo del privilegio, per comprendere quali fossero l'educazione, i gusti e gli interessi del lettore medio. Si tratta di ottantasei titoli (206), comprendenti pochi classici, testi religiosi, opere di pietà popolare, poemi cavallereschi e romanzi di antica tradizione (ritroviamo il Troiano, prediletto dai lettori del Tre e Quattrocento a Venezia, il Boro d'Antona, Paris e Vienna, la Spagna, i Reali di Francia, il Meschino, Oggeri il Danese, Giosaphat e Barlaam), antichi e popolarissimi trattatelli morali come il Fior di Virtù, varie grammatiche antiche, come il Donato, "Emmanuel" (Crisolora) per il greco, altre moderne (207); qualche classico italiano (Ariosto, Tasso, non Dante, evidentemente troppo difficile), esercizi di latino come quelli di Juan Louis Vives, vari vocabolari (208), manuali di storia, di buona condotta, di bello scrivere, di retorica (209), di conversazione, qualche guida (210), manuali di medicina (211), raccolte di frasi poetiche e di detti celebri, qualche classico popolaresco (Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, il Naspo Bizaro del Caravia), prontuari con tariffe e il Nuovo itinerario delle poste di tutto il mondo di Ottavio Codogno. Per quel che riguarda gli autori contemporanei, si trovano "opera Mascardi", "opera Fulvio Testi": due nomi evidentemente di indiscusso successo.
Questi erano dunque i libri che tutti leggevano, a scuola e dopo: non molto era cambiato dai secoli precedenti, un lettore del primo Quattrocento avrebbe trovato poco di nuovo. Questa era la base culturale comune, tradizionale, religiosa, che alcuni lettori più smaliziati condivano con romanzi moderni, commedie, favole boscherecce; solo l'élite intellettuale si interessava a temi più ardui, ivi compresi quelli trattati nei libri proibiti.
Tra i settanta o ottanta librai veneziani attivi contemporaneamente nella città, vi era non solo, come si è accennato, una gran varietà di fortune, ma anche di scorte di magazzino: tra il Meietti con i suoi settecentocinquantanove titoli esteri e i librai poveri che vendevano libri sacri alla domenica, tra il Pezzana che dirigeva il gran negozio dei Giunti e i colporteurs che andavano "con ceste caminando per la città" per vendere poche dozzine di libri popolari, vi era tutta una variegata gamma di situazioni, che rendeva il panorama del commercio librario veneziano estremamente ricco e complesso. Non ci convincono quindi i rapporti negativi di alcuni dotti stranieri sullo stato delle librerie veneziane. Il Casaubon, scrivendo nel 1603 a Sillery, asserisce ch'esse non hanno nulla che sia "digne de memoire", hanno solo "reversure de Illustres et de Medecins, mais tout cela n'est que galocherie". Poi però aggiunge che si proponeva di dedicare tutto il mese a fare "une exacte reveue de tout ce qu'il y a en cette ville" e di mandare una lista al Sillery (212): segno che dopo tutto qualche cosa d'interessante egli pensava di trovare.
Anche più negativo il quadro disegnato dal Gronovio, che scrivendo al Naudé nel 1641 asserisce che, in quello che aveva pensato essere il maggior mercato librario d'Italia, non si trovavano se non libri latini comuni; se poi si chiedevano libri greci, era come se si parlasse "de americano monstro" (213). Il fatto è che questi grandi eruditi si aspettavano di trovare l'Italia del Rinascimento, patria della cultura umanistica; ma ormai le grandi edizioni di classici e i grandi lavori filologici si facevano al nord delle Alpi, la Controriforma aveva inaridito il commercio intellettuale con il mondo germanico e aveva quindi condannato al provincialismo la filologia italiana. Come si è detto, non erano più i classici e gli studi relativi a costituire la sostanza della produzione e del commercio librario veneziano, che si erano ormai rivolti ad un pubblico diverso, meno cosmopolita e meno dotto. Non bisogna poi trascurare il fatto che in una Venezia come quella del Seicento, circondata da potenze ostili, insidiata all'interno dalle spie e dagli agenti segreti di Roma e della Spagna, gli stranieri non sono più accolti con la cordialità di un tempo, ma sono visti con diffidenza: palazzi e biblioteche si aprono con difficoltà, e l'impressione riportata dagli stranieri ne viene negativamente influenzata.
Venezia rimane comunque, anche nel Seicento, la città dei libri e dei librai. Essi continuano ad affollare la più importante delle vie, la Merceria, e mostrano le loro merci in Frezzeria, a S. Moisè, in ogni parte della città (214). Nei giorni festivi i banchetti di libri si moltiplicano, in Piazza, a Rialto. Il libro rimase una presenza costante nella vita cittadina, com'era stato nel Cinquecento, come sarà nel secolo successivo.
Più rapida e intensa di quella del libro è poi la circolazione di quei fogli, avvisi, "reporti", che sono i precursori degli odierni giornali. Tali fogli, contenenti informazioni circa le vicende belliche e politiche, uscivano saltuariamente, ovvero con periodicità talvolta settimanale, talvolta mensile. Incominciano a comparire nella prima metà del Cinquecento, ma nel Seicento hanno uno sviluppo straordinario. Il momento più propizio è offerto dalla guerra di Morea: Mario Infelise ci mostra il fiorire di queste pubblicazioni di attualità, che si affiancavano ad una produzione manoscritta; questa consentiva di far pervenire le informazioni più rapidamente, ma si indirizzava di necessità a pochi abbonati influenti, mentre ai più venivano fornite le copie a stampa (215). I gazzettieri dell'epoca avevano vita difficile; le notizie ch'essi fornivano interferivano nella politica, talvolta infastidivano i potenti, che non tardavano a vendicarsi. Così accadde al "reportista" Giacomo Torre, fatto bastonare dall'ambasciatore francese nel 1681. Nonostante tutte le difficoltà, il genere prosperava: vi si dedicavano soprattutto i piccoli stampatori, come Giovanni Francesco Valvasense, Lorenzo Pittoni, Francesco Batti, Giuseppe Prosdocimo. Il più abile fu Girolamo Albrizzi, che nel 1686 fondò il "Giornale dal campo cesareo di Buda": il periodico uscì regolarmente per quattro anni, ottenendo un notevole successo anche fuori di Venezia (216).
Altra cosa erano i giornali letterari, che miravano ad informare circa le novità apparse nel mondo della cultura, sul modello del celebre "Journal des Sçavants". Il primo a Venezia fu il già ricordato "Giornale Veneto de' Letterati", compilato da Pietro Maria Moretti e stampato in un primo tempo da Hertz (1671-1680) e, a partire dal 1687, da Girolamo Albrizzi (217). Il modesto livello culturale del periodico ne determinò l'insuccesso: dopo l'uscita di una dozzina di numeri durante la gestione albrizziana esso chiuse nel 1690.
Ma l'Albrizzi ormai era divenuto la figura più rappresentativa del settore, e nel 1696 si lanciò in una nuova impresa: la stampa della "Galleria di Minerva" (218), destinata a durare sino al 1717, quando ormai il campo era dominato da un periodico di importanza e interesse assai maggiore, sempre stampato dall'Albrizzi, il "Giornale de' Letterati d'Italia", nato nel 1710 (219). Alla "Galleria" collaboravano il Coronelli e Apostolo Zeno, che sarà la figura dominante del "Giornale de' Letterati".
Nel 1687 sorse anche la "Pallade Veneta"; i primi due numeri furono stampati da Lorenzo Baseggio, i successivi due da Girolamo Albrizzi, gli altri da Andrea Poletti (salvo uno da Ponzio Bernardon). Si trattava di un foglio ispirato al "Mercure galant" di Parigi: "una raccolta di varie galanterie, accidenti amorosi, casi occorsi in questa Dominante, sonetti, compositioni accademiche". Uno spazio importante era dedicato alla musica. Il periodico a stampa ebbe breve vita, ma continuò a circolare manoscritto sino a data assai tarda; si sono rintracciati fogli intitolati "Pallade Veneta" sino al 1751 (220).
Come osserva Mario Infelise, attorno alle gazzette cominciarono a costituirsi i primi nuclei di quella che verrà definita nel Settecento "pubblica opinione". Anche in questo campo Venezia fu all'avanguardia, in Italia. E anche nel settore della stampa periodica il secondo Seicento preparava la fioritura del secolo successivo.
In una città in cui produzione e circolazione del libro erano così vivaci non potevano mancare biblioteche. Anzitutto, la Pubblica Libreria, nata dal dono del cardinale Bessarione e aperta al pubblico dal 1560. Sino all'ultimo decennio del secolo non vi era stato alcun incremento nelle raccolte, sempre limitate ai circa mille codici della donazione bessarionea, ma poi, grazie ad un illustre medico e professore a Padova, Guilandino di Marienburgo, che nel 1589 aveva lasciato alla Libreria duemiladuecento libri a stampa e 1.000 ducati (poi ridotti a 500 a seguito di una transazione con gli eredi naturali), i libri erano saliti a cinquemilaottocento nel 1623: lo si desume da un catalogo a stampa, edito a cura del custode, il dotto Giovanni Sozomeno che abbiamo già incontrato come soprintendente alle stampe (221) All'incremento aveva concorso in qualche misura il deposito obbligatorio di una copia di ogni libro stampato nello Stato, disposto dalla già ricordata legge del 1603: obbligo peraltro assai poco osservato. Nel 1679 un nuovo inventario, redatto dal custode Ambrogio Gradenigo, un altro erudito greco-veneto, elencava circa settemila libri (222).
Nel 1626 un decreto del senato stabiliva l'organizzazione della Libreria che doveva essere aperta tre giorni alla settimana: ad essa veniva preposto un bibliotecario patrizio, cui spettava l'alta responsabilità della gestione, mentre l'ordinaria amministrazione veniva affidata a un custode, che doveva essere competente nel greco, coadiuvato da un fante. Al bibliotecario e al custode veniva anche affidato lo Statuario pubblico, costituito dalle statue e dai marmi donati alla Repubblica dal patriarca Giovanni Grimani nel 1587 e dai successivi incrementi, dovuti a Federico Contarini, Giovanni Mocenigo e altri. Nella carica di bibliotecario si succedevano eminenti patrizi, che peraltro poco si occupavano della Libreria, mentre dal 1633 (dopo la morte del Sozomeno) al 1658 essa rimase affidata a un frate minore, Santo Damiani. Sotto il governo di questi la Libreria divenne pressoché impenetrabile, almeno agli stranieri. Nel 1641 il Gronovio, nel 1643 il Vossio, nel 1646 lo Heinsio non riuscirono ad avvalersene. Si poteva entrare, dare un'occhiata alla sala, ma non studiare (223). Singolare l'esperienza del Gronovio: ammesso finalmente alla presenza del bibliotecario patrizio, che aveva cercato di raggiungere "per aliquot dies pedibus remisque", si era inchinato profondamente e stava esponendo la sua richiesta di leggere e di "excerpere", il che non poteva avvenir senza autorizzazione scritta dell'illustre interlocutore, quando quest'ultimo senza dir motto si allontanò, lasciando stupefatto il dotto tedesco (224). E tanto più singolare appare il fatto se si pensa che il patrizio era non altri che lo storiografo Battista Nani, senatore di grande cultura e prestigio. Forse la diffidenza verso gli stranieri era particolarmente alta, in un momento in cui l'intera Europa era in guerra: si saranno temute complicazioni diplomatiche. O forse si pensava, secondo una diffusa convinzione, che i manoscritti trascritti perdessero di valore. O piuttosto, ed è questa l'ipotesi che ci sembra più probabile, si voleva riservarne l'uso ai sudditi della Repubblica, le cui eventuali opere si potevano adeguatamente controllare. Morto il Damiani, gli succedette il cipriota Giovanni Matteo Bustronio, indi, dal 1669, Alvise, in religione Ambrogio, Gradenigo, che trascorse anni tranquilli sino a quando, nel 1679, alla morte di Battista Nani, fu chiamato alla carica di bibliotecario un eminente senatore, Silvestro Valier, futuro doge, che pretese da lui la redazione di un inventario e un radicale riordino della biblioteca. Morto nel 1680 il Gradenigo, gli succedette un ecclesiastico scozzese, Gualtiero Leith, che rimase in carica sino al 1702. Grazie a vari lasciti si ebbero notevoli incrementi delle raccolte, che rimasero peraltro sempre poco utilizzate.
Vi erano poi le biblioteche monastiche e conventuali, alcune delle quali antiche e magnifiche, come quella di S. Giorgio Maggiore e di S. Antonio di Castello, ove si conservavano i codici greci, latini ed ebraici del cardinale Domenico Grimani, includenti quelli di Pico della Mirandola da lui acquistati (225). Di tali biblioteche offre un quadro che si avvicina alla completezza l'insieme degli inventari redatti dalle case veneziane (sedici in tutto: vi sono mancanze di rilievo, come i Gesuiti) in obbedienza alle direttive della Congregazione dell'Indice, negli anni 1599-1601. Oltre alla ricchezza e all'alta qualità di molte di tali raccolte, colpisce la presenza in alcuni casi di opere condannate dall'Indice: l'eliminazione delle opere vietate non era stata completa, per la resistenza certo opposta da alcuni ordini o da alcuni singoli religiosi. Se poi tali opere, una volta denunciate, siano state definitivamente eliminate o no, non ci è noto: ma, come nota Antonella Barzazi, che ha fatto oggetto gli inventari monastici di un'analisi molto attenta ed acuta, è assai probabile che la situazione fotografata negli anni 1599-1601 sia rimasta a lungo invariata (226). A Venezia erano ormai passati i tempi della stretta collaborazione tra Stato e Chiesa, governavano personaggi intransigenti in materia di giurisdizione ecclesiastica, le interferenze curiali nella vita interna dei monasteri incontravano mille difficoltà.
Verso la metà del secolo l'erudito patavino Giacomo Filippo Tomasini era di casa nelle biblioteche monastiche: egli ce ne offre i cataloghi (limitatamente alla parte manoscritta, e alle opere da lui ritenute più interessanti) nella sua famosa opera Bibliothecae Venetae manuscriptae publicae et privatae, uscita a Udine nel 1650. Per gli stranieri egli era un punto di riferimento indispensabile; col grande bibliotecario francese Gabriel Naudé fu in rapporti particolarmente cordiali sin dal 1633 e lo incontrò ripetutamente durante i viaggi di questi in Italia (il Naudé fu anche a Venezia nel 1645, a caccia di libri per il cardinale Mazzarino) (227); con padre Aprosio, giunto al convento veneziano di S. Stefano dalla natia Ventimiglia, strinse subito amicizia e si avvalse di lui quando si trattò di accompagnare alla biblioteca di S. Antonio di Castello il Gronovio. Qui il grande erudito ebbe miglior fortuna che alla Libreria di S. Marco e poté studiare a proprio agio. Le raccolte monastiche non erano quindi inerti depositi, ma almeno in alcuni casi continuavano ad essere frequentate da eruditi locali e forestieri.
L'opera del Tomasini evidenzia peraltro che la dispersione di importanti fondi era al tempo suo già avvenuta: impoverite appaiono le raccolte di S. Giorgio e di S. Antonio, mentre ben poco rimane del lascito fatto a S. Giorgio in Alga dal cardinale Girolamo Aleandro. Era in corso un processo di erosione delle antiche raccolte monastiche, dovuto probabilmente ad una diminuzione di interesse culturale da parte dei religiosi. Il disfacimento toccò il culmine tra il 1656 e il 1668, con la soppressione dei canonici regolari di S. Spirito e di S. Giorgio in Alga, della congregazione dei Crociferi e di quella dei Gerolamini, concordate tra Venezia e la Santa Sede; preziose antiche raccolte vennero così disperse (228). Nel 1687 un incendio distruggeva la biblioteca di S. Antonio di Castello, appena due anni dopo la visita di Mabillon e Germain (229): un disastro le cui conseguenze furono in parte appena attenuate dalle vendite clandestine di codici che i monaci avevano effettuato negli anni precedenti, in spregio alla volontà del cardinale Grimani.
Nel tardo Seicento si nota peraltro "un moto di generale ripresa" nell'istituzione monastica, soprattutto a partire dal pontificato di Innocenzo XI (1676-1689). Si fa strada l'esigenza di una "rigenerazione morale e disciplinare", che si traduce anche in una rinascita delle biblioteche religiose (230). La dispersione dei fondi antichi si arresta e anzi sorgono biblioteche nuove, o del tutto rinnovate nei locali e negli arredi: a S. Giorgio Maggiore vengono posti in opera sontuosi scaffali intagliati da Francesco Pauc; ai SS. Giovanni e Paolo il convento domenicano si dota di magnifiche librerie, opera di Giacomo Piazzetta di Pederobba, padre del più famoso Giovan Battista; i Domenicani osservanti di S. Maria del Rosario si creano una biblioteca grazie a fra Bonifacio Maria Grandi, studioso e filosofo; un'altra biblioteca nuova sorge a S. Maria della Salute, presso i Somaschi, per iniziativa del padre generale Giovanni Girolamo Zanchi; ovunque i fondi si accrescono, si aggiornano (231). Le biblioteche monastiche, oggetto di cure e sollecitudini da parte dei superiori, dotate spesso di rendite proprie e di una propria separata amministrazione, in tutta l'Italia, e a Venezia in particolare, "accolgono edizioni di classici, patristiche e testamentarie prodotte dalla filologia d'oltralpe, collezioni di concili e grandi storie ecclesiastiche, periodici e atti accademici italiani e stranieri, repertori bibliografici e di scienze ausiliarie della storia, numismatica, cronologia, geografia" (232). Esse naturalmente beneficiano anche della rinascita dell'erudizione storico-antiquaria, ad opera dei padri maurini e di una rete europea di grandi eruditi, come il celebre Magliabechi (233). Alla fine del secolo è in atto una vera fioritura delle biblioteche monastiche e conventuali veneziane, che toccherà il suo culmine nel secondo Settecento.
Vi era poi tutto il complesso sistema delle biblioteche private. Al vertice quelle di impianto quasi principesco, comprendenti duemila o più volumi, molti dei quali manoscritti, rari e preziosi. A questo tipo appartengono le raccolte elencate da Giovanni Stringa e Giustiniano Martinioni nei loro aggiornamenti della guida del Sansovino, rispettivamente del 1604 e del 1663 (234). Tali erano quella di Giacomo Contarini, che possedeva centosettantacinque manoscritti greci e latini di grande pregio, oltre ai libri a stampa (235), o quella di grandi tradizioni umanistiche dei Barbaro di S. Vidal (236), passata alla fine del secolo in casa Nani alla Giudecca, o quella dei Corner Piscopia a S. Luca (237): quest'ultima, fondata da Girolamo Corner e ampliata dal figlio Zanbattista, fu lo strumento degli studi della figlia di questi, la celebre Elena Lucrezia, prima donna al mondo a conseguire la laurea. Ricca di codici greci la biblioteca di Giulio Giustinian, procuratore di S. Marco: il Montfaucon, attento visitatore delle biblioteche e delle collezioni veneziane nel 1698, la giudica seconda, per la parte greca, alla sola Libreria di S. Marco (238). Importanti rimanevano le raccolte di casa Grimani a S. Maria Formosa, nonostante le grandiose donazioni cinquecentesche (239). Ma le biblioteche di prim'ordine erano numerose, di riflesso alla struttura della società veneziana, in cui non vi era una famiglia eccellente fra tutte, ma un gruppo di casate eminenti, ciascuna delle quali aspirava a distinguersi anche per la ricchezza delle biblioteche. In molti casi vi era poi una finalità mecenatesca: far godere della raccolta gli amici, i dotti visitatori, e in morte beneficare un ente capace di assicurare la durata nel tempo del lascito.
Le grandi biblioteche non erano tuttavia appannaggio esclusivo del patriziato: una delle maggiori, per numero e qualità dei libri, era quella di Marc'Antonio Celeste, un erudito appartenente al ceto cittadinesco, che risulta in possesso nella prima metà del secolo di duemilasettecento libri, molti dei quali di argomento scientifico (240). Cospicua la presenza nella biblioteca del Celeste di libri proibiti: segno che ad un certo livello sociale e culturale i divieti dell'Indice potevano essere elusi.
Se molte primarie biblioteche sorgono ex nono, di altre si deve lamentare l'uscita da Venezia: così quella del matematico Francesco Barozzi, che il nipote Giacomo cede nel 1628 a un gran signore inglese, William Herbert conte di Pembroke (241), e quella dei Calergi, passata a Vincenzo Grimani, che viene ceduta, almeno in parte, prima del 1662, a Raphael Trichet du Fresne (242). Venezia rimane uno dei maggiori centri per il commercio del libro antico e del manoscritto, grazie all'afflusso di materiale dal Levante e all'attività di numerosi copisti, in particolare greci: per questo vengono ad approvvigionarsi a Venezia i grandi collezionisti stranieri; ma anche i Veneziani hanno la possibilità di creare considerevoli raccolte. Così Luigi Lollino, futuro vescovo di Belluno, ha modo di procurarsi centocinquanta codici soprattutto greci, che lascerà alla Vaticana nel 1625 (mentre destinerà alla città di Belluno millesettecentocinquantà libri a stampa) (243).
Ad un livello inferiore, sia dal punto di vista del numero che del pregio dei singoli pezzi, si pongono le molte biblioteche patrizie che sorgono non da passione collezionistica o da propositi mecenateschi ma da un bisogno individuale di informazione, da una sete di sapere che, pur di ampio raggio, appare quasi sempre ispirata a fini politici: all'azione politica nella visione patrizia spetta il primato, come appare da una costante tradizione. La cultura deve giovare anzitutto alla formazione dell'uomo di governo: lo dichiara espressamente nel suo testamento Girolamo Corner. Di qui la preferenza per le opere storiche e geografiche, come nella biblioteca di Leonardo Donà, in cui peraltro non mancano libri di filosofia, di diritto, di buona letteratura, a conferma della ricchezza e della vastità degli interessi di una delle figure di maggior rilievo dell'epoca (244). Ma anche quei campi sono coltivati avendo l'azione politica come meta e guida: la cultura, come nota Gaetano Cozzi, ne era "la premessa e il supporto". Non vi era quindi spazio per interessi di ordine collezionistico: i pochi manoscritti del Donà appaiono ereditati, non comperati, né vi sono pezzi rari, codici preziosi: ciò che conta è il contenuto culturale. In certo modo la raccolta del Donà corrisponde all'atteggiamento morale e politico di lui, si presenta quasi come il modello della biblioteca dei "giovani" in contrapposto a quella, preziosa e antiquaria, dei "vecchi". Non sfarzo, non pompa, niente spese superflue (meglio "sparagnare il denaro", suggerisce il Donà nella discussione relativa al costruendo ponte di Rialto, avversando il trionfalismo romanista (245)): bisognava guardare alla sostanza, con lo stesso rigorismo etico (246) che si esprime nell'ostentata semplicità del palazzo che il doge si fa edificare sulle Fondamenta Nuove.
Caratteristiche analoghe avevano probabilmente le raccolte di un altro dei protagonisti della vita pubblica di quegli anni, Nicolò Contarini: i libri gli erano carissimi, da essi, egli scrive, "conoscemo doppo Dio ogni nostro bene et ogni tranquillità d'animo" (247), Certamente non pochi libri avrà avuto un altro dei "giovani", Agostin da Mula, autore del trattato Informatione delle cose di Spagna, quadro impietoso del dominio di Filippo II. L'interesse ch'egli nutriva per i mondi più lontani trova riscontro nel fatto ch'egli possedeva un Corano in arabo (248). E non molto diverse erano probabilmente le raccolte di Andrea e Nicolò Morosini, Gianfrancesco Sagredo, Antonio Querini, Sebastiano Venier, Francesco Morosini e altri intellettuali patrizi, vicini al Donà e al Sarpi e in rapporti con Galileo.
Certamente di rilievo era la raccolta di Domenico Molin, l'autorevolissimo senatore che era divenuto tra il 1620 e il 1630 l'arbitro della vita politica veneziana e nello stesso tempo il centro della vita culturale: eruditi di ogni paese gli si rivolgevano per informazioni e favori, ed egli non faceva mancare il suo aiuto, prestando generosamente i suoi libri e procurando quelli richiesti (249). Egli peraltro non era ricco, benché straordinariamente potente; perciò la sua biblioteca era, più che grandiosa, raffinata e aggiornatissima, grazie anche agli omaggi e alle segnalazioni dei dotti italiani e stranieri (soprattutto olandesi), con cui egli intratteneva un'assidua corrispondenza e che liberalmente favoriva (250).
Le caratteristiche della biblioteca patrizia appaiono ormai codificate: un'ampia sezione è dedicata alla storia, altre trattano di geografia, viaggi, materie militari, filosofia e teologia. E questa la distribuzione delle principali materie nella biblioteca di Andrea Zen, che lascia nel 1661 un migliaio di volumi; e non diversa è la struttura della biblioteca di Andrea Valier (251). Una solida preparazione generale appariva un'ottima base per un'azione politica di elevato livello (252). A fianco della biblioteca vera e propria, coesistente spesso nella stessa stanza, l'archivio della famiglia, arricchito di documenti attinenti alle cariche amministrative e di governo ricoperte: come ha mostrato Dorit Raines, il patrizio si documentava con scrupolo prima di assumere un incarico, e si procurava atti sulla materia, relazioni, leggi, precedenti, che poi restavano nella biblioteca o nell'archivio a testimonianza delle singole fasi della carriera del raccoglitore e a disposizione dei discendenti (253).
Come nei secoli precedenti, gli ecclesiastici appaiono, di regola, in possesso di libri: così il reverendo Antonio Vairo, che lascia nel 1683 circa ottocentosei libri, e don Michele Dini Giustiniani che ne lascia ottantaquattro (trentaquattro in foglio e in quarto, quaranta in ottavo, dieci piccoli) in una "librarietta di noce" (254).
Meno frequente la presenza di libri nelle case mercantili. Bortolo Zambelli, della cospicua famiglia di commercianti in lana e vino, un ramo della quale ascende, nel 1685, al patriziato, lascia nel 1684 una bibliotechina di ventisette titoli: testi di devozione, poemi cavallereschi ("Paris e Vienna"), tre grammatiche, una "Istoria della China", qualche classico (Esopo, Marco Aurelio, Ovidio), e "la dottrina dell'Arminio", forse una confutazione della celebre eresia (255). Assai più ricca la biblioteca di Giovanni Bavella, negoziante, morto nel 1689, che lascia, oltre a quattrocentoquattro libri contabili e scritture commerciali, centoquarantadue libri, in buona parte di devozione ma anche di storia (Sabellico, l'immancabile Davila), di astrologia, di letteratura (il JVaspo Bizaro, Fulvio Testi, Boccalini, qualche romanzo), di attualità (" diffese della Dalmatia", "antipatia di Francesi e Spagnoli") e numerose tariffe (256). Più raffinata la biblioteca di Sebastiano Moretti, che comprendeva quarantacinque libri: vari classici, anche in "stampe antiche", opere del Parabosco, del Groto, del Dolce, la grammatica greca di Urbano Bolzanio, le Lettere di Antonio Collurafi, opere di storia, di grammatica, di diritto e anche sette manoscritti; altri sedici libri, soprattutto di storia, erano in una cassa a parte. Particolarmente ricca di interesse la biblioteca di Piero Fabrizi, nella sua casa di campagna, a Terrassa: circa duecento libri, che riflettono le scelte di una personalità attenta, vivace, colta (257). Ci sono opere di devozione, ma di qualità elevata (Segneri, Bartoli, Bellarmino, s. Agostino); quattordici titoli di medicina, sei sui cavalli, vari sul tema della confessione, vi sono descrizioni della Spagna, del Portogallo, della Francia, della Morea e di Negroponte (questi ultimi opera del Coronelli), di Venezia (la guida del Doglioni); vi sono scritti di attualità storica ("dichiaratione degli ultimi moti delli Turchi", storie dei re di Francia, di Maria Stuarda, dello scisma d'Inghilterra); ma soprattutto vi è una sezione di letteratura aggiornata e anticonformista. Vi sono cinque opere del Marino, il Testi, l'Achillini, il Casoni (oltre a Dante, Tasso, Sannazzaro, Ciro di Pers); due romanzi del Brusoni; Partenio Etiro (due opere di argomento religioso dell'Aretino nella ristampa del Ginami); l'"Antilucerna dialogo di Eureta Misocolo"; "le opere permesse" di Ferrante Pallavicino. Uomo di aperte vedute il Fabrizi possiede anche la "Historia e riti hebraici di Leon Modena Rabi". Ma il grande amore del Fabrizi era la musica: aveva diciassette libri di musica, "diverse compositioni sciolte in stampa" e diverse manoscritte, "diverse carte di musica"; in varie stanze c'erano strumenti musicali, un violino, una viola, un "violin con la sopracassa", un "violin con la cassa di curame brocchettata", una "chiave de violon", un "archetto de violon", una "spinetta di Donato Ondei col piede e lettorino" nel portego. Doveva essere stato studente a Padova: forse gli "stivali da studente" che ancora conservava erano un ricordo di quegli anni. Una "Historia Veneta del Caroldo" manoscritta, un "quinternetto" di sei fogli, che incominciava con la data del 1496, e alcuni "alberi in foglio" testimoniavano della dignità della famiglia. L'inventario ci restituisce l'immagine di un uomo colto e gentile, amante della musica e della poesia, libero nello spirito.
Un singolare proprietario di libri è il valoroso capitano Bortolo Goriol, morto a Udine nel 1684: lascia una cassa di libri e scritture, fra cui "diversi attestati del suo ben servire in Candia" (258) Rare le donne in possesso di libri: Isabetta Cusa ne ha quattordici, "vecchi" (259). Nei ceti più modesti il libro è decisamente raro. Zuane Seminello, originario di Candia, ha "una bibia volgare" e quattordici immagini di santi (260); Iseppo Faotto ha "una cassa con entro diversi libri", ma si tratta di scritture relative alla "gastaldia che fece in sua vita dell'arte dei boteri" (261); Giovan Battista Tavernier, che era forse falegname, dato che lascia "diversi istrumenti da marangon", un "banco da marangon" e uno "da tornador", possedeva invece "34 libri da leger" (262). Una categoria speciale di possessori di libri era quella dei cultori della negromanzia: fra di essi il testo di gran lunga più diffuso era la Clavicula Salomonis. Laura Malipiero fu trovata in possesso di ben tre copie del famigerato trattato, e anche di Thesaurus magicus; ma si salvò dal peggio perché poté dimostrare che non sapeva leggere. Quei libri le servivano per impressionare clienti sempliciotti, da cui riusciva a spillare qualche misera somma per campare (263).
Non si possono infine trascurare le biblioteche dei membri delle comunità di origine straniera presenti a Venezia, spesso stabilite da secoli in città, come quella greca. Il capo spirituale dei Greci veneziani, Meletos Typaldos, nel secondo Seicento possedeva una importante biblioteca greca, descritta dal Montfaucon (264). Per gli Ebrei il libro costituiva un fatto centrale nella religione e nella identità storica; i membri della comunità possedevano molti libri, come quel Benedetto Levi cui attorno al 1684 appartenevano seicentotrentanove opere latine, volgari ed ebraiche (265), o come il rabbino Samuel Aboaff, che nel 1694 lasciava oltre cinquecento opere ebraiche (266) I membri della colonia olandese disponevano certamente di libri, come il grande mercante Daniel Nyss, fornitore dei maggiori collezionisti d'arte del tempo, che certamente teneva presso di sé i libri necessari alla sua attività, probabilmente non molto diversi da quelli che conservava a S. Lio il colto e facoltoso mercante tedesco Gasparo Chechel (267). Ci rimane l'inventario redatto nel 1657 delle cospicue collezioni del Chechel, comprendenti quadri, incisioni, strumenti musicali e libri: questi ultimi sono trecentocinquanta circa, in prevalenza opere riguardanti l'architettura e le arti figurative, raccolte di stampe, libri illustrati (268).
Non si può tuttavia celare il fatto che la presenza del libro non è la regola, ma l'eccezione: in moltissimi inventari non ve n'è traccia. Colpisce, all'opposto, la costante, abbondantissima presenza di quadri: non c'è casa, anche modesta, che non ne abbia. Nella villa dei Mocenigo a Cadoneghe ce ne sono circa centoventi, nel 1679 (269); Giacomo Fontana a S. Samuele ne ha più di cinquanta, persino due "in un camerino delle serve"; Francesco Viscardi ne ha trenta (270); e non vi è alcun libro. Forse non vi è ancora l'idea della biblioteca come fatto di prestigio sociale, di status symbol; chi ha libri, li ha perché li legge o perché li ha ereditati. I quadri invece piacciono a tutti, e ve ne sono evidentemente a portata di tutte le borse; i ricchi poi ne hanno a profusione.
Anche se i libri entravano in misura limitata nelle case veneziane, essi facevano parte della vita quotidiana: li si vedeva esposti in negozi siti nei luoghi più frequentati, le Mercerie, i portici di piazza S. Marco, la Frezzeria, S. Polo, S. Maria Formosa; sul ponte di Rialto, nei campi, ovunque nella città li offrivano gli ambulanti; li producevano tipografie sparse ovunque; arrivavano da tutto il mondo attraverso le dogane e per posta, e verso il mondo partivano dalle stamperie veneziane; erano offerti in lettura in una serie di biblioteche grandi e piccole, più o meno accessibili, più. o meno fornite, pubbliche e private, nei monasteri, nei conventi, nelle case, nei palazzi patrizi; e chi preferiva limitarsi all'attualità aveva a disposizione "avvisi" e "reporti" di ogni genere, manoscritti e a stampa. Anche nel Seicento, come nel secolo precedente e in quello successivo, la pagina scritta è dunque, a Venezia, una presenza costante e familiare.
1. Leonardo Donà nel 1596 stima che stampatori e librai, includendo ovviamente anche lavoranti e garzoni, costituiscano "un ordine di quattro o cinquecento huomeni laici": A.S.V., Collegio, Esposizioni Roma, reg. 6, c. 123r-v, citato da Federico Seneca, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1959, p. 252. La cifra di 34 torchi è in A.S.V., Collegio, filza 11, c. 22, 22 febbraio 1597 m.v., cit. da Ivo Mattozzi, "Mondo del libro" e decadenza a Venezia (1570-1730), "Quaderni Storici", 24, 1989, p. 747 (pp. 743-786). A tale ampio e documentatissimo studio si farà frequente riferimento.
2. La relazione del soprintendente alle stampe Giovanni Sozomeno, del 1626 circa, ricorda "quando l'arte lavorava con più di cento torcoli" (A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova [da ora Riformatori], filza 370); la cifra di 120 torchi è fornita nel 1588 dal nunzio Matteucci (Paul F. Grendler, The Roman Inquisition and the Venetian Press, 1540-1605, Princeton (N.J.) 1977 [trad. it. L'Inquisizione romana e l'editoria a Venezia 1540-1605, Roma 1983], p. 225); in una petizione dei librai del 3 maggio 1596 si parla del declino dei torchi da 125 a 40 (ibid., p. 246); 130 torchi è la stima fornita dall'Arte il 20 gennaio 1658 (A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. IV, c. 87v); 136 torchi è la stima di Stefano Culli, stampatore, espressa nel 1676 ("adesso l'arte di 136 torcoli non lavorano 32 incirca"); la cifra di 150 torchi è indicata dall'Arte il 27 agosto 1632.
3. La cifra di 70 torchi attivi è nella lettera del nunzio Matteucci (P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 225); quella di 40 torchi nella petizione dei librai del 1596 (ibid., p. 246); per quella di 34 torchi, v. supra n. 1.
4. Per la cifra relativa ai Giunti, A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 164, fasc. V, c. 8, supplica del priore Andrea Giuliani; cf. Paolo Ulvioni, Stampatori e librai a Venezia nel Seicento, "Archivio Veneto", 109, 1977, p. 94 (pp. 93-124). La cifra di 30 torchi, che sarebbero stati usati nei primi trent'anni del Seicento, si ricava dalla supplica dell'Arte del 27 agosto 1632, conservata all'A.S.V., Riformatori, filza 361, ove così si riporta: "se pur sperando che, s'ella [l'Arte] non fossi stata per ritornare nell'essere di tempi andati, che vi si lavorava con 150 torchi, si fossi almeno mantenuta nel grado nel quale da 25 anni in qua ha continuato l'essercitarsi con soli 30 torcoli, numero così inferiore del primo suo stato".
5. Gasparo Gozzi, Scritti, con giunta d'inediti e rari, scelti e ordinati da Niccolò Tommaseo, II, Firenze 1849, p. 421. La relazione dei riformatori in Horatio F. Brown, The Venetian Printing Press, London 1891, p. 342; cf. Marino Berengo, La crisi dell'arte della stampa veneziana alla fine del XVIII secolo, in AA.VV., Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano 1957, pp. 1319-1338.
6. Mario Infelise, La crise de la librairie vénitienne, 1620-1650, in corso di stampa in Mélanges en honneur du professeur Henri-Jean Martin.
7. Il privilegio sussisteva ancora nel 1660, come lamentano gli stampatori nella relazione citata supra alla n. 4. Poi evidentemente decadde, dato che Venezia alla fine del secolo aveva ormai riconquistato i mercati sudamericani.
8. Paul F. Grendler, Introduction historique a Index de Rome. 1557, 1559, 1564, vol. VIII della collana Index des livres interdits, a cura di Jesús-Martin de Bujanda, Sherbrooke-Genève 1990, pp. 25-99.
9. Ugo Rozzo, Gli "Hecatommithi" all'Indice, "La Bibliofilia", 93, 1991, pp. 21-51; Id., Erasmo espurgato dai "Dialoghi piacevoli" di Nicolò Franco, in Erasmo, Venezia e la cultura padana nel '500, a cura di Achille Olivieri, Rovigo 1955, pp. 193-208.
10. Sui timori suscitati dagli anabattisti nella classe dirigente veneziana, indotta ad unirsi a Roma nella repressione, Paolo Prodi, Chiesa e società, nel vol. VI di questa Storia di Venezia, p. 318 (pp. 305-339). Sulla repressione inquisitoriale in materia di libri attorno al 1560, v. Luca Calò, Giulio Gherlandi "heretico ostinatissimo", Venezia 1996, pp. 73-99. Sulle "letture pericolose" di un pittore di Conegliano, vittima del clima di quegli anni, v. Lionello Puppi, Un trono di fuoco. Arte e martirio di un pittore eretico del Cinquecento, Roma 1995, pp. 33-37: dalle pagine del Puppi emerge con forza la figura morale dell'artista, Riccardo Perucolo, che pagò con la vita la fedeltà alle sue scelte religiose.
11. Gaetano Cozzl, La politica culturale della Repubblica di Venezia e l'Università di Padova in Tribute to Galileo in Padua. International Symposium, a cura dell'Università di Padova (2-6 dicembre 1992), Trieste 1995, p. 59 (pp. 51-68).
12. P.F. Grendler, The Roman Inquisition, pp. 162-181.
13. Gaetano Cozzi, Venezia nello scenario europeo, in Id. - Michael Knapton - Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna, II, Torino 1992, pp. 60-67 (pp. 5-200).
14. P.F. Grendler, The Roman Inquisition, pp. 201-252; Vittorio Frajese, Regolamentazione e controllo delle pubblicazioni negli antichi stati italiani (sec. XV-XVIII), in Produzione e commercio della carta e del libro. Sec. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 1991, pp. 693-696 (pp. 677-724); H.F. Brown, The Venetian Printing Press, p. 215.
15. Paul F. Grendler, Index de Rome. 1590, 1593, 1596, vol. IX della collana Index des livres interdits, a cura di Jesús-Martin de Bujanda, Sherbrooke-Genève 1994, pp. 271-307. Alle pp. 307-308 le Dichiarationi delle regole dell'Indice delli libri proibiti, in nove punti, riguardanti l'applicazione dell'Indice alla Repubblica, in precedenza ripubblicate da Paolo Ulvioni, Stampa e censura a Venezia nel Seicento, "Archivio Veneto", 104, 1975, pp. 48-49 (pp. 45-93).
16. Nella relazione da Roma dell'11 marzo 1595 (H.F. Brown, The Venetian Printing Press, p. 99); cf. Tiziana Fesenti, Stampatori e letterati nell'industria editoriale a Venezia e in Terraferma, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, p. 100 (pp. 93-129).
17. T. Pesenti, Stampatori e letterati, p. 100.
18. Ibid., p. 97; la parte del 27 aprile 1572 è in H.F. Brown, The Venetian Printing Press, p. 253.
19. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. I, c. 7.
20. Ibid., c. 10.
21. Ibid., c. 33v.
22. Ibid., c. 75v.
23. Ibid., c. 15.
24. Ibid., c. 8r-v. Sui tipografi Deuchino v. Tiziana Pesenti, Deuchino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 497-498.
25. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. I, c. 9.
26. Cf. supra, nn. 3 e 4.
27. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. II,
c. 32v.
28. H.F. Brown, The Venetian Printing Press, p. 217.
29. Ibid., pp. 218-221.
30. A.S.V., Riformatori, filza 361.
31. Ivi, Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. II, c. 59.
32. Sul Sozomeno, Wipertus Hugues Rudt De Collenberg, Les "custodi" de la Marciana Giovanni Sozomenos et Giovanni Matteo Bustron, "Miscellanea Marciana", 5, 1990, pp. 9-76. A Lauro Testa accenna la relazione del Ginami, in A.S.V., Riformatori, filza 361.
33. H.F. Brown, The Venetian Printing Press, p. 223 (l'atto di nomina del Sozomeno, ibid.).
34. A.S.V., Riformatori, filza 370.
35. Per il quadro generale, Carlo Maria Cipolla, Storna economica dell'Europa preindustriale, Bologna 1990, p. 293. Per le difficoltà economiche specificamente veneziane, Carlo Levi-Domenico Sella-Ugo Tucci, Un problème d'histoire: la décadence économique de Venise, in AA.VV., Aspetti e cause della decadenza economica veneziana nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961, p. 292 (pp. 289-317).
36. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. II. cc. 76v-79.
37. Ibid., c. 50v.
38. Ibid., c. 85v.
39. A.S.V., Riformatori, filza 361.
40. M. Infelise, La crise de la librairie. Secondo Richard T. Rapp, Industry and Economie Decline in Seventeenth Century Venice, Cambridge (Mass.) 1976 (trad. it. Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986), p. 119 (che peraltro si riferisce alla situazione di fine secolo), i maggiori stampatori mantenevano proprie getterie di caratteri (ad esempio, i Baglioni).
41. Ivo Mattozzi, Il distretto cartario dello stato veneziano. Lavoro e produzione nella valle del Toscolano dal XIV al XVIII secolo, in Cartai e stampatori a Toscolano, a cura di Carlo Simoni, Brescia 1995, p. 37 (pp. 23-65).
42. Il numero delle stamperie attive nel 1634 Si ricava da un elenco conservato all'A.S.V., Riformatori, filza 361. Per la ripresa della produzione della carta, I. Mattozzi, Il distretto cartario, pp. 39-40. I dati relativi al 1643 sono in P. Ulvioni, Stampatori e librai, p 112.
43. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. III, c. 114, supplica del 16 dicembre 1638 per una riduzione della tassa per la luminaria.
44. Ibid., b. 164, fasc. V, c. 8; cf. P. Ulvioni, Stampatori e librai, pp. 93-95.
45. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. IV, c. 87v: un tempo vi era "lavoro di 130 torchi, che di presente non arrivano a 20".
46. Ivi, Riformatori, filza 364.
47. Ibid., filza 361 (supplica 11 luglio 1660): pochi i libri stampati, "mancanza di soggetti opulenti che intraprendano o sostengano il negozio", poco lo "spazzo".
48. Ibid., filza 366 (maggio 1676).
49. Mario Infelise, L'editoria veneziana nel '700, Milano 1989, p. 15.
50. Giuseppe Bellini, Storia della Tipografia del Seminario di Padova, 1684-1938, Padova 1938, pp. 182-183.
51. Massimo Firpo, Ciotti, Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 692-696.
52. A.S.V., Collegio, Risposte di dentro, filza 35 (2 marzo 1664); richiesta di privilegio di Francesco Baba. Ringrazio Ivo Mattozzi che mi ha cortesemente segnalato il documento.
53. A.S.V., Santo Ufficio, Processi, b. 103, "Combi eredi. Librari".
54. Angelico Aprosio, La biblioteca aprosiana. Passatempo autunnale, Bologna 1673, p. 105. Sull'Aprosio v. Alfredo Serrai, Storia della bibliografia, Roma 1993, pp. 693-704.
55. A. Aprosio, La biblioteca aprosiana, p. 105.
56. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 385/50, nr. 3, 23 marzo 1683. Oltre ai capitali in Zecca (ducati 1.437 e 406), vanta crediti per libri dati a Paolo Parona librario per 400 ducati, più altri crediti per 2.000 ducati; ha poi 2.309 ducati investiti a Napoli. Ha una casa in "contrà S. Mattio" valutata 800 ducati e 6.000 scudi investiti in Piemonte. L'arredo della casa è signorile: nel "portego" vi sono 7 quadri grandi e 3 piccoli, oltre ai "cuori d'oro". Nella tipografia vi sono 402 balle di libri neri, 55 di rossi e neri, 2 torchi "in piedi" e uno "in terra", 50 casse di caratteri e tutte le attrezzature di un'azienda in piena attività; cf. P. Ulvioni, Stampatori e librai, p. 115.
57. A.S.V., Giudizi di Petizion, Inventari, b. 383/48, nr. 30.
58. P. Ulvioni, Stampatori e librai, p. 117.
59. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 164, fasc. V, c. 71v.
60. Ivi, Santo Ufficio, Processi, b. 103 (in risposta alla domanda se abbia letto l'opera La Retorica delle puttane).
61. R.T. Rapp, Industry and Economic Decline, p. 119.
62. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 164, fasc. V, cc. 56, 79v, 81, 86v.
63. Ibid., c. 89; P. Ulvioni, Stampatori e librai, p. 100.
64. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. IV, cc. 1-6.
65. Ibid., fasc. V, c. 71v.
66. Ibid., fasc. I, c. 92.
67. Ibid., fasc. IV, c. 49v; b. 164, fasc. V, c. 41. Fra i concorrenti nel 1654 c'era anche Giacomo Batti, reduce dal processo davanti al Santo Uffizio, cui si accennerà. Fra i vincitori, Agostino Bindoni, Bortolo Tramontin, Francesco Vieceri, Giacomo Bortoli.
68. Sulla tassazione cui gli stampatori erano soggetti, v. M. Infelise, L'editoria veneziana nel '700, p. 20.
69. I rapporti tra maestri, lavoratori, garzoni, le rivendicazioni dei salariati, le relative implicazioni sociali sono esaurientemente trattati da I. Mattozzi, "Mondo del libro", pp. 751-780.
70. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. I, c. 87v.
71. Maria C. Napoli, L'impresa del libro nell'Italia del Seicento: la bottega di Marco Ginammi, Napoli 1990, pp. 20-29.
72. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 163, fasc. IV, c. 10v.
73. Ibid., b. 164, fasc. V, cc. 8v-9: nella sua relazione del 20 agosto 1660 Andrea Giuliani (Zulian) dichiara che l'Arte "ha l'aggravio di ducati 36 l'anno per l'affitto, 12 per mantenere il bidello e altri 10 per il soprastante che va per la città invigilando sopra le contraffattioni".
74. Ibid., b. 163, fasc. IV, cc. 71-73; P. Ulvioni, Stampatori e librai, p. 112.
75. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 164, fasc. VI, c. 31. Si decise anche (c. 53) di adottare come patrono dell'Arte, a fianco di s. Tommaso d'Aquino, il beato Giovanni di Dio.
76. Catalogue of the Seventeenth Century Italian Books in the British Libray, III, Index, London 1986; la percentuale è calcolata da Marco Santoro, Storia del libro italiano, Milano 1994, p. 175.
77. M. Santoro, Storia del libro italiano, pp. 175-176.
78. Paolo Camerini, Annali dei Giunti, I, pt. II, Firenze 1963, pp. 205-306.
79. Marinella Laini, La raccolta zeniana di drammi per musica veneziani della Biblioteca Nazionale Marciana, Lucca 1995, p. 153.
80. I dati sono elaborati da M. Santoro, Storia del libro italiano, p. 176.
81. Giuseppe Boffito, Frontespizi incisi nel libro italiano del Seicento, Firenze 1992, pp. 40-47.
82. Alberto Tenenti, Luc'Antonio Giunti il giovane stampatore e mercante, in AA.VV., Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano 1957, pp. 1021-1060.
83. Per i successori di Luc'Antonio Giunti, P. Camerini, Annali dei Giunti, pp. 205- 521.
84. Sui Ciera, P. Ulvioni, Stampatori e librai, pp. 111-118; M. Infelise, L'editoria veneziana nel '700, p. 15.
85. P. Ulvioni, Stampatori e librai, pp. 93, 113.
86. Mario Infelise, "Ex ignoto notus"? Note sul tipografo Sarzina e l'accademia degli Incogniti, in corso di stampa in Studi per Luigi Balsamo.
87. Evro Layton, ne Sixteenth Century Greek Book in Italy, Venice 1994, pp. 429-432. I Pinelli acquistarono il materiale per la stampa in greco da Pietro figlio di Cristoforo Zanetti, che era stato uno dei maggiori stampatori in greco del Cinquecento. I Pinelli vennero così in possesso anche del carattere inciso per gli Zanetti nel 1548 da Guillaume Le Bé. Per i Giuliani, v. oltre, n. 100.
88. Luigi Firpo, Boccalini, Traiano, in Dizionario Biografico degli Italiani, XI, Roma 1969, pp. 10-19; Id., I "Ragguagli di Parnaso" di Traiano Boccalini. Bibliografia delle edizioni italiane, Firenze 1955, p. 8. Tra il 1614 e il 1663 l'opera fu ristampata a Venezia 12 volte. Su Domenico e Pietro Farri, v. le voci di Mario Infelise, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLV, Roma 1995, pp. 174-178.
89. Giovan Battista Marino, Epistolario, I, Bari 1911, p. 71; Id., La Sampogna, a cura di Vania De Maldé, Parma 1993, pp. CI-CIII, 61-62; Vincenzo Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Messina 1991, p. 456; M. Firpo, Ciotti, Giovanni Battista, p. 693.
90. Ringrazio Gian Albino Ravalli Modoni che mi ha gentilmente segnalato le due edizioni.
91. Dennis E. Rhodes, Some Neglected Aspects of the Career of Giovanni Battista Ciotti, in Id., Further Studies in Italian and Spanish Bibliography, London 1991, pp. 123-130 (pp. 116-130). Sui rapporti col marchese di Bedmar, ambasciatore di Spagna, Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1994, p. 126.
92. Alfredo Cigni, Baglioni, Tommaso, in Dizionario Biografico degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 249-250; M. Infelise, L'editoria veneziana nel '700, p. 18.
93. Elisa Aragone, Barezzo Barezzi, stampatore e ispanista del Seicento, "Rivista di Letterature Moderne e Comparate", 14, 1961, pp. 284-312; Annalisa Bruni, Barezzi, Barezzo e Francesco, in Dizionario Biografico dei Tipografi del Cinquecento, in corso di stampa.
94. Albert N. Mancini, Il romanzo nel Seicento. Saggio di bibliografia, "Studi Secenteschi", 11, 1970, pp. 205-274; 12, 1971, pp. 443-498. Il Don Chisciotte edito dal Baba è citato a p. 253 nn. 322-323.
95. Severina Parodi, Quattro secoli di Crusca, 1583-1983, Firenze 1983, pp. 41-47; M.C. Napoli, L'impresa del libro, pp. 91-148; Alessandro Scarsella, Alberti, Giovanni, Oliviero, Bartolomeo, Simone, in Dizionario Biografico dei Tipografi del Cinquecento, in corso di stampa.
96. Angela Nuovo, L'editoria veneziana del XVII secolo e il problema americano: la pubblicazione delle opere di Bartolomé de las Casas (Venezia, Marco Ginammi, 1626-1643), in L'impatto della scoperta dell'America nella cultura veneziana, a cura di Angela Caracciolo Aricò, Roma 1990, pp. 175-186.
97. Gaetano Cozzi, Una vicenda della Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua eroica amicizia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 2, 1960, pp. 61-154, ora ristampato in Id., Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, pp. 325-409.
98. Sergio Bertelli, Presentazione a Il libertinismo in Europa, Milano-Napoli 1980, pp. 11-12 (pp. 4-24). Le edizioni ginevrine, che prendono il nome dalla "testina" di Machiavelli che figura nel frontespizio, sono quattro: Niccolò Machiavelli, Opere, X, Bibliografia, a cura di Sergio Bertelli - Piero Innocenti, Introduzione, Verona 1979, p. LXIII. Leandro Perini, Editori e potere in Italia dalla fine del secolo XV all'Unità, in Storia d'Italia. Annali, 4, Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti, Torino 1981, p. 828 (pp. 763-853), sottolinea l'interesse della sezione "politica" del catalogo del Ginami, che include, oltre al Machiavelli, Lodovico Zuccolo e le Relationi del cardinale Guido Bentivoglio, da cui emerge "l'immagine della prospera repubblica mercantile olandese, che tante affinità aveva con quella veneziana". Importante anche la traduzione degli Essais di Montaigne (ibid.).
99. Per gli stampatori la cui attività incomincia nel Cinquecento, v. Francesca Ascarelli-Marco Menato, La tipografia del '500 in Italia, Firenze 1989, ad voces, con bibliografia.
100. Su Francesco Giuliani, E. Layton, The Sixteenth Century Greek Book, pp. 291-296; su Giovanni Antonio e Andrea, Despina Vlassi Sponza, I greci a Venezia: una presenza costante nell'editoria (sec. XV-XX), in Armeni ebrei greci stampatori a Venezia, a cura di Scilla Abbiati, Venezia 1989, p. 86 (pp. 71-99).
101. Elisa Bonaldi, La famiglia Gardano e l'editoria musicale veneziana (1538-1611), "Studi Veneziani", n. ser., 20, 1990, pp. 273-302.
102. Sugli Zennaro v. le voci di Patrizia Bravetti nel Dizionario Biografico dei Tipografi del Cinquecento, in corso di stampa.
103. Sui Bonfadini v. le voci di Marcello Brusegan in corso di stampa nel Dizionario citato nella precedente nota. Su Anzolo Bonfadini mi permetto di rinviare anche a Marino Zorzi, Le biblioteche a Venezia nell'età di Galileo, in AA.VV., Galileo Galilei e la cultura veneziana. Atti del convegno di studio (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), Venezia 1995, pp. 165-166 (pp. 161-189).
104. Carlo Pasero, Giacomo Franco, editore, incisore e calcografo nei secoli XVI e XVII, "La Bibliofilia", 38, 1935, pp. 332-356.
105. Bibliografia delle edizioni giuridiche antiche in lingua italiana, I, 1, Testi statutari e dottrinali dal 1470 al 1700. Bibliografia cronologica, Firenze 1978; cf. T. Pesenti, Stampatori e letterati, p. 123.
106. A.N. Mancini, Il romanzo nel Seicento. Saggio di bibliografia; Ginetta Auzzas, Le nuove esperienze della narrativa: il romanzo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 249-295.
107. E. Bonaldi, La famiglia Gardano, p. 297.
108. Gustav Schwetschke, Codex nundinarius Germaniae literatae bisecularis, Halle 1850-1877 (rist. anast. Nieuwkoop 1963), passim.
109. La Societas Veneta stampa nel 1603 l'Apparatus sacer di Antonio Possevino; Luigi Balsamo, Venezia e l'attività editoriale di Antonio Possevino, in I Gesuiti e Venezia. Atti del Convegno di Studi, Venezia, 2-5 ottobre 1990, a cura di Mario Zanardi, Padova 1994, p. 655 (pp. 629-660).
110. A.S.V., Riformatori, filza 369. Si tratta delle seguenti: i Giunti a S. Stae, Piero Ciera a S. Antonin, Nicolò Misserini a S. Maria Formosa, Marco Ginami "in Marzaria all'insegna della Speranza", gli eredi di Giovanni Gueriglio a S. Zulian, Giacomo Sarzina "in calle del Forner per andar a S.ta Marina", Girardo Imberti ai Ss. Apostoli, Alessandro Vincenti a S. Salvador (in Merceria), Bartolomio Magno (l'erede dei Gardano) a S. Salvador in Merceria, Andrea Baba a S. Antonin, Francesco Baba in Borgoloco S. Lorenzo, Piero Maria Bertan in Barbaria delle Tole, Zuanne Cagion (che si italianizza nella stampa in Calleoni) al ponte dell'Aseo, Giovanni Antonio Zuliani (o Giuliani) a S. Fantin, gli eredi di Zuanne Salis ai Biri, Piero Usso (o Uscio) a S. Luca, Piero Miloco a S. Luca, Giovan Pietro Pinelli a S. Maria Formosa.
111. Mancano, rispetto alla precedente lista, i seguenti nomi: Andrea Baba, Cagion, Cicra, Giunti, Imberti, Miloco, Misserini, Pinelli, Usso. I nomi nuovi sono: Paolo Gueriglio a S. Lio, Francesco Leni a S. Lio, Barezzo Barezzi ai Biri, Giovan Maria Turrini a S. Lio, Francesco Valvasense a S. Antonin: ivi, Santo Ufficio, Processi, b. 103, costituto del 12 maggio 1648.
112. Sulla testimonianza del Michiel cf. Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Settecento veneziano, Venezia-Roma 1960, pp. 388, 392.
113. A.S.V., Santo Ufficio, Processi, b. 103.
114. Alfonso Mirto, Librai veneziani nel Seicento: i Combi-La Noù ed il commercio con l'estero, "La Bibliofilia", 91, 1989, pp. 287-305; Id., Libri veneziani del Seicento: i Combi-La Noù ed il commercio librario con Firenze, "La Bibliofilia", 94, 1992, pp. 61-88; Id., Stampatori, editori, librai nella seconda metà del Seicento, I, Napoli 1989; II, I grandi fornitori di Antonio Magliabechi e della corte medicea, Napoli 1994.
115. M. Infelise, L'editoria veneziana nel '700, pp. 29-30; Brendan Dooley, Science, Politics, and Society in Eighteenth-Century Italy. The "Giornale de' letterati d'Italia" and Its World, New York-London 1991, pp. 50-53.
116. M. Infelise, L'editoria veneziana nel '700, pp. 19-21.
117. Ibid., pp. 18-19.
118. G. Bellini, Storia della Tipografia del Seminario di Padova, p. 111 (che trae il dato dalla Cronaca Veneta di Pierantonio Pacifico); cf. I. Mattozzi, "Mondo del libro", p. 746.
119. Paolo Camerini, Piazzola, Milano 1925, pp. 237-302; Giovanni Saggiori, Il "Loco delle Vergini" di Piazzola, in AA.VV., Libri e stampatori in Padova. Miscellanea di studi storici in onore di mons. G. Bellini, Padova 1959, pp. 4-31
120. Maddalena Lanaro, Accademie ed editoria: l'attività degli Albrizzi a Venezia, in AA.VV., Accademie e cultura. Aspetti storici tra Sei e Settecento, Firenze 1979, p. 228 (pp. 227-272).
121. G. Bellini, Storia della Tipografia del Seminario di Padova, pp. 15-17; Françoise Waquet, I letterati-editori: produzione, finanziamento e commercio del libro erudito in Italia e in Europa (XVII-XVIII secolo), "Quaderni Storici", 24, 1989, p. 826 (pp. 821-838).
122. G. Bellini, Storia della Tipografia del Seminario di Padova, pp. 107-111.
123. Lorenzo Di Fonzo, La produzione letteraria del Padre Vincenzo Coronelli, OFM Conventuali (1650-1718), in AA.VV., Il P. Vincenzo Coronelli dei Frati Minori Conventuali nel III centenario della nascita, Roma 1951, pp. 450-453 (pp. 341-472).
124. Werner Schmitz, Südslavischer Buchdruck in Venedig (16.-18. Jahrhundert). Untersuchungen und Bibliographie, Giessen 1977; Simonetta Pelusi, La stampa in caratteri glagolitici e cirillici, in Armeni ebrei greci stampatori a Venezia, a cura di Scilla Abbiati, Venezia 1989, pp. 101-113.
125. David Amram, The Makers of Hebrew Books in Italy, London 1963, pp. 372-387; AA.VV., Editoria in ebraico a Venezia, catalogo della mostra a Sacile, Venezia 1991, pp. 47-53. Il Cagion, come mi comunica gentilmente Mario Infelise, era un collaboratore dei Vendramin (lo si ricava da A.S.V., Collegio, Risposte di dentro, filza 25, 13 settembre 1634).
126. Sulla stampa in greco nel Seicento, Giorgio Plumidis, La stampa greca a Venezia nel secolo XVII, "Archivio Veneto", 93, 1971, pp. 29-39; Id., Le tipografie greche di Venezia, "Il Veltro", 27, 1983, pp. 455-465; Id., Tre tipografie di libri greci: Salicata, Saro e Bortoli, "Ateneo Veneto", n. ser., 9, 1971, pp. 245-251; D. Vlassi Sponza, I greci a Venezia, pp. 85-89.
127. G. Plumidis, Le tipografie greche, pp. 460-462.
128. Letterio Augliera, Libri politica religione nel Levante del Seicento. La tipografia di Nicodemo Metaxàs primo editore di testi greci nell'Oriente ortodosso, Venezia 1996 (Memorie dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 62).
129. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 164, fasc. V, cc. 86v, 89v.
130. La vendita ebbe luogo il 1° febbraio 1706 m.v. (= 1707) per 5.564 ducati: ivi, Riformatori, filza 365.
131. Baykar Sivazliyan, Venezia per l'Oriente: la nascita del libro armeno, in Armeni ebrei greci stampatori a Venezia, a cura di Scilla Abbiati, Venezia 1989, p. 35 (pp. 23-48).
132. A.S.V., Riformatori, filza 361.
133. B. Sivazliyan, Venezia per l'Oriente, p. 35.
134. M. Infelise, L'editoria veneziana nel '700, pp. 170-171.
135. E. Bonaldi, La famiglia Gardano, p. 296.
136. M. Laini, La raccolta zeniana, p. 153.
137. G. Boffito, Frontespizi incisi, p. 55; Rodolfo Gallo, L'incisione nel '700 a Venezia e Bassano, Venezia 194.I, pp. 5-7; Id., Gli incisori Sadeler a Venezia, "Rivista di Venezia", gennaio 1930, pp. 35-56; L. Di Fonzo, La produzione letteraria del Padre Vincenzo Coronelli, p. 453.
138. Mario Infelise, I Remondini di Bassano, Bassano 1980, p. 104.
139. Michelangelo Muraro, Boschini, Marco in Dizionario Biografico degli Italiani, XIII, Roma 1971, pp. 199-202.
140. Federica Ambrosini, "Descrittioni del mondo" nelle case venete dei secoli XVI e XVII, "Archivio Veneto", 117, 1981, pp. 67-79.
141. Marino Zorzi, I Barbaro e i libri, in Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro. Atti del convegno di studi in occasione del quinto centenario della morte dell'umanista Ermolao. Venezia, 4-6 novembre 1993 (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), Venezia 1996, pp. 479-512. Il Barbaro possedeva ben 300 "carte de cosmografia", oltre a 392 libri (A.S.V., Petizion, Inventari, b. 349/14, nr. 8).
142. M. Infelise, I Remondini, p. 104.
143. Fabio Mauroner, Luca Carlevarijs, Padova 1945;
Luca Carlevarajs e la veduta veneziana del Settecento, a cura di Isabella Reale - Dario Succi, Milano 1994.
144. H.F. Brown, The Venetian Printing Press, pp. 208, 211.
145. Lo dicono espressamente i riformatori, il 19 marzo
1562: ibid., p. 213.
146. Ibid.
147. Ibid.
148. Patricia Franciosi Rossi, I Meietti tipografi padovani tra Cinque e Seicento, "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti", 91, pt. III, 1978-1979, pp. 120-127; Dennis E. Rhodes, Roberto Meietti e alcuni documenti della controversia fra Papa Paolo V e Venezia, "Studi Secenteschi", I, 1960, pp. 165-174.
149. Gino Benzoni, I "teologi" minori dell'Interdetto, "Archivio Veneto", 91, 1970, p. 48 (pp. 31-108); P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 281.
150. P. Ulvioni, Stampa e censura, pp. 54-56; V. Frajese, Regolamentazione e controllo, pp. 710-716; Id., Sarpi scettico, Bologna 1994, pp. 337-405.
151. Gaetano Cozzi, Donà, Leonardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, p. 765 (pp. 757-771).
152. Relazione del segretario Piero Franceschi in A.S.V., Riformatori, filza 368, pubblicata da Bartolome( Cecchetti, La Republica di Venezia e la Corte di Roma, II, Venezia 1874, pp. 254-270, e da P. Ulvioni, Stampa e censura, pp. 50-51.
153. Pietro Savio, Il nunzio a Venezia dopo l'Interdetto, "Archivio Veneto", 56-57, 1955, pp. 72-73 (pp. 55-105).
154. Consulto di fra Fulgenzio del 16 febbraio 1633, A.S.V., Riformatori, filza 369.
155. Relazione del Franceschi, in P. Ulvioni, Stampa e censura, p. 51.
156. Ibid.
157. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1845 (= 9646), Decreti e scritture in materia di librai e stampatori dal 1533 al 1776, fasc. 14, cc. 20-22; cf. P. Ulvioni, Stampa e censura, p. 65.
158. Giorgio Spini, Galileo uomo del Seicento, in Tribute to Galileo in Padua. International Symposium, a cura dell'Università di Padova (2-6 dicembre 1992), Trieste 1995, p. 81 (pp. 69-88).
159. B. Cecchetti, La Republica di Venezia e la Corte di Roma, p. 408; Mario Infelise, La censure dans les pays méditerranéens. 1650-1750, in Commercium Litterarium. La communication dans la re'publique des lettres, 1650-1750, a cura di Hans Bots - Franeoise Waquet, Amsterdam-Maarssen 1994, p. 269 (pp. 261-279).
160. M. Infelise, La censure; Elisabeth Eisenstein, La rivoluzione inavvertita, Bologna 1985, p. 737.
161. A.S.V., Riformatori, filza 365.
162. Per la situazione francese, François Furet, La "librairie" du royaume de France au Me siècle, in AA.VV., Livre et société dans la France du XVIII siècle, Paris-La Haye 1965, pp. 3-33.
163. A.S.V., Santo Ufficio, Processi, b. 103, 13 agosto 1648.
164. Ibid., memoria difensiva dell'avv. Alvise Zane.
165. Sugli Incogniti, Giorgio Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell'impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze 1983, pp. 145-199. Sul Loredan, Ivo Mattozzi, Nota su Giovan Francesco Loredano, "Studi Urbinati", 40, 1996, pp. 257-288; Maria A. Bartoletti, Loredano, Gian Francesco, in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di Vittore Branca, II, Torino 1986, pp. 634-636. Un penetrante ritratto del personaggio in Gino Benzoni, Le Accademie, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, p. 143 (pp. 131-162).
166. M. Infelise, "Ex ignoto notus"?.
167. A.S.V., Riformatori, filza 361.
168. Sul Sarzina v. M. Infelise, "Ex ignoto notus"?. Sul Casoni, Emilio Zanette, Una figura del secentismo veneto. Guido Casoni, Bologna 1933.
169. M. Infelise, "Ex ignoto notus"?. Un altro possibile legame tra Loredan e Sarzina potrebbe essere costituito dal Cremonini, maestro del Loredan e della sua generazione di "libertini": del Cremonini il Sarzina stampò nel 1624 l'opera (non filosofica, ma d'invenzione letteraria) Chlorindo e Valliera. Poema; cf. Elena Bergonzi, Cremonini scrittore. Gli anni padovani e le opere della maturità, "Aevum", 68, 1994, p. 628 (pp. 607-663).
170. Sul Pallavicino, G. Spini, Ricerca dei libertini, pp. 145-217; Sergio Adorni - Albert N. Mancini, Stampa e censura ecclesiastica a Venezia nel primo Seicento: il caso del "Corriero svaligiato", "Esperienze Letterarie", 10, 1985, nr. 4, pp. 3-36; Laura Coli, Ferrante a Venezia: nuovi documenti d'archivio, "Studi Secenteschi", 27, 1986, pp. 317-324; 28, 1987, pp. 295-314; 29, 1988, pp. 235-254.
171. M. Infelise, "Ex ignoto notus"?.
172. A. Aprosio, La biblioteca aprosiana, p. 107. Un completo profilo del Sarzina e del suo mondo è offerto da M. Infelise, "Ex ignoto notus"?.
173. M. Infelise, "Ex ignoto notus"?.
174. L. Coci, Ferrante a Venezia, 27, p. 323.
175. Ibid., 29, pp. 235-254.
176. Ibid., pp. 249-254.
177. Il processo è conservato all'A.S.V., Santo Ufficio, Processi, b. 103, cf. E. Zanette, Suor Arcangela, pp. 387-415.
178. E. Zanette, Suor Arcangela, pp. 402-403.
179. G. Spini, Ricerca dei libertini, pp. 229-230.
180. E. Zanette, Suor Arcangela, pp. 190- 191.
181. L. Coci, Ferrante a Venezia, 29, p. 237.
182. A.S.V., Santo Ufficio, Processi, b. 103; G. Spini, Ricerca dei libertini, pp. 161 -166.
183. L. Coci, Ferrante a Venezia, 29, p. 235.
184. H. Brown, The Venetian Printing Press, p. 227.
185. Ibid., pp. 230-231.
186. Mario Infelise, A proposito di "imprimatur". Una controversia giurisdizionale di fine Seicento tra Venezia e Roma, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 287-299.
187. Ibid., p. 298.
188. Giuseppe Gullino, Il rientro dei gesuiti a Venezia nel 1657: le ragioni della politica e dell'economia, in I Gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù. Atti del Convegno di Studi. Venezia, 2-5 ottobre 1990, a cura di Mario Zanardi, Padova 1994, p. 431 (pp. 421-431). Le parole sono del nunzio pontificio Carlo Carafa.
189. P.F. Grendler, The Roman Inquisition, pp. 182-200; Id., Books for Sarpi: Smuggling of Prohibited Books into Venice During the Interdict of 1606-1607, in Essays Presented to Myron P. Gilmore, a cura di Sergio Bertelli - Gloria Ramakus, I, Firenze 1978, pp. 105-114.
190. Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli 1969, Introduzione, pp. 226-231; Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1978, pp. 258-259.
191. Philippe De Duplessis-Mornay, Mémoires et correspondance, X, Paris 1824, pp. 268-276; cf. Antonella Barzazi, Ordini religiosi e biblioteche a Venezia tra Cinque e Seicento, "Annali dell'Istituto Italo-Germanico a Trento", in corso di stampa.
192. Importante per i rapporti tra Venezia e l'estero negli anni del Sarpi, anche sotto il profilo dell'afflusso dei libri proibiti, lo studio di Pietro Savio, Per l'epistolario di Paolo Sarpi, "Aevum", 10, 1936, pp. 3-101; 11, 1937, pp. 13-65; 13, 1939, pp. 2-60; 14, 1940, pp. 3-84; 16, 1942, pp. 3-43. Il giudizio sul Meietti è espresso dal cardinale Borghese in una lettera al nunzio in Francia del 26 novembre 1607: ibid., 16, p. 9.
193. Gino Benzoni, Biondi, Giovanni Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma 1968, pp. 528-531; Id., Giovanni Francesco Biondi, un avventuroso dalmata del '600, "Archivio Veneto", 80, 1967, p. 20 (pp. 19-37).
194. P. Savio, Per l'epistolario, 16, p. 4 (lettera del 22 luglio 1608).
195. Id., Il nunzio a Venezia dopo l'Interdetto, p. 77; Id., Per l'epistolario, 14, p. 75.
196. G. Spini, Galileo uomo del Seicento, pp. 75-76; Frances Yates, Cabala e occultismo nell'età elisabettiana, Torino 1982.
197. Un'ampia ed esauriente scrittura sull'argomento dei controlli alle dogane, opera dell'eminente storico dell'architettura Carlo Lodoli, allora revisore alle dogane, è conservata all'A.S.V., Riformatori, filza 370.
198. H.F. Brown, The Venetian Printing Press, p. 229.
199. Così il Lodoli nella scrittura indicata supra alla n. 197.
200. Ibid.
201. P. Savio, Per l'epistolario, 16, p. 11.
202. Ibid., 10, pp. 26-27; P.F. Grendler, The Roman Inquisition, p. 283. Sul tragico destino del Manfredi, G. Benzoni, I "teologi" minori, pp. 67-78.
203. A.S.V., Santo Ufficio, Processi, b. 105. Angelo Manzoni di Bergamo, "figlio di Bartolomio salamaio anni 26", dichiara, "per scaricare la sua coscienza", di aver comperato "la Pippa Nana" (certo la seconda giornata dei Ragionamenti, in cui dialogano la Nanna e la Pippa), il Divortio celeste, e le altre opere indicate nel testo. "Ho letto parimenti un libro scritto a mano chiamato Fasquino e Martorio in estasi e questo pure doppo haverne letto 3 0 4 carte diedi al foco", egli confessa; forse era il celebre scritto del Curione, forse una variante che circolava manoscritta.
204. Catalogus eorum librorum omnium, qui Ultramontanis Regionibus impressis apud Robertum Meiettum prostrant, Venezia 1602; cf. Marina Venier, Immagini e documenti, in Il libro italiano del Cinquecento: produzione e commercio. Catalogo della mostra. Biblioteca Nazionale Centrale, Roma, 20 ottobre-16 dicembre 1989, a cura di Paolo Veneziani, Roma 1989, p. 40 (pp. 25-44).
205. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 348 (5 marzo 1622): cf. M. Zorzi, Le biblioteche a Venezia nell'età di Galileo, pp. 166-168.
206. A.S.V., Arti, Stampatori e librai, b. 164, c. 77v, "Nota delli libri comunali che doveranno imbossolarsi per poi estrarli alli matricolati della nostra Università" (alla data del 6 gennaio 1670).
207. Come quella di Marcantonio Bonciario, Donatus et Guarinus emendati, aucti et illustrati.
208. Come quello di Pietro Galesini, Tesoro della lingua volgar latina, quello di Cesare Calderino Mirami, Dictionarium tum latini tum italici sermonis, quello di Orazio Torsellino, Nomenclator seu vocabularium. Il Torsellino è anche autore di una fortunata storia universale.
209. Come l'opera di Cipriano Soarez, De arte rhetorica libri tres.
210. "Cose notabili di Venetia".
211. "Secreti del Zapata", "Secreti Isabella Cortesi" (il titolo completo è Secreti nei quali si contengono cose minerali, medicinali, artificiose et alchemiche), "Capricci medici del Fioravanti".
212. Philippe Canaye De Fresnes, Lettres et ambassades, I, Paris 1645, p. 9; cf. G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, p. 22.
213. Alfonso Mirto-Henkth. Van Veen, Pieter Blaeu: lettere ai Fiorentini, Firenze - Amsterdam 1993, p. 8.
214. Avevano negozio in Merceria Ginami, Gueriglio, Gardano, Tomasini, Baglioni, Giunti (poi Pezzana) e molti altri.
215. Mario Infelise, La guerra, le nuove e i curiosi. I giornali militari negli anni della Santa Lega contro il Turco, in corso di stampa negli atti del convegno I Farnese: corti, guerre e nobiltà in antico regime.
216. Ibid.
217. Giorgio E. Ferrari, Albrizzi, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, II, Roma 1960, pp. 58-59; Marino Berengo, Introduzione, in Giornali veneziani del Settecento, Milano 1962, p. XI (pp. IX-LXV); M. Lanaro, Accademie ed editoria, p. 229.
218. M. Berengo, Introduzione, p. XI.
219. Su tale importantissimo periodico, cui si accennerà anche nel prossimo volume di questa Storia di Venezia, v. M. Berengo, Introduzione, pp. XI-XV; B. Dooley, Science, Politics, and Society; Piero Del Negro, recensione all'opera del Dooley, "Studi Veneziani", n. ser., 28, 1994, pp. 284-287.
220. Eleanor Selfridge-Field, Pallade Veneta. Writings on Music in Venetian Society, 1650-1750, Venezia 1985.
221. Simonetta Nicolini, Bibliografia degli antichi cataloghi a stampa in biblioteche italiane, Firenze 1954, p. 103.
222. Marino Zorzi, La Libreria di San Marco, Milano 1987, pp. 223-231. Il catalogo redatto dal custode Gradenigo elenca circa cinquemila libri negli scaffali alle pareti, ottocento sopra i trentotto banchi e millecinquecento circa bagnati dalla pioggia e ricuperati dal custode.
223. Ibid., pp. 212-222.
224. Paul Dibon - Françoise Waquet, Johannes Fredericus Gronovius pèlerin de la République des Lettres, Genève 1984, p. 150.
225. Theobald Freudenberger, Die Bibliothek des Kardinals Domenico Grimani, "Historisches Jahrbuch", 56, 1936, pp. 15-45; per i codici ebraici in particolare Giuliano Taimani, I libri ebraici del cardinal Domenico Grimani, "Annali di Cà Foscari", 39, 1995, nr. 3 (Serie orientale, 26), pp. 5-52.
226. A. Barzazi, Ordini religiosi e biblioteche a Venezia.
227. Ugo Rozzo, L'amicizia "bibliotecaria" tra Gabriel Naudé e Giacomo Filippo Tomasini, in AA.VV., Per le nozze di corallo di Enzo Esposito e City Mauro, Ravenna 1990, pp. 117-130.
228. A. Barzazi, Ordini religiosi e biblioteche a Venezia. "Omnino desolatam" apparve la biblioteca di S. Giorgio in Alga nel 1660 a due dotti visitatori: v. Mario Battistini, I padri bollandisti Henschenio e Papebrochio nel Veneto nel 1600, "Archivio Veneto", ser. V, 9, 1931, p. 126 (pp. 111-130).
229. Il Mabillon fu a Venezia nel maggio 1685: visitò anche la Pubblica Libreria (ed è uno dei pochi che parlino bene dell'allora custode Gualtiero Leith): Jean Mabillon-Michel Germain, Museum Italicum, Luteciae Parisiorum 1687, p. 36.
230. Antonella Barzazi, Settecento monastico italiano. Ordini regolari, Chiesa e società tra XVII e XVIII secolo, "Rivista di Storia e Letteratura Religiosa", 30, 1994, p. 162 (pp. 141-173).
231. M. Zorzi, La Libreria di San Marco, pp. 320-332.
232. A. Barzazi, Settecento monastico, p. 169.
233. Gino Benzoni, Gli affanni della cultura, Milano 1978, pp. 200-220. A p. 205 un indimenticabile ritratto del Magliabechi. L'importanza del Magliabechi anche per il commercio librario internazionale appare evidente anche nelle opere di A. Mirto citate supra, n. 114.
234. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima, et singolare [...] hora con molta diligenza corretta, emendata e più d'un terzo di cose nuove ampliata dal M.R.D. Giovanni Stringa, Venetia 1604; Id., Venetia città nobilissima, et singolare, con aggiunta di tutte le cose notabili [...] dell'anno 1580 fino al presente 1663 da D. Giustiniano Martinioni, Venetia 1663.
235. G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, pp. 148-151, 160; Michael Hochmann, La collection de Giacomo Contarini, "Mélanges de l'Ecole Frannaise de Rome. Temps Modernes", 99, 1987, pp. 447-489.
236. M. Zorzi, I Barbaro e i libri, pp. 502-507 (cf. supra, n. 141) Renzo Derosas, Corner, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 241-243; Id., Corner, Elena Lucrezia, ibid., pp. 174-179.
238. Bernard de Montfaucon, Bibliotheca bibliothecarum manuscriptarum nova, I, Parisiis 1739, p. 483. Il Montfaucon ricorda anche quella di Bernardo Trevisan e giudica quella di Zanbattista Corner la più ricca di Venezia per la materia veneziana, anche se non conteneva materiale più antico di trecento anni (ibid., p. 482). Del senatore Giulio Giustinian e della sua biblioteca fa cenno, ironicamente, l'autore de La copella politica (1675), in Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo 15, cc. 70-71: "se la virtù s'hanno da libri, questo dovrebbe havere molte virtù, perché è possessore di molti libri".
239. B. de Montfaucon, Bibliotheca bibliothecarum, p. 478.
240. Federica Ambrosini, Paesi e mari ignoti, Venezia 1982, p. 42. L'inventario è all'A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 356, nr. 21 (anno 1639).
241. Voce redazionale Barozzi, Iacopo, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 508-509. Luigi Lollino (o venezianamente Alvise Lolin), celebre raccoglitore di libri anch'egli, piange l'uscita da Venezia di tanti tesori nei suoi Epistularum miscellanearum libri, Belluni 1641, pp. 3-4. Fu invece una fortuna l'acquisto inglese: i codici del Barozzi sono oggi i Barocciani della Bodleiana, ove rimangono intatti.
242. Nikolaos M. Panayotakis, Λέων ὁ ΛιάϰονοϚ, "῾ΕπετηϱὶϚ τῆϚ ῾ΕταιϱείαϚ Βυζαντινῶν Σπουδῶν",34, 1965, pp. 58-71 (pp. 1-138).
243. Luigi Alpago Novello, La vita e le opere di Luigi Lollino vescovo di Belluno (1596-1625), "Archivio Veneto", n. ser., 14, 1933, pp. 27-30 (pp. 15-116) e 15, 1934, pp. 216-299 (pp. 199-304).
244. G. Cozzi, Donà, Leonardo, pp. 757-765. L'inventario è a Venezia, Museo Correr, ms. P.D. c/2735/r: cf. anche il mio accenno in Le biblioteche, tra pubblico e privato, in Torquato Tasso e la Repubblica Veneta, catalogo della mostra presso la Biblioteca Marciana, a cura di Giovanni Da Pozzo, Venezia 1995, p. 48 (pp. 35-48).
245. Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino
1585, p. 266; G. Cozzi, Donà, Leonardo, p. 764.
246. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, p. 284; G. Cozzi, Donà, Leonardo, p. 770.
247. Gaetano Cozzi, Contarini, Nicolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, p. 254 (pp. 247-255)
248. Id. - Luisa Cozzi, Da Mula, Agostino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 376-381; G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, pp. 43-44.
249. Sul Molin v. G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, p. 115; Id., L'eroica amicizia, in Id., Venezia barocca. Conflitti di uomini e idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, pp. 381-390; per la biblioteca, ibid., p. 383. Il ms. P.D. 207/b di Venezia, Museo Correr, testimonia la fitta corrispondenza che il Molin intratteneva con i letterati e i dotti; vi sono raccolte di lettere di Lorenzo Pignoria, Antonio Barison, noto giurista, Felice Osio, in cui si parla di problemi eruditi, si chiedono a prestito libri, si accenna alla stampa di opere (come i Misteri della grande madre del Pignoria, in stampa presso il Messerini: l'autore chiede al Molin di fare "un poco d'istanza, altramente sarà negozio lentissimo"; lettera del 26 febbraio 1624, c. 83).
250. "V.E. Ill.ma purtroppo fra ogni momento, con l'aprire i tesori della sua nobile libreria, della quale ormai io posso dire per sua benignità di essere quanto all'uso più padrone di Lei", scrive al Molin il Pignoria il 19 maggio 1626 (ibid., c. 102). Al Pignoria il Molin regalò "l'Italia del Cluverio e la Venetia dello Strozzi": ibid., c. 88v.
251. Per la biblioteca Zen, A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 370, nr. 50. Ringrazio vivamente Federica Ambrosini che ha avuto la cortesia di segnalarmi l'inventario. Sulla biblioteca di Andrea Valier è in preparazione uno studio di Dorit Raines. Filippo Capello qm. Bernardo mostra invece un interesse particolare per la medicina: dei suoi 131 libri, molti sono di tale argomento (ibid., b. 369, anno 1661).
252. Uno scritto anonimo, pubblicato da Pompeo G. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919, p. 389, nel quale si descrive la situazione della città nel 1664, parlando del procuratore di S. Marco Andrea da Mosto, personaggio di doti non eccelse ma desideroso di affermarsi nel governo della Repubblica, dice che "coll'esercizio di se stesso nel Collegio pubblico e nella sua privata libreria si è andato comportabilmente abilitando". La biblioteca era un mezzo per la preparazione dell'attività politica.
253. Dorit Raines, L'archivio familiare strumento di formazione politica del patriziato veneziano. Gli archivi politici di patrizi veneziani nel fondo manoscritto Manin ex-Svajer presso la Biblioteca Civica "Joppi" di Udine, "Accademie e Biblioteche", in corso di stampa.
254. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 386, nrr. 12-13.
255. Ibid., nr. 51; cf. B. Dooley, Science, Politics, and Society, p. 151 (che segnala anche altri inventari: Tavernier, Bavella, Moretti, nonché Giacomo Robbacini, farmacista, che compra una biblioteca di 400 volumi da Bernardino Calcaneis: ibid., p. 152). Sulla famiglia Zambelli, ammessa nel 1685 al patriziato (un'altra famiglia Zambelli era stata aggregata nel 1648), v. Roberto Sabbadini, L'acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia, Udine 1995, p. 45.
256. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 390, nr. 15 (1° ottobre 1688). Sul Collurafi, maestro di Giovan Francesco Loredan e di numerosi patrizi di quella generazione, v. la voce di Gino Benzoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 91-94.
257. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 390, nr. 33 (16 ottobre 1688).
258. Ibid., b. 386, nr. 53 (il Goriol era morto il 10 agosto 1684 a Udine).
259. Ibid., nr. 15 (a. 1684).
260. Ibid., nr. 48 (a. 1684).
261. Ibid., nr. 18 (a. 1684).
262. Ibid., nr. 84 (a. 1684). Il Tavernier sembra appartenere, più che a Venezia, all'area di Ceneda-Conegliano: ha una casa con campi nei pressi di Saraval (Serravalle), una casa a Conegliano, ha dato alcuni oggetti in pegno agli Ebrei di Ceneda: a giudicare dal valore assai modesto delle cose impegnate, sembra esser stato poco provvisto di mezzi.
263. Ivi, Santo Ufficio, Processi, b. 104 (a. 1654). Benché poverissima, la Malipiero possedeva due pitture: "un quadretto con la beata Vergine [...] pittura vecchia con oro alla greca" e "la Madonna in pietà, tavoletta piccola senza cornice". Su di lei v. Francesca Romano, Laura Malipiero strega, Roma 1996 (per i libri v. pp. 121-127).
264. B. De Montfaucon, Bibliotheca bibliothecarum, p. 478.
265. Carla Boccato, Benedetto Levi, medico e bibliofilo ebreo, interdetto per follia a Venezia, "Miscellanea Marciana", 7-9, 1992-1994, pp. 141-177
266. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 393, nr. 19 (13 ottobre 1694).
267. Krzysztof Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, Milano 1989, p. 140; Irene Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 1990, pp. 155-157.
268. I. Favaretto, Arte antica, pp. 157-158; A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 366, nr. 90 (30 novembre 1657).
269. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 386, nr. 16 (a. 1679).
270. Ibid., b. 390, nr. 3 (a. 1689) e b. 386, nr. 80 (a. 1685).