Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Compartecipi della rivoluzione culturale che ha caratterizzato il passaggio tra il XVI e il XVII secolo, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei e l’Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi rappresentano le supreme manifestazioni di un sapere razionale, pervaso dall’amore per il vero e dal culto della ricerca scientifica, affrancato quindi dai pregiudizi, siano essi filosofici, scientifici, religiosi, o politici.
“Discorrendo familiarmente per investigar qualche verità”: il dialogo filosofico-scientifico con Galileo
Capovolgendo l’impostazione della scienza tradizionale cinquecentesca, con le sue certezze e la presunzione di detenere verità assolute e definitive, la nuova scienza inaugurata da Galileo guarda invece alla natura come a un testo da interrogare con continue sollecitazioni, ed è quindi portata a valorizzare il momento della ricerca e del dibattito su quello della scoperta. Al trattato monologico e dogmatico di stampo medievale, concepito come esposizione sistematica di risultati, si viene allora a contrapporre il dialogo come la forma necessaria della nuova prosa scientifica, luogo letterario in cui una pluralità di voci, secondo diverse prospettive, può confrontarsi vivacemente mettendo in campo dubbi, curiosità, opinioni, proponendo soluzioni, collaborando infine alla conquista di verità per altro mai possedute interamente: in un’alternanza di slanci e riposi che ben rende la tortuosità di un cammino di conoscenza incerto. Nell’adozione del dialogo come strumento più atto alla comunicazione scientifica è quindi anche la scelta di un modello interpretativo della realtà.
In Galileo la preferenza della dimensione discorsivo-dialogica, già individuabile nei saggi giovanili di critica letteraria (Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, 1588; Considerazioni al Tasso; Postille all’Ariosto), che poco hanno in comune con le schematiche dissertazioni pedantesche, si fa scelta consapevole nella produzione in campo scientifico. Infatti, dopo i primi scritti realizzati, negli anni della docenza padovana, ancora nella forma del trattato (Trattato di fortificazione, 1593; Trattato della sfera overo cosmografia, 1596), lo scienziato pisano passa presto al “discorso” (Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua e che in quella si muovono, 1612; Discorso del flusso e riflusso del mare, 1616) e al genere epistolare (Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, 1613; Il Saggiatore, 1623) – con spostamento in direzione dell’oralità sempre più evidente –, fino ad approdare al “dialogo” con i Massimi sistemi del mondo (1632) e con i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno alle nuove scienze attenenti alla mecanica e i movimenti locali (1638; in realtà “dialoghi”, intitolati Discorsi per evitare le maglie della censura).
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano
Galileo Galilei
Giornata prima
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
SAGREDO. Io posso senza grande ammirazione, e dirò gran repugnanza al mio intelletto, sentir attribuir per gran nobiltà e perfezione a i corpi naturali ed integranti dell’universo questo esser impassibile, immutabile, inalterabile etc., ed all’incontro stimar grande imperfezione l’esser alterabile, generabile, mutabile etc.: io per me reputo la Terra nobilissima ed ammirabile per le tante e sì diverse alterazioni, mutazioni, generazioni etc., che in lei incessabilmente si fanno; e quando, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta solitudine d’arena o una massa di diaspro, o che al tempo del diluvio diacciandosi l’acque che la coprivano fusse restata un globo immenso di cristallo, dove mai non nascesse nè si alterasse o si mutasse cosa veruna, io la stimerei un corpaccio inutile al mondo, pieno di ozio e, per dirla in breve, superfluo e come se non fusse in natura, e quella stessa differenza ci farei che è tra l’animal vivo e il morto; ed il medesimo dico della Luna, di Giove e di tutti gli altri globi mondani. [Ma quanto più m’interno in considerar la vanità de i discorsi popolari, tanto più gli trovo leggieri e stolti. E qual maggior sciocchezza si può immaginar di quella che chiama cose preziose le gemme, l’argento e l’oro, e vilissime la terra e il fango? e come non sovviene a questi tali, che quando fusse tanta scarsità della terra quanta è delle gioie o de i metalli più pregiati, non sarebbe principe alcuno che volentieri non ispendesse una soma di diamanti e di rubini e quattro carrate di oro per aver solamente tanta terra quanto bastasse per piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo nascere, crescere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentil frutti? È, dunque, la penuria e l’abbondanza quella che mette in prezzo ed avvilisce le cose appresso il volgo, il quale dirà poi quello essere un bellissimo diamante, perché assimiglia l’acqua pura, e poi non lo cambierebbe con dieci botti d’acqua. Questi che esaltano tanto l’incorruttibilità, l’inalterabilità etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a venire al mondo. Questi meriterebbero d’incontrarsi in un capo di Medusa, che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono].
SALVIATI. E forse anco una tal metamorfosi non sarebbe se non con qualche lor vantaggio; chè meglio credo io che sia il non discorrere, che discorrere a rovescio.
SIMPLICIO. È non è dubbio alcuno che la Terra è molto più perfetta essendo, come ella è, alterabile, mutabile etc., che se la fusse una massa di pietra, quando ben anco fusse un intero diamante, durissimo ed impassibile. Ma quanto queste condizioni arrecano di nobiltà alla Terra, altrettanto renderebbero i corpi celesti più imperfetti, ne i quali esse sarebbero superflue, essendo che i corpi celesti, cioè il Sole la Luna e l’altre stelle, che non sono ordinati ad altro uso che al servizio della Terra, non hanno bisogno d’altro per conseguire il lor fine, che del moto e del lume.
SAGREDO. Adunque la natura ha prodotti ed indrizzati tanti vastissimi perfettissimi e nobilissimi corpi celesti, impassibili, immortali, divini, non ad altro uso che al servizio della Terra, passibile, caduca e mortale? al servizio di quello che voi chiamate la feccia del mondo, la sentina di tutte le immondizie? e a che proposito far i corpi celesti immortali etc., per servire a uno caduco etc.? [Tolto via questo uso di servire alla Terra, l’innumerabile schiera di tutti i celesti corpi resta del tutto inutile e superflua, già che non hanno, nè possono avere, alcuna scambievole operazione fra di loro, poichè tutti sono inalterabili, immutabili, impassibili: chè se, v. g., la Luna è impassibile, che volete che il Sole o altra stella operi in lei? sarà senz’alcun dubbio operazione minore assai che quella di chi con la vista o col pensiero volesse liquefare una gran massa d’oro. In oltre, a me pare che mentre che i corpi celesti concorrano alle generazioni ed alterazioni della Terra, sia forza che essi ancora sieno alterabili; altramente non so intendere che l’applicazione della Luna o del Sole alla Terra per far le generazioni fusse altro che mettere a canto alla sposa una statua di marmo, e dal tal congiugnimento stare attendendo prole].
G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo copernicano e tolemaico, a cura di O. Besomi e M. Helbing, Padova, Antenore, 1998
Condannando il Dialogo, l’Inquisizione accusa Galileo di aver simulato quando ha preteso di presentare in veste puramente ipotetica la proibita cosmologia copernicana.
Considerazioni strategico-prudenziali concorrono certamente a determinare la scelta della forma dialogica, la cui struttura permette a Galileo di mascherare le proprie idee, inserendole in un confronto tra diversi interlocutori, per cui la superiorità del copernicanesimo emerge non come pensiero dell’autore, ma come acquisizione alla fine di un libero dibattito.
Ad agire, in quella che è stata definita una “commedia filosofica”, sono tre personaggi in opposizione dialettica: da un lato Salviati, il portavoce di Galileo, affiancato da Sagredo, che gli fa da spalla: per connotarli con le parole di Tommaso Campanella (1568-1639), “un gran Socrate, che fa parturire più che non parturisce” e “un libero ingegno, che senza esser adulterato nelle scole giudica di tutto con molta sagacità”; dall’altro un filosofo peripatetico dal significativo nome di Simplicio, pedante sostenitore del sistema tolemaico.
È l’inclusione di un interlocutore curioso, meno competente in campo filosofico e scientifico, e pertanto sollecito nel porre questioni e richiedere chiarimenti – un Sagredo rappresentante del pubblico ideale dei Massimi sistemi – ad autorizzare deviazioni rispetto al tema centrale, orientando la discussione su argomenti scottanti e audaci in tempi di forte censura ecclesiastica.
Grazie alla sua natura di genere aperto – antagonistico alla forma chiusa del tractatus medievale –, il dialogo si alimenta soprattutto delle digressioni, la cui utilità è propugnata da Galileo “purché non sieno poste fuori di proposito”, ma in presenza di “qualche relazione, ancorché piccola, al principale intento”, onde deriva il procedere dell’argomentazione per cumulo piuttosto che per selezione delle prove, in un approssimarsi alla verità per ragioni “verisimili ed assai probabili”.
Il dialogo tende pertanto a riprodurre la forma intricata del labirinto, dal momento che “oscuro laberinto” è il mondo per Galileo senza la conoscenza del codice matematico che unico lo decifra.
Esprit de géométrie ed esprit de finesse: Galileo poeta e scienziato
Le opere galileiane più famose, pur affrontando questioni scientifiche, sono sostanzialmente testi letterari costruiti sulla base di precisi schemi retorici, capaci di unire al rigore scientifico la creatività della fantasia.
Galileo è attento alla comunicazione e alle scelte espressive: l’abbandono del latino accademico a favore di un italiano preciso e rigoroso (il volgare toscano di tradizione letteraria) esprime innanzitutto il suo bisogno di rivolgersi non soltanto agli scienziati di professione, ma al vasto pubblico degli “intendenti”, a una élite culturale attenta ai progressi della conoscenza; così come le scelte strategiche sul piano dei generi gli consentono di proporre i contenuti della nuova scienza nel modo più efficace, salvaguardando insieme rigore argomentativo e possibilità di una più ampia ricezione.
Il dialogo è il genere che meglio si presta sia all’innalzamento di registro in senso tecnico-scientifico, sia al ribassamento in senso colloquiale-espressivo. Questo secondo processo è ottenuto mediante aneddoti realistici e inserti di evidenza quotidiana: è la “familiarità del dire” – come noterà l’allievo Benedetto Castelli (1578-1643) – a “facilitare e domesticare la severità e maestà delle dimostrazioni geometriche”. Galileo potenzierà il dialogo attraverso un uso consapevole delle strategie della parodia e dell’ironia; messe in campo per colpire soprattutto gli stereotipi della vecchia scienza aristotelica, esse appaiono in sintonia con la predilezione che lo scienziato ha per Ariosto, Ruzante, Berni, per cui si può ritenere che la cultura letteraria ha avuto un ruolo non trascurabile nell’indirizzare la scrittura di Galileo verso precise scelte espressive.
La verità in maschera: la fortuna del dialogo scientifico-filosofico dopo Galileo
I discepoli e i seguaci di Galileo, pur ereditando col Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo un formidabile strumento di propaganda culturale e di lotta contro la scienza tradizionale di marca aristotelica, dopo la sentenza del 1633, in regime di censura accademica e ecclesiastica, sono obbligati per ragioni prudenziali a rincarare le strategie della dissimulazione, e a mascherare quindi la “natura dialogica della verità” sotto forme letterarie meno compromesse, come ad esempio la lettera, che consente di conferire agli scritti un tono privato e informale, e il discorso.
I due più significativi episodi di autocensura, intesa come mancata realizzazione di un progetto dialogico, riguardano Bonaventura Cavalieri (1595-1647), che rinuncia a pubblicare sotto forma di dialogo la risposta al matematico svizzero Paul Guldin (1577-1647), e Marcello Malpighi (1628-1694), che lascia inediti i suoi Dialoghi antigalenisti.
In pochissimi hanno il coraggio di non mascherare la propria attitudine dialogica e rompere le barriere della prudenza: Tommaso Cornelio (1614-1684), scrivendo un Dialogus in funzione di proemio ai suoi Progymnasmata physica (1663); Giuseppe Ferroni (1628-1709), gesuita e discepolo di Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), l’unico che nella seconda metà del Seicento osa dare alle stampe, anche se in forma anonima, un dialogo di argomento espressamente astronomico – Dialogo fisico astronomico contro il sistema copernicano (1680) – in cui si difende la teoria copernicana fingendo di confutarla; Donato Rossetti (1633-1686), anch’egli appartenente al circolo borelliano, autore di tre dialoghi fortemente antidogmatici intitolati Antignome fisico-matematiche con il Nuovo Orbe e sistema terrestre (1667); Geminiano Montanari (1633-1687) con Le forze d’Eolo, dialogo fisico-matematico sopra gli effetti mirabili del vortice o sia turbine, detto negli Stati Veneti la bisciabuova, pubblicato postumo nel 1694.
La vera continuazione del dialogo galileiano è quindi piuttosto la sua traduzione operativa nelle accademie scientifiche, e in particolare nell’Accademia del Cimento, in quanto istituzioni che mettono in rapporto tra loro studiosi di diversa formazione, a garanzia di pluralismo.
Oltre Galileo
Lorenzo Magalotti
Proemio a’ lettori
Saggi di naturali esperienze
Primogenita infra tutte le creature della divina sapienza fu senz’alcun dubbio l’idea della verità, al cui disegno si tenne sì strettamente il maestro eterno nella fabbrica dell’universo che niuna cosa venne a formare la quale avesse in sé pur minima lega di falso. Ma l’uomo poscia, nella contemplazione di sì alta e di sì perfetta struttura, destando in sé una troppo mal misurata vaghezza di comprenderne l’ammirabile magistero e di tutte ritrovar le misure e le proporzioni d’un sì bell’ordine, nel volere troppo altamente internarsi nel vero, venne a creare un numero indefinito di falsi. Né altra ne fu la cagione se non che, volendosi egli vestir quelle penne che la natura non volle dargli, forse per paura di più stupende fatture, cominciò su quelle a levarsi e, tutto che oppresso dal peso del material corpo, facendo forza in su l’ali per innalzarsi più alto che non conduce la scala delle sensibil cose, tentò quivi di fissarsi in un lume che ricevuto negli occhi non è più quello, ma smontando s’intorbida e muta colore. Ecco per qual maniera dall’umano ardimento provennero i primi semi delle false opinioni, dalle quali non è perciò che rimanga punto offuscata la chiarezza delle belle creature di Dio e ch’elle restino per alcun modo viziate dal commercio di esse, imperciocché elle si rimangon tutte nell’ignoranza dell’uomo, dov’ànno la radice loro; mentre, adattando egli impropriamente le cagioni agli effetti, non toglie a questi o a quelle verità del lor essere, ma forma in sé medesimo dell’accoppiamento loro una falsa scienza.
L. Magalotti, “Saggi di naturali esperienze”, in Scienziati del Seicento, a cura di M. L. Altieri Biagi e B. Basile, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980
Francesco Redi
Pur contentandomi sempre...
Esperienze sulla generazione degli insetti
Pur contentandomi sempre in questa ed in ciascuna altra cosa da ciascuno più savio, là dove io difettosamente parlassi, esser corretto, non tacerò che per molte osservazioni molte volte da me fatte mi sento inclinato a credere che la terra, da quelle prime piante e da que’ primi animali in poi che ella nei primi giorni del mondo produsse per comandamento del sovrano ed onnipotente Fattore, non abbia mai più prodotto da sé medesima né erba, né albero, né animale alcuno perfetto o imperfetto che ei si fusse; e che tutto quello che ne’ tempi trapassati è nato, e che ora nascere in lei o da lei veggiamo, venga tutto dalla semenza reale e vera delle piante e degli animali stessi, i quali col mezzo del proprio seme la loro spezie conservano. E se bene tutto giorno scorghiamo da’ cadaveri degli animali e da tutte quante le maniere dell’erbe e de’ fiori e dei frutti imputriditi e corrotti nascere vermi infiniti:
nonne vides quaecunque mora fluidoque calore
corpora tabescunt in parva animalia verti?
io mi sento, dico, inclinato a credere che tutti quei vermi si generino dal seme paterno, e che le carni e l’erbe e l’altre cose tutte putrefatte o putrefattibili non facciano altra parte né abbiano altro ufizio nella generazione degl’insetti se non d’apprestare un luogo o un nido proporzionato in cui dagli animali nel tempo della figliatura sieno portati e partoriti i vermi o l’uova o l’altre semenze dei vermi, i quali, tosto che nati sono, trovano in esso nido un sufficiente alimento abilissimo per nutricarsi; e se in quello non son portate dalle madri queste suddette semenze, niente mai, e replicatamente niente, vi s’ingeneri e nasca.
F. Redi, Scienziati del Seicento, a cura di M. L. Altieri Biagi e B. Basile, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980
Nella scia dell’insegnamento di Galieo, la scienza italiana continuerà a produrre risultati notevoli, spostando l’asse della ricerca dall’astronomia al mondo organico della natura – basti qui ricordare le Esperienze intorno alla generazione degl’insetti (1668), le Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi (1684) di Francesco Redi (1626-1697); i Saggi di naturali esperienze(1667), le Lettere sulle terre odorose d’Europa e d’America, dette volgarmente bùccheri (postume, in Varie operette del conte Lorenzo Magalotti con giunta di otto lettere su le terre odorose […], 1825) di Lorenzo Magalotti (1637-1712); o l’attività del circolo culturale borelliano, il più vivace dei circoli galileiani: Theoricae Mediceorum Planetarum(1666), De motu animalium (postumo, 1680-81) di Borelli; Exercitatio anatomica de structura et usu renum ad Cosimum III (1662), Discorsi di anatomia (1741-44) di Lorenzo Bellini (1643-1704); Del sonno della vigilia e dell’oppio di Giuseppe Zambeccari (1655-1728); De pulmonibus (1661), De cerebro (1666), Anatome plantarum (1675-79) di Malpighi. Tuttavia risultati per lo più incapaci di coniugare rigore metodologico e forza stilistica della scrittura, letteratura e scienza, come è stato nei capolavori del maestro.
Due tendenze iniziano allora a delinearsi: da un lato il ripiegamento in ambiti specialistici, di assoluto tecnicismo, e il conseguente ritorno all’uso del latino, dall’altro la rinuncia al rigore e all’esattezza a favore di uno stile comunicativo più piacevole e cordiale. Negli scrittori-scienziati della seconda generazione, filosofia e scienza non si ritrovano più indissolubilmente unite; a livello europeo, e non solo italiano, comincia a venir meno l’interesse della ricerca scientifica per le problematiche filosofiche.
L’Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi
Paolo Sarpi
Istoria del Concilio Tridentino
Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino, imperò che, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti abbiano toccato qualche particolar successo in quello, e Gioanni Sleidano diligentissimo auttore abbia con esquisita diligenzia narrato le cause antecedenti, nondimeno, quando bene fossero tutti raccolti insieme, non si componerebbe un’intiera narrazione. Io immediate che ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero, et oltre l’aver letto con diligenzia quello che trovai scritto, e li publici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercare nelle reliquie de scritti delli prelati et altri in concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate, e li voti, cioè pareri detti in publico, conservati dalli auttori propri o da altri, e le lettere d’avisi da quella città scritte, non tralasciando fatica o diligenzia, onde ho avuto grazia di veder sino qualche registri intieri di note e lettere di persone che ebbero gran parte in quei maneggi. Ora avendo tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abondante materia per narrazione del progresso, vengo in resoluzione di ordinarla. Raccontarò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di 22 anni, per diversi fini e con vari mezi, da chi procaciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni 18 ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per rasignare li pensieri in Dio, e non fidarsi della prudenza umana. Imperò che questo concilio, desiderato e procurato dagl’uomini pii per riunire la Chiesa, che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma et ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico ha causato la maggior disformazione che sia mai stata doppo che il nome cristiano si ode, e dalli vescovi adoperato per racquistar l’auttorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente, et interessati loro stessi nella propria servitù; ma temuto e sfugito dalla corte di Roma, come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza da piccioli principii pervenuta con vari progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggietta, che mai fu tanta né così ben radicata. Sì che non sarà inconveniente chiamarlo la Illiade del secol nostro, nella esplicazione della quale seguirò drittamente la verità non essendo posseduto da passione che mi possi far deviare: e chi mi osserverà in alcuni tempi abbondare, in altri andar ristretto, si raccordi che non i campi tutti sono di ugual fertilità, né tutti li grani meritano d’esser conservati, e di quelli che il mietitore vorrebbe tenir conto, qualche spica anco sfugge la presa della mano o il filo della falce, così comportando la condizione d’ogni mietitura, che resti anco parte per rispigolare.
P. Sarpi, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969
Medico, scienziato, consultore in iure della Serenissima, il servita Paolo Sarpi (1552-1623) si distacca, almeno in parte, dalla ricerca scientifica per dedicarsi “con fatica” e “diligenza” alla ricostruzione storiografica del concilio di Trento, di cui manca una narrazione compiuta.
“Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino, imperò che, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti abbiano toccato qualche particolar successo in quello, e Gioanni Sleidano diligentissimo auttore abbia con esquisita diligenzia narrato le cause antecedenti, nondimeno, quando bene fossero tutti raccolti insieme, non si componerebbe un’intiera narrazione”. Nell’incipit del capolavoro sarpiano è forte il richiamo al celebre esordio della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini (1483-1540) – “Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia…” –, non solo per evidenti debiti formali, ma perché in entrambi vi è la consapevolezza dell’attività responsabile dello storico nei confronti della materia trattata. Compito dell’Istoria di Sarpi è di svelare e descrivere il complesso intreccio di interessi tra religione e politica di una vicenda determinante per la Chiesa e per le conseguenze che ebbe sulla vita religiosa e politica d’Europa.
L’opera riferisce in otto libri gli avvenimenti compresi tra il 1520 e il 1564, prendendo le mosse dalla lunga fase preparatoria al concilio e spingendosi oltre la sua chiusura. Pur trattando di questioni dottrinali e istituzionali, la narrazione avvince alla lettura grazie a uno stile asciutto, misurato, essenziale – lo stile di uno scienziato –, dove non mancano tuttavia l’increspatura d’ironia e la nota sarcastica a marcare gli interventi polemici dell’autore.
Sarpi in parte si avvale del lavoro di storici precedenti, ma si basa principalmente sulla conoscenza diretta della materia e sui risultati di un minuzioso lavoro di ricerca e raccolta del maggior numero possibile di materiali: documenti a stampa, scritti dei protagonisti, “memorie”, decreti, colloqui, pareri pubblici o popolari espressi sulle diverse decisioni prese a Trento.
Per un verso l’Istoria è dunque una raccolta in linea col gusto barocco dell’accumulazione infinita; ma per l’altro in essa agisce anche l’attitudine della nuova scienza, che opera secondo una ragione ordinatrice a scongiurare il labirinto dell’‘archivio’ o della ‘biblioteca’ (Pasquale Guaragnella, Il servita melanconico, p. 112). Del resto, già per l’Istoria dell’Interdetto(postuma, 1624), narrazione della prima, grande battaglia giurisdizionalista del Seicento che l’ha visto protagonista, Sarpi ha sapientemente ricondotto a una trattazione organica i non pochi materiali di prima mano di cui ha potuto disporre.
Il risultato è quello di una lucida ricostruzione impostata sul documento, tesa a illustrare la minuta fenomenologia dei fatti conciliari, inquadrandoli nella realtà tutta mondana e temporale delle forze in presenza a Trento. Nell’Istoria, oltre alla dimensione epica del concilio, in quanto uno dei più importanti eventi della storia della Chiesa, ad agire è anche una dimensione umoristica, prosaica, che amaramente mette in luce i “maneggi”, gli intrighi diplomatici, le meschinità umane dei protagonisti – ecclesiastici, diplomatici, papi, re, imperatori – responsabili del fallimento dell’assise, la quale si risolve di fatto in un rafforzamento dell’assolutismo papale, tradendo le attese della comunità cristiana.
La forza dell’opera sta nello svelare la complessità della vicenda interpretandola secondo una visione ecclesiastico-politica certamente unilaterale – a Sarpi sfugge l’animus religioso che pervade il processo riformatore della Chiesa cattolica –, ma tuttavia capace di pervenire a una ricostruzione unitaria e organica.
L’Istoria – edita a Londra nel 1619, all’insaputa dell’autore e sotto lo pseudonimo di Pietro Soave Polano, anagramma di Paolo Sarpi Veneto – è subito inserita nell’Indice dei libri proibiti e stampata in Italia solamente nel 1689-90.
La “replica” della Chiesa: la Storia del Concilio di Trento di Pietro Sforza Pallavicino
La Chiesa controriformistica replica a Sarpi approntando l’allestimento di una storia ufficiale del concilio che possa esibire una documentazione ancor più copiosa e dettagliata.
Il gesuita Terenzio Alciati (1570-1651), incaricato fin dal 1625 del difficile compito di confutare l’Istoria, si ritrova tuttavia incapace di organizzare la vastissima mole di materiali ottenuti anche grazie all’accesso a tutte le biblioteche romane e agli archivi segreti vaticani, e di fatto non riesce neppure ad abbozzare una risposta. Alla sua morte, nel 1651, il testimone passa a Pietro Sforza Pallavicino (1607-1667), una delle personalità più in vista della Compagnia di Gesù: la sua Storia del Concilio di Trento, stampata a Roma nel 1656-57, una “istoria mista d’apologia”, a detta del suo stesso autore, è più un’opera controversistica che storiografica. Seguendone passo passo la narrazione, s’incarica di confutare le tesi di Sarpi, di evidenziarne le lacune e la tendenziosità in senso antiecclesiastico, ma in questo modo dimostra anche la sua dipendenza dall’avversario, condividendone l’impostazione, tutta politica, della storia del concilio.
Europeismo e contemporaneità
L’Italia, decaduta dal ruolo politico europeo di primo piano, al principio del Seicento offre una ben modesta materia di storia, essendo – come nota Sarpi – in ozio così profondo che non solo ci tien lontani dalle novità, ma anco dalli disegni e pensieri: di maniera che anco gli scrittori delle gazzette non hanno altra materia se non qualche conviti o apparati di feste. Si alimenta di conseguenza in molti storiografi italiani l’interesse per l’Europa, allora teatro di un grandioso sommovimento morale e politico.
La “contemporaneità” diviene quindi oggetto privilegiato di una storiografia spesso praticata da autori che sono stati diretti testimoni degli eventi narrati, e che pertanto pretendono di riferire a un pubblico sempre più numeroso una verità certa, suffragata dai soli fatti e dall’obiettività delle fonti documentarie. Il costante richiamo topico alla veridicità della narrazione e all’assenza di passioni fa pensare a paradigmi galileiani (molti di questi scrittori sono anche scienziati) e alla ormai realizzata partecipazione della storiografia alla rivoluzione scientifica. Ne consegue un disinteresse, se non disdegno, per ogni cura formale, che accentua fino all’estremo la tendenza antiletteraria e antiumanistica già viva nella migliore tradizione storiografica rinascimentale.
La produzione più valida è quella di genere politico-diplomatico, volta a svelare gli arcana imperii, le occulte trame dei potenti, per poi ricavarne consigli e utili insegnamenti per la politica e l’arte militare. Essa prende a modello la Storia d’Italia di Guicciardini e si rifà dichiaratamente alla moda del tacitismo – Tacito, molto più di Livio, può valere a interpretare e descrivere la prassi dell’assolutismo del tempo –, in maniera meno diretta anche a Niccolò Machiavelli (1469-1527) e Jean Bodin (1529-1596).
I più significativi tra questi storici sono Arrigo Caterino Davila (1576-1631), autore dell’Historia delle guerre civili di Francia (1630), opera notevole per la meticolosità della documentazione, che racconta in 15 libri le vicende dal 1559 al 1598, segnate dalle violente lotte interne tra il partito cattolico dei Guisa e quello protestante dei Borboni; Guido Bentivoglio (1577-1644), esperto conoscitore delle corti e dei loro intrighi, come ben testimoniano le lettere e le Relazioni in tempo delle sue Nunziature di Fiandra, e di Francia (1629), autore della Guerra di Fiandra (24 libri tra il 1632 e il 1639), in cui è narrata la lotta sostenuta dalla nobiltà fiamminga contro il re di Spagna nel periodo compreso tra il 1559 e il 1609; Galeazzo Gualdo Priorato (1606-1678), uomo d’armi e scrittore prolifico, che si colloca deliberatamente al di fuori della tradizione umanistica. Pubblica, tra l’altro, l’Historia delle guerre di Ferdinando II e III (1640), l’Historia delle rivolutioni di Francia sotto il regno di Luigi XIV (1655), il Teatro del Belgio (1673).
Gli “irregolari”: memorialisti, pubblicisti, poligrafi, avventurieri
Nel corso del Seicento si scrivono molte Istorie, ma assai più numerose sono le Memorie, le Raccolte, gli Annali, i Commentari.
Si tratta nella maggior parte dei casi di opere eclettiche, frettolose, incuranti della forma, e che non disdegnano di sfruttare la pubblicistica informativa (Avvisi e Novelle): “cadaveri d’historia – ha a definirle polemicamente Agostino Mascardi (1590-1640) nel trattato Dell’Arte istorica (1636) – composti nel modo in cui si scrivono ogni settimana le Novelle di Roma”.
Praticata senza preoccupazioni critico-metodologiche, questa produzione non può rientrare nell’ambito della storiografia erudita, ma in compenso è così ricca di spunti di attualità politica da soddisfare il gusto del suo sempre più ampio pubblico: assolvendo a fini informativi, piuttosto che culturali. Una informazione, però, che, a fronte della sua pretesa di offrire una verità garantita dai soli fatti, si riduce molto spesso al pettegolezzo per stuzzicare la curiosità del lettore, o all’invenzione gradita al “principe”.
Per gli autori – in gran parte politici, diplomatici, uomini d’armi, “avventurieri della penna”, in peregrinazione da una corte europea all’altra –, alieni da reali ambizioni storiografiche, come dimostrano anche i titoli, spesso volutamente modesti, delle loro opere, è invalsa la qualifica di “gazzettieri” e di giornalisti ante litteram.
Di questa copiosissima produzione andranno ricordati almeno le Memorie historiche (1642) di Maiolino Bisaccioni (1582-1663), il quale intitola così il suo libro anche per “poter a sua voglia uscir di careggiata, e dire i suoi sentimenti, e trattar quelle parti, che sono vietate ad uno istorico in rigore”; il Mercurio veridico overo Annali universali d’Europa (1648) di Giovan Battista Birago Avogaro (?); i Dialoghi historici (1665) di Gregorio Leti (1630-1701); le Memorie recondite dall’anno 1601 sin al 1640 (otto tomi tra il 1676 e il 1679) e il Mercurio politico (15 tomi tra il 1644 e il 1682) di Vittorio Siri (1608-1685): notevoli per la ricchezza di notizie sulle vicende politiche dell’Europa del primo Seicento.
Storie locali
La rinuncia degli storici a occuparsi della realtà degli Stati italiani, se da una parte si traduce in un interesse per i conflitti internazionali, dall’altra contribuisce al diffondersi della storiografia locale, favorita anche dalla situazione fortemente particolaristica della penisola. Spesso di carattere erudito, non sempre esercitata con rigore metodologico, ha comunque il pregio di aver fornito, nei due secoli successivi, materiali di prima mano a una storiografia locale filologicamente più attrezzata.
Interessante, anche perché libera da angustie municipali, è la produzione in seno alla Repubblica veneta, realizzata da pubblici storiografi incaricati direttamente dal governo: si ricordano l’Historia veneta (postuma, 1623) di Andrea Morosini (1558-1618); le Historie veneziane (rimaste inedite) di Niccolò Contarini (1553-1631); l’Historia della Repubblica veneta (1662-1679) di Battista Nani (1616-1678).
Degne di nota sono anche le Historiae patriae (1641-1643) e il De peste Mediolani (1640) del milanese Giuseppe Ripamonti (1573-1643), da considerarsi tra le principali fonti dei Promessi Sposi; Le antichità più antiche di Bologna (1651) di Ovidio Montalbani (1601-1671); l’Historia della città e regno di Napoli (1601-1643) di Giovanni Antonio Summonte (?-1602).