Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Profondamente mutati appaiono, alle soglie del Cinquecento, i caratteri della produzione storiografica, che trova i suoi più originali interpreti nelle figure di Machiavelli e Guicciardini. I due grandi letterati e politici fiorentini elaborano infatti con straordinaria lucidità e moderna spregiudicatezza la grande lezione degli storici antichi e degli storiografi quattrocenteschi, alla luce della personale e diretta esperienza politica, configurandosi in tal modo come modelli imperituri per tutta la storiografia italiana e straniera coeva e posteriore.
Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini
Non è un caso che abbiano origine fiorentina i due più grandi storiografi del Cinquecento. A Firenze era fiorita la grande stagione degli umanisti “cancellieri”, segretari della Repubblica – come Poggio Bracciolini o Leonardo Bruni – letterati, storici ed eruditi sempre calati nella concretezza dell’attività politica e civile; nel medesimo tessuto urbano si erano affermati la forza economica e i nuovi valori di quel mondo di mercanti che spesso aveva affidato ai “libri di memorie” le storie personali e familiari, consacrando così il genere affascinante della memorialistica in cui occorre ravvisare l’origine di un’opera come i Ricordi del Guicciardini. Si aggiunga inoltre la straordinaria fertilità della stagione umanistica fiorentina, nella quale in particolar modo circolano e divengono noti i classici antichi – tra cui gli storici latini e greci come Livio, Tacito e Tucidide – oggetto di continue letture e riflessioni da parte di letterati e umanisti che ne desumono lezioni valide per il presente.
Come nella sua grande opera politica Machiavelli inaugura il moderno pensiero politico, ponendo su piani diversi i valori della morale e le tecniche della strategia politica, così le Istorie fiorentine (1525) segnano un mutamento profondo rispetto a tutta la riflessione storiografica precedente, che pur ha avuto in Leonardo Bruni, Lorenzo Valla o Flavio Biondo illustri esponenti di un nuovo metodo laico e filologicamente fondato. La grande forza innovativa di Machiavelli consiste nel saper osservare gli eventi della sua città con particolare acume interpretativo, nella capacità di individuare dietro i fatti le tensioni politiche, le dinamiche sociali che li hanno determinati, cercando di cogliere nel fluire della storia il ricorrere costante di certi eventi, il frequente configurarsi di particolari circostanze, come gli ha insegnato l’attenta lettura degli antichi, in particolare Tito Livio ispiratore dei Discorsi e Tucidide teorico della concezione “ciclica” della storia. Negli otto libri delle Istorie fiorentine Machiavelli ripercorre la storia di Firenze e dell’Italia dalla caduta dell’impero romano alla morte di Lorenzo de’ Medici nel 1492, mostrando, fra le altre cose, un’ampia prospettiva interpretativa nel collocare gli eventi della storia fiorentina sullo sfondo italiano ed europeo. Nonostante le Istorie gli vengano commissionate a pagamento nel 1520 dagli ufficiali preposti allo Studio fiorentino per conto del cardinale Giulio de’ Medici (divenuto già papa con il nome di Clemente VII quando l’opera viene ultimata), Machiavelli non si lascia condizionare dal gradimento della committenza, individuando nella storia fiorentina un continuo alternarsi di conflitti sociali fra le classi avverse, che non escludono la stessa signoria medicea, ben lontana dall’essere in qualche modo idealizzata, in questa continua tensione verso il potere. Il grande acume interpretativo e la profonda capacità analitica degli eventi storici sono peraltro resi in una sintassi del periodo e in una forma linguistica che hanno una forza espressiva tutta nuova.
Niccolò Machiavelli
Proemio
Istorie fiorentine
Lo animo mio era, quando al principio deliberai scrivere le cose fatte drento e fuori dal popolo fiorentino, cominciare la narrazione mia dagli anni della cristiana religione 1434, nel quale tempo la famiglia de’ Medici, per i meriti di Cosimo e di Giovanni suo padre, prese più autorità che alcuna altra in Firenze; perché io mi pensava che messer Lionardo d’Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate particularmente tutte le cose che da quel tempo indrieto erano seguite. Ma avendo io di poi diligentemente letto gli scritti loro, per vedere con quali ordini e modi nello scrivere precedevono, acciò che imitando quelli la istoria nostra fusse meglio dai leggenti approvata, ho trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quell’altra in modo brevemente descritta che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno. Il che credo facessero, o perché parvono loro quelle azioni sì deboli che le giudicorono indegne di essere mandate alla memoria delle lettere, o perché temessino di non offendere i discesi di coloro i quali per quelle narrazioni si avessero a calunniare. Le quali due cagioni (sia detto con loro pace) mi paiono al tutto indegne di uomini grandi; perché, se niuna cosa diletta o insegna nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a’ cittadini che governono le republiche, è quella che dimostra le cagione degli odi e delle divisioni della città, acciò che possino, con il pericolo d’altri diventati savi, mantenersi uniti. E se ogni esemplo di republica muove, quelli che si leggono della propria muovono molto più e molto più sono utili; e se di niuna republica furono mai le divisioni notabili, di quella di Firenze sono notabilissime; perché la maggior parte delle altre republiche delle quali si ha qualche notizia sono state contente di una divisione con la quale, secondo gli accidenti, hanno ora accresciuta ora rovinata la città loro; ma Firenze, non contenta di una, ne ha fatte molte. In Roma, come ciascuno sa, poi che i re ne furono cacciati nacque la disunione intra i nobili e la plebe, e con quella infino alla rovina sua si mantenne. Così fece Atene; così tutte le altre republiche che in quelli tempi fiorirono. Ma di Firenze in prima si divisono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti, rimasa superiore, si divise in due. Dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria. E veramente, secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da queste divisioni depende, le quali arieno avuto forza di annullare ogni grande e potentissima città. Nondimeno la nostra pareva che sempre ne diventasse maggiore: tanta era la virtù di quegli cittadini e la potenza dello ingegno e animo loro a fare sé e la loro patria grande, che quelli tanti che rimanevono liberi da tanti mali potevano più con la virtù loro esaltarla che non aveva potuto la malignità di quegli accidenti, che gli avieno diminuiti, opprimerla. E sanza dubbio se Firenze avesse avuto tanta felicità che poi che la si liberò dallo Imperio ella avesse preso forma di governo che l’avesse mantenuta unita, io non so quale republica o moderna o antica le fusse stata superiore: di tanta virtù d’arme e di industria sarebbe stata ripiena. Perché si vede, poi che la ebbe cacciati da sé i ghibellini in tanto numero che ne era piena la Toscana e la Lombardia, i guelfi, con quelli che drento rimasero, nella guerra contro ad Arezzo, uno anno davanti alla giornata di Campaldino, trassono della città, de’ loro proprii cittadini, milledugento uomini d’arme e dodicimila fanti; dipoi, nella guerra che si fece contro a Filippo Visconti duca di Milano, avendo a fare esperienzia della industria e non delle armi proprie (perché le avieno in quegli tempi spente) si vidde come, in cinque anni che durò quella guerra, spesono i Fiorentini tre milioni e cinquecento mila fiorini; la quale finita, non contenti alla pace, per mostrare più la potenzia della loro città andorono a campo a Lucca.
Non so io pertanto cognoscere quale cagione faccia che queste divisione non sieno degne di essere particularmente descritte. E se quegli nobilissimi scrittori furono ritenuti per non offendere la memoria di coloro di chi eglino avevono a ragionare, se ne ingannorono, e mostrorono di cognoscere poco l’ambizione degli uomini e il desiderio che gli hanno di perpetuare il nome de’ loro antichi e di loro; né si ricordorono che molti, non avendo avuta occasione di acquistarsi fama con qualche opera lodevole, con cose vituperose si sono ingegnati acquistarla; né considerorono come le azioni che hanno in sé grandezza, come hanno quelle de’ governi e degli stati, comunque le si trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che biasimo. Le quali cose avendo io considerate, mi feciono mutare proposito; e deliberai cominciare la mia istoria dal principio della nostra città. E perché e’ non è mica intenzione occupare i luoghi di altri, descriverrò particularmente, insino al 1434, solo le cose seguite drento alla città, e di quelle di fuora non dirò altro che quello sarà necessario per intelligenzia di quelle di drento. Di poi, passato il 1434, scriverrò particularmente l’una e l’altra parte. Oltre a questo, perché meglio e d’ogni tempo questa istoria sia intesa, innanzi che io tratti di Firenze descriverrò per quali mezzi la Italia pervenne sotto quegli potentati che in quel tempo la governavano. Le quali cose tutte, così italiche come fiorentine, con quattro libri si termineranno: il primo narrerà brevemente tutti gli accidenti di Italia seguiti dalla declinazione dello imperio romano per infino al 1434; il secondo verrà con la sua narrazione dal principio della città di Firenze infino alla guerra che dopo la cacciata del duca di Atene si fece contro al pontefice; il terzo finirà nel 1414 con la morte del re Ladislao di Napoli; e con il quarto al 1434 perverremo; dal qual tempo di poi particularmente le cose seguite dentro a Firenze e fuora, infino a questi nostri presenti tempi, si descriverranno.
N. Machiavelli, Opere, vol. II: Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, a cura di A. Montevecchi, Torino, UTET, 1976
Machiavelli non solo compie la scelta rivoluzionaria di adottare per la prima volta il volgare e non il latino come lingua per scrivere una “storia ufficiale”, ma attraverso particolari tecniche espositive e accorti artifici retorici riesce a far emergere dalla sua pagina quegli stessi conflitti e quelle lacerazioni che l’occhio dello storico va analizzando.
Se l’interesse per la storia che accompagna tutta l’esperienza biografica e culturale di Machiavelli approda a un’opera squisitamente storiografica come le Istorie alquanto tardi, in Guicciardini, ingegno teorico più che pragmatico, è costante e ininterrotta la produzione di pagine storiche, che possono trovare pieno compimento – come nelle Storie fiorentine o nella Storia d’Italia – o rimanere in forma di abbozzi, e di pagine di straordinaria efficacia, ma senza un assetto definitivo, come accade per le Cose fiorentine o i Commentarii della luogotenenza. Tale tendenza a osservare e annotare costantemente eventi, comportamenti umani, cause ed effetti delle circostanze storiche ha di certo un’origine radicata nel costume di redigere memorie comune a quell’aristocrazia fiorentina a cui la famiglia Guicciardini appartiene, ma si coniuga, in Francesco, a un’ansia di ricerca documentaria e filologica dei dati, a una particolarissima lucidità e spregiudicatezza di analisi e a un’attitudine metodologica del pensiero del tutto nuove.
Dall’osservazione della realtà l’aristocratico Guicciardini non riesce a trarre regole generali che possano giovare al comportamento degli uomini, la cui “virtù”, del resto, ben poco può contro i colpi della capricciosa “fortuna”, contrariamente a quanto sostiene il più giovane e pragmatico Niccolò. Della realtà sfuggente e poliedrica l’uomo non può che cogliere frammenti parziali, con cui deve imparare a convivere cercando di volta in volta con la “discrezione” il comportamento etico e politico più opportuno e confacente alla situazione del momento, senza pretesa di trarre degli insegnamenti universalmente validi. Queste riflessioni collocano a buon diritto Guicciardini tra i fondatori del moderno pensiero cinico-scettico.
Nelle Storie fiorentine, che segnano il suo esordio storiografico, la prospettiva con cui l’aristocratico Guicciardini guarda agli eventi della sua città dal celebre tumulto dei Ciompi (1378) ai suoi giorni (1509) è specularmente opposta a quella del repubblicano Machiavelli. Egli individua infatti i motivi della crisi della storia fiorentina nella perdita dell’egemonia delle classi ottimatizie e nell’ascesa dei ceti popolari che sottraggono il potere all’aristocrazia, storicamente depositaria di ogni sapienza politica. Tale atteggiamento “conservativo” non nasce in Guicciardini dalla pura origine aristocratica, ma da motivazioni più profonde, maturate nell’osservazione diretta del difficile equilibrio fra ceti sociali, e nella scettica consapevolezza della precarietà di mutamenti politici affidati alla “virtù” dei singoli individui. Ma è nella Storia d’Italia, l’opera storiografica della piena maturità, che l’occhio lucido e spregiudicato di Guicciardini sa penetrare con straordinario acume interpretativo gli eventi che si succedono dal 1490 (egemonia di Lorenzo de’ Medici), al 1534 (anno della morte di Clemente VII e ascesa al soglio pontificio di Paolo III Farnese), analizzando l’irreversibile decadenza degli Stati italiani e il contemporaneo consolidarsi dei grandi Stati europei.
Francesco Guicciardini
Prosperità d’Italia, Lorenzo de’ Medici, confederazione de’ príncipi
Storia d’Italia, Libro I, cap. I
Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri principi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti: onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, o per poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.
Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti principi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d’uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; né priva secondo l’uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva.
Nella quale felicità, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni: ma trall’altre, di consentimento comune, si attribuiva laude non piccola alla industria e virtù di Lorenzo de’ Medici, cittadino tanto eminente sopra ’l grado privato nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella republica, potente più per l’opportunità del sito, per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de’ danari, che per grandezza di dominio. E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autorità. E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che più in una che in un’altra parte non pendessino: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare con somma diligenza ogni accidente benché minimo, succedere non poteva. Concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli, principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; con tutto che molte volte per l’addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da’ consigli della pace, e in questo tempo fusse molto stimolato da Alfonso duca di Calavria suo primogenito, il quale malvolentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza duca di Milano, suo genero, maggiore già di venti anni, benché di intelletto incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale, fusse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio: il quale, avendo più di dieci anni prima, per la imprudenza e impudichi costumi della madre madonna Bona, presa la tutela di lui, e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le genti d’arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel governo; né come tutore o governatore, ma, dal titolo di duca di Milano in fuora, con tutte le dimostrazioni e azioni da principe. E nondimeno Ferdinando, avendo più innanzi agli occhi l’utilità presente che l’antica inclinazione o la indegnazione del figliuolo, benché giusta, desiderava che Italia non si alterasse; o perché, avendo provato pochi anni prima, con gravissimo pericolo, l’odio contro a sé de’ baroni e de’ popoli suoi, e sapendo l’affezione che per la memoria delle cose passate molti de’ sudditi avevano al nome della casa di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessino occasione a’ franzesi di assaltare il reame di Napoli; o perché, per fare contrapeso alla potenza de’ viniziani, formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere necessaria l’unione sua con gli altri, e specialmente con gli stati di Milano e di Firenze. Né a Lodovico Sforza, benché di spirito inquieto e ambizioso, poteva piacere altra deliberazione, soprastando non manco a quegli che dominavano a Milano che agli altri il pericolo dal senato viniziano, e perché gli era più facile conservare nella tranquillità della pace che nelle molestie della guerra l’autorità usurpata. E se bene gli fussino sospetti sempre i pensieri di Ferdinando e di Alfonso d’Aragona, nondimeno, essendogli nota la disposizione di Lorenzo de’ Medici alla pace e insieme il timore che egli medesimamente aveva della grandezza loro, e persuadendosi che, per la diversità degli animi e antichi odii tra Ferdinando e i viniziani, fusse vano il temere che tra loro si facesse fondata congiunzione, si riputava assai sicuro che gli Aragonesi non sarebbono accompagnati da altri a tentare contro a lui quello che soli non erano bastanti a ottenere.
Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di Ferdianndo re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della republica fiorentina, per difensione de’ loro stati; la quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d’Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo per fine principalmente di non lasciare diventare più potenti i viniziani; i quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de’ confederati ma molto minori di tutti insieme, procedevano con consigli separati da’ consigli comuni, e aspettando di crescere della altrui disunione e travagli, stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la vita allo imperio di tutta Italia: al quale che aspirassino si era in diversi tempi conosciuto molto chiaramente; e specialmente quando, presa occasione dalla morte di Filippo Maria Visconte duca di Milano, tentorono, sotto colore di difendere la libertà del popolo milanese, di farsi signori di quello stato; e più frescamente quando, con guerra manifesta, di occupare il ducato di Ferrara si sforzorono. Raffrenava facilmente questa confederazione la cupidità del senato viniziano, ma non congiugneva già i collegati in amicizia sincera e fedele: conciossiacosaché, pieni tra se medesimi di emulazione e di gelosia, non cessavano di osservare assiduamente gli andamenti l’uno dell’altro, sconciandosi scambievolmente tutti i disegni per i quali a qualunque di essi accrescere si potesse o imperio o riputazione: il che non rendeva manco stabile la pace, anzi destava in tutti maggiore prontezza a procurare di spegnere sollecitamente tutte quelle faville che origine di nuovo incendio essere potessino.
F. Guicciardini, Storia d’Italia, presentazione critica e note di E. Mazzali, introduzione di E. Pasquini, Milano, Garzanti, 1988
Guicciardini lavora a quest’opera in venti libri ininterrottamente e indefessamente, con sistematiche ricerche d’archivio, dal 1527 alla morte che lo coglie nel 1540, senza che egli possa fare una revisione finale. Il grande fascino di quest’opera, che racconta dei grandi protagonisti della storia europea di quei decenni e dei grandi sconvolgimenti che cambiano l’assetto della storia occidentale, consiste nel fatto che il narratore è testimone diretto di molti eventi, conosce di persona gli attori delle vicende, come papi, principi e re nel corso dei suoi incarichi diplomatici e lavora su fonti di prima mano, su materiali di archivio a cui ha libero accesso. Non è un caso che quest’opera storiografica avrà grandissima eco fin dalla sua prima edizione (1561) e conterà in meno di un secolo ben trenta edizioni.
Gli epigoni fiorentini e altra storiografia tra erudizione e gusto narrativo
Se la lezione dei due grandi umanisti fiorentini condizionerà l’evoluzione di tutta la storiografia successiva italiana e anche europea, è tanto più ovvio e naturale che molti storici della medesima città subiscano, pur con sfumature diverse e con peculiarità individuali, l’influenza dei due illustri concittadini, a cominciare dalla scelta dell’uso del volgare per le proprie opere storiografiche. È il caso del repubblicano Donato Giannotti, autore di trattati sulla Repubblica dei Veneziani (1526) e dei Fiorentini (1531) e di un Discorso delle cose d’Italia (1535), in cui si spinge a congetturare delle ipotesi sulla futura realtà italiana. Nell’opera di Giannotti come in quelle di altri storiografi fiorentini contemporanei, quali le Istorie della città di Firenze di Iacopo Nardi (1553) o i Commentarii dei fatti civili occorsi nella città di Firenze dal 1215 al 1537 di Filippo Nerli (1534-1553) si nota il venir meno di un autentico impeto polemico a tutto vantaggio di un gusto narrativo e a volte drammatico-teatrale nella rappresentazione degli eventi. La storiografia va dunque configurandosi come autonomo genere letterario che cattura il gusto del pubblico e del lettore attraverso una narrazione appassionata che indulge al gusto dell’erudizione, come accade ad altri storiografi fiorentini, quali Bernardo Segni, Giovan Battista Adriani o Benedetto Varchi.
Ma il panorama della storiografia italiana cinquecentesca non sarebbe completo se non si menzionasse un’altra linea compositiva, che geneticamente si pone su un piano diverso rispetto alla lezione fiorentina di Machiavelli e Guicciardini, e si lega piuttosto a quella tradizione metodologica di Lorenzo Valla e Flavio Biondo e dei loro epigoni tardoquattrocenteschi (come Sabellico, Sanudo, Simonetta o Calco). È una storiografia erudita, prevalentemente in latino, contrassegnata da interessi archeologici e antiquari che osserva e interpreta i resti del passato, come testi da leggere e decodificare, con l’aiuto delle fonti classiche erudite ed enciclopediche, quali Strabone o Plinio. Tale storiografia si amplia in una disciplina più complessa e variegata, aperta alla curiosità di mondi e culture lontani nello spazio e nel tempo, da ricostruire e riscoprire con dovizie documentaria, con paziente lavoro filologico. Questa linea storiografica si snoda, nell’arco di tutto il Rinascimento, tra il nord (la Pianura Padana in primo luogo) e Roma e, attraverso figure come il bolognese Leandro Alberti e l’emiliano Carlo Sigonio, conduce, sulla lunga durata, alla più matura esperienza dei modenesi Ludovico Antonio Muratori e Girolamo Tiraboschi.
Questa prospettiva storiografica curiosa ed erudita esce dai confini cittadini o nazionali e si amplia negli orizzonti storici e geografici in opere come la Istoria d’Europa del toscano Francesco Giambullari (pubblicata postuma nel 1556) e negli Historiarum sui temporis libri XLV di Paolo Giovio, in cui l’esplorazione storica si apre a un intero mondo che continua a espandersi sotto gli occhi dei viaggiatori cinquecenteschi. Da questo punto di vista è emblematica l’opera di uno storico e geografo veneziano, segretario del senato veneto, Giovanbattista Ramusio, che, grazie alla posizione strategica della propria città e del proprio ruolo diplomatico, può raccogliere e tradurre molti resoconti di viaggiatori e ambasciatori nelle terre dei nuovi mondi, confluiti nella celebre opera Delle navigazioni e dei viaggi (1550-59).
Verso il nuovo mondo: la storiografia spagnola e altre realtà europee
Lo spalancarsi degli scenari di nuovi mondi, scoperti grazie alle conquiste e alle esplorazioni che si succedono nell’arco dell’intero secolo, conferisce alla produzione storiografica spagnola peculiarità del tutto originali rispetto ad altre realtà europee.
Le affascinanti pagine che descrivono la vita e i costumi di uomini e civiltà così diversi si affiancano del resto a una storiografia più tradizionalmente “ufficiale” e celebrativa: accanto alle Memorias del reinado de los reyes católicos di Andrés Bernáldez o alla Crónica de los señores reyes católicos di Hernando de Pulgar, abbiamo le memorie degli spagnoli impegnati nella conquista e nell’evangelizzazione. Le pagine dei conquistadores sono talvolta animate da intenti autocelebrativi o autogiustificativi (come la Historia verdadera di Bernardo Díaz de Castillo o le Cartas di Hernán Cortés) ma altre volte si configurano come denunce appassionate dei soprusi compiuti o come tentativi di tutelare e far conoscere la cultura e la storia dei popoli americani: significative in tal senso sono la Historia natural y moral de las Indias (1590) di José de Acosta e soprattutto la straordinaria Historia general de las cosas de Nueva España di Bernardino de Sahagún, che raccoglie una ricca messe di testimonianze in lingua nahuatl degli aztechi sopravvissuti.
A inaugurare la moderna storiografia inglese è, nel secolo XVI, l’umanista italiano Polidoro Vergilio, vissuto in Gran Bretagna fra il 1502 e il 1553. Nel 1506 il Vergilio comincia la stesura della Anglica historia (forse per incarico dello stesso EnricoVII) che sarà pubblicata nel 1534 e successivamente accresciuta nel 1555. L’opera, dalle chiare finalità celebrative della nuova dinastia dei Tudor, si configura come la prima opera storiografica moderna per il mondo inglese, fino a quel momento ancora legato alla leggendaria cronaca medievale di Goffredo di Monmouth che aveva consacrato i miti dell’origine troiana del popolo britannico e della leggendaria nascita di re Artù. La Historia di Vergilio dunque si propone di sgombrare il campo della narrazione storica dalle leggende, e di giovarsi di un nuovo fondamento storico e documentario, privilegiando le dinamica degli eventi politici.
Non a caso rimarrà un punto di riferimento essenziale non solo per altre opere di carattere storiografico, ma anche per le tragedie shakespeariane a fondo storico. Marginale sarà invece il ruolo dell’Inghilterra nella storiografia ecclesiastica che fiorisce in tutta Europa, a partire dai Paesi germanici, in seguito alla Riforma protestante.
Nella Francia tormentata da continui rivolgimenti politici un posto di rilievo occupa nella storiografia di fine secolo l’opera di Jacques Auguste de Thou (1553-1617), autore di Historiae sui temporis in cui è visibile la lezione di Guicciardini, mentre è d’obbligo menzionare la monumentale figura di Jean Bodin, autore dei Six livres de la République (1576) la cui produzione più rilevante si colloca tuttavia più sul versante del pensiero politico e filosofico.
La storiografia tardocinquecentesca della Controriforma tra Italia ed Europa
La complessa e variegata situazione della storiografia italiana ed europea del secolo XVI – in cui trovano spazio, accanto agli aspetti analizzati in precedenza, anche altri generi di ininterrotta fortuna, come quello delle biografie esemplari, delle Vite o dei “medaglioni” di uomini illustri di stampo plutarcheo – si complica ulteriormente nella seconda metà del secolo. Dopo i grandi mutamenti religiosi del Concilio tridentino fa la propria comparsa nel panorama storiografico europeo il genere della storiografia “sacra” che propone, sia per la parte cattolica sia per quella riformata, una storia delle Chiese e dei loro martiri da contrapporre alle storie laiche degli Stati e dei loro eroi.
La prospettiva di tale produzione storiografica non mira tuttavia solo alla ricostruzione degli eventi ecclesiastici, ma è animata dall’intento di reperire e di dimostrare il percorso provvidenziale della propria identità religiosa con grande abilità espositiva e scaltre tecniche di indagine. Il primo esperimento in tal senso nasce a Magdeburgo, nell’Europa riformata, ad opera dell’erudito dalmata Matteo Flacio che fin dal 1555 lavora, con l’aiuto di un gruppo di dotti ed esperti, a una monumentale Ecclesiastica historia, che ripercorre la storia della Chiesa di parte protestante raccogliendo i dati per secoli(“centurie”) e per argomenti.
Tale opera cela, dietro alla ricca messe documentaria della ricostruzione storica, una poderosa azione di propaganda anticattolica a cui giungeranno risposte alquanto tardive e inadeguate, come la Historia sacra di Girolamo Muzio pubblicata solo nel 1570.
Il contrattacco della Chiesa cattolica troverà soltanto nell’ultimo scorcio del secolo espressioni mature e convincenti, quali gli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio – pubblicati a partire dal 1588 sotto l’auspicio di Pio V – che, supportati da approfondite indagini erudite, storiche e antiquarie sulle prime comunità cristiane delle catacombe, finiscono col fondare la nuova scienza archeologica paleocristiana.