di Serena Giusti
La marginalizzazione internazionale patita dalla Federazione Russa nei primi anni della sua esistenza è stata associata a una drammatica perdita di status. È alla luce di questo declassamento da super-potenza durante la Guerra fredda ad attore periferico alla fine del bipolarismo che deve essere decifrata la proiezione esterna della Russia. Beneficiando di una consistente crescita economica fondata sui proventi delle esportazioni di petrolio e gas, il paese è riuscito ad affermarsi come una potenza del sistema internazionale, in grado di esercitare la propria influenza non soltanto in un’area tradizionalmente di sua pertinenza, come lo spazio post-sovietico, ma anche in altri scacchieri geopolitici. In Medio Oriente, il rafforzamento della posizione russa è stato speculare all’indebolimento degli Stati Uniti che, dopo gli attacchi terroristici del 2001, hanno reagito intervenendo in Afghanistan e in Iraq. Il loro attivismo nell’area, che ha richiesto anche il sostegno logistico di Mosca, non ha sinora condotto a una stabilizzazione dell’area.
Con l’apertura del fronte siriano, come effetto del contagio delle rivolte nei paesi del Nord Africa, le potenze occidentali hanno riconosciuto alla Russia un importante ruolo di mediatore nel persuadere Bashar al-Assad a porre fine alle violenze contro il suo popolo e ad accettare una ‘soluzione alla yemenita’, ossia un accordo tra governo e opposizione con una fuoriuscita morbida del presidente siriano. L’ostinazione di al-Assad ha vanificato però l’impegno diplomatico russo. Il Cremlino tuttavia non ha ceduto al fronte occidentale, propenso a misure punitive contro Damasco. Alla luce dell’esito della crisi libica, Mosca temeva che eventuali risoluzioni delle Nazioni Unite potessero essere manipolate per legittimare un intervento volto a un mutamento di regime. In Siria, inoltre, il potere centrale è più forte e capace di resistere e reagire a una opposizione frammentata e infiltrata da elementi jihadisti che, qualora conquistassero la guida del paese, costituirebbero, tramite i loro robusti legami con gruppi terroristici caucasici, una minaccia per la stessa Russia. Il regime di al-Assad è infatti sostenuto dagli alawiti (un segmento degli sciiti presenti anche in Iran) e una sua rimozione potrebbe rafforzare la componente sunnita (al-Qaida, i Fratelli musulmani, Hamas) con due gravi conseguenze. Da una parte, una eventuale ripresa dei movimenti secessionisti che all’interno della Russia sono promossi dai wahhabiti (appartenenti ai sunniti) e una saldatura di questi con i movimenti islamici radicali (questione su cui Putin ha richiamato l’attenzione della comunità internazionale dopo l’esplosione delle bombe alla maratona di Boston ad opera di due fratelli di origine cecena). Dall’altra, un indebolimento eccessivo dell’Iran, dove prevalgono gli sciiti. Nella crisi siriana la Russia ha voluto anche tutelare l’Iran, una pedina strumentale, per mantenere in tensione le relazioni con Washington e rafforzare il proprio potere negoziale.
Quando però gli Stati Uniti, a seguito del ricorso ad armi chimiche da parte dell’esercito di al-Assad, assieme al Regno Unito hanno optato per una rischiosa escalation della tensione, il ruolo della Russia è stato salvifico. Un intervento militare esterno nella regione avrebbe potuto contagiare l’intera area mediorientale, esacerbando contrasti trasversali agli stati (sunniti/sciiti; tradizionalisti/modernisti), e propagare ondate di tensione a livello sistemico.
Ecco perché l’opposizione russa all’uso della forza – sebbene ufficialmente biasimata da Washington e da altre capitali europee – e il suo adoperarsi per una soluzione diplomatica hanno alla fine sollevato gli Stati Uniti dalla grave responsabilità di un’azione bellica. È grazie in particolare all’azione diplomatica condotta dal ministro degli esteri russo Sergej Viktorovic ˇ Lavrov che il presidente siriano ha acconsentito alla distruzione dell’arsenale chimico. Gli Stati Uniti in primis hanno riconosciuto che «la sola soluzione alla crisi siriana è un processo politico senza esclusioni, diretto dai siriani » e hanno sostenuto, assieme alla Russia, la convocazione di una conferenza internazionale (Ginevra 2, dal 23 al 31 gennaio 2014) che riunisse i rappresentanti del regime e dei ribelli e, così come richiesto da Mosca, tutti i paesi della regione e i vicini della Siria, inclusi Arabia Saudita e Iran. L’obiettivo della conferenza era concordare una road map per la nuova Siria e raggiungere un accordo per un governo di transizione. Il primo round si è concluso con un nulla di fatto.
In Siria, il Cremlino difende certamente anche i suoi interessi economici e geopolitici, in linea con un approccio pragmatico alle relazioni internazionali. Dalla fine della Guerra fredda la Russia è diventata il più importante fornitore di armi della Siria (il 75% delle armi siriane sono di fabbricazione russa), anche se il mercato siriano non è tra quelli primari per Mosca: la Siria è solo il settimo paese cliente. Di rilievo geostrategico nel Mediterraneo, invece, la piccola base logistica dotata di un sistema radar sofisticato che la Russia mantiene dai tempi dell’URSS nel porto siriano di Tartus.
La strategia del Cremlino, volta a prendere tempo attraverso un controllato incremento della tensione, ha consentito al paese di dettare le regole della gestione della crisi secondo i suoi obiettivi. La Russia, così facendo, ha dimostrato il suo peso sul piano internazionale e ha consolidato il suo status di potenza globale, riscattandosi in parte dallo smacco subito in Libia. Questo successo relativo riportato dalla leadership russa ha effetti positivi anche sul piano interno. Il calo di consenso registrato dalla terza presidenza di Putin non consente cedimenti sull’arena internazionale, che potrebbe invece diventare un fattore rilevante di compattamento dei russi intorno alla leadership.