La proliferazione della città
Nel corso del 20° sec. l’urbanizzazione ha sostituito il processo millenario di formazione delle città. Il concetto classico di centro urbano come struttura formale è ormai sorpassato. Il ruolo amministrativo della città centrale e la sua funzione sociale come punto d’incontro culturale della collettività sono stati ridimensionati dall’espansione incontrollata di insediamenti residenziali e industriali nelle zone semirurali del territorio. Si sono verificati significativi cambiamenti sia nella forma sia nel carattere dell’urbanizzazione grazie alle grandi opere infrastrutturali realizzate per i trasporti, in particolar modo per quello automobilistico di massa. Contemporaneamente, la diffusione di tecnologie di comunicazione virtuali ha fatto cessare la dipendenza delle relazioni sociali dagli spazi pubblici. La diffusione di modelli di consumo internazionali per quanto riguarda gli alberghi, i centri commerciali e sportivi o i business parks ha generato un ambiente che non assomiglia a una città né tanto meno si comporta come tale.
Mentre continua a essere un argomento diffusamente trattato – la 10a Mostra internazionale di architettura di Venezia (2006) è stata intitolata Città. Architettura e società – in realtà la città non esiste più, sepolta ormai da tempo sotto strati di crescita urbana o appannata da nuovi stili di vita. Il 19° sec. ha lasciato in eredità il modello delle metropoli con più di un milione di abitanti, e il 20° sec., a sua volta, ci ha trasmesso quello delle megalopoli diffuse. Tokyo, Shanghai, Lagos e Città di Messico contano tra i venti e i trenta milioni di abitanti e si sviluppano su aree molto vaste. In alcuni casi l’area di urbanizzazione continua può raggiungere un raggio di oltre 100 km, rasentando le dimensioni di un piccolo Stato. E in effetti Paesi piccoli come il Belgio e i Paesi Bassi ravvisano la propria identità geografica in un tessuto urbano ininterrotto. Ciò che Jean-Jacques Rousseau osservava a metà del 18° sec., ovvero che, tolti i laghi e le Alpi, la Svizzera risultava un’unica grande città, si è rivelato profetico per molte regioni densamente abitate. Se l’espansione urbana manterrà il ritmo attuale è facile prevedere che aumenti il numero di agglomerati come quello creato dalla fusione di Tokyo e Yokohama. Il geografo Eugenio Turri (2000) descrive l’Italia settentrionale del futuro come una ‘megalopoli padana’, un’entità urbana continua estesa da Genova a Venezia e comprendente Torino, Milano, Bologna e Verona. L’architetto tedesco Thomas Sieverts si è spinto oltre, preconizzando addirittura che l’intera Europa finirà presto per costituire una grande Zwischenstadt (inter-città), una sorta di vasto tappeto formato da zone urbanizzate interconnesse fra loro (Zwischenstadt. Zwischen Ort und Welt, Raum und Zeit, Stadt und Land, 1997).
La fusione di città come quella di Basilea-Mulhouse-Weil am Rhein mostra che la proliferazione urbana può tranquillamente varcare persino i confini di Stato: nel caso specifico, quelli tra la Svizzera, la Francia e la Germania. È possibile immaginare che nel 21° sec. sorgeranno interessanti conurbazioni polinazionali come Londra-Bruxelles-Parigi, Vienna-Bratislava-Budapest e Berlino-Praga-Breslavia. Fuori dall’Europa, considerati gli alti tassi di crescita in alcune parti del mondo, e nonostante i conflitti etnici di lunga data, potrebbe a breve verificarsi anche la fusione di Kolkata e Dacca, di Beirut, Tel Aviv e Il Cairo, di Buenos Aires, Montevideo e Porto Alegre. Una ricerca di UN-HABITAT (Cities in a globalizing world, 2001) prevede che entro il 2050 il 70-80% della popolazione mondiale sarà urbanizzato (raggiungerà cioè il livello attuale di urbanizzazione della maggior parte dei Paesi industrializzati). Questo implica che la tendenza della crescita urbana incontrollata a scavalcare le frontiere potrebbe finire per unificare l’intero pianeta in una sola grande città (D’Andrea 2000). Se da un lato la prospettiva di una ‘città mondiale’, di una sterminata urbanizzazione interrotta solo dagli oceani e dalle catene montuose, può far inorridire, ne vanno comunque considerate le eventuali ricadute positive sulla pace nel mondo e sulle risorse ambientali. L’impatto sull’equilibrio ecologico del pianeta, in termini di gestione dell’acqua e dell’energia, potrebbe migliorare, tenuto conto che le politiche locali si sono in genere rivelate più efficaci di quelle nazionali nel produrre cambiamenti positivi. In assenza di rigidi confini di Stato, le rivalità storiche tra Paesi limitrofi risulterebbero sensibilmente ridotte. Nella città mondiale la guerra potrebbe degenerare in una forma di lotta di classe, controllata dalla polizia municipale – si ricordi, per es., la rivolta di Los Angeles nel 1992. Nonostante le spaventose dimensioni, la prospettiva di un’urbanizzazione globale potrebbe portare a un mondo relativamente più pacifico.
La natura frammentaria e permeabile delle megalopoli in espansione è stata per la prima volta individuata dal geografo Jean Gottmann negli anni Cinquanta del 20° sec., a proposito della zona costiera orientale degli Stati Uniti, tra Washington e Boston (Megalopolis. The urbanized northeastern seaboard of the United States, 1961). Al contrario della città, che storicamente si è sempre estesa con andamento concentrico, le zone urbane, con la diffusione di massa dell’automobile privata, hanno preso a svilupparsi a macchia di leopardo. Il termine generico sprawl (Ingersoll 2004) indica questa forma di urbanizzazione meno strutturata. Letteralmente sprawl significa «diffusione o espansione disordinata» e, usato come verbo, contribuisce molto efficacemente alla descrizione di un paesaggio urbano dominato dal movimento. Sprawl è dunque l’espansione irregolare dell’urbanizzazione su vaste aree, dove zone agricole vengono riconvertite in insediamenti abitativi, commerciali e industriali, ma definisce anche un nuovo stile di vita basato su tecnologie di informazione e di trasporto sofisticate. Per proliferazione della città s’intende quindi sia una particolare conformazione materiale sia l’insieme di relazioni sociali mediate da una rete virtuale. Manuel Castells (The informational city, 1989) definisce il nuovo processo urbano spazio di flussi, intendendolo come movimento di corpi e di informazioni attraverso vasti territori, volto a creare industrie e a gestire capitali. Le reti rappresentano la struttura direttiva centrale dell’economia urbana del tardo Novecento. A mano a mano che le tecnologie digitali entrano nei sistemi produttivi, lo spazio diventa sempre più virtuale, riducendo la dipendenza dell’esistenza quotidiana dallo spazio stesso.
Lo storico Eric Hobsbawm ha osservato, nelle sue riflessioni sulla globalizzazione (2007), che la comparsa dell’urbanizzazione diffusa ha segnato un passaggio importante nella storia del mondo e ha ipotizzato che nell’arco di pochi decenni l’umanità, una specie dedita essenzialmente alla raccolta, alla caccia e alla produzione di cibo fin dalle sue origini, cesserà di essere tale. Le popolazioni rurali che all’inizio del 20° sec. costituivano più della metà della popolazione mondiale stanno rapidamente scomparendo dai Paesi atlantici settentrionali, e costituiscono oggi meno del 2% degli abitanti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Italia. La causa di una così drastica riduzione degli agricoltori è da ravvisare nell’avvenuta industrializzazione dell’agricoltura, nella rapidità dei trasporti e nel perfezionamento delle tecniche di refrigerazione dei prodotti agricoli. Considerata la dipendenza dell’agricoltura dal petrolio, per quanto concerne trasporti e fertilizzanti, quando il prezzo dell’energia subisce un’impennata, come è accaduto nel 2007 e nel 2008, l’effetto sui prezzi dei prodotti alimentari risulta immediato. L’abbandono della produzione agricola locale è un fenomeno che si può riscontrare in tutti i Paesi in via di sviluppo, e in modo particolare in Cina, il Paese più popoloso del pianeta, dove la classe contadina è scesa dal 1985 al 50% della popolazione. Questa tendenza non sembra voler rallentare. La scomparsa dell’agricoltura si accompagna alla parallela proliferazione della città: quarantadue città cinesi hanno ora più di un milione di abitanti. Le periferie urbane e le aree abbandonate nei centri delle città assorbono coloro che cercano di sottrarsi alla povertà delle campagne.
A partire dagli anni Novanta la globalizzazione è al centro delle teorie sullo sviluppo urbano. L’integrazione dei mercati mondiali è stata coordinata dalla World bank (fondata nel 1945) e dalla WTO (World Trade Organization, fondata nel 1995), che di fatto sono diventate strumenti delle multinazionali. I rispettivi presidenti vengono nominati dal presidente degli Stati Uniti e le loro politiche non sono soggette a controllo democratico. La progressiva aggregazione di zone urbane diverse in un’unica città mondiale sarà in gran parte conseguenza della globalizzazione: un mondo concepito come un blocco unico di attività economiche interconnesse, relativamente libere da controlli locali e internazionali. Il potere delle multinazionali, di società come Microsoft e Novartis, è spesso più forte di quello di alcuni Paesi, e ha addirittura messo in crisi l’integrità politica di qualche Stato sovrano. Dal 2004 l’Unione Europea tenta di contenere le pratiche monopolistiche della Microsoft con sanzioni antitrust. Nel 2007 Novartis ha perso una causa storica contro l’India, la quale reclamava il diritto di produrre copie ‘generiche’ dei prodotti della multinazionale svizzera a prezzi sostenibili nel Terzo mondo. Tuttavia, ostacoli di questo genere sono in verità eccezionali, e vengono posti solo da Stati abbastanza grandi da potersi opporre all’espansione delle società multinazionali. La duttilità dell’influenza trans-nazionale appare particolarmente evidente nella città-Stato insulare di Singapore che, a corto di territorio, nel 1994 ha concordato con la Cina la locazione, per un periodo di cento anni, di una vasta area di terreni industriali ai margini di Suzhou, al fine di installarvi impianti di produzione di alcune delle sue aziende. Nel suo Spaces of global capitalism. Towards a theory of uneven geographical development (2006) David Harvey spiega come i mercati neoliberali esigano continuamente nuovi spazi e manodopera sempre meno retribuita. Considerato che al mondo diminuiscono i luoghi in cui è possibile reperire risorse e manodopera a basso costo, è prevedibile che in futuro sorgano aspri conflitti intorno a ciò che Harvey chiama ‘accumulazione mediante appropriazione’ praticata da imprese private che godono dell’appoggio dello Stato, come è il caso di Singapore.
L’espansione dell’urbanizzazione come conseguenza della globalizzazione ha reso possibile la diffusione di concetti liberali quali la democrazia e i diritti umani, creando al contempo una domanda di servizi moderni tra cui l’assistenza sanitaria. L’urbanizzazione universale rischia anche, però, di allargare la forbice delle ineguaglianze sociali. Mentre nei Paesi sviluppati la crescita economica appare disordinata ma mirata al benessere dei consumatori, nei Paesi in via di sviluppo la stessa crescita ha effetti completamente diversi. Le baraccopoli catalogate da Mike Davis in Planet of slums (2006) costituiscono la maggior parte della recente crescita urbana nel mondo. Il programma Habitat delle Nazioni Unite ha calcolato che esse danno ricovero a circa un miliardo di persone, ma il fenomeno potrebbe riguardare anche un terzo della popolazione mondiale. Pertanto la tendenza all’urbanizzazione universale ha prodotto situazioni di degrado umano e ambientale simili agli orrori degli slums della Manchester industriale dell’Ottocento denunciati da Friedrich Engels e altri studiosi. Ciò che distingue le condizioni presenti nel contesto dello sprawl da quanto avveniva nelle città industriali storiche è l’impulso a espandersi. Quando insorgono conflitti, gli elementi urbani hanno la tendenza a essere flessibili e a spostarsi in altri contesti.
L’avanzare della globalizzazione è per molti versi sinonimo del primato economico del neoliberismo, cioè del ritorno alla politica economica del laissez-faire, che limita l’intervento statale. Il declino delle aziende di Stato, la flessibilità dei mercati finanziari e del lavoro e lo smantellamento dei programmi sociali sovvenzionati con i proventi del fisco sono stati preparati da Margaret Thatcher, primo ministro britannico dal 1979 al 1990, che negava l’esistenza della società in quanto tale, sostenendo che ci fossero soltanto gli individui e le loro famiglie. Punti di vista del genere hanno comportato un minor controllo democratico sui soggetti economici e politici. L’economista Joseph Stiglitz (2006) ritiene che la globalizzazione sia intrinsecamente ingiusta nei confronti dei Paesi in via di sviluppo e che privilegi valori materiali a scapito di altri, tra cui, per es., la salvaguardia dell’ambiente. Più che gli indirizzi ideologici, è la gestione ad aver introdotto strategie di governance. Le grandi urbanizzazioni dispongono di una complessa rete di amministrazioni, costituita in genere da poche istituzioni democratiche e da diverse burocrazie manageriali, spesso subappaltate ad agenzie di consulenza private. La governance, termine entrato in uso negli anni Novanta, definisce il comportamento manageriale delle amministrazioni urbane, e tende a escludere sempre di più la partecipazione popolare. I sistemi misti come quello socialdemocratico nederlandese o quello postmaoista cinese evidenziano la convergenza tra i sistemi gestionali delle agenzie di Stato e quelli delle imprese private. Il passaggio alla governance ha rimosso sia la consapevolezza che a fare politica siano individui potenti, sia quella che esista la possibilità di cambiare le cose attraverso un processo democratico. La soluzione dei complessi problemi della gestione urbana è per lo più affidata ad anonimi specialisti.
Mentre le città continuano a espandersi incontrollatamente e a fondersi in agglomerati, non è stata elaborata una teoria urbanistica adeguata a cambiamenti di queste dimensioni. La forma dell’urbanizzazione è stata fortemente influenzata a metà del 20° sec. dalla Carta d’Atene del 1933 prodotta dal CIAM (Congrès International d’Architecture Moderne) dominato dalle idee di Le Corbusier e Sigfried Giedion. Questo manuale di zoning funzionale ipotizza la città come una grande area regionale limitata a quattro funzioni: il lavoro, lo svago, il trasporto e l’abitazione. La separazione razionale delle varie funzioni si è in seguito dimostrata nociva per le relazioni sociali e quindi, a eccezione dello zoning industriale, le generazioni successive hanno tentato di riaggregare le funzioni che erano state separate. Nel loro processo di proliferazione, le città non sembrano però essere condizionate dalla teoria ma, analogamente ai fenomeni naturali, hanno prodotto una propria teoria. L’architetto nederlandese Rem Koolhaas descrive il nuovo tipo di urbanizzazione come città generica. A conclusione della sua esperienza in qualità di responsabile del piano urbanistico di Euralille compiuto durante gli anni Novanta, Koolhaas ha modificato la sua concezione del processo urbanistico al punto da ritenere che non esista individuo o istituzione capace di controllare la progettazione della città. Gli sponsor, i politici, i manager e gli esperti tecnici, così come il coordinamento tra i vari attori internazionali, sono tutti soggetti a dinamiche mutevoli come le onde di un oceano. Soluzioni generiche, ambienti effimeri, stili di vita nomadi sembrano caratterizzare l’ambiente urbano di una società in perenne movimento che elimina rapidamente ciò di cui non ha più bisogno.
Mentre va in direzione di un’urbanizzazione totale, il mondo sembra riporre sempre meno fiducia nella storia, nella collettività, nello spazio urbano e nella stanzialità. Gli abitanti di città sempre più casuali, monotone e generiche sono interessati soprattutto a soddisfare le proprie necessità materiali. La cultura della città la possono cercare nei musei ma non nei luoghi della loro vita quotidiana. Anziché quattro funzioni urbane, lo sprawl è in grado di contenerne fino a quaranta, tra cui la produzione alimentare, il settore dei servizi, il governo, gli atelier artistici, la sanità, l’istruzione, la religione, lo sport, l’amore, la natura, l’energia, il riciclaggio, le infrastrutture. Se la molteplicità dell’urbanizzazione totale comporti un incremento dell’isolamento oppure, viceversa, dell’integrazione è un problema politico sempre più urgente. Tra i fattori chiave che modellano la proliferazione della città, vanno considerati la pianificazione delle nuove infrastrutture, il recupero dei terreni in stato di abbandono e la questione ecologica.
L’infrastruttura come arte
La fine del 20° sec. ha assistito alla più grande domanda d’infrastrutture dai tempi delle ferrovie. I centri di città come Shanghai sono stati trafitti da autostrade sopraelevate, svincoli monumentali e parcheggi multipiano. Negli ultimi vent’anni sono stati costruiti ex novo o ampliati centinaia di aeroporti. Gli svincoli autostradali e gli aeroporti sono divenuti i nuovi crocevia, situati lontano dal centro città ma nel cuore dello sprawl. Intorno a essi si sviluppa ciò che Joel Garreau definisce edge city, cioè una serie di grandi edifici destinati a uso commerciale oppure ad accogliere strutture del terziario, non rigidamente allineati lungo le strade cittadine ma disseminati in nuclei adiacenti alle infrastrutture principali (Edge city. Life on the new frontier, 1991). Stefano Boeri, Arturo Lanzani ed Edoardo Marini chiamano attrattori lineari le strade a scorrimento veloce dello sprawl per via della loro capacità di attrarre grandi insediamenti aziendali progettati in funzione regionale piuttosto che come componenti di una città (Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, 1993). Le nuove stazioni delle metropolitane, quelle di scambio intermodale e le ferrovie ad alta velocità creano discontinuità nel paesaggio ma rafforzano anche la tendenza all’incremento di punti di snodo nell’espansione dell’urbanizzazione. Le nuove infrastrutture per i servizi telematici, quali telefoni cellulari e Internet, hanno punteggiato di antenne invasive il paesaggio dello sprawl, così come gli impianti fotovoltaici ed eolici, un tipo inedito di infrastruttura per la produzione di energia alternativa. Tutto ciò ha cambiato l’aspetto delle aree extraurbane, come quelle costiere della Danimarca e dei Paesi Bassi, che sono ormai disseminate di centinaia di pale eoliche. Nel Sud della Spagna, non lontano da Cordova, foreste di strutture simili ad alberi che sostengono pannelli fotovoltaici hanno creato un ibrido di natura e artefatto. Inoltre, colline artificiali di rifiuti crescono intorno alle più grandi città come moderne ziqqurat, alterandone la topografia.
Nel contesto neoliberale della globalizzazione, le infrastrutture vengono presentate come validi programmi d’investimento pubblico e, di solito, incontrano il favore della cittadinanza. Certamente, esistono molti progetti discutibili, come quello italiano per la costruzione del ponte sospeso più lungo del mondo sullo Stretto di Messina. Ma generalmente le nuove infrastrutture vengono presentate come frutto del lavoro di un gruppo di esperti, espressione della governance, e di conseguenza percepite come necessarie e vantaggiose. I programmi infrastrutturali contestati con successo, come, per es., è avvenuto nel 1959 con la protesta contro le rampe della sopraelevata sul lungomare di San Francisco, sono solo eccezioni.
Mentre la maggior parte dei cambiamenti infrastrutturali sono concepiti con criteri utilitari, la città di Barcellona ha messo in atto, negli ultimi due decenni del 20° sec., una strategia per mitigare l’impatto delle opere pubbliche: l’infrastruttura come arte. La costruzione costosa e dirompente d’infrastrutture è stata accompagnata da programmi sociali ed estetici. L’architetto Oriol Bohigas, nel suo ruolo di soprintendente ai servizi urbanistici, nei primi anni Ottanta ha catalizzato l’interesse dell’ambiente dei progettisti di Barcellona, semplicemente osservando che un piano urbanistico è valido nella misura in cui lo sono i singoli progetti che lo compongono. Tra il 1980 e il 1992 Bohigas ha dato impulso al processo di riqualificazione di Barcellona emarginando i vecchi burocrati delle strutture di pianificazione e sostituendoli con laureandi in architettura. Dal Cinturón (circonvallazione a scorrimento veloce) alle nuove stazioni della metropolitana, dalle piazze restaurate ai nuovi parchi, tutti gli interventi infrastrutturali sono stati concepiti come un’opportunità per creare opere d’arte, nuovi paesaggi e servizi sociali. Con ciò Bohigas ha inteso conferire una particolare identità a ogni quartiere di Barcellona o, secondo la sua espressione, «risanare il centro e monumentalizzare la periferia». Insieme con quelli tecnici e sociali, è soprattutto l’aspetto estetico dei progetti per Barcellona a essere stato dibattuto come tema di grande interesse in numerose mostre e pubblicazioni. Il Raval, uno dei quartieri più difficili del Barrio gótico, è stato parzialmente cancellato per far posto a una rambla che collega il nuovo complesso culturale intorno al Museu d’art contemporani de Barcelona (1995) di Richard Meier con il Centre de cultura contemporània de Barcelona (1990) progettato da Albert Viaplana & Helio Piñón. Altri siti che si trovano in quartieri più decentrati sono stati concepiti con opere scultoree di Eduardo Chillida, Richard Serra ed Ellsworth Kelly. Ogni intervento è stato in genere realizzato insieme con una nuova struttura di utilità sociale quale una scuola, una biblioteca, un centro sociale oppure un campo da gioco. Nell’arco di una generazione, l’intera città ha vissuto una riqualificazione sistematica grazie alla costruzione di nuovi parchi, ponti, piste ciclabili, piazze, panchine e scuole, culminata nello straordinario recupero di più di 10 km di costa con l’allestimento di una delle più belle spiagge urbane del mondo.
Bohigas ha assunto un gran numero di giovani architetti e, esercitando un’attiva funzione critica, ha promosso una ‘cultura del progetto’ rivolta sia ai professionisti sia ai clienti. Gli spazi creati intorno alle nuove infrastrutture hanno introdotto uno stile notevolmente innovativo per la città. Il nuovo Cinturón costituisce un esempio brillante di costruzione di un’infrastruttura come occasione per creare opere d’arte. Gran parte di questa strada è stata interrata, e molti degli spazi al di sopra di essa si sono resi liberi per ospitare parchi, biblioteche e centri polifunzionali. Al settore nord-occidentale del Cinturón, la Ronda de Dalt (1992), è stato conferito un aspetto scultoreo, e il percorso da La Trinitat a Vall d’Hebron è animato da affascinanti effetti cinetici. I muraglioni laterali salgono e scendono, a volte parzialmente coronati da aggetti ricurvi al di sopra dell’autostrada. In altri punti, la strada presenta dei sovrappassi interrotti da una serie di bucature irregolari che lasciano passare la luce naturale. In altri ancora il verde dei parchi che la strada attraversa a un livello inferiore, si affaccia sulla carreggiata. Passando si può scorgere il grande pergolato della via Julia; un centro civico polifunzionale con una biblioteca è abilmente ‘accatastato’ sul cavalcavia della via Favència (Marciá Codinachs & Mercé Nadal, 1992); la rotatoria della plaza Karl Marx si trova armoniosamente sospesa sopra l’autostrada. Ai margini settentrionali della città, nel mezzo di uno dei più vasti snodi stradali, è stato inserito il Parc de la Trinitat (1993), progettato da Enric Batlle e Joan Roig, che dà accesso alle strade di superficie della zona e a una stazione della metropolitana. Utilizzando gli spazi creati dalle stesse curve delle autostrade sopraelevate che lo incorniciano, il parco contiene un laghetto, campi da tennis, parchi-gioco e un frutteto. In maniera altrettanto sorprendente si è integrato con la circonvallazione il parco costiero di Poblenou (1992), opera di Manuel Ruisánchez e Xavier Vendrell, splendida copertura di diversi chilometri di autostrada tra la Villa olimpica e il nuovo quartiere di Diagonal Mar. Esso costituisce un polmone verde tra una zona densamente abitata e la spiaggia. Il paesaggio è disseminato di detriti marittimi ossidati e la resa scultorea dei condotti per la ventilazione dell’autostrada sottostante a tratti apre alla vista squarci pittoreschi sul traffico. Il modello di Barcellona prova che programmi sociali ed estetici possono essere perfettamente associati alle funzioni utilitarie delle opere pubbliche: un’idea secondo cui l’infrastruttura è in grado di arricchire la vita e l’immaginario della città (cfr. Alberti 2008).
Le infrastrutture in quanto soluzione funzionale dei pressanti problemi della mobilità causano inevitabilmente danni sociali e ambientali. Concepirle come opere d’arte può però rappresentare un metodo per stemperare la violenza del loro impatto sul sistema urbano. Le opere realizzate a Barcellona alla fine del 20° sec. offrono un esempio di come l’infrastruttura possa contribuire alla formazione della coscienza civica. Altro esempio, ma di molto precedente, è il Freeway park progettato a Seattle da Lawrence Halprin nel 1976. Nel punto in cui scendono in città, le quattro rampe di uscita dall’autostrada interstatale passano sotto un parco, costruito con lo stesso cemento armato dell’autostrada, in cui si trovano profondi invasi che contengono alte sequoie e fresche cascate zampillanti. L’acqua e gli alberi neutralizzano il rumore e le esalazioni del traffico. Alla base di una delle fontane, un oblò permette di osservare il traffico sottostante. Sebbene il progetto di Halprin presenti alcuni gravi inconvenienti (troppi angoli scuri e una circolazione eccessivamente complessa), esso costituisce un esempio straordinario di come limitare il violento impatto delle autostrade in città. Trent’anni dopo, a Seattle è sorto un altro parco sospeso, l’Olympic sculpture park (2006), opera di Marion Weiss e Michael Manfredi, che si sviluppa a zig-zag al di sopra di strade e rotaie, e costituisce un pendant dalla parte opposta della città. Qui l’arte (le sculture di Serra, Alexander Calder, Claes Oldenberg e altri) è stata inserita nell’infrastruttura, mentre il paesaggio è stato organizzato in maniera artistica. Il traffico è molto più scorrevole che nell’opera di Halprin, aumentando così la sicurezza.
Una realizzazione più diretta d’infrastruttura come arte si trova nel programma di allestimento di alcune stazioni della metropolitana di Napoli attuato tra il 2001 e il 2003. Il critico d’arte Achille Bonito Oliva ha scelto un folto gruppo di artisti e decoratori per aggiungere all’infrastruttura opere colorate. La fermata Salvator Rosa, progettata dall’Atelier Mendini (2001), riluce d’immagini e colori contrastanti: un obelisco blu in equilibrio su un pozzo di luce piramidale, mosaici arabescati, smisurati vasi da fiori, geroglifici criptici, sprazzi di sole e un Pulcinella di bronzo. Le decorazioni sono populistiche, eclettiche e disarmoniche; ciò nonostante sembrano corrispondere perfettamente all’esuberante spirito napoletano. Ne è prova il fatto che, in una città ricoperta di graffiti, a pochi anni dall’inaugurazione della stazione i segni di vandalismo sono pochissimi. Probabilmente la difesa migliore contro i graffiti è stato proprio l’aver decorato le stazioni della metropolitana così come l’avrebbero fatto i graffiti artists.
Resta il fatto che la maggior parte delle opere infrastrutturali del mondo viene progettata senza tener conto degli aspetti artistici, sia per quel che riguarda la struttura sia per quel che riguarda la decorazione. A prescindere dall’impostazione estetica che può andare dal postmoderno di Napoli all’astrattismo di Barcellona, la concezione di infrastruttura come arte impone l’idea che ogni luogo ha un suo significato, mentre la logica utilitaria condanna l’infrastruttura alla sola funzione. La vita urbana verrebbe invece enormemente arricchita con l’attribuzione alle opere pubbliche di ulteriori funzioni come lo svago e la vita sociale. L’infrastruttura come arte preannuncia un approccio alla mobilità che considera varie modalità di spostamento e diverse velocità di esistenza individuale. Se in futuro le automobili dovessero per qualche ragione scomparire, o se, come è più probabile, ne aumentasse fortemente l’utilizzo, le indispensabili opere infrastrutturali che soddisfano obiettivi sia artistici sia sociali resterebbero come autentico contributo civile di lunga durata.
La riqualificazione dei brownfields
L’urbanizzazione e le sue pertinenze infrastrutturali, proliferando, lasciano dietro di loro vuoti desolati. Tra i più problematici sono i siti abbandonati in seguito alla riorganizzazione delle industrie iniziata negli anni Settanta, che vengono chiamati brownfields. Il sistema finanziario internazionale sempre più flessibile, le nuove tecniche di produzione e la rincorsa allo sfruttamento di manodopera a basso costo nei Paesi del Terzo mondo hanno comportato l’abbandono di vaste zone industriali e l’avvento dell’era postindustriale. Intere aree di alcune città, come, per es., gran parte del centro di Detroit, si sono trasformate in città-fantasma. Dove invece lo spazio urbano viene preso in considerazione nel suo complesso, come a Rotterdam o a Lione, le zone ex industriali e quelle limitrofe offrono ottime possibilità per ridefinire l’identità cittadina.
Molti dei primi siti a essere rinnovati si trovano in zone portuali, come i Docklands di Londra, che sono stati lottizzati nel corso degli anni Ottanta. Il Canary Wharf, un tempo occupato da magazzini e cantieri navali, si è trasformato in un centro di servizi con alberghi e uffici, mentre altre parti dei Docklands sono state ristrutturate per ospitare lofts e appartamenti. Una nuova linea tranviaria collega il quartiere alla rete metropolitana. I Docklands rientrano in quella dozzina di aree dismesse e dichiarate enterprise zones, zone per le quali la Gran Bretagna ha concesso significativi incentivi fiscali e limitati controlli, al fine di incoraggiare investimenti economici. Oggi vi sono situati alcuni tra gli edifici più alti costruiti su un’isola in Europa. Nonostante il suo aspetto cittadino, Canary Wharf è un’enclave privilegiata completamente isolata dal resto della città.
Riqualificazioni del genere sono state intraprese anche in aree dismesse del porto di Amburgo e in quello di Rotterdam. Il quartiere Kop van Zuid di Rotterdam, progettato a partire dai primi anni Novanta da Koolhaas, presenta una maggiore varietà di funzioni ed esprime una visione architettonica più armoniosa, il che è in parte dovuto alla tradizione olandese di pianificazione, che è sempre stata basata su un forte sentimento collettivo. Mentre alcune restrizioni relative all’altezza e al volume non sono state fissate rigidamente, la realizzazione dei singoli progetti si è conformata ai principi estetici degli autori del piano generale. È stata privilegiata la teoria De Stijl dei progetti a sé stanti, di cui sono espressione il Luxor Theater (2001) di Bolles + Wilson e la KPN Telecom Office Tower (2000) di Renzo Piano, che sorgono di fronte all’Erasmus Bridge (1996) che ricorda un’arpa ed è il contributo artistico di UN Studio alle infrastrutture della città. A differenza di Canary Wharf che è rimasto un’enclave puramente commerciale, Kop van Zuid è diventato una delle parti più vitali di Rotterdam grazie alla compresenza di attività commerciali, educative e di svago, così come di alloggi di diverse tipologie.
Ai Docklands e al quartiere Kop van Zuid hanno lavorato diversi architetti famosi, esprimendo ognuno il suo stile nel proprio progetto. Uno dei pochi grandi complessi di riqualificazione che non hanno seguito questa tendenza all’assemblaggio eclettico di stili diversi è stato quello della Bicocca a Milano, con una superficie (960.000 m2) non lontana da quella di Canary Wharf o della Villa olimpica di Barcellona. La Bicocca è un’opera unica, in quanto sia il piano generale sia tutti gli edifici, salvo uno, sono stati affidati a un unico studio, quello dell’architetto Vittorio Gregotti vincitore del relativo concorso nel 1988. Tra il 1900 e metà degli anni Settanta, i venti isolati della zona hanno ospitato gli impianti di produzione e la sede centrale dell’azienda di pneumatici Pirelli. Con lo sviluppo della città, il sito che una volta si trovava in periferia, oggi, un secolo dopo, può essere considerato una nuova centralità. A seguito di un periodo di ristrutturazione postindustriale, la società Pirelli ha cercato nuove soluzioni per i suoi insediamenti. Il programma per la Bicocca è stato sviluppato e gestito per intero dalla Pirelli che, con la sua nuova affiliata Pirelli RE, nell’arco di un decennio è divenuta il più grande promotore di sviluppo e il più importante proprietario di aree fabbricabili in Italia. Ispirandosi a vari distretti tecnologici del genere Silicon Valley di altri Paesi, la società ha destinato la maggior parte degli spazi a centri di ricerca, in parte pubblici come il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), in parte privati come quello della società elettrica Siemens o della stessa Pirelli, e ha inoltre fornito una sede ad alcune facoltà dell’università di Milano. Circa un terzo dei nuovi edifici ospita alloggi a basso costo e appartamenti di medio livello, mentre il 10% è occupato da uffici e locali commerciali. Il problema del parcheggio è stato affrontato con grande attenzione, e risolto dotando ogni edificio di un ampio spazio sotterraneo per più di 1500 veicoli. La Bicocca è circondata da parchi pubblici che le conferiscono l’identità ben definita di un quartiere distinto all’interno della metropoli. La densa e intricata enclave un tempo popolata ogni giorno da 35.000 operai, oggi ospita 60.000 persone tra residenti e pendolari. La sede della Deutsche Bank che è stata costruita nel periodo compreso tra il 1997 e il 2005 su progetto di Gino Valle, è il solo edificio realizzato da un architetto estraneo allo studio Gregotti.
La concezione urbanistica di Gregotti privilegia gli isolati perimetrali come base semantica per la creazione di un buon reticolo di strade perfettamente integrato nella città. Al tempo stesso insiste su spazi aperti al centro degli isolati per dare l’impressione di una minore densità e di una maggiore facilità di accesso ai servizi. Una serie di piazze interne attrezzate collega i dieci isolati mediante un apposito percorso pedonale. Per agevolare l’orientamento, gli edifici seguono un codice di colori: gli uffici e i centri di ricerca sono grigi e bianchi, i due blocchi dell’università sono rosso mattone, mentre le abitazioni vanno dall’ocra al giallo. Nessuno dei nuovi edifici della Bicocca prevale sugli altri in termini di monumentalità, salvo due che hanno potuto superare gli otto piani regolamentari: la nuova sede degli uffici direzionali della Pirelli RE (2004), collocata in un edificio cubico che circonda a mo’ di ponteggio la vecchia torre di raffreddamento, e le due torri gemelle del progetto di cooperazione abitativa (2002), la cui mole adiacente alla linea ferroviaria costituisce un formidabile varco d’accesso per coloro che entrano in città da nord. L’architettura di Gregotti si avvale di un insieme di particolari riproposti in tutto il quartiere: profonde grondaie delimitate da mazzette scure, griglie di travi a doppio T che segnano ingressi e cornici, frangisole a forma di T su finestre quadrate, bow windows di due o tre piani sostenuti da una singola mensola d’acciaio, divisori di balconi in vetro opaco e l’abituale reticolo delle costruzioni in pannelli di cemento. Una simmetria rigidamente bilaterale e la composizione modulare ricorrono ovunque, mentre ogni edificio è connotato da un particolare impianto volumetrico e da una giustapposizione di piani diversa.
L’aspetto generale della Bicocca richiama la concezione iperazionalista della Grossstadt o metropoli moderna di Otto Wagner (1841-1918), una città che può estendersi all’infinito, composta da edifici anonimi e uniformi serviti da un buon sistema di trasporti e infrastrutture, e dotata a intervalli regolari di ‘sacche d’aria’, ovvero ampie spianate coreografiche che le permettono di respirare. Il riferimento a Wagner è ancora più evidente se si osservano alcuni particolari della facoltà di Scienze, dove le giunture sono state coperte con piccole piastre cromate in omaggio alle borchie di ottone che sostengono il rivestimento di marmo della Postparkasse (1906) di Vienna. L’ampiezza degli spazi urbani e la duttilità della costruzione a pannelli modulari in questo imponente complesso edilizio promettono adeguate risposte alle crescenti esigenze della vita quotidiana, che compenseranno alcune attuali inadeguatezze, come, per es., la mancanza di negozi sulle strade. Gregotti ha dato spazio alle conquiste della modernità – trasporti rapidi e grandi parcheggi, trasparenza architettonica e aree verdi – pur potenziando la continuità culturale tra la metropoli e il nuovo quartiere.
I grandi insediamenti di blocchi come la Bicocca costituiscono un’eccezione. Infatti quasi tutte le grandi città sono disseminate di piccoli spazi delle dimensioni di uno o due isolati. Utilizzando un metodo estremamente creativo, i progettisti di Barcellona sono riusciti a riordinare l’interno del grande quartiere 22@, che in passato è stato il centro industriale della città. Il progetto ideato alla fine degli anni Novanta da Josep Acebillo e dall’economista Joan Trullén mirava a convertire un sito industriale in degrado nella parte nord della città, in passato classificato come ‘zona di categoria 22a’, in una sede adatta alla dislocazione di tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La denominazione 22@ è uno stratagemma di marketing per attrarre società con impianti tecnologici in stile Silicon Valley, ma probabilmente non sopravvivrà nella toponomastica di un’area che comprende 107 degli isolati ottagonali dei due quartieri operai Poblenou e Sant Martí della Barcellona ottocentesca, e che occupa una superficie grande due volte quella del centro storico. Il 22@ è stato rivitalizzato grazie al completamento del nuovo tratto dell’Avinguda Diagonal, che termina di fronte al nuovo centro congressuale Forum 2004. Il progetto 22@ è stato realizzato in varie fasi nel corso di dieci anni, integrando strutture industriali riqualificate e nuovi edifici, e garantendo un mix di funzioni produttive, educative e abitative. La costruzione del 22@ è stata lenta e accurata, per evitare inutili demolizioni e per conservare l’aspetto urbano degli isolati preesistenti, comprese le curiose ripartizioni interne che spesso ricalcano l’andamento del sistema di canalizzazione rurale precedente il piano urbanistico Cerdá del 1860. La commissione per il monitoraggio degli standard architettonici non ha incoraggiato in alcun modo la creazione di opere d’arte, mentre ha incentivato la complementarità tra posti di lavoro, zone abitative, aree sportive e luoghi di studio. L’unico edificio veramente monumentale è la torre Agbar (2005) di Jean Nouvel, un lingam policromo di quaranta piani, ricoperto da scintillanti vetrate, che funge da faro e icona, e può essere visto da quasi ogni punto della zona, ma che in origine non rientrava nel progetto 22@.
Ciò che differenzia quello di Barcellona dalla maggior parte dei modelli di riqualificazione postindustriali è l’impegno a mantenere anche solo parzialmente la proprietà pubblica. Nel caso del 22@, il piano prevede una serie di incentivi che permetteranno ai costruttori di incrementare la densità dei loro progetti e dunque dei loro profitti, se dedicheranno il 20% degli spazi ad attività legate all’informazione, se parteciperanno all’allestimento di nuove infrastrutture, se realizzeranno abitazioni convenzionate e se, infine, cederanno il 10% del terreno alla proprietà pubblica. La nuova infrastruttura comprende 50 km di piste ciclabili, 35 km di strade ricostruite, collegamenti a collettori pneumatici di rifiuti, un condotto sotterraneo di cavi in fibra ottica utilizzato anche per il riscaldamento e il condizionamento d’aria, che provengono da un impianto centrale. L’acqua eccedente verrà riciclata come non potabile. Il parcheggio sarà limitato, per scoraggiare l’uso dell’automobile. Queste caratteristiche rendono il 22@ uno dei centri urbani più avanzati e sostenibili in Europa. I lotti in vendita ai privati possono essere di due, uno o anche solo mezzo isolato, per proporre la più ampia varietà di metrature e la massima possibilità di suddivisione degli spazi interni del fabbricato. L’agile concezione del 22@ ha consentito una trasformazione interessante dell’area che, sebbene sia divenuta signorile, garantisce con le sue possibili combinazioni di dimensioni e uso dei locali e con l’impegno a conservare spazi pubblici, lo sviluppo di un ambiente eterogeneo, in cui sta sorgendo un nuovo centro produttivo grazie alla sinergia creativa di ambiziose aziende tecnologiche, piccoli studi installati in lofts urbani, studenti universitari e delle scuole professionali, e la classe operaia superstite di alcune industrie ancora presenti nel quartiere. Questa seconda fase della ripianificazione di Barcellona testimonia dell’aspirazione a concepire il territorio urbano come un tutto unico, ma al contempo a incoraggiare le realtà locali a dotarsi di un vitale mix di funzioni diverse.
Il problema ecologico
L’attuale situazione ambientale, a dispetto di tutte le indicazioni di crescente benessere, è francamente spaventosa. Le valutazioni della catastrofe ecologica hanno superato tutte le previsioni, e lasciano scarse speranze e poco tempo per ricorrere a correttivi. L’effetto serra globale, lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai alpini, l’innalzamento delle temperature e del livello degli oceani, lo squilibrio dell’ecosistema, i violenti cambiamenti climatici sono da ricondurre a cause antropogeniche. Anche il declino della biodiversità è evidente: nel corso degli ultimi cinquant’anni si è estinto dal 30 al 50% delle specie animali. A causa delle guerre, del terrorismo, della fame e del degrado ambientale, alcuni studiosi sono propensi a includere tra le specie a rischio anche Homo sapiens (Rees 2003).
Considerato che l’estensione orizzontale dello sprawl dipende sempre di più dai combustibili fossili, la questione ambientale risulta strettamente legata a quella urbanistica. Lo sviluppo urbano, il maggior produttore di gas serra, sembra essere il fattore critico della crisi planetaria. Il primo documento sul patrimonio ambientale a livello mondiale elaborato per le Nazioni Unite è stato presentato a Stoccolma nel 1972. Ma solo nel 1987, con gli accordi di Montréal, è stato lanciato un programma d’azione internazionale che ha portato all’eliminazione del rilascio dei clorofluorocarburi, e che si è posto anche l’obiettivo, in realtà poco realistico, di ridurre l’emissione dei gas serra del 50% nell’arco dei dieci anni successivi. A conclusione dell’incontro di Rio de Janeiro del 1992 sono state emanate, con l’Agenda 21, direttive per lo sviluppo sostenibile per i governi locali. Il Protocollo di Kyoto del 1997 sulla riduzione dell’8% dei gas rispetto ai livelli del 1990 è stato ratificato prima del 2005 da 169 Paesi, tra cui tutta l’Unione Europea e la Russia. Gli Stati Uniti, maggiori responsabili dell’inquinamento mondiale, ancora oggi non hanno aderito al documento, rendendo così gli effetti del trattato una questione di applicazione volontaria. A dispetto della politica federale, alcune città come Seattle, e ora anche lo Stato della California, hanno deciso di aderire al patto di Kyoto. I buoni propositi di Kyoto, però, sono destinati a rimanere semplici palliativi in assenza di un impegno concertato per coordinare le iniziative locali e quelle internazionali.
Qualche studioso di fronte alla crisi ambientale consiglia il ripristino di pratiche di tempi apparentemente meno complessi. L’architetto Léon Krier, per es., propone il ritorno alle dimensioni e al modello della città preindustriale. Tuttavia ciò appare piuttosto irragionevole, giacché la mitica autarchia del passato è in forte contraddizione con l’odierno stile di vita e di lavoro sempre più disperso e interdipendente. Un cambiamento della conformazione urbana non conduce necessariamente a un cambiamento nello stile di vita. Gli abitanti di Poundbury (città modello nel Dorchester, progettata da Krier nella seconda metà degli anni Ottanta e finanziata dal principe del Galles) lavorano in luoghi distanti come Londra per poter pagare i loro cottages in stile preindustriale, e continuano a fare acquisti negli ipermercati dello sprawl. Sebbene la realizzazione di Poundbury sembri aver arrestato lo sprawl, da un punto di vista economico i suoi abitanti restano inevitabilmente intrappolati nella realtà metropolitana. È infatti molto più difficile tornare indietro che avanzare.
Duecento anni fa il mondo, a eccezione delle grandi città, era per lo più strutturato in un sistema ecologicamente equilibrato di villaggi rurali. Allo stesso tempo il consumismo imposto dalle imprese multinazionali è talmente adeguato alla vita moderna da scoraggiare un ritorno alla difficile esistenza dell’agricoltore. Se anche fosse possibile permeare il sistema consumistico di criteri ecologici mediante prodotti biologici e ottimistiche campagne per il riciclaggio, il consumismo è comunque così diffuso e radicato da rendere ininfluente qualsiasi meccanismo di riforma. Attualmente il consumo pro capite degli statunitensi è il doppio rispetto a quello degli europei. La quantità di terreno necessaria per la produzione di risorse e per la raccolta di rifiuti, ovvero la cosiddetta impronta ecologica, per ogni americano è stimata in 5,2 ha, contro i 3 di un europeo medio e lo 0,38 di ogni indiano. Negli Stati Uniti risiede il 6% della popolazione mondiale che, com’è noto, da trent’anni consuma più del 30% delle risorse del pianeta. Se tutti vivessero come gli americani, il mondo avrebbe bisogno di una quantità quintupla di terreno per soddisfare le proprie necessità. Il sistema del consumismo dovrà quindi essere smantellato in maniera creativa prendendo esempio dalla linea d’attacco dello slow food contro il fast food.
Nel 19° sec. F. Engels predisse che ‘la questione delle abitazioni’ sarebbe divenuta centrale nella lotta di classe. Oggi ci si può aspettare che sia la ‘questione ecologica’ ad assumere questo ruolo nel quadro politico del futuro. Come sostiene Amory Lovins, più la situazione ecologica peggiora, più le risorse rinnovabili e la qualità dell’ambiente verranno considerate ‘capitale naturale’ (P. Hawken, A. Lovins, L. Hunter Lovins, Natural capitalism. Creating the next indus-trial revolution, 1999; trad. it. 2001). Pertanto, per la salvaguardia di questo capitale, nel futuro prossimo la politica e l’economia dovranno necessariamente: a) riconoscere i vantaggi economici del risparmio di materie ed energie e aumentare la ‘produttività delle risorse’; b) considerare le industrie mediante un paradigma biologico, o biomimesi, come se si trattasse di organismi naturali; c) ritenere i beni di consumo un servizio e non una proprietà privata; d) investire in fonti di energia rinnovabili.
Le Corbusier (1887-1965) descrive nel suo libro La ville radieuse (1935), più volte ripubblicato, un modello urbano, che in alcuni disegni chiama anche ville verte, in cui le unità abitative sono concentrate in alte strutture per lasciare alla natura la maggior parte del terreno. Abbandonata la tradizione delle strade-corridoio e degli schemi urbani ad alta densità, la città potrebbe avere giardini ovunque. Oggi, dopo varie attuazioni del modello di Le Corbusier, è difficile affermare che esso abbia fornito una soluzione ecologicamente corretta, tenuto conto dei pregiudizi stilistici e dell’epiteto di desolate ‘torri nel parco’ con cui l’opinione pubblica ha stigmatizzato le costruzioni del Movimento moderno. Bisogna però ammettere che rispetto alle tipologie a bassa densità che si espandono incontrollate sul territorio, la concentrazione verticale delle funzioni urbane è potenzialmente più efficiente nella distribuzione dei servizi e più rispettosa della natura. Tuttavia, storicamente la ville radieuse ha comportato sia una scarsa organizzazione del paesaggio tra i vari edifici, quasi sempre causata dalla necessità di infrastrutture per le automobili, sia la mancanza di spazi urbani destinati alla vita sociale.
Altro importante teorico è Frank Lloyd Wright (1867-1959), uno dei pionieri dell’ambientalismo, il quale ha elaborato la cosiddetta architettura organica, intendendo con essa l’integrazione tra edificio e natura. La sua opera più famosa, detta Fallingwater (Kaufmann House, 1937), è situata sulla cima di una cascata nella campagna della Pennsylvania e rimane, pur non essendone stata dimostrata l’efficienza ecologica, l’emblema della fusione di architettura e natura. L’opera di Wright più efficiente in termini di sostenibilità è la seconda Jacobs House (Wisconsin, 1944), un edificio in forma di emiciclo solare, affacciato con le sue vetrate verso sud e ancorato sul lato nord a un gradino erboso che contiene un collettore termico, per un efficace riscaldamento solare passivo.
Wright, al pari di Le Corbusier, concepisce come città ideale la ‘città che scompare’, destinata a espandersi in tutta l’America senza organizzarsi in concentrazioni urbane. Broadacre city (1935) è composta essenzialmente da case unifamiliari come la Jacobs House, note con il nome generico di case usoniane, a ognuna delle quali viene assegnato mezzo acro di terra destinato a frutteto o giardino. Broadacre city è probabilmente la prima visione estetica di ciò che sarebbe diventato lo sprawl americano. In questo modello di deurbanizzazione, il moltiplicarsi di autostrade e trasporti ad alta tecnologia, l’uso massiccio di automobili e di veicoli aerei, consentirebbe alla città di scomparire nel verde della natura. L’idea individualistica di Wright, secondo cui ogni casa potrebbe essere autonoma e autosufficiente, si contrappone nettamente alla concezione collettivistica, costituita da appartamenti, proposta da Le Corbusier. Broadacre city, pur restando in teoria più vicina alla natura, preconizza lo sprawl con la sua marcata inefficienza nella distribuzione dei servizi e l’enorme necessità di risorse.
Il movimento ambientalista è comparso nella vita politica degli Stati Uniti durante i burrascosi anni Sessanta. Le prime leggi per la difesa delle specie in via d’estinzione sono state approvate nel 1966. I primi programmi di riciclaggio e rimboschimento sono stati realizzati su larga scala dopo il successo del primo Earth day (1970). A seguito della crisi petrolifera del 1973, molti Paesi industrializzati hanno emanato leggi sull’efficienza termica che hanno avuto un notevole impatto sul consumo energetico. Tutti i partiti politici hanno preso a utilizzare la retorica ‘verde’ nel dibattito sulle politiche ambientali. Le posizioni ‘ecologicamente corrette’, tuttavia, possono contribuire solo parzialmente ad affrontare i problemi legati allo squilibrio ecologico. Il vero problema è come affrontare l’urbanizzazione. A cosa serve risparmiare l’energia in un edificio ecologicamente sostenibile se i suoi abitanti sono poi costretti a utilizzare l’automobile in media nove volte al giorno? Ristrutturare il sistema urbano seguendo i criteri del bioregionalismo stabiliti dall’urbanista Patrick Geddes negli anni Venti significa determinare un’appropriata proporzione tra persone e risorse su un territorio geografico considerato come un ecosistema (Welter 2002). Nello stato di natura, le risorse si conservano piuttosto che essere consumate: l’organismo, infatti, si adatta all’ambiente piuttosto che resistergli o tentare di cambiarlo. Secondo la logica del bioregionalismo, l’urbanizzazione dovrebbe seguire la logica dell’ordine naturale.
Lo sforzo più duraturo per applicare il bioregionalismo all’urbanizzazione è stato attuato dal Garden city movement di Ebenezer Howard, un contemporaneo di Geddes. Il suo libro Tomorrow. A peaceful path to real reform, pubblicato nel 1898, incontrò il favore di molti, e ancora oggi costituisce la base teorica della maggior parte delle alternative ‘verdi’ di pianificazione urbana. Howard e i suoi soci Raymond Unwin e Barry Parker fondarono la prima Garden city nel 1903 a Letchworth, per dimostrare come fosse possibile contenere il problema dell’espansione a macchia d’olio della città di Londra. Le città-giardino erano organizzate come insediamenti polinucleari al fine di non concentrare tutta la pressione su un solo centro: le loro dimensioni erano predeterminate; venivano ingentilite con parchi e giardini che costituivano la principale attrazione per i nuovi abitanti; ed erano state progettate per interagire con altre città satellite. Lo spazio lasciato libero tra i diversi satelliti avrebbe mantenuto per sempre la sua funzione di ‘cintura verde’. Nel 1946, in Inghilterra il New towns act ha ripreso il sistema polinucleare a satelliti di Howard per la ricostruzione del dopoguerra. Secondo la concezione di Howard della ‘città sociale’, sono stati fondati otto nuovi centri urbani situati a una distanza di 32/56 km dal centro di Londra, che, anche se solo in parte, preservano gli spazi verdi che li separano (P.G. Hall, C. Ward, Sociable cities. The legacy of Ebenezer Howard, 1998). In qualche misura essi hanno effettivamente alleviato la pressione sul centro della capitale, ma sono stati raggiunti da altre forme di sprawl provenienti dalle zone limitrofe.
La realizzazione della città-giardino ideale su scala regionale è in generale contrastata da interessi politici ed economici. Molti altri insediamenti di questo tipo, come Radburn (1929) nel New Jersey, sono stati assorbiti dall’inesorabile tessuto suburbano che ne ha compromesso i principi fondanti. In un contesto neoliberale, la speranza di conseguire un’urbanizzazione sostenibile è di fatto affidata a iniziative locali e al volontarismo. Un buon esempio di come sfruttare un lotto non troppo esteso è costituito dal BedZED (Beddington Zero Emission Development), un isolato ai confini sudoccidentali di Londra, costruito nel 2002 su progetto dello studio Bill Dunster recuperando aree industriali dismesse (brownfields). Le 100 unità abitative e i 40 spazi per studi professionali, disposti in file compatte, sono, da un punto di vista energetico, resi pressoché autosufficienti da una combinazione di buon isolamento, orientamento rispetto al sole, finestre con vetri tripli, caldaie alimentate da biomassa, condotti per la ventilazione e tetti erbosi coltivati con acqua piovana riciclata. I residenti possono usufruire di un servizio di car sharing che offre una dozzina di automobili elettriche parcheggiate nel garage del complesso e alimentate da pannelli fotovoltaici. Tutti i materiali utilizzati per la costruzione del BedZED provengono da distanze non superiori ai 35 km, il che ha ridotto notevolmente i costi di trasporto e di energia per la realizzazione dell’opera. BedZED ha dimezzato l’impronta ecologica individuale (v. su questo argomento Buchanan 2005). Nel caso in cui si potessero riprodurre i vantaggi di questo isolato su scala metropolitana, vi sarebbe la possibilità di creare la città sostenibile.
Recentemente la città-giardino è stata ripresa a modello dal movimento del new urbanism di Andrés Duany, Elizabeth Plater-Zyberk e Jeff Speck i quali hanno rivolto particolare attenzione alle condizioni dei sobborghi statunitensi e hanno elaborato metodi per preservare gli spazi aperti e riorganizzare lo sviluppo urbano mediante una serie di norme per ottenere un mix di funzioni e un disegno urbano di facciate e strade armonicamente coordinate (2000). I loro colleghi Peter Calthorpe e Douglas Kelbaugh hanno posto l’accento sui ‘centri di trasporti’: luoghi dei sobborghi, facilmente raggiungibili in dieci minuti a piedi, che offrono un ottimo collegamento al sistema di mez-zi pubblici. Ripensare lo sprawl come una rete di ‘sacche pedonali’ che gravitano ognuna su un centro di trasporti ridurrebbe significativamente la dipenden-za dalle automobili e creerebbe nuovi poli di densità urbana, come nella ‘città sociale’ polinucleare di Howard. Negli anni Novanta la regione metropolita-na di Portland, nell’Oregon, ha istituito una serie di centri di trasporto lungo la rete tranviaria appena rinnovata, dimostrando gli effetti positivi di questo tipo di pianificazione. Alcuni di questi centri sono una sorta di nuovi ‘luoghi di centralità’, dove si possono lasciare le auto e accedere ad altri mezzi di trasporto. Ciò ha fornito alla città una mobilità alternativa e soprattutto la possibilità di andare a piedi (Calthorpe 1993).
La grande città brasiliana di Curitiba, con una popolazione di un milione e seicentomila abitanti, rappresenta dal 1965 un modello di sostenibilità integrata unico al mondo. La rete stradale è stata riorganizzata in cinque arterie preferenziali per il trasporto pubblico che impiega autobus con la stessa efficienza della metropolitana per una media di 1,3 milioni di viaggiatori al giorno. Queste arterie sono punteggiate da una serie di centri di trasporto e collegate alle strutture pubbliche da una rete di percorsi pedonali.
Rinnovare il trasporto alternativo all’automobile privata è senza dubbio la più urgente priorità in un programma di riforma del territorio urbano che abbia per obiettivo la sostenibilità. A Friburgo, città della Germania meridionale, per costituire una ‘regione solare’ si è provveduto a coordinare un nuovo piano di utilizzazione delle fonti rinnovabili di energia con un buon sistema di trasporto di massa e piste ciclabili. Fin dalla fine degli anni Ottanta la città e la regione hanno promosso la produzione e l’installazione d’impianti fotovoltaici, che hanno ridotto del 25% l’emissione di gas nell’area. Sono nate così più di 450 imprese per la produzione di energia alternativa e sono stati montati più di 30.000 m2 di pannelli fotovoltaici. Per promuovere l’idea della ‘regione solare’, la città ha sponsorizzato la costruzione vicino alla stazione ferroviaria di un grattacielo rivestito su un lato di pannelli solari; nelle adiacenze sorge un edificio circolare di tre piani il cui tetto è coperto anch’esso da pannelli solari, in cui è situato un parcheggio-noleggio di biciclette che contribuisce notevolmente a facilitare l’accessibilità alla vasta rete cittadina di piste ciclabili. Attualmente un terzo degli spostamenti a Friburgo viene effettuato con la bicicletta. La città è riuscita in tal modo a creare un nuovo modello coerente con i precetti del ‘capitalismo naturale’ di Lovins.
Un altro progetto importante per quel che riguarda le fonti energetiche rinnovabili consiste nell’installazione di aerogeneratori eolici, che dopo due generazioni presentano un incremento del 250% nel rapporto costi-benefici. La prima importante wind farm, con più di 200 pale eoliche, fu costruita ad Altmont Pass in California durante la crisi energetica dei primi anni Settanta. Oggi a produrre circa la metà delle pale eoliche fabbricate nel mondo è la Danimarca, che ha così raggiunto il primato nella produzione e installazione di tali impianti. Il 20% del fabbisogno energetico nazionale è coperto con questa tecnologia. Per quanto sovvenzionate dal governo, le imprese produttrici di energia sono cooperative o aziende private, e sono molto competitive. La Middelgrunden wind farm, situata a tre miglia dalla costa di fronte a Copenaghen, è stata inaugurata nel 2001 e ha l’aspetto di una misteriosa scogliera di torri alate alte 200 piedi. Anche nelle campagne della Navarra, nel Nord della Spagna, sono state installate centinaia di pale eoliche per ottenere in futuro una totale autonomia energetica. L’inquinamento acustico che producono impone che gli aerogeneratori vengano installati lontano dagli insediamenti urbani, ma comunque in zone altamente ventilate. Le scintillanti torri degli impianti eolici situate sulle colline che circondano città come Pamplona costituiscono una formidabile recinzione e rappresentano un nuovo limite all’espansione della città stessa.
Mentre la crescita urbana erode sempre più le aree coltivate, aumenta per ragioni sia culturali sia ecologiche l’importanza di preservare le funzioni dell’agricoltura. Alcune città europee considerano ormai l’area urbana anche come parco agricolo. Negli anni Novanta, Milano ha istituito il Parco agricolo sud, un’entità che comprende sessanta Comuni. Pur non essendo dotato di capacità normativa, il parco ha fissato criteri importanti per la salvaguardia delle caratteristiche idriche ed ecologiche della regione. L’architetto Carlo Masera e l’associazione Italia Nostra hanno allestito all’interno di questo immenso territorio due settori modello, Bosco in città e Parco delle cave, che sono contigui e occupano complessivamente 250 ha di terreno semiagricolo che negli ultimi venticinque anni è stato tutelato scrupolosamente. Oggi vi sono un cantiere forestale per la raccolta di biomassa, duecento frutteti pubblici assegnati a singoli coltivatori, cinque laghi per la pesca, oltre a diversi campi di grano nei quali sono ricomparse specie autoctone di fiori selvatici. Tutto ciò a pochi passi da una stazione della metropolitana. Seguendo l’esempio di Milano, la provincia di Barcellona ha progettato un immenso parco agricolo che costituirà una cintura verde intorno alla città. Pamplona ha realizzato negli ultimi vent’anni una serie di parchi alternati a insediamenti agricoli ordinati in una fascia verde lungo il fiume che bagna la città. Alcune grandi città come Chicago offrono incentivi fiscali per la conversione dei tetti in aree verdi. La soluzione del problema ecologico non può essere univoca. Situazioni diverse esigono interventi differenti, ma in ogni caso l’obiettivo deve essere la riduzione dell’uso delle risorse inquinanti non rinnovabili, dalle quali ancor oggi dipendono la vita quotidiana e i mezzi di trasporto degli abitanti delle città.
Conclusioni
L’idea della pianificazione cittadina è stata screditata durante gli anni Sessanta e Settanta dal clamoroso fallimento di programmi statunitensi di rinnovamento urbanistico e di nuove città europee. Il Lincoln Center a New York e La Défense a Parigi sono il frutto costoso e inizialmente impopolare di programmi di pianificazione pubblica. Nei decenni successivi la pianificazione è diventata di competenza dei manager piuttosto che degli architetti, e in generale i progettisti hanno una preparazione più economica che estetica. Harvey Molotch sostiene che la maggior parte delle città degli Stati Uniti viene progettata da gruppi immobiliari i cui interessi prevalgono su quelli pubblici. A volte la speculazione può essere guidata verso risultati strutturati, come nella parte sud del Market district di San Francisco, ma in molte città non c’è né accordo su cosa fare sul piano estetico, né coesione fra i vari attori economici. (J.R. Logan, H.L. Molotch, Urban fortunes. The political economy of place, 1987). Barcellona insegna quanto sia importante concentrarsi sulle principali opere d’infrastruttura per una nuova concezione della città e della sua estetica, e nello stesso tempo accettare la frammentazione della città, purché ogni segmento, come avviene nel progetto 22@, sia obbligato a destinare una percentuale delle opere alla città per la realizzazione di servizi e l’allestimento del paesaggio.
Durante gli anni Venti, Le Corbusier e altri modernisti hanno propugnato la necessità della pianificazione affermando: «architettura o rivoluzione: la rivoluzione può essere evitata», e, con altrettanto zelo, le generazioni successive sono insorte contro gli aspetti disumani della pianificazione. Il senso di pericolo avvertito a seguito delle sempre più frequenti catastrofi naturali antropogeniche ha suscitato la consapevolezza di un problema urgente come non mai: la vita sul pianeta è a rischio. Nel film An inconvenient truth (2006; Una scomoda verità) di Davis Guggenheim, Al Gore insiste sull’esempio positivo della politica contro il fumo iniziata in California a metà degli anni Settanta e divenuta oggi un imperativo in tutto il mondo. La stessa cosa è accaduta con alcune sostanze inquinanti come i clorofluorocarburi, messi fuori legge nel 1987. Tuttavia, per quanto concerne l’inquinamento industriale e automobilistico, il controllo si è rivelato più difficile: non si tratta soltanto di un atto d’accusa contro prodotti di lusso, ma riguarda una complessa rete multinazionale di interessi che non cederà così facilmente. La volontà di cambiare non è stata stimolata con incentivi individuali come la possibilità di evitare il cancro. La fusione delle città in una sola ‘città mondiale’ potrebbe spingere i cittadini a prendere coscienza del fatto che la loro esistenza collettiva è minacciata da qualcosa di analogo a una patologia da neoplasia e indurli di conseguenza a esigere una terapia di urbanistica sostenibile.
Bibliografia
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