La Prosa del Duecento – Introduzione
I. Quando all'orizzonte della cultura italiana appaiono i primi albori d'una letteratura volgare, il paesaggio che si rivela, sempre più nitido, alla nuova luce non è addormentato né inerte. Già sono fiorenti centri di studio e di civiltà, già sono in atto valide imprese letterarie; che preparano e anticipano l'opera, pur diversa negli intenti e nell'estensione, dei primi scrittori volgari. Tra quest'opera e quei centri, quelle imprese, accade però di individuare una continuità ideale e indiretta piuttosto che localizzata e univoca: segno che la formazione d'una letteratura volgare rappresentò in Italia non un'evoluzione, ma una rivoluzione. Rivoluzione che nel suo manifestarsi in ambito culturale e linguistico esprime un profondo mutamento delle strutture vitali del paese.
Nella nostra indagine sulle origini della prosa, i rilievi d'indole precipuamente letteraria saranno dunque riportati su uno schizzo, necessariamente schematico, dei motivi predominanti nella vita politica, economica, spirituale del Duecento italiano: il tracciato degli uni sarà integrato e interpretato da quello degli altri.
È opportuno svolgere anzitutto una veloce ricognizione del terreno; quasi sventagliando, su quello che fu il teatro degli avvenimenti che ci interessano, la luce di un riflettore.
Nella pianura padana si percepisce una trama di presenze poetiche rappresentate dai trovatori, prima provenzali, poi italiani; trama molto fitta specialmente intorno alle corti signorili, ma non priva di addentellati nelle repubbliche marinare, Genova e Venezia, ed in Toscana, dove Terramagnino e Dante da Maiano rappresentano bene il passaggio della poesia amorosa dall'una all'altra lingua (il provenzale e il toscano), dall'uno all'altro ambiente sociale (quello aristocratico e quello borghese). Ma il fenomeno trovadorico, pur così fortunato in Italia (ce lo dicono anche i canzonieri qui esemplati, le vidas e le razos e le «grammatiche» qui compilate), non si ormeggia ai moli d'una qualsiasi collettività, non valica i confini dell'ambiente in cui si è sviluppato, e affiderà la propria sopravvivenza a discendenti elettivi.
Più profonde radici - e già ci portiamo sintomaticamente sul territorio dei liberi Comuni -sono quelle della letteratura in volgare lombardo e veneto. Qui l'azione di scuole e di una cultura latina (maestro era Bonvesin, e scrisse anche in latino; ma si ricordino Salimbene, Sicardo da Cremona, Albertano da Brescia, Bellino Bissolo); qui la partecipe passione popolare, politica e religiosa, si manifestano nella produzione letteraria, che a sua volta svolge temi e impiega formule tali da poter risonare entro un pubblico assai vasto. Gli argomenti, agiografici ed edificanti (si ricordi pure, sul versante latino, la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, dimorato a lungo in Lombardia), sono in genere affini a quelli diffusi nell'occidente romanzo, con epicentro in Francia; si tratta di una libera collaborazione all'attività letteraria comune, che ci permette di riconoscere un'area laterale ben viva, piuttosto che dei prestiti.
A Bologna s'incontrano condizioni particolari, decisamente favorevoli alla letteratura. Qui era l'Università italiana più illustre, allora, e più frequentata: luogo d'incontro, e capitale della cultura. Una attività gloriosa di studi giuridici prepara, come vedremo, un contributo molto importante alla nostra letteratura: direttamente, attraverso la parallela fioritura della retorica; indirettamente, col sensibile rinnovamento dello stile anche nella storiagrafia, coltivata in precedenza con esclusivo interesse cronistico. (Il dettatore Boncompagno da Signa compone anche un libro De obsidione Anconae, e il suo allievo Rolandino da Padova una Cronica Marchiae Trivixanae; e provengono dall'Università di Bologna Pietro Cantinelli e Francesco Pipino, autori di cronache di grande apertura, ed e giudice e notaio l'autore dei Gesta Florentinorum, Sanzanome di Firenze). A Bologna, in un clima di studi raffinati, di maturità filosofica e retorica, di uguaglianza di fronte al sapere, verranno elaborati i nuovi concetti dello stilnovo, saranno cioè filtrati e arricchiti i materiali prodotti dalla scuola siciliana e dalla prima scuola toscana.
Il vicino territorio veneto incomincia ad essere un centro di raccolta di poemi epici: trascritti e cantati nella lingua originaria, poi via via contaminati con elementi del dialetto locale, poi ciclicamente ampliati e continuati e rifatti (né manca la produzione, anche in francese, di composizioni d'altro genere, per esempio religioso). Di qui spesso ha il punto di partenza la successiva fortuna di molte geste, anche se ormai si può escludere che il Veneto sia stato tramite unico e obbligatorio. Il Veneto, ricco di monumenti romani e, che più conta, di biblioteche gloriose, dopo aver procurato traduzioni dal latino tra le più antiche in Italia (del Pamphilus, dei Disticha Catonis), doveva assistere alla fine del secolo ad un episodio premonitore: l'attività umanistica e la poesia latina dei padovani Lovato e Mussato. Altro esempio di vitalità letteraria al centro d'un Comune e accanto a uno Studio.
La Toscana, sino alla metà del Duecento, rimane, rispetto alla cultura, un po' in ombra: vivo è già lo scambio di docenti, e naturalmente di discenti, con Bologna (Boncompagno da Signa e Bene da Firenze insegnano a Bologna, donde viceversa scendono a sud degli Appennini gruppi assai nutriti di maestri meno illustri; nei formulari retorici al nome di Bologna si sostituisce spesso quello di Siena o di altre città toscane), e lo Studio di Arezzo acquista rinomanza, ma sempre su scala regionale. In mezzo all'attività letterariamente grigia dei cronisti brilla il poema filosofico-morale di Arrigo da Settimello; che è però un ex-allievo di Bologna, e là avrà anche conosciuto i suoi modelli francesi.
Suona alta sull'Umbria la voce di san Francesco. Tra i molti movimenti religiosi che nel Vangelo trovavano (ritrovavano) una promessa e una fede per le plebi oppresse, quello francescano, dottrinalmente ligio alla Chiesa e alieno da sottintesi politici, conquistò in breve tempo ampi territori dello spirito. È probabile che tra i suoi precedenti ideali si debba annoverare l'escatologia gioachimita; né, tra i seguaci del Santo, mancarono i rappresentanti di altre culture italiane ed europee. Ma l'indole del movimento è popolare: già nel Santo, che adeguò il suo dialetto all'alta ispirazione del Cantico, e più ancora nei suoi fedeli. E anche la letteratura francescana in latino mantiene un tono stilistico umile (quasi preparandosi ad avere la sua forma più confacente nel volgare toscano dei Fioretti); e in volgare e con modi popolareschi saranno intonate le laudi, e un poeta, Iacopone, ne riprenderà con più intense vibrazioni i motivi, senza respingere i suggerimenti della poesia profana. Questa nuova religiosità laica si spanderà in Toscana e in tutta Italia; ma oltre i confini del Duecento.
Se al Nord l'alta cultura è rappresentata dallo Studio bolognese, nell'Italia meridionale spiccano un'altra scuola illustre, quella medica di Salerno (ne verrà anche uno scrittore, Pietro da Eboli), e un centro spirituale ricco di gloria letteraria, Montecassino. Il Ritmo cassinese sembra riproporre un esperimento tipico della prima letteratura francese, l'alleanza, o l'identificazione, del clerico e del giullare in un poemetto lirico-didattico. Ma l'intento era anacronistico, o la forza espansiva del monastero esaurita: in effetti quest'area culturale, che giunge sino a Roma (dove assai presto, alla metà del Duecento, si eseguono due volgarizzamenti dal latino: le Storie de Troia e de Roma e le Miracole de Roma - ma poi null'altro), appare in fase di estinzione.
Infine, la corte fridericiana. L'imperatore stesso, coerentemente al vasto programma politico, promuove e domina la confluenza di varie correnti culturali che nel Sud si erano pittorescamente costeggiate o intersecate. È da ricordare anzitutto la fusione- nella persona. stessa degli scrittori - della letteratura trovadorica, imitata per la prima volta in un volgare italiano, e della cultura giuridica bolognese (i dotti della corte, da Pier delle Vigne a Roffredo di Benevento e Taddeo di Sessa, avevano studiato a Bologna); e poi, entro un orizzonte molto più vasto, la rinascita del gusto latino, ben espressa dagli scultori di Castel del Monte - dai quali, direttamente o no, apprese l'arte Andrea Pisano-, e del diritto romano (si ricordino i frequenti consulti dell'imperatore con i maestri della ghibellina Bologna); infine, col massimo sforzo di assimilazione, il rinnovato studio della filosofia aristotelica, attraverso i volgarizzamenti latini dall'arabo.
È una grande impresa che sembrerà morire insieme col sogno egemonico di Federico, ma i cui frutti appariranno altrove, quasi continuando gli scambi di uomini di governo e di gruppi etnici che l'imperatore aveva promosso: appariranno nella poesia e nella scultura toscane, nel magistero dettatorio di Pier delle Vigne, nelle argomentazioni della disputa sulla nobiltà, nella vitalità del mito di Federico.
In questa tabella della vita culturale sono rimaste vuote le caselle relative ai maggiori scrittori in latino: Innocenza III, san Bonaventura, san Tommaso, Egidio Colonna. Non gioverebbe a noi colmare la lacuna: questi luminari del pensiero medievale devono riconoscere quasi sempre e quasi in tutto il loro debito alia filosofia francese appresa o esercitata a Parigi (o, come Innocenza III, appartengono ad una civiltà, per così dire, extraterritoriale, quella della corte pontificia): non rappresentano perciò, e non iniziano (a breve scadenza) tradizioni ben individuabili e localizzabili in Italia- quali quelle che abbiamo prima menzionato. E che possiamo così schematizzare: un'area lombarda e veneta, con prolungamenti in Piemonte e Liguria, immersa nella civiltà romanza del tempo, e attiva anche con opere didattico-religiose in volgare; un'area bolognese, con propaggini in Toscana, caratterizzata dal rinnovamento del pensiero giuridico e retorico, e dall'aspirazione a dar maggiore dignità allo stile. All'altro estremo d'Italia - a parte l'antica Salerno solo operosa nel campo della scienza medica, ed essendo ormai povera di prestigio l'abbazia cassinese- la varia e vivace, ma meno profondamente radicata attività letteraria della corte fridericiana.
Il gioco imperiale di Federico, che a nord del territorio della Chiesa era consistito in mosse audaci ma naturalmente episodiche di diplomazia e alleanze, di guerre combattute e fomentate; che perciò aveva utilizzato le energie preesistenti, e destinate ad altre fortune, di signori feudali e di Comuni ormai maggiorenni; a sud, ove si poteva esercitare un'azione più costante e unitaria, si scontrava invece con la forza d'inerzia di privilegi nuovi e antichi, di varietà etniche e linguistiche, non turbata e vinta da quella riscossa dell'iniziativa e dello spirito d'indipendenza che era legata, nel Nord, al fervore dei commerci e degli scambi, alla prima organizzazione industriale. Non per nulla decadevano Amalfi e Bari, e ampliavano i loro mercati Genova e Venezia e Pisa.
In realtà, mentre la scena sembrava dominata dalla lotta tra Chiesa e Impero, le comparse, e cioè i Comuni, si preparavano a ruoli di primo piano. Già i primi fenomeni di cultura organizzata, cui abbiamo accennato, sono resi possibili dall'esistenza di città e di ordinamenti democratici: mentre la vita errante del trovatore condizionata dalla varia fortuna e dai vari umori dei signori, mentre il giullare doveva inserirsi nella corrente delle devozioni e delle fiere, mentre il dotto si rivolgeva a una ideale società di confratelli, solo nella stabilità delle istituzioni, nella formazione di una classe sia pur modestamente colta, nel riconoscimento e nella collaborazione del pubblico la vita letteraria poteva costituirsi basi solide.
Per questo la nostra storia letteraria delle origini coincide in gran parte con la storia dei Comuni. Il Comune significa la formazione di una nuova classe di imprenditori e commercianti e artigiani che nella cultura vedono prima uno strumento di lavoro, poi la speranza di una nobiltà acquisibile, e che alla cultura portano un abito di osservazione e di esperienza umana tale da rinnovare in modo profondo il gusto medievale; significa pure la fine delle concezioni feudali, la creazione di nuovi rapporti associativi che necessariamente, entro le dimensioni dottrinali del tempo, dovevano rifarsi al vecchio diritto romano, a un ideale sia pure approssimativo della classicità (per questo rinasce il termine res publica, e ogni Comune si cerca o si inventa un fondatore romano). In questa opera di rinnovamento ebbero forse una parte i movimenti ereticali, specie in Lombardia e in Toscana; certo è comunque che la civiltà comunale era spiccatamente laica, anche quando i rapporti coi vescovi erano buoni, anche quando le città erano guelfe. L'insegnamento era sempre più spesso affidato a maestri e scuole secolari, ed era ordinato soprattutto a fini pratici; la media cultura era ormai nelle mani di giudici e notai e maestri, cioè di laici, dalle cui schiere uscirono nella grande maggioranza gli scrittori delle Origini; persino le iniziative di arte religiosa, come la costruzione di chiese, erano prese da associazioni laiche.
E già si rinnovano le fondamenta ideologiche della nuova società. È in questo periodo - per citare un caso sintomatico - che si dibatte in Italia, sulla base delle invenzioni cavalleresche e trovadoriche (l'eccellenza delle imprese, l'elevatezza del sentire, come patenti di nobiltà), e con argomenti dei trattatisti mondani (Andrea Cappellano) o filosofico-religiosi (Guglielmo Peraldo), la disputa sulla nobiltà: dalle eleganti quaestiones formulate alla corte fridericiana, sino alla nobile e solitaria meditazione di Guittone e alla calda perorazione del Convivio.
I Comuni si trovano presto in grado di svolgere un'azione politica capillarmente estesa e rivoluzionaria. Si rinnovano, per esempio, i rapporti di collaborazione tra le varie cellule cittadine: in base a necessità commerciali e finanziarie vediamo collegarsi Milano con Genova; Firenze con le città romagnole e Genova e Venezia; e fuori d'Italia si delinea ormai una carta geografica di rappresentanze e mercati lombardi, toscani, genovesi dal Portogallo al Levante, dalla Provenza alle Fiandre. Una rete che la Chiesa utilizzerà · per le sue riscossioni nei paesi cristiani, e con la quale cercherà di spazzar via dalla penisola gli eredi del programma imperiale, i nuovi aspiranti egemoni: Manfredi, Ezzelino, Uberto Pallavicino- agevolando intanto l'affermazione di Firenze bianca su tutta la Toscana - e che poi continuerà a reggere con l'aiuto di principi stranieri.
Nel medioevo romanzo la prosa si sviluppa quasi sempre più tardi della poesia: rivelandosi la coscienza di autonomia del volgare sul piano linguistico della comunicazione, è naturale che essa si esplichi dapprima in fenomeni collettivi: di carattere sacrale (narrazioni ed inni agiografici o comunque edificanti) o guerresco feudale (canzoni di gesta, serventesi) o mondano (lirica amorosa); e col costante sostegno della musica e del ritmo. La prosa, impegnata a un'espressione più riflessa e tecnica, costretta a cercare nel silenzio una difficile agevolezza e armonia di suoni, fatica molto maggiormente ad abbandonare la vecchia veste latina; né, considerati i suoi contenuti, e di conseguenza il suo pubblico, ne sente l'urgenza.
In Italia, dove si presero dapprincipio a modello i risultati delle altre letterature più precoci, non ci si allontanò molto da questo indirizzo generale. Più che la partecipazione diretta all'invenzione agiografico-poetica e cavalleresca nella pianura padana, e più che la creazione di poemetti religiosi nell'Italia centrale, ci interessa qui, per i risultati ben altrimenti decisivi, la continuità della sperimentazione e della collaborazione nella tecnica lirica dalla Sicilia alla Toscana a Bologna (e da Guittone agli stilnovisti al Petrarca), a cui corrisponde una certa resistenza verso altri filoni di cultura (per esempio quello classico: rari, nella lirica, i riferimenti ad autori latini). Più difficile era invece, per un letterato, strappare contenuti descrittivi e raziocinativi, insomma prosastici, alla tradizione e alla comoda consuetudine latina. Occorreva che l'attenzione del pubblico, la ricerca di un pubblico, imponessero questo sforzo; i primi esempi di prosa volgare, che rispondono soltanto a necessità pratiche, costituiscono appunto un primo avvio sulla corrente presto impetuosa della letteratura divulgativa.
La storia della prosa volgare nel Duecento trova dunque le sue ragioni, se non la sua necessità, nell'ampliamento dell'area di pertinenza della cultura (o, in altre parole, nella diminuzione dei dislivelli culturali); e consiste nello sforzo di dare anche al volgare prosastico una dignità formale, una tradizione (lo avvertiva esattamente Dante, sia pure prendendo a paradigma la poesia: «Ciascuna cosa studia naturalmente a la sua conservazione: onde, se lo volgare per sé studiare potesse, studierebbe a quella; e quella sarebbe, acconciare sé a più stabilitade, e più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime», Conv., I, XIII, 6).
È pertanto ben legittima la meditazione esercitata con ammirevole costanza da Dante sui rapporti tra poesia e prosa, tra latino e volgare: quanto a questi, dibattendosi Dante tra l'ammirazione per il saldo assetto del latino, la «grammatica» per eccellenza (lo volgare seguita uso, e lo latino arte; onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più nobile», Conv., I, v, 14), e il senso del linguaggio vivente e caratterizzante («nobilior est vulgaris [locutio]: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est no bis», De vulg. el., I, I, 4; «lo volgare è più prossimo quanto è più unito, che uno e solo è prima ne la mente che alcuno altro, e che non solamente per sé è unito, ma per accidente, in quanto è congiunto con le più prossime persone, sì come con li parenti e con li propri cittadini e con la propria gente», Conv., I, XII, 5); quanto a quelli, dichiarando egli che la prosa apprende i procedimenti retorici dalla poesia («ipsum [vulgare] prosaycantes ab avientibus magis accipiunt, et ... quod avietum est prosaycantibus permanere videtur exemplarn, De vulg. el., II, I, 1-ed era proprio stata l'esperienza sua, dalle Rime alla Vita nuova al Convivio), ma mostrandosi conscio dell'impegno più grave che è richiesto dalla prosa, come quella in cui si manifesta l'efficienza di una lingua meglio che «ne le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[ti]mo e lo numero regolato; sì come non si può bene manifestare la bellezza d'una donna, quando li adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima» (Conv., I, X, 12)- con le quali constatazioni si potrebbe anche spiegare il fallimento del magistero guittoniano: che al problema fornì, di fatto, una soluzione equivoca, e cioè la sostanziale sudditanza linguistica e stilistica della prosa alla poesia.
È nell'ambito delle convenzioni giuridiche che il volgare riesce ad aprire, in Italia, una breccia nella barricata latina: premendo come un oscuro istinto nella mente dei menanti meno colti, o invece soddisfacendo l'ovvia esigenza di rendere intelligibile ai testimoni il contenuto dei documenti (motivi analoghi agirono nella compilazione dei formulari di preghiere). Incontriamo così da un lato la carta rossanese, la carta fabrianese ecc., dall'altro i piaciti cassinesi, la carta picena, la dichiarazione pistoiese, il breve di Montieri, la carta sangimignanese. La successione cronologica ci fa passare da un'area che si potrebbe definire cassinese ad un'area toscana; ma la zona in cui questo processo di simbiosi tra l'uso giuridico e il volgare giunge ad esiti più rilevanti è quella bolognese. Caratteristico della fioritura giuridica di Bologna era lo stretto legame, anche istituzionalmente consacrato, del diritto e della retorica: alla dignità esterna- diplomatica e calligrafica - dei documenti si volle far corrispondere una dignità interna, stilistica. Furono così accolte e svolte esperienze che avevano già avuto notevole elaborazione a Montecassino e alla corte papale. Di queste esperienze venne presto a beneficiare anche il volgare, quando non solo fu stabilito che gli aspiranti notai mostrassero, negli esami, «qualiter sciant scribere et qualiter legere scripturas, quas fecerint, vulgariter» (1246) -e già prima Piero de' Boattieri dava istruzioni per la versione in volgare, a voce, degli strumenti notarili -, ma si incominciò a stendere traduzioni, o persino a comporre formulari in volgare: alludo, oltre che agli scritti di Guido Faba, al frammento di Rainerio da Perugia.
La promozione del volgare in Guido Faba è davvero brillante: esso assume di pieno diritto funzioni che sembravano riservate al latino, e del latino accoglie soprattutto il prestigio formale: gli artifizi retorici, il cursus. Le composizioni di Guido debbono servire di modello, o di falsariga: sicché la loro attuale astrattezza contiene in potenza una validità reale: ché nello scrivere a un principe o nel parlare a un vescovo, nell'insediare un podestà o nel presentare un'ambasciata, si ricorreva appunto a quelle, o ad analoghe formule.
Il magistero giuridico dunque abbracciava anche il campo dei rapporti politici: ed è proprio tra questi due poli- giuridico e politico - che scocca la maggior scintilla nella storia della prosa dugentesca.
II. Occorre anzitutto che spostiamo lo sguardo a sud dell'Appennino. Già s'è detto che la Toscana aveva dato un notevole contributo di uomini allo Studio di Bologna, ricevendone, quasi in contraccambio, numerosi docenti. Ma sino alla metà del Duecento non si possono cogliere in alcuna sua città tracce notevoli di un ambiente letterario. In altri campi eccellono allora i Toscani: quelli del commercio e delle finanze. Non per nulla i primi testi che ci rimangono, assai antichi, sono libri di conti. Sulla base di questi interessi pratici stava però per sorgere una potenza economica di importanza europea; ispirati da questi interessi s'infittivano i contatti con i principali centri culturali del tempo. Il notaio assisteva il commerciante e il banchiere nelle loro operazioni, li seguiva nei loro viaggi; quando il Comune incominciò a giocare su un vasto scacchiere politico, era ancora al notaio che si affidavano i contatti diplomatici e la compilazione dei trattati.
Da Bologna a Firenze; da Guido Faba a Brunetto Latini. Se le formule di Guido potevano avere, o anche non avere, attuazione pratica, Brunetto è in grado di inserire nel Tresor, a modello, atti ufficiali del Comune di Siena: la pratica salda il suo debito con la teoria. Certo, Brunetto acquista nei suoi viaggi in Spagna e in Francia un'apertura di pensiero europea: il suo Tesoretto trapianta in Italia il seme dei poemetti allegorici donde in Francia era recentemente germogliato il Roman de la rose; il suo Tresor è la più ricca e ben costrutta enciclopedia volgare, anche rispetto alla Francia. Ma occorre qui sottolineare l'attività più specificamente retorica di Brunetto: il volgarizzamento del De inventione, la traduzione delle orazioni ciceroniane. Nel tradurre il De inventione Brunetto mette ben in chiaro che la retorica non riguarda soltanto «le piatora che sono in corte [= tribunale]», ma insegna a «dire appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa no è pur di piatora né pur tra accusato e accusatore, ma è sopra l'altre vicende, sì come di sapere dire in ambasciarie e in consigli de' signori e delle comunanze e in sapere componere una lettera bene dittata (76, 3-4, qui a p. 162).
Immenso fu perciò l'incentivo dato dalle necessità del governo democratico allo studio della retorica e dei classici dell'elocuzione (mai in Italia si lessero e tradussero con tanta passione Cicerone e Sallustio) e alla formazione di una letteratura cancelleresca (Dicerie, Parlamenti). È una sfera di rilevanza pratica che già tocca aree esteticamente vive: l'arte del dire viene ormai ricercata e ammirata al di là della sua utilità. Si sviluppa il gusto (certo favorito da una vocazione naturale) del discorso costruito a «regola d'arte», solennemente intonato, o abilmente insinuante, o spiritosamente conciso; si apprezza soprattutto l'espressione pregnante ed epigrammatica, il «motto», con una tradizione che dal Ritmo di Travale, attraverso il Novellino, troverà la sua perfezione nel Decameron (Paolo da Certaldo esortava gli oratori a esprimersi «con nuovi vocaboli e intendenti, però che molto se ne diletta la gente»). Ma la partecipazione di ampi strati della cittadinanza alla vita del Comune diede, e ciò conta ancor più, una spinta vigorosa alla naturale tendenza ad elevarsi culturalmente. Sete di sapere e attività di divulgazione culturale si venivano incontro lungo una strada ormai ben tracciata. Ce ne dànno un'immagine ancora suggestiva le Dediche, laddove si oppongono grammaticalmente le doti innate dell'animo e della parola alle norme dell'arte, ma per promuovere l'apprendimento di queste a vantaggio di quelle («[Brunetto] si n'andò in Francia per procurare le sue vicende, e là trovò uno suo amico della sua cittade e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno ..., ed era parlatore molto buono naturalmente, e molto disiderava di sapere ciò che' savi aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore questo Brunetto Latino, lo quale era buono intenditore di lettera ed era molto intento allo studio di rettorica, si mise a fare questa opera», Rettorica, I, 10 (qui a p. 136); «[Non] aparano gli uomini laici a parlare bene ... per sapere o per vedere o per sentire gli amaestramenti e la dotrina che in sul favellare è data da' savii, perché no·lla sanno, né possono sapere, però ch'è data per lettera da loro ... ; ma usando di dire e sapendo gli amaestramenti dati, o seguitando [nel] dire alcuno bello dicitore, s'apara a favellare tosto e piacevolemente», Guidotto, Fiore di rettorica, Trattato primo (qui a p. 107).
La fioritura letteraria, e specialmente prosastica (la lirica è, per sua stessa natura, più riservata e aristocratica), finì dunque per costituire una presa di coscienza del mondo da parte di persone che, senza consacrarsi agli studi, guardavano tuttavia la realtà con occhio acuto. È proprio in questo periodo che si moltiplica il numero delle scuole, spesso comunali o private, con programmi d'insegnamento scarni e funzionali: leggere, scrivere, far di conto, sono obiettivi limitati e pratici, che i buoni commercianti e artigiani supereranno poi nel fondaco e nella bottega, o specialmente in ore di libera lettura. Ogni ramo del sapere ne riesce fortemente influenzato: il metodo divulgativo, da tramite inevitabile alla conoscenza, accenna a divenire forma mentale, concetto pragmatico della cultura. Trascurata la speculazione teologica o metafisica (si ricordi la novella XXIX del Novellino, qui a p. 824), alla religione si chiedono soprattutto norme di condotta morale o civile: sapienza classica e sapienza cristiana, contaminate con disinvoltura sempre maggiore, si distribuiranno nei paragrafi dei manuali di vita pratica, e si troveranno allato le considerazioni disincantate, i consigli opportunistici e gretti scaturiti dall'esperienza. Questa innovazione fu resa possibile dall'evoluzione dei trattati morali, che prima si svincolarono dalla gerarchia delle attività e delle virtù umane istituita dal pensiero più decisamente religioso (sicché a poco a poco si cessò di registrare ciò che appartenesse esclusivamente alla sfera dell'interiorità e dell'astrazione, e si dedicarono invece nuovi capitoli al concreto e al quotidiano: si confrontino la Somme le roi con i trattati di Albertano; lo Speculum morale con i Documenta antiquorum), e poi, nel Tre e Quattrocento, spezzarono ogni schema a priori, seguendo invece il progresso -o la memoria- di un'esperienza personale (penso a Paolo da Certaldo, al Morelli, a tanti altri). È ciò che si avverte anche nella storia degli exempla, che si liberano da strutture didascaliche e, assorbita in sé la propria moralità, divengono specchi della vita feconda di nuove combinazioni (Novellino).
L'apprendimento dell'arte del dire, la fondazione di un codice di comportamento, l'osservazione del mondo umano, sono interessi che già indirizzavano a letture d'una certa ampiezza. Ma questa società giovane e priva di recenti tradizioni si gettò sulla storia (sempre coltivata anche nei secoli più grigi) con l'ansia di creare una prospettiva più vasta al proprio operare. Scarsa maturità storicistica e abitudine moralistica traspongono spesso l'aneddoto in esempio, la storia in mito: che è anche un modo di attualizzare.
Così, dai materiali di varia origine che i nuovi interessi culturali avevano saputo raccogliere, vien fuori un piccolo tesoro di personaggi storici o leggendari degni di dominare, per la loro virtù o per la loro sapienza o per la loro attitudine al simbolo, i territori del mito, sui quali infatti essi si schierano non in base a precedenze cronologiche o geografiche, bensì, seguendo le grandi partizioni dei significati pragmatici, secondo le loro misure simboliche. Per farsi un'idea di questo fenomeno fondamentale dello spirito dugentesco, basta accostare i Fiori di filosafi alla Commedia: nonostante il mirabile acquisto di spazio e limpidezza storica attestato da questa rispetto a quelli, le scene esemplari si staccano nell'una e negli altri con la medesima nettezza di contorni (si confronti l'episodio di Traiano e della vedovella, nei Fiori, XXVI [qui a p. 527] - e poi nel Novellino, LXIX [qui a p. 857]- e in Purg., X, 73-93), istituzionalizzate, infine, negli intagli e nelle visioni ammonitrici del Purgatorio. Gli eroi del mito s'identificano così con gli ideali della nuova società (magnanimo e generoso Alessandro: Novellino, IV, qui a p.801; Fiore di virtù, IX; Conv., IV, XI, 14: «E cui non e ancora nel cuore Alessandro per li suoi reali benefici?», come il Re giovane: Conti di antichi cavalieri, VI-IX; Novellino, XIX, XX, qui alle pp.814-7; saggio di superiore saggezza il Saladino: Conti di antichi cavalieri, I-V, qui alle pp. 548-50; Novellino, XXV, LXXIII, qui alle pp. 821 e 860; Decameron, 1, 3; X, 9; Amorosa visione, XII, 28; Comento, 11, 59; Trionfo della Fama, II, 148) o recuperano nei valori ancora attuali le idealità cavalleresche (eroi dei romanzi arturiani); o incarnano le forze avverse e conservatrici (Ezzelino: Cronica di Salimbene, passim; Novellino, LXXXIV, qui alle pp. 870-1; Inj., XII, 109-10), o rappresentano, più complessamente, e sotto un alternarsi di luci d'ammirazione e d'odio, solo la propria personalità, giganteggiante nella storia (Federico: Cronica di Salimbene, passim; Novellino, XXI-XXIV, LIX, xc, qui alle pp. 817-20; 843-4; 873-4; Inf., X, 119; XIII, 74; De vulg. el., I, XII, 4). Solo come connotazione accessoria portano, questi eroi, i segni della loro origine: e avranno gesti ed espressioni cavalleresche i protagonisti dei romanzi, e riflessi di ricchezze favolose incorniceranno i personaggi orientali.
Ma bisogna escludere la storia di Roma: sentita, più intensamente che in addietro, come appartenente a quella stessa civiltà romanza («dicendo nostro Comune intendo Roma ... però che Roma è capo del mondo e Comune d'ogne uomo», Brunetto, Rettorica, I, 16 (qui a p. 137); «E però che ne la sua [di Cristo] venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in ottima disposizione ..., ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma», Conv., IV, V, 4). Ciò significa che gli eroi esemplari di Roma antica rappresentano, oltre che la propria funzione mitica (la giovanile prudenza di Papirio: Fiori di filosafi, XIII [qui alle pp.524-5]; Novellino, LXVII [qui alle pp. 856-7]; l'incorruttibilità di Fabrizio e di M. Curio: Novellino, LXI [qui alle pp. 846-7]; Mon., II, v, 21; Conv., IV, V, 13; Purg., Xx, 25-7) i simboli di una società civile che ritorna ad essere, dopo i secoli feudali, un modello da imitare: «E chi dirà che fosse sanza divina inspirazione, Fabrizio infinita quasi moltitudine d'oro rifiutare, per non volere abbandonare sua patria? Curio, da li Sanniti tentato di corrompere, grandissima quantità d'oro per carità de la patria rifiutare ... ? e Muzio la sua mano propria incendere ... ? Chi dirà di Torquato, giudicatore del suo figliuolo a morte per amore del publico bene, sanza divino aiutorio ciò avere sofferto?» ecc. (Conv., IV, v).
Il ricordo di Roma, che specialmente in Italia era perdurato consolante e ammonitore, si trasforma in sentimento attuale, vivo, quasi che solo una pausa condannata all'oblio dividesse l'oggi da un ieri glorioso. Sarà opera degli umanisti approfondire questa coscienza e trasformarla in azione coerente; ma nel Duecento colpisce ancor più il constatare come i quadri storiografici medievali si aprano in direzione di una idealizzata memoria della latinità: e Cesare e Cicerone rappresentino una vicenda che ancora commuove e pare riflettersi nel presente; e i pericoli della Repubblica, le mene di Catilina, siano narrati e letti con partecipazione rinnovata.
Era facile rinnovare questa partecipazione: le istorie, alle quali i Toscani non avevano bisogno di essere esortati, sublimavano in una prospettiva. universale la passione politica che era allora il sentimento più vivace, arrabbiato: fors'anche al di sopra dell'interesse personale. Questa passione - che costituiva un altro segno della rinata coscienza collettiva, entro i limiti delle prime cellule comunali - era riuscita a prorompere quando ancora la lingua balbettava le sue prime frasi in volgare (Ritmo bellunese, Ritmo lucchese); aveva suggerito la balenante concisione di una lettera senese del 1260; e mentre saliva subito sulle alture di un'eloquenza robusta e senza residui per opera dei poeti (gli anonimi autori di serventesi; Guittone- altrettanto efficace nella prosa della Lettera XIV [qui alle pp. 60-7] -, Chiaro Davanzati), riusciva a dare efficacia allo stile generalmente monotono dei cronisti: poteva insomma balzare dall'improperio popolaresco, magari esternato in forma di proverbio, alle invettive della Commedia.
Nelle sue forme più immediate, questa passione ispira la partigianeria di Comune e di partito; nelle più mature, si esprime con la polemica, quasi tutta in lingua latina, sui diritti della Chiesa e dell'Impero. Come grado intermedio si può indicare la ricerca, svolta con metodo storico o pseudostorico, di ascendenze secolari al moderno sistema di forze: quando gli storici, com'è loro abitudine nel Due e Trecento, iniziano il loro racconto dalla lotta tra Cesare e Catilina o dalla fondazione di Fiesole, essi cercano di portare su un piano più grandioso e venerando le lotte alle quali partecipano. Ed è questa trasposizione che innalza anche il potenziale emotivo delle vicende passate: citiamo- per tornare all'attualità di Catilina nella Firenze preumanistica - il confronto istituito da Dino Compagni tra Corso Donati e Catilina, non senza reminiscenze sallustiane: «Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello di corpo ... con l'animo sempre intento a mal fare, col quale molti masnadieri si raunavano e gran séguito avea, molte arsioni e molte ruberie fece fare ...» (Cronica, II, XX).
Di qui la particolare propensione, italiana e toscana, alla storia: che si sviluppa talora, caratteristicamente, come un allargamento del registro contabile o della memoria familiare, costituendo una tradizione che va da Ricordano Malispini a Giovanni di Pagolo Morelli. Storia contemporanea, s'intende (a parte certi fantasiosi blasoni familiari), che rievoca la cronaca, anche la cronaca nera, di un ambiente ancora provinciale: dove la rottura di un fidanzamento può dividere in due fazioni una città, dove le operazioni militari, per lo più modeste, sfogano la furia di risentimenti campanilistici.
Nella seconda metà del Duecento, infatti, occorre registrare un fitto movimento nello scacchiere politico: quello, appunto, che occupava maggiore spazio nelle cronache. È il momento di accennarvi, ora che la nostra attenzione s'è fermata, e definitivamente, in territorio toscano. In poche parole, si tratta del predominio progressivamente affermato da Firenze sulle altre città toscane: prima su Volterra, Pistoia e Arezzo; poi su Lucca e Siena; infine su Pisa. Posizione geografica, organizzazione industriale, abilità nel commercio, alleanze, ultimi privilegi feudali, presenza di seggi vescovili: queste sono le principali sorgenti di energia a cui attinsero le città toscane in una lotta capillare e continua. Firenze ebbe il sopravvento: ma le tracce della resistenza durata dalle città vicine sono abbastanza numerose. La più nota è la presenza nei testi fiorentini di elementi linguistici provenienti dalle altre città toscane; la più curiosa, in sede letteraria, è il predominio conservato dagli scriptoria di Pisa, Arezzo e Siena: sicché leggiamo quasi sempre in trascrizioni non fiorentine le opere composte a Firenze.
L'interesse per il passato rientrava dunque nella coscienza, e persino nella passione presente. Ed è caratteristico della situazione dugentesca il campeggiare -nel sentimento - di rancori provinciali se non familiari, quando ormai l'orizzonte- nel freddo calcolo degli interessi finanziari - ha un diametro che congiunge il Levante, sino alla Cina, con le Fiandre, e - nel sistema degli equilibri politici - inscrive un'Europa già progrediente verso grandi raggruppamenti e grandi schieramenti.
Di fronte a questo orizzonte lo sguardo è tutt'altro che disattento; ma sereno, pacato. I viaggi sono subito accompagnati da una letteratura descrittiva, che s'innesta immediatamente nel filone dei notiziari sui cambi, sulle merci, sui porti (come la cronaca in quello dei libri di conti); e che segna un primo avviamento alla curiosità scientifica ed etnografica. Questa letteratura può essere considerata come il punto di convergenza di numerose tradizioni e aspirazioni. Perché, come l'autocoscienza del cittadino si sviluppa in seno alla sua attività pratica, così l'osservazione di uomini e paesi precedeva e stimolava la curiosità verso la natura e le sue leggi; e perché alle esigenze della fantasia, soddisfatte in genere dagli avvenimenti del passato o da finzioni romanzesche non indigene, si offrivano gli amplissimi pascoli delle regioni acquisite insieme al commercio e alla conoscenza diretta. Da questa convergenza di aspirazioni nasce la fisionomia del Milione - tanto diffuso anche in Toscana: in cui l'inchiesta di prima mano rafforza e contiene il lungo nastro di fantasie e travisamenti pseudoscientifici di cui pure essa costituisce un punto di arrivo; in cui le «cose viste» e il tono da memoriale campeggiano su uno sfondo novellistico e talora epico per il quale Marco Polo più dovette sentire necessaria la collaborazione di Rustichello.
In verità, il Milione e la Composizione del mondo, qualunque sia il loro valore nella storia delle scienze, sono i primi segni di una conoscenza non mediata del mondo. Il carattere compilatorio della scienza medievale (oscillante tra superstizione e simbolismo), dopo aver subito i primi colpi nel settore della matematica - sensibile alle esigenze della prassi commerciale e creditizia-, in queste due opere appare già minacciato dalla osservazione e dalla sperimentazione. E così le monotone nomenclature di Ristoro sono animate dall'entusiasmo e dalla risolutezza dello scienziato che controlla, interpretandole, le leggi della natura («E potremo iurare salvamente che e·lli nostri die averno trovato manifestamente movare et essare cessato lo capo del Cancro da settentrione enverso lo mezo die. E segno de ciò si è che noi averno considerato spesse volte collo instrumento che se convene a ciò, e·lla nostra regione, et averno trovato manifestamente, senza dubeto, lo sole essare abassato e·llo primo ponto de Cancro, e cercando non lo trovamo tanto alto quanto noi solavamo; e se 'l capo del Cancro è mosso e cessato, è mosso e cesato Capricorno, et Ariete, e Libra, e tuta la spera colle sue stelle», I, I, XVII, qui a p. 993); lo schedario dei fenomeni avvia alla contemplazione dell'armonia tra le forze del cosmo e la natura familiare che ci circonda («Stando lo sole de logne da noi e·lle parti del Capricorno, trovamo la terra freda e chiaciata e soda e stretta, e quasi denudata o povara: come lo campo che ne fosse cessato el lavoratore, e fosse sodo senza frutto, e non fosse anco lavorato. E rapressandose lo sole uno passo, trovamo la terra, ch'era fredda e chiazata, e stretta e soda, essare rescaldata e sghiaciata, e ensollita e deradata da lui; e halla quasi lievetata, e pare che s'aparecchi a recevare la 'mpressione che li vole essare data dal cielo; secondo la cera rescaldata e ensolita per recevare la 'm pressione del sugello; e anco secondo lo semenatore, che lavora lo campo ch'era sodo, che 'l derada e ensollescelo collo lavorio, perché la radice de la semente li possa mellio entrare, e anco perché l'aqua e l'aere li possa mellio entrare, per cresciare e per inumedire la radice de la pianta. [E venendo] lo sole più su uno passo, trovamo la terra e l'aqua engravedata da la virtude e da la intelligenzia del cielo, e la terra germolliare tutta, e essare mossa a la generazione» ecc., VI, 1, III, qui a p. 1008).
Certo, per questa esplorazione del mondo gli Italiani non possedevano ancora un grande assortimento di strumenti nautici: ai quali, nelle prime fasi, utilitaristiche, di attività, non si era ancora potuto provvedere. Bussole e goniometri culturali furono avvedutamente cercati nel mercato più ricco e sicuro, quello francese: si trattasse di compilazioni scientifiche o morali, storiche o filosofiche. Non solo: ma si accolsero con pochi adattamenti persino le convenzioni sociali e le invenzioni letterarie, annettendo così, di fianco al proprio passato, il passato e il presente della nazione vicina e più evoluta.
Scorcio estremamente audace dei volumi storici, mitici e teoretici: tale il risultato di una vorace acquisizione dei precedenti culturali. L'antichità viene recuperata prima d'essere ben compresa (sarà questo il compito dei tre secoli successivi); dai prossimi mercati letterari s'importano sistematicamente non solo le compilazioni didascaliche - le quali potevano svolgere con facilità la loro funzione in un ambiente diverso - ma anche le invenzioni cavalleresche e cortesi così profondamente radicate nel nativo terreno ideologico (nella battaglia di Campaldino, afferma la Cronica fiorentina, gli Aretini «fecero xij paladini tra loro, e più gagliardamente combattero che giamai facesse paladini in Francia», qui a p.924). La riuscita del trapianto -tanto fortunata da poter condurre a un Morgante, a un Orlando innamorato, a un Orlando furioso- scopre la necessità profonda di questa operazione: c'era da arredare un ampio spazio mentale, e il nuovo mobilio trovò a poco a poco l'ubicazione e l'illuminazione più opportune. E occorre aggiungere che leggende e convenzioni cavalleresche giungevano in Italia nelle redazioni più recenti, col marchio di un ambiente non più tanto diverso (pure nella Francia del Duecento si registra un imborghesimento e una maggior diffusione del costume signorile, divenuto ideale comune, anche se arduo). E d'altra parte in Italia il rinnovamento comunale si faceva strada in un paesaggio ancor caratterizzato da elementi feudali: sicché la civiltà poteva far suoi, trasformandoli, certi modelli di generosità e magnanimità e gentilezza che non si riferivano soltanto a fantasie romanzesche, ma a realtà prossime nel tempo e nello spazio (dalle corti padane alla curia di Federico), che vivevano ancora nella tradizione familiare della media nobiltà toscana pur immersa nella vita del Comune e prossima all'assimilazione con i compagni di lotte politiche. Il costume nobiliare, ideale sia pur remoto, troverà un'alta celebrazione nelle novelle eloquenti del Decameron, che per altro è irrorato dalla vitalità irrefrenabile delle nuove classi.
L'usucapione dei temi avviene (è la via più spedita) attraverso un'usucapione di testi: è questo il secolo del volgarizzamento; e non si può attuare con calma la discriminazione delle opere (Bono Giamboni traduce l'Arte della guerra di Vegezio, le !storie di Orosio, la Miseria dell'uomo di Lotario Diacono); ed è ancora scarso il rispetto dei diritti d'autore, e persino dell'integrità dei testi, mescolati e sovrapposti (possiamo riferirei di nuovo a Bono). Del resto la distinzione tra volgarizzamento e opera originale è assai elastica: se Bono tratta come cosa sua la materia del De miseria, rifacendone la cornice, eliminando e aggiungendo capitoli, riassumendo e ampliando, e guardandosi dal riconoscere il suo debito verso Lotario e le altre sue fonti, d'altra parte i racconti del Novellino (spesso, per quanto ci consta, abilmente rielaborati), son talora dedotti quasi alla lettera da raccolte affini.
Più frequentemente che testi latini, si tradussero testi francesi: l'impegno richiesto era molto minore, per affinità di lingue e per affinità di spiriti. E ciò non vale solo per scritti recenti: opere della letteratura latina o in latino si diffusero in Italia per tramite francese: il Roman de Troie, i Fets des Romains, i Dits des philosophes, il Livre dou gouvernement des rois, in concorrenza con l'Eneide, il Catilinaria, il Liber de dictis philosophorum, il De regimine principum. La rassomiglianza dei due volgari permetteva a . traduttori indolenti di ripetere, con pochi ritocchi fonetici, le parole in cui si imbattevano; ma costituiva già la base per un cosciente e vivo pastiche in scrittori come quello del Fiore. Dapprima, anzi, il riconoscimento della tradizione didattica d'oltralpe aveva suggerito di comporre senz'altro in francese: onde il Tresor, il Divisameni dou monde (o Milione)- a parte altri motivi contingenti e personali.
Il toscano, insomma, era in principio estremamente ricettivo verso le forme galliche, la cui progressiva eliminazione, riscontrabile nella tradizione manoscritta dei testi, indica non l'innalzamento di una barriera, ma almeno un tentativo di controllare il transito linguistico. Intanto, le compilazioni francesi mettevano a disposizione del pubblico un sistema di nozioni, di fantasie, di suggerimenti già armonizzati al servizio di una società moderna: già in Francia s'era attuato, contemporaneamente alla celebrazione letteraria dei nuovi ideali, lo spoglio dei materiali ancora fruibili della cultura classica e medievale. Ciò servì, in Italia, come un suggerimento.
La cultura toscana non sorge dunque su un terreno precedentemente dissodato, ma si svolge come un aspetto della formazione e dell'affermazione di una civiltà economico-politica. Da ciò derivano, in gran parte, le sue caratteristiche originali: perché tra le offerte delle precedenti imprese culturali la Toscana poté liberamente accogliere e respingere, e accogliendo trasformare e assimilare. Gli scrittori toscani, dopo un breve periodo di apprendistato, ripercorrono la strada per conto loro, ben attenti però a ciò che gli altri hanno fatto; e in pochi decenni possono salire su posizioni dominanti. Sintomatico segno di questa maggior libertà rispetto a regioni culturalmente già illustri è, per esempio, il progressivo incremento dei volgarizzamenti dal latino rispetto alle versioni dal francese, che pure offrivano il vantaggio di una facilità non solo linguistica, ma contenutistica. E il metodo del volgarizzamento viene presto preferito a quello del rimaneggiamento (che pure sarebbe dovuto riuscire accattivante come tramite di attualizzazione) e si caratterizza per la costante fedeltà alle forme prosastiche. Queste preferenze (per fonti latine, per versioni aderenti, per la prosa) sono da collegare col fatto che non preesistevano convenzioni narrative a cui dover adeguare questi prodotti, se non d'altra forma mentale, certo d'altra lingua (si pensi invece alla letteratura didattica lombarda in ottonari). Ne risultò un contatto più proficuo, un avvicinamento magnifico al mondo classico, da cui presto il Petrarca e il Boccaccio avrebbero saputo trarre le conseguenze. È un poco ciò che avviene nella lingua: il fiorentino, che fu poi italiano, giungendo a solidificare le sue strutture più tardi d'altre lingue romanze, ed essendo meno di esse influenzato da fatti di sostrato e di superstrato, si orientò con sicurezza verso il modello latino, raggiungendo in breve un assetto definitivo.
È così possibile spiegarsi gli atteggiamenti già classici, prerinascimentali della letteratura toscana; e l'architettura offre un parallelo impressionante. Perché non è solo questione di moduli greco-latini trascritti da sarcofagi e costruzioni paleocristiane, e riprodotti in organismi diversi- fenomeno verificatosi ripetutamente in tutta l'architettura occidentale-, ma di una particolare fedeltà al ritmo, ai rapporti, allo spirito: di cui sono esempi ovvii il battistero di San Giovanni e San Miniato al Monte. Anche qui, ci pare, oltre a un'imponderabile sintonia del gusto, che non ci azzardiamo a tirare in causa, giovava la relativa lontananza dal grande movimento architettonico lombardo e, più generalmente, romanico (la Toscana, per esempio, non partecipa agli esperimenti nell'uso della copertura a volte: rimane ferma alla più semplice soluzione delle capriate): nessuno schema tecnico o estetico si sovrapponeva alle linee del monumento classico.
Il «campo» determinato dai due poli dell'influsso francese e di quello latino si configura con un disegno analogo a quello ora tracciato anche se si esamina la tecnica dei volgarizzamenti. I volgarizzamenti costituirono, s'è visto, il tramite principale per la fondazione della cultura; nel loro vario grado d'accuratezza (per lo più modesto) essi servirono a misurare il coefficiente di elasticità del volgare che contemporaneamente imboccava, ma con maggior prudenza, la strada dell'autonomia. Vi fu, certo, un sensibile influsso dei volgarizzamenti sulla prosa originale; ma il linguaggio dei volgarizzamenti è più significativo come indice delle facoltà di assimilazione del volgare, in connessione con le attitudini ricettive del costume e del gusto. I vocaboli gallici, così frequenti, e talora stridenti, nelle versioni, entravano nel toscano attraverso la moda e le istituzioni feudali e il commercio e le guerre; i vocaboli latini si scaglionavano sulle principali alture conquistate nell'ascesa del pensiero teoretico e scientifico.
Se però si cercano le più profonde influenze dell'ambito sintattico, vicine alle sedi della formulazione del pensiero, proporzioni e rapporti risultano molto diversi. La sintassi francese, geneticamente affine a quella italiana, presenta la stessa semplicità e naturalezza di esposizione, la stessa tendenza polisindetica o paratattica; comunque, è dato raramente di poter indicare qualche costrutto di certa origine gallica nei prosatori toscani, nei quali per contro si rileva facilmente la libertà dalle norme sull'ordinamento delle parole e sulla dipendenza delle proposizioni osservate con certa costanza nella prosa francese. Vogliamo rinunciare a definizioni troppo generiche e imprecise (riportando per esempio la prosa narrativa a precedenti francesi, quella teoretica a precedenti latini)? Scorriamo il volgarizzamento della Disciplina clericalis e il Fiore di filosafi (compendio dello Speculum historiale): avvertiremo subito l'affinità di questi testi con i Conti di antichi cavalieri e col Novellino. Queste quattro opere individuano un piano stilistico-sintattico sul quale l'origine in gran parte gallica dei Conti e del Novellino, quella latina della Disciplina e del Fiore di filosafi, quella indigena di altre parti del Novellino lasciano ben scarse tracce.
Diverso il caso del latino. Noi riteniamo che si sia ecceduto nell'attribuire all'operosità dei volgarizzatori un influsso decisivo; e che si debba anzitutto tener conto del volgarizzamento implicito nell'atto di trascrivere in forma volgare un contenuto culturale le cui sorgenti erano quasi sempre latine, sia pur medievali. Ma in questo senso più ampio, l'apporto del latino alla costituzione della prosa volgare è decisivo. Vediamo la sintassi elementare e rozza dei libri di conti e delle lettere; vediamo quella compendiaria delle prime cronache: la povertà di nessi e di sfumature si riferisce a un pensiero ancora aderente alle cose nella loro bruta interdipendenza: siamo in un momento economico. Il passaggio al momento etico e teoretico, col quale coincide la nascita della prosa toscana, avviene appunto attraverso una ricognizione di rapporti più sottili e complessi: con la guida dei testi latini, e con strumenti sintattici elaborati sul loro modello. Si badi: costruzioni dedotte direttamente dal latino sono più numerose di quelle tratte dal francese, ma non moltissime; è nel giro del periodo, nel calcolo esatto dell'espressività raggiungibile con la posizione delle parole, con l'equilibrio delle opposizioni e dei parallelismi, con la perspicuità dei richiami verbali, con la sicurezza nei rapporti di subordinazione, con l'armonia del discorso, con l'ampiezza dell'intonazione, che il modello latino agisce e continuerà ad agire. E i volgarizzamenti ci permettono, senz'altro, di seguire questo progresso: perché dalla metà del Duecento alla metà del Trecento non solo si impara a scegliere con maggior coscienza critica gli autori, ma la traduzione, dapprima disinvolta e approssimativa, si fa sempre più sensibile alla bellezza, aderente al tono.
III. La distinzione degli stili (che si rifaceva soprattutto al formulario della Rhetorica ad Herennium) agiva abbastanza esplicitamente sul lavoro degli scrittori dugenteschi. Certo non si può tentare, in base ad essa, una rigida classificazione delle opere letterarie; ma tuttavia queste si raccolgono chiaramente in gruppi che proprio il tono stilistico caratterizza. Va anzi ricordata, a rivendicare la coscienza della distinzione, la pluralità di stili entro una medesima opera (il Fiore di rettorica passa da una piana intonazione espositiva all'artificiosità degli esempi di ornato; la Rettorica di Brunetto traduce con una certa solennità il De inventione, mentre conserva nel commento una dimessa intonazione didattica), o il programmatico pluristilismo di alcuni autori (è ancora Brunetto che sale un secondo gradino per avvicinarsi all'cc alto latino e forte» delle orazioni ciceroniane). Si tratta insomma di tendenze più che di norme precise, come sembra indicare l'elenco in progressione di Dante: (( gradus insipidus, sapidus, sapidus et venustus, sapidus et venustus etiam et excelsus» (De vulg. el., II, VI, 4-5).
A non utilizzare tutta la tastiera degli stili i prosatori erano condizionati dalla urgenza delle loro finalità pratiche, didascaliche. E così la carriera dello stile più elaborato resta agli inizi confinata in territori laterali: da Guido Faba a Guittone, con qualche apparizione in volgarizzamenti particolarmente impegnativi, per esempio quello giamboniano di Orosio. L'esperimento guittoniano ebbe scarsa vitalità, almeno nella sua formulazione originaria: mentre il rigorismo morale di Guittone suonava troppo severo tra il fervore dei traffici, gli interessi terreni della società toscana, il suo stile, che caricava il forte contenuto oratorio con gli ornamenti delle scuole medievali e, per un caratteristico equivoco, della poesia volgare (prestilnovistica), era in contrasto col gusto quasi umanistico che Dante (condannando i guittoniani «nunquam in vocabulis atque constructione plebescere desuetos») si apprestava ad esprimere e celebrare, esortando a leggere i «regulatos poetas» - Virgilio Ovidio Stazio Lucano - e gli autori di «altissimas prosas»- Livio Plinio Frontino Orosio (De vulg. el., II, VI, 7-8). E non si legge senza curiosità, nel manoscritto Panciatichiano del Novellino (XXXVI), un frammento della Lettera I di Guittone estremamente semplificato nello stile, e utilizzato come breve, episodica esortazione. Maggiore fu la risonanza delle composizioni politiche di Guittone, nelle quali l'oltranza stilistica corrispondeva immediatamente alla violenza della passione: tanto che anche il modesto compilatore della Cronica fiorentina (qui a p. 924) si fa premura di aggiungere, dopo la descrizione della battaglia di Campaldino, che «sconfitti, morti e presi gli Aretini, frate Guittone, cavaliere dell'Ordine di Bengodenti, al Comune di Firenze scrisse una lettera, la quale disse in questo modo ...» (menzione, ahimè, interrotta, e lettera, ahimè, perduta).
Lo «stilus sapidus et venustus etiam et excelsus» ha uno degli esempi più mirabili nell'eloquente difesa del volgare che apre il Convivio; e riaffiora nei punti più esposti del trattato. Il Convivio, si sa, illustra i capisaldi del pensiero dantesco in una forma intenzionalmente razionale, che tuttavia culmina, cedendo all'urgenza del sentimento, in espressioni più immaginose e direttamente efficaci. Ad ogni modo l'intendimento di Dante è didascalico (in forma personalissima), oltre e più che artistico; e alla drammatica alternanza di dimostrazione e perorazione non poteva certo corrispondere un costante impiego dello «stilus excelsus». Questa osservazione non vale soltanto a definire e spiegare l'episodicità dello «stilus excelsus» nel capolavoro di Dante prosatore, ma a rilevare come un sintomo della nuova stagione letteraria il modo più libero e fresco di osservare le gradazioni stilistiche, la coscienza che lo «stilus excelsus» non poteva più essere sovrapposto come una vernice ad un contenuto astrattamente definito «nobile», ma, in un contesto caratterizzato da una nuova coscienza della realtà, avrebbe opportunamente arricchito dei suoi stilemi le zone mosse dall'ispirazione e dall'entusiasmo, o sollevate in alto dalla contemplazione.
Ampia è invece la gamma dei toni intermedi. Intanto istituzionalizza i propri stilemi, pur senza proporsi risultati d'arte, la prosa espositiva dei chiosatori (ben rappresentata dalle chiose di Brunetto alla Rettorica), che nella sintassi riproduce, con la trasparenza dei nessi e con la prevalente paratassi, la gradualità dell'insegnamento. È semmai in funzione di ordine e di chiarezza che in questa prosa hanno accoglienza certi espedienti di disposizione e di distribuzione di nobile origine: all'esteriorità dell'ornato subentra l'immanente armonia di un pensiero piuttosto elementare (e, in parte, di proposito), certo chiaro e funzionale. Maggiore sforzo viene applicato al settore del lessico, così da conferire al volgare possibilità semantiche prossime a quelle del latino medievale; e l'impegno nomenclatorio già incomincia a preparare e ad utilizzare un deposito di prefissi e suffissi e radici che rende il giovane linguaggio pronto a scattare sulla dirittura dell'espressione concettuale. A questo genere espositivo si può anche aggregare la Composizione del mondo di Ristoro, notando però che la libertà di movimenti (libero maneggio delle fonti e dei risultati sperimentali) e l'ingenuo entusiasmo della scoperta dànno a molti brani un nuovo calore, un respiro più ampio.
Queste scritture di scuola- s'intenda in senso molto ampio- contenevano in sé elementi che più tardi avrebbero raggiunto un notevole potenziale energetico. Quando, cioè, il rapporto tra esposizione, ora prevalente, e dimostrazione, ora appena tentata, e di rado, si capovolgerà, sarà proprio lo sforzo di dare armi al pensiero, a dare, anche, efficaci e numerose armi alla prosa. Questa rivoluzione, che orienterà lo stile mediocre in direzione di quello sapido o persino eccelso, avrà il suo centro nel Convivio, che costituirà dunque, nella storia della prosa, un ponte verso il futuro.
Piena dignità formale competeva, secondo l'oraziano «Sumite materiam ...», tanto caro ai teorici medievali, agli argomenti filosofico-religiosi. Questi argomenti erano quasi sempre attinti alla letteratura latina (o francese) più o meno prossima, e soltanto muniti di un nuovo involucro toscano. Di qui il minor travaglio richiesto per la messa a punto complessiva, rispetto alle scritture più scolastiche; e pare dì trovarsi su un terreno che, sebbene più solido, non offre ormai grandi attrattive al travaglio spirituale del secolo. Ma quando uno dei primi traduttori fiorentini riesce a creare un'opera come il Libro de' Vizi e delle Virtudi, egli arricchisce dì un esemplare pregevolissimo la fitta serie di composizioni allegorico-morali che però, sospesa in uno spazio librato molto al di là degli interessi quotidiani (e diciamo anche interessi di moralità quotidiana, e interessi letterari - il gusto narrativo e romanzesco – e religiosi - il gusto agiografico), non era destinata ad avere in Italia una grande fortuna. Nel tempo stesso però Bono s'inseriva in un altro ordine di esperienze: quello relativo allo stile e alla sintassi. Al trattato allegorico la tradizione romanza riserbava la forma metrica: e si va dal Roman de la Rose, così apprezzato anche in Italia, sino ai poemetti lombardi e veneti, e al Tesoretto, e al Fiore, e all'Intelligenza. La preferenza accordata alla prosa da Bono, che già si era cimentato in volgarizzamenti ardui come quelli di Orosio e di Vegezio, dipese da un giusto calcolo stilistico e da una buona sintonia con le propensioni toscane. Gli ottonari del genere dottrinale avrebbero imposto costrizioni al discorso che nell'orecchio di Bono risonava col ritmo della prosa latina (echi vicini e lontani: di Boezio, Prudenzio, san Gregorio; e più di tutti della Bibbia). La scelta della prosa rappresenta dunque in Bono una presa di coscienza del gusto preumanistico contro le rielaborazioni «romanze».
La gara ingaggiata dai volgarizzatori con i loro testi latini, così da ottenere, con altri mezzi, un adeguato rendimento linguistico: esattezza semantica, ricchezza aggettivale, equilibrio dei coefficienti espressivi, avveniva per lo più nell'àmbito delle «sentenze», sia per il valore molto alto che ad esse si attribuiva, sia per la loro necessaria concentrazione gnomica. Come si può ben constatare nel Fiore di filosafi, che dal vivace e corsivo andamento delle parti narrative, del tutto indipendenti dal modello, passa al ponderato e fedele impegno dei florilegi di sapienza. Nel Fiore di filosafi si ha dunque una duplicità di toni: l'equilibrio dinamico dei racconti e l'equilibrio statico delle sentenze. Ma la soluzione più matura consisteva nello strappare la sentenza alla sua fissità atemporale per tenderla verso un determinato bersaglio dimostrativo (nello stesso modo che la frammentarietà delle chiose poteva trovare una salda successione nei progressi del ragionamento). La battaglia principale si chiamerà Convivio; e nel Convivio si assesteranno le due correnti anche stilistiche: l'esplicativa e la sentenziosa. Ma un primo scontro, già ricco di belle mosse e di gloria, è nel Libro de' Vizi e delle Virtudi: il contenuto dimostrativo non nuovo, anzi ripreso dalla letteratura edificante medievale, è strutturato in un assieme elegante e proporzionato e non privo di efficacia. Il modulo base è stato trovato da Bono, anche da Bono, nella retorica; ma non è più la retorica goticamente irta di pinnacoli di Guittone, bensì una retorica dal respiro ampio e pausato. Bono ha scelto secondo un criterio che pare di poter riassumere così: scartare i procedimenti gratuitamente esornativi, accogliere quelli che possono rilevare i nessi dell'argomentazione o, tanto meglio, ravvivarli: ciò significa rivalutare, contro l'omatus facilis prediletto nel Medioevo, il classico ornatus difficilis, e specialmente l'amplificatio (e sono appunto le direttive poi ben altrimenti attuate da Dante). Il risultato è una intonazione di alta eloquenza, la sapiente concatenazione di argomenti non peregrini.
Subiva così una prima sollecitazione l'inerzia del materiale gnomico, strappato alla fissità del vero eterno e già smosso dal pathos dell'esortazione; ma questo materiale, con un'ultima spinta, Bono lo imbarca sulla corrente sicura del racconto, affidando la successione degli insegnamenti alle tappe di un viaggio allegorico, di un pellegrinaggio di perfezione. Così la sintassi di tipo sentenzioso-eloquente acquista mobilità e durata: la frattura che notavamo nel Fiore di filosafi incomincia a saldarsi, e già si possono alternare armoniosamente le coordinate e le relative della narrazione con le simmetriche membrature e le eloquenti progressioni dell'eloquenza.
La prosa narrativa presenta- e non c'è da stupirsene- una minor varietà non solo di atteggiamenti, ma di implicazioni. A quali tradizioni, infatti, potevano collegarsi i primi narratori volgari? Da un lato a quella del romanzo e della novella francesi (gesti e parole ritmicamente frazionati e sospesi al filo di una fantasia ormai meccanicizzata), dall'altro a quella dell'exemplum latino (coltivata nel Medioevo con una semplicità, se non rozzezza, di forme, dovuta talora alla funzione puramente mnemonica di scritti destinati all'amplificazione del predicatore; quasi sempre alla finalità di edificazione, alla quotidianità dei contenuti, alle inserzioni dialogiche). Ciò non toglie che anche nei testi narrativi si possa intravvedere una gamma di avviamenti stilistici.
Un tono medio pare di percepire nella letteratura romanzesca (e infatti Bono ha potuto riprenderne gli atteggiamenti, nelle zone connettive della sua allegoria, senza provocare contrasti con le parti di maggiore impegno retorico). Sarà, probabilmente, per l'impiego di stilemi messi a punto nella lunga carriera francese del genere; sarà, anche, per la destinazione edonistica di questa letteratura: fatto si è che i romanzi, pur sfociando, almeno per il lettore d'oggi, in un oceano di monotonia, dimostrano nello svolgimento della narrazione e del dialogo una certa finitura, che certamente attua una serie tradizionale e non codificata di norme nella scelta degli aggettivi, nella posizione delle parole, nell'armonia continua del dettato. Splendida l'accoglienza riservata dai lettori toscani a questa prosa di romanzi, che fu presto introdotta nella catena di una produzione in serie: Artù e Tristano, Ginevra e Isotta acquistarono una rinomanza persino popolare, e singolarmente durevole. Ma si trattava insomma di una letteratura d'evasione; ed evasiva risultava, rispetto alla realtà, la melodia astratta del suo stile.
Alle vicende quotidiane, alle passioni a misura normale, agli ideali per tutte le borse, alle beffe di gente arguta e non molto raffinata si adattavano assai meglio i moduli veloci degli exempla. Altra maniera di scorciare i ritratti e i discorsi: con un segno nervoso e libero, con le reazioni immediate del parlato. Ma in questo caso la tradizione può aver suggerito al massimo la misura media del racconto, il gusto dell'abbreviatio; i procedimenti della narrazione fecero le loro prove in scritture assai eterogenee, trovando la loro unità, prima che in opere letterarie, nella comunanza del gusto. Comunanza di gusto ch'è anche comunanza di idealità e di interessi: tanto che basta scorrere le prime scritture a carattere utilitario o comunque non letterario per avvertirne già i segni e i conati espressivi. Il diligente, piatto resoconto delle transazioni commerciali, nelle Lettere senesi, si colora di risentimento, vibra nella tensione dell'odio municipale là dove, per esempio, si dà notizia della vittoria di Montaperti; e l'andamento paratattico aguzza le punte di ogni frase, di ogni espressione popolarescamente rilevata. I registri pettegoli e crudeli della Cronica fiorentina ospitano pagine di grande effetto: quelle dedicate ad avvenimenti vicini, che il compilatore riferisce con partigiana vivacità.
Le parti guelfa e ghibellina avranno avuto origini più serie di quelle che attribuisce loro la tradizione contemporanea, e perciò anche la nostra Cronica; ma a noi importa il senso che davano agli avvenimenti coloro che ne erano in qualche modo partecipi. Ebbene, che le parti si siano costituite in seguito all'uccisione di Buondelmonte, e che Buondelmonte sia stato ucciso per la rottura di un contratto matrimoniale, e che la rottura del contratto sia avvenuta per istigazione di Gualdrada Donati, che così rovinò il tentativo di pacificazione tra gli amici di Buondelmonte e quelli degli Amidei, e che pacificazione occorresse dopo una banale rissa, provocata da un tagliere carpito e da un altro rovesciato in faccia a un avversario, è una spiegazione che rappresenta bene la radice familiare, personale, viscerale delle passioni politiche nei Comuni toscani; e spiega perché il racconto della Cronica tragga dai particolari descrittivi(«levò uno tagliere fornito dinanzi a messer Uberto delli 'Nfangati ... villanamente riprese messer Uberto predetto .. . onde messer Uberto lo smentio per la gola, e messer Oddo Arrighi li gettò nel viso uno tagliere fornito di carne ... e messer Bondelmonte diede d'uno coltello a messer Oddo Arrighi per lo braccio, e villanamente il fedio» ecc.), dalla trascrizione diretta dei dialoghi («- Cavaliere vitiperato, c'hai tolto moglie per paura dell'Uberti e di Fifanti; lascia quella c'hai presa e prendi questa, e sarai sempre inorato cavaliere -»; «- Se tu il batti o fiedi, pensa prima di fare la fossa dove tue ricoveri; ma dàlli tale che si paia, ché cosa fatta ca[po] ha -», qui alle pp. 916-7) la sua forza drammatica.
Il risentimento politico si concentrava nell'espressione sprezzante(«Fiorenza conciaremo noi sì, che giamai no ce ne miraremo drieto»; «elino hano sì grande paura di noi e de' nostri cavaieri, ch'elino si scompisciano tutti», Lettera senese del 1260), nella epigrafica brevità del motto: da «cosa fatta capo ha» sino a «quando un asino raglia un guelfo nasce». Sono procedimenti propri del linguaggio popolare; che però risultarono così congeniali al gusto toscano, da assurgere a paradigmi estetici e a misura della vivezza di spirito. Lo attesta il Novellino, citando in primo piano, tra i propri argomenti, i «fiori di parlare», e suggerendo che uno solo di essi può ben costituire la sintesi di un'esperienza umana: «sono stati molti, che sono vivuti grande lunghezza di tempo, e in vita loro hanno appena tratto uno bel parlare, od alcuna cosa da mettere in conto fra i buoni» (qui a p. 797). E nel Novellino il lampeggiare di un bel motto domina quasi sempre il breve spazio dei racconti contemporanei.
Attenzione ai fatti e ai sentimenti quotidiani, trascrizione veloce degli avvenimenti, concentrazione verbale e proverbiale: questi elementi, che si riscontrano spesso nelle lettere e nelle cronache, e si ritrovano poi nelle opere con vera dignità artistica, furono comunque correlati da una potente vocazione narrativa. Questa vocazione riesce già a farsi strada nel territorio dei volgarizzamenti. Ecco il Fiore di filosafi, abbastanza esatto e rispettoso nella traduzione delle massime latine, apparire più libero, o liberissimo, nei brani narrativi, dove i suggerimenti dello Speculum historiale sono felicemente rinnovati, non importa se ricorrendo o no ad altre fonti («Plato cum dives esset, et thoros eius Dyogenes lutosis pedibus conculcaret, ut posset vacare philosophie elegit Achademiam» diventa «Plato, essendo sommo filosafo, era molto ricco. Sì che un altro filosafo, ch'avea nome Diogene, venne a lui e trovò grandi letta nella camera sua. E non li parlò, se non che con li piedi fangosi abatteo il letto, calpitando coltre di porpore; e quando avea forbiti i piedi, ed elli tornava fòri ed infangavasi via più, e tornava a ricalpitare il letto. E partissi, e disse a Platone : - Così s'abatte la superbia tua con un'altra superbia. - Ed allora Platone si partie e andonne con suoi discipoli in Accademia» [qui a p. 523]). Ecco la traduzione pedestre, e forse compendiaria, della Disciplina clericalis divenire oggetto di un totale rifacimento in uno dei manoscritti; e appunto, e soltanto, nei brani narrativi. Si confronti qualche brano della novella De integro amico (qui alle pp. 258-9). Quando i medici dichiarano che il male dell'ospite è d'amore, la ricerca della sua causa è avviata così, seccamente, nella Disciplina: «Hoc agnito dominus venit ad eum, et quesivit si qua esset mulier in domo sua quam diligeret. Ad hec eger: - Ostende michi omnes domus tue mulieres, et si forte inter eas hanc videro, tibi ostendam -» ; sicché, tra l'altro, l'indagine è provocata dal malato stesso, come se egli ignorasse quale volto muliebre lo abbia colpito. Nel rifacimento è l'amorevole padrone di casa che invita, prega ripetutamente l'ammalato, che si confidi: «- Amico mio e fratello mio, è cosa in questo mondo neuna che ti piaccia? .. . - Amico, io ti prego per l'amore di Dio e di neuna cosa ch'al mondo sia, che tu dichi se tra queste ha cosa neuna che ti piaccia, che tu nol mi celi, sì come t'è caro il mio amore. -» Affettuosa generosità, che fa vibrare di tenerezza la risposta dell'ospite, quando egli infine confessa l'origine della sua pena: «- Frate/ mio, questa è quella per eu' io muoio e quella che mi può dar vita, quando piaccia a te e a lei -» (in latino, soltanto: «Ex hac est michi mors et in hac est michi vita!»). Ed è tutta un'invenzione del traduttore la gara di altruismo fra i due amici, la trattativa matrimoniale con i parenti della donna : «lmmantenente questi de la casa ispodestò sé e misela in mano a lo 'nfermo, e disse: - Io la t'acomando; sì come io l'avea per me, così l'abbi tu. - E que' non volendola, e que' dandoglile, e' convenne che la togliesse; e conciossi co' parenti de la fanciulla, sì che si ne chiamare pagati; e questi gli fece bella camera e diegli bella sala ne la detta sua casa e fece grande nozze, e 'n grande alegrezza stettoro insieme» (in latino: «Quo a udito dedit ei puellam nobilem in uxorem cum omnibus que erat cum ea accepturus. Et preterea dedit ei ea que erat daturus puelle, si eam acciperet in uxorem»).
Una definizione stilistica di questa corrente narrativa può essere opportunamente basata sull'analisi del Novellino, che ne è, nel Duecento, il risultato più perfetto. Si possono esaminare due novelle vicine, e diversamente intonate (Xcvi, XCIX, qui alle pp. 876-8 e 879-80). La sintassi è semplice, anzi elementare: prevalgono il polisindeto («Riscaldato d'ira, la mattina per tempo si levò, e misesi sotto le pelli una spada rugginosa, e venne in capo del ponte. E là trovò Bito» ecc., XCVI; «Ma salio questi a cavallo, ed ella si gittò in su un altro de' migliori che v'erano, e an d aro via», XCIX) e, con effetto d'immediatezza, l'asindeto («disse alla fante molta villania, e domandolla dove quelli stava. Ella gliele disse a punto. Avidesi ch'era Bito», XCVI; «Giunse quella sera alle mura. Le porte erano tutte serrate; ma tanto acerchiò che s'abatté a quella porta dov'erano coloro. Entrò dentro. Andonne inverso la magione di colei», XCIX); tra le subordinate sono più frequenti le relative, le consecutive, i gerundi, e raramente si giunge a un grado di subordinazione superiore al secondo. La complessità sintattica riflette, in genere, il dominio sui rapporti causali e temporali dei fatti; orbene, la sintassi semplicissima del Novellino, oltre ad essere compensata da un'acuta facoltà di osservazione, da un uso sicuro del lessico, così da poter suggerire tali rapporti pur senza esplicitarli, mostra anche un'ammirevole attitudine ad evocare l'atmosfera psicologica entro la quale i fatti si svolgono. Al dipanarsi della novella XCVI sta a base un imbroglio pressoché disinteressato, compiuto per mero gusto della beffa (e il nome del Boccaccio può essere citato senza esitazione). Ma l'abile narratore ha svolto il racconto come un incontro, più che di due caratteri, di due ritmi: quello spezzato e stizzoso che corrisponde alla sospettosa avarizia di Frulli («era sì iscarsissimo e sfidato, che faceva i mazzi del camangiare e ano[v]eravali a [la] fante, e faceva ragione che pigliava»), e quello subdolamente sicuro e pacato del simpatico imbroglione Bito. Così alla messinscena di Bito («s'avea messa la più ricca roba di vaio ch'avea»), che appoggiata dal suo discorsetto tra confidenziale e signorilmente schizzinoso («- non ci sono se non io e la fante mia, che tutta la famiglia mia e in villa, sì che troppo mi sarebbe una derrata; e io li amo più volentieri freschi-») conquista con facilità la fiducia della fantesca («-Sì, posai a Wl bel cavaliere -»), risponde un accelerarsi del tempo narrativo col passare di Frulli dal sospetto all'ira al furore («annoverando più volte, pur trovava meno un danaio ... Quelli riscaldandosi co lei, domandolla se s'era posata a San Giorgio ... disse alla fante molta villania»). Ma a sua volta il furore di Frulli, che gli suggerisce un tragicomico travestimento guerriero e minacce incontrollate («Riscaldato d'ira, la mattina per tempo si levò, e misesi sotto le pelli una spada rugginosa ... Alza questa spada, e fedito l'avrebbe, se non fosse uno che 'l tenne per lo braccio»), e poi, tra la confusione della gente accorsa, si sfoga miseramente in un balbettio affannoso («Quelli il disse con tanta ambascia, ch'a pena poteva»), si placa di fronte al ritmo risoluto della risposta di Bito («- Ser Frulli, io mi voglio conciare con voi. Non ci abbia più parole. Rendete il danaio mio, e tenete la medaglia vostra. Ed abbiatevi il mazzo di cavoli con la mali[di]zione di Dio!») così da provocare l'acquiescenza di Frulli alla nuova transazione-beffa, e la risata finale del pubblico.
Tutt'altra intonazione quella della novella XCIX. La passione silenziosa e scoraggiata del giovane («consumavasi come smemorato, e spezialmente il giorno ch'elli non la vedea»), che lo porta a vagare solitario nei luoghi dove abita la sua bella («quelli che consumato era, in villa non trovava luogo; era salito a cavallo, e 'l compagno suo no[l] seppe tanto pregare che 'l potesse ritenere; e non volle la sua compagnia. Giunse quella sera alle mura. Le porte erano tutte serrate; ma tanto acerchiò che s'abatté a quella porta dov'erano coloro. Entrò dentro. Andonne inverso la magione di colei, non per intendimento di trovarla né di vederla, ma solo per vedere la contrada»), sinché, per una serie ben congegnata di coincidenze, il disamato si trova in groppa al suo cavallo l'amata, e fugge felice con lei, condiziona il clima soavemente irreale in cui viene immersa la donna, infine consapevole dell'equivoco, dalla supplice dolcezza dell'innamorato («Questi cavalcarono ben diece miglia, tanto che furono in un bello prato intorniato di grandissimi abeti. Smontaro, e legaro il cavallo all'albero. E prese a basiaria. Quella il conobbe: accorsesi della disaventura; cominciò a piangere duramente. Ma questi la prese a confortare lagrimando, e a renderle tanto onore ch'ella lasciò il piangere e preseli a volere bene, veggendo che la ventura era pur di costui; e abbracciollo»), si riflette nella natura, trasognata come la passione dell'uomo e, mediante il suo potere d'incanto («e miravagli per lo lume della luna ch'era apparito»), pare che anche sappia influire sull'animo degli altri: non solo della fanciulla, ma degli stessi inseguitori («Cavalcaro tanto, che li trovaro dormire così abbracciati ... Allora ne 'ncrebbe loro disturbarli e dissero: - Aspettiamo tanto, ch'elli si sveglieranno ... -»).
La rassegna delle correnti stilistiche ci ha ripresentato la situazione civile e culturale prima abbozzata. Il filone narrativo si sviluppa su un'area che coincide in parte con quella dell'epistolografia commerciale e della cronaca; rappresenta cioè il passaggio più diretto dall'arte del vivere all'arte del narrare. Le energie combattive che reggevano e indirizzavano questo vivere erano, soprattutto, politiche; ed ecco il significato stilistico della polemica campanilistica, dalle forme immediate dell'improperium alle più riflesse, e le sue vistose conseguenze sul gusto, già propenso alla parola scolpita, al motto tagliente. Nello spazio fantastico che si allargava con l'estendersi dell'autocoscienza comunale, trovarono posto da un lato i ricordi storici più o meno mitizzati, dall'altro le invenzioni romanzesche di origine francese: così incominciarono ad accostarsi lo stile melodico della prosa d'oltralpe e quello più impegnato delle prime traduzioni dirette dal latino.
Ma la civiltà comunale rassodò anche le proprie basi assimilando i risultati della meditazione scientifica e morale di tutto il Medioevo (donde la febbrile attività di volgarizzazione e compilazione, l'entusiasmo delle prime indagini dirette); volle, in definitiva, imparare. È questa prospettiva che conferisce a un Brunetto le dimensioni imponenti che Dante e il Villani gli attribuirono. E la sua Rettorica ce lo mostra proprio alle prese con un pubblico ideale di scolari: al quale commenta, sì, il testo del De inventione, ma spingendosi dalla spiegazione lessicale all'interpretazione giuridica alla classificazione delle attività filosofiche. Qui lo stile non è suggerito tanto da una tradizione glossografica, quanto dalle ragioni stesse dell'esposizione, ai cui movimenti applica i nessi razionali e distributivi usati quasi sempre nel Medioevo con intenti formalistici.
Ricordiamo, ancora una volta, che la varia cultura si raccoglie, nella Rettorica, intorno al testo del De inventione; che nel Tresor essa converge verso i capitoli finali dedicati alla retorica e alla politica. Ci troviamo alla confluenza dello studio retorico e dell'organizzazione democratica, ricondotti alla preminenza dell'attività politica in Toscana, ma al livello ufficiale delle discussioni pubbliche e dei trattati. In questa attività le esperienze dei dettatori bolognesi riprendevano contatto con le forze complesse e contrastanti dell'agire umano: tanto che di fianco alle medievali artes dictandi incominciava ad ergersi l'immagine di Cicerone. È a questo punto che l'attività «scolastica» di Brunetto s'incontra con quella di traduttore elegante delle orazioni: e a noi pare di vederne simboleggiato l'immedesimarsi della resuscitata tradizione latina con un gusto di chiarezza e di armonia sviluppatosi appunto nel giovanile sforzo dell'autocoscienza culturale.
Le varie tradizioni stilistiche riaffioreranno nella successiva storia della prosa, diversamente combinate o polemicamente contrapposte. Ma esse cesseranno di essere reperibili nello stato pressoché puro con cui si presentano spesso nel Duecento. Certo, il Novellino sembra iniziare un primo movimento centripeto, avvicinando, non solo da un punto di vista tematico e genetico, l'incanto della novella XCIX e quello dell'arturiana novella LXXXII, i motti delle novelle contemporanee alla sapiente e arguta diplomazia delle novelle XLIX e LXXIII, l'elegante sottigliezza giuridica delle novelle IX e X e la classica severità della novella xv, l'introspezione della novella XXXIV e la tradizionale furbizia della novella XLII; e così via. E infatti il Novellino rappresenta bene l'allineamento sul piano della contemporaneità, allato alla cronaca tragica e comica, di concezioni e invenzioni entrate nel vivo della mentalità toscana dugentesca. Allineamento: non rielaborazione e sintesi. Viceversa si può parlare di sintesi tra la tradizione edificante e quella narrativa a proposito del Libro de' Vizi e delle Virtudi; ma sintesi stilistica, senza traccia di travaglio teoretico o di sensibilità all'urgenza dei motivi esistenziali.
Da un punto di vista astratto, basterebbe dire che la prosa aveva saputo corrispondere sempre meglio ai contenuti generici della civiltà toscana; ma non era ancora stata portata all'incandescenza da un pensiero personale e innovatore. Sarebbe subito spiegato perché la chiave di volta della prosa dugentesca si chiami Dante. La spiegazione è esatta, ma non esaustiva.
In realtà, il processo di assestamento, nella prosa, dei vari strati ideologici e delle varie tradizioni stilistiche, si svolgeva in presenza di un anteriore e più energico movimento di unificazione contenutistica e formale, quello della lingua poetica: quando vengono alla luce i primi notevoli monumenti della prosa, l'esperienza siciliana è già stata assorbita dalla cultura bolognese e toscana, già è in atto la grande conquista lirica dello stilnovo. Nella raggiunta maturità linguistica si celebra allora la definizione di una corrente spirituale autonoma: primo e splendido prodotto della civiltà letteraria toscana. La poesia ha saputo elevare all'universalità, con la collaborazione e il fervido scambio interregionale, passioni politiche e meditazioni morali e, soprattutto, una raffinata concezione spirituale dell'amore: sì che Dante può illudersi di rinvenire, o di creare, un «volgare illustre n. E lo stesso Dante avverte con la consueta lucidità l'importanza della sperimentazione svolta sul terreno poetico quando, dopo aver segnalato l'anteriorità cronologica della poesia (Vita nuova, XXV, 3-7), precisa che «ipsum [vulgare] prosaycantes ab avientibus [=poeti] magis accipiuntn (De vulg. el., II, I, 1).
Alla prosa competeva di esplicitare e diffondere i contenuti che la lirica, aristocratica e schiva per definizione, aveva in sé impliciti, e dibatteva in una cerchia di iniziati: questo appunto si propose Dante, inserendosi imperiosamente nella storia della nostra prosa. Ma le due grandi tappe di questa impresa, la Vita nuova e il Convivio, indicano un altro e decisivo avvenimento: l'estendersi delle nuove concezioni da alcune zone dello spirito ad una interpretazione completa della moralità e dell'azione umane. Così Vita nuova e Convivio non rappresentano soltanto due situazioni successive dell'animo di Dante (onde la Vita nuova appare «fervida e passionatan, il Convivio «temperato e virile»: Conv.., I, I, 16); e non rappresentano soltanto una progressiva chiarificazione dei rapporti tra il momento lirico e il momento razionale (situandosi la Vita nuova all'intersezione tra il cerchio della memoria, ancora riscaldato dai raggi di visioni beatifiche, e quello della esposizione didatticamente impassibile; mentre il Convivio, lontano dalla giovanile poesia, muove semmai dal limite del rigore filosofico verso il traguardo dell'entusiasmo morale, di una nuova ispirazione), ma questo ampliamento della comprensione e dell'interpretazione: che portò Dante dalle rime amorose a quelle morali al Convivio e, con volo altissimo, alla Commedia.
Ciò significa una vertiginosa convergenza, nella prosa dantesca, di tradizioni e stilemi: che se nella Vita nuova l'apparente elementarità dei moduli della tradizione narrativa veniva impreziosita dagli echi della lirica e da una interna musica, o resa estaticamente solenne da atteggiamenti biblici; nel Convivio sono tese in una forte arcatura dimostrativa, secondo gli schemi della filosofia scolastica, le strutture ancora inertemente allineate nelle parti didascaliche della Vita nuova: tese da un entusiasmo di conoscenza e di persuasione che spesso erompe in digressioni di eloquenza «sublime», presagio di quella della Commedia.
L'impresa compiuta da Dante giustifica in pieno il suo vanto: «per questo comento la gran bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si vedrà la sua vertù, sì com'è per esso altissimi e novissimi concetti convenevolemente, sufficientemente e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; [la quale non si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[ti]mo e lo numero regolato: sì come non si può bene manifestare la bellezza d'una donna, quando li adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. Onde chi vuole ben giudicare d'una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l'agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue co[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d'amabilissima bellezza» (Conv., I, X, 12-3). Dante poteva vantarsi, oltre che di essere stato grande, di essere stato primo: per la prima volta la prosa italiana aveva espresso un contenuto originale ed attuale, e quella volta s'era mostrata in grado di splendidamente esprimerlo.
La storia successiva non potrà non partire da Dante; anche se si volgerà in direzioni alquanto divergenti da quella verso la quale la letteratura del Duecento e Dante s'erano mossi. Continuerà il processo di approfondimento della latinità, con la fondazione, per opera del Petrarca, di una vera filologia, con la conoscenza più vasta e meglio inquadrata dei testi, con la comprensione più approfondita dei loro valori formali. Ma questi progressi avverranno in un'atmosfera sempre più schiettamente letteraria, che ingloberà ed estenderà ancora i mutamenti apportati nel Duecento all'area di pertinenza e alla funzionalità della cultura, ma senza riuscire a ripetere la lucida saldatura dugentesca tra un collettivo slancio vitale e la creazione di una coscienza letteraria. L'ora splendida dei Comuni è trascorsa: si preparano nuove organizzazioni politiche le quali non invocheranno più la collaborazione entusiastica di tutti i cittadini.
Il Boccaccio saprà magnificamente conciliare nella sfera dell'arte la vitalità ancora robusta del gusto e degli indirizzi umani maturati nel Duecento e la sopravvenuta aspirazione a un superamento dell'attualità in sede letteraria, a un dominio che cessa di essere partecipazione. E del suo stile che, sempre elaborato con finezza irripetibile, sa trascorrere dal solennemente paludato al popolarescamente colorito, dai compiacimenti descrittivi all'irresistibile concatenazione dei fatti narrati, i suoi successori avvertiranno di preferenza l'ampiezza e la concinnità, gli atteggiamenti classicheggianti più che quelli preumanistici, cioè proprio gli elementi che graveranno per secoli sulla nostra prosa. Né la sopravvivenza della maniera più immediata di raccontare, che avrà nel Sacchetti il suo migliore esponente trecentesco, potrà trovare altro sbocco che lo stile pseudo-spontaneo, travalicante verso il gergo, riesumato via via, per motivi spesso polemici, dai Fiorentini. Fatto si è che in Italia il predominio della letteratura toscana si affermò quando i fermenti che l'avevano nutrita erano prossimi alla liquidazione; e il formalismo a cui la situazione sociale e culturale la stava spingendo s'accentuò nelle regioni conquistate, dove mancava la linfa che alla letteratura può venire dal linguaggio di tutti.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Sulla prosa italiana del Duecento. Informazione generale: A. BARTOLI, La prosa italiana nel periodo delle origini, Firenze 1880 (Storia della letteratura italiana, III); G. BERTONI, Il Duecento, quarta ristampa della terza edizione riveduta e aumentata, con supplemento bibliografico (I940-1954) a cura del prof. Aldo VALLONE, Milano 1954 ( «Storia letteraria d'Italia»). Stile e lingua: G.LISIO, L'arte del periodo nelle opere volgari di Dante Alighieri e del secolo XIII, Bologna 1902 (e la recensione di E. G. Parodi, ora in E. G. PARODI, Lingua e letteratura, a cura di G. Folena, con un Saggio introduttivo di A. Schiaffini, Venezia 1957, pp. 301-28); E. G. PARODI, Giovanni Boccaccio, in Poeti antichi e moderni, Firenze 1923, pp. 155-64; A. SCHIAFFINI, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma 19432 ; Avviamenti della prosa del secolo XIII, in Momenti di storia della lingua italiana, Roma 19532 , pp. 71-89; B. TERRACINI, Corsi di storia della lingua, Torino 1947-1953 (Dispense universitarie); Lingua libera e libertà linguistica, in «Arch. glott. it.», XXXV (1950), pp. 99-117; XXXVI (1951), pp. 121-52; XXXVIII (1953), pp. 1-35, 123-89 ; L'«aureo Trecento» e lo spirito della lingua italiana, in «Giorn . stor. d. lett. ital.», CXXXIV (1957), pp. 1-36; Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957; P. O. KRISTELLER, L'origine e lo sviluppo della prosa volgare italiana, in «Cultura Neolatina», X (1950), pp. 137-56, poi in Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma 1956, pp. 473-93; C. SEGRE, La sintassi del periodo nei primi prosatori italiani (Guittone, Brunetto, Dante), in «Mem. Ace. Naz. Lincei», Cl. Se. mor., stor. e filol., ser. VIII, vol. IV, fase. 2, pp. 39-193; G. DEVOTO, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze 1953; L. MALAGOLI, Lo stile del Duecento, Pisa 1956.
Sui volgarizzamenti: C. MARCHESI, Il volgarizzamento italico delle Declamationes pseudo-quintilianee, in Miscellanea G. Mazzoni, Firenze 1907, pp. 279-303; F. MAGGINI, I primi volgarizzamenti dai classici latini, Firenze 1952; Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di C. Segre, Torino 1953 («Classici UTET»); C. SEGRE, Jean de M eun e Bono Giamboni traduttori di Vegezio (Saggio sui volgariz zamenti in Francia e in Italia), in «Atti Ace. Scienze Torino», LXXXVII (1952-1953), II, pp. 119-53·
Sulla prosa di Dante: G. BERTONI , La prosa della «Vita Nuova» di Dante, in Poeti e poesie del Medio Evo e del Rinascimento, Modena 1922, pp. 155-202; C. SEGRE, La sintassi del periodo, cit. , pp. 154-89 ; B. TERRACINI, Pagine e appunti, cit., pp. 247-93.
TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI
A. BARTOLI, Prosa = A. BARTOLI, La prosa italiana nel periodo delle origini, Firenze 1880 (Storia della letteratura italiana, III).
G. BERTONI, Duecento = G. BERTONI, Il Duecento, quarta ristampa della terza edizione riveduta e aumentata, con supplemento bibliografico (1940-1954) a cura del prof. Aldo Vallon e, Milano 1954 ( «Storia letteraria d'Italia»).
R. BossuAT, Manuel = R. BossuAT, Manuel bibliographique de la Littérature française du Moyen Age, Melun 1951; e Supplément (1949-1953), avec le concours de J . Monfrin, Paris 1955. Si cita per paragrafi.
L. DI FRANCIA, Novellistica = L. DI FRANCIA, Novellistica, I (Dalle Origini al Bandella), Milano 1924 ( «Storia dei generi letterari italiani»).
Grundriss
H. L. F. , = Histoire littéraire de la France. Ouvrage commencé par des religieux bénédictins de la Congrégation de Saint-Maur, et continue par des membres de l'Institut, voli. 38, Paris 1733-1949.
G. LISIO, Periodo = G. LISIO, L'arte del periodo nelle opere volgari di Dante Alighieri e del secolo XIII, Bologna 1902.
F. MAGGINI, Volgarizzamenti = F. MAGGINI, I primi volgarizzamenti dai classici latini, Firenze 1952.
E. MONACI, Crestomazia 1= E. MoNACI, Crestomazia italiana dei primi secoli, Città di Castello 1912.
E. MONACI, Crestomazia 2 = E. MONACI, Crestomazia italiana dei primi secoli. Nuova edizione riveduta e aumentata per cura di F. Arese, presentazione di A. Schiaffini, Roma-Napoli-Città di Castello 1955.
Mostra di codici romanzi
V. NANNUCCI, Manuale 2 = V. NANNUCCI, Manuale della letteratura italiana del primo secolo della lingua italiana, Firenze 1856-18582 , vol. II. A. SCHIAFFINI, Momenti = A. SCHIAFFINI, Momenti di storia della lingua italiana, Roma 19532 •
A. SCHIAFFINI, Testi = A. SCHIAFFINI, Testi fiorentini del Dugenta e dei primi del Trecento, Firenze 1926 (ristampati, ivi, 1954).
A. SCHIAFFINI, Tradizione = A. SCHIAFFINI, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma 19432.
C. SEGRE, Sintassi = C. SEGRE, La sintassi del periodo nei primi prosatori italiani (Guittone, Brunetto, Dante), in «Mem. Ace. Naz. Lincei», Cl. Se. mor., stor. e filol., ser. VIII, vol. IV, fase. 2, pp. 39-193.
C. SEGRE, Volgarizzamenti = Volgarizzamenti del Due e Trecento, a cura di C. Segre, Torino 1953 («Classici UTET»).
F. ZAMBRINI, Opere volgari = F. ZAMBRINI, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna 1878 e (Appendice) 1884.