Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella seconda metà dell’Ottocento la Prussia realizza – nell’alveo del mito fondativo della nazione e del popolo tedesco: l’impero – l’unità nazionale tedesca, grazie all’iniziativa militare diretta dal cancelliere Bismarck, cui si deve anche il ridimensionamento dell’Austria e la caduta dell’impero di Napoleone III. La “Grande Depressione” iniziata nel 1873, che sconvolge il sistema mondiale dell’economia, enfatizza e sostiene piuttosto lo slancio tedesco: nel declinare dell’agricoltura, che tende però a specializzarsi e non a scomparire, la Germania diventa uno stato industriale. Nella concezione bismarckiana, però, l’economia, come la politica, sono in un sistema di vasi comunicanti che transita necessariamente per lo Stato e le sue prerogative e funzioni, per le sue capacità di disciplinare e reprimere, concedere e permettere, giudicare, amministrare, governare, guidare e difendere l’espansione. Il modello di Bismarck tuttavia finisce per rivelarsi inadeguato alle sfide del secolo: il Cancelliere viene licenziato, mentre la Germania si prepara all’assalto del potere mondiale.
Grande Germania o piccola Germania?
Molti i deputati d’eccezione al parlamento che, nel 1848, prepara l’assemblea nazionale tedesca: tra gli altri, Jacob, che sarà poi deputato, e Wilhelm Grimm. I due fratelli hanno pubblicato, alcuni anni prima, le Fiabe della tradizione popolare tedesca e poi anche una Grammatica con l’obiettivo – afferma lo storico del folclore G. Cocchiara – “di elevare il mondo germanico a un organismo concluso in se stesso” nell’alveo di una tradizione di disvelamento del Volksgeist comune, ora parcellizzato sul piano politico: la scelta del Congresso di Vienna, che ha divelto una sostanziale unità proiettando l’Impero austroungarico verso l’area danubiana, ha infatti scompaginato in modo inusitato una ormai ricca e consolidata opinione legata all’inestinguibile mito fondativo della nazione e del popolo tedesco: l’impero. Pur nelle divisioni, infatti, non solo tra i rappresentanti del Paulskirche favorevoli a un’ipotesi di unificazione di tutte le regioni tedesche in una “Grande Germania” guidata da un imperatore Asburgo, ma anche tra chi ipotizza una più modesta confederazione tedesca sotto un imperatore Hohenzollern, il superamento della frattura epocale della Riforma e del Sacro Romano Impero, che – con una Germania coesa – risarcisca l’indomito sogno di Monarchia universale, è un’esigenza condivisa e, nel tempo, un orizzonte politico. Dall’altra parte, invece, i timori derivanti dal costituirsi di uno stato unitario tedesco si sostanziano vieppiù, minacciando di compromettere il “concerto europeo” e si combinano con quelli di un radicalizzarsi della rivoluzione. Così, tutto sommato, una Prussia che pure nel 1849 ha disatteso l’obiettivo di porsi alla testa della rivoluzione nazionale, camuffa il confluire di una duplice esigenza: dispiegare su un’area più ampia, già culturalmente coesa e – dal 1834 – anche economicamente complementare (Zollverein), la forza di uno sviluppo industriale ed economico senza produrre, nell’immediato, il risveglio di appetiti universalistici o sgomento.
Si è a lungo discusso, sul piano storiografico, se questo stringersi in un disegno politico, e poi in uno Stato, di mai sopite aspirazioni e ricordi di egemonia con un’inclinazione socio-economica fondata su un ristretto gruppo sociale premoderno e con orizzonti di antico regime, non abbia prodotto nella sostanza una “rivoluzione conservatrice” fino a inficiare la storia tedesca e l’intero suo destino in direzione totalitaria; la “via prussiana allo sviluppo” e il farsi ed essere Stato tedesco, infatti, sono la combinazione inedita di elementi apparentemente contraddittori, ma sufficientemente coesi nella consapevolezza di una grande, e unitaria, eredità. Così, l’autoritarismo politico e il conservatorismo sociale sono agiti su un’area straordinariamente sviluppata e innovativa nelle vie di comunicazione e nei trasporti, ma con un sistema scolastico non dimentico dell’eredità e della trasmissione della cultura classica; lo sviluppo delle aree urbane, in cui la borghesia – pur improntando sia l’economia che il comportamento demografico – deve necessariamente subordinarsi a un gruppo di ambito rurale – gli Junker – che, pur ristretto numericamente, esercita giurisdizioni di tipo feudale tra cui il diritto di nomina di funzionari di polizia e magistrati di prima istanza e, in quasi anacronistico rapporto con il sovrano, determina ruoli e nomine. Lo Stato assume poi, nel suo fondarsi e rafforzarsi, le prerogative e i connotati di antico regime ma nell’“età della borghesia”: l’esercito e la burocrazia, in primo luogo, entrambi nazionalizzanti e convergenti nella direzione di costruire una politica di potenza.
Otto von Bismarck
Nel 1861, alla morte di Federico Guglielmo IV, sale sul trono prussiano suo fratello Guglielmo I che l’anno successivo, di fronte alla sfida liberale che si oppone a un ulteriore potenziamento dell’esercito, affida il governo a uno Junker: Otto von Bismarck. Gli obiettivi e i metodi del nuovo cancelliere sono subito evidenti: “La Prussia deve conservare e concentrare la sua potenza per il momento opportuno […]; i confini della Prussia – stabiliti dal Congresso di Vienna – non sono favorevoli a uno stato sano e vitale; non è con i discorsi e con le risoluzioni delle maggioranze che si decidono i grandi problemi della nostra epoca – questo fu l’errore del 1848-1849 –, ma col ferro e col sangue”: dunque, sul piano interno è necessario umiliare il principio parlamentare imponendo la riforma dell’esercito senza i condizionamenti del Landtag; su quello internazionale, è fondamentale costruire una rete di alleanze internazionali e allargare la propria area di influenza con una politica aggressiva, come accade nella crisi dello Schleswig e Holstein (1864) e, soprattutto, nella guerra con l’Austria che scoppia nel giugno 1866.
La guerra “fratricida” mette di fronte due tradizioni militari e due modi di concepire funzione e ruolo dell’esercito: da una parte, quella austriaca, quest’ultimo è inteso come parte del percorso di formazione e coinvolge i giovani in età di leva; dall’altra, non solo si fonda sulla tradizione militare prussiana e la rivendica, ma è capace di sfruttare – alla guida del generale von Moltke – le innovazioni tecnologiche (ad esempio il fucile a retrocarica, che permette una maggiore rapidità di tiro), la perfetta organizzazione e la possibilità di trasferire rapidamente le truppe mediante l’articolata rete ferroviaria: il 3 luglio, a Sadowa, gli austriaci vengono sconfitti. La pace di Praga (23 agosto 1866) è l’abbandono del sogno di una Grande Germania, sostituita dalla Confederazione della Germania del Nord; ma, soprattutto, le clausole sono un capolavoro di Bismarck che – dopo aver resistito alle pressioni dei militari intenzionati a continuare la guerra – intavola subito le trattative: l’Austria perde il Veneto e cede l’Holstein alla Prussia, dovendo altresì tollerarne l’ingrandimento con l’annessione di alcuni stati. E, per sempre, viene estromessa dal novero delle grandi potenze europee dell’incipiente “età dell’imperialismo”.
Tra le clausole non scritte dell’accordo, vi è una tacita tolleranza verso un eventuale ingrandimento francese in direzione del Belgio, giacché Napoleone III non ha osteggiato l’espansionismo prussiano: ma poi, quando questi decide di aprire le trattative con l’Olanda per ottenere il Lussemburgo, Bismarck – in nome dell’integrità tedesca – si oppone; e quando le pretese prussiane in occasione della successione spagnola diventano – agli occhi francesi – insostenibili, il conflitto è inevitabile. La miccia è la notizia – abilmente manipolata da Bismarck – che l’ambasciatore francese non fosse stato ricevuto dall’imperatore: le reazioni offese dei francesi, e le conseguenti manifestazioni nazionaliste, producono l’effetto voluto dal Cancelliere: il 19 luglio Napoleone III fa notificare la dichiarazione di guerra alla Prussia che, in poche settimane, sconfigge i Francesi (Sedan, 1° settembre 1870). Il 18 gennaio 1871, a Versailles, Guglielmo I viene proclamato imperatore dei Tedeschi.
Stupisce, come ha osservato lo storico Arno Mayer, la scelta di Bismarck di violare così palesemente il codice d’onore arrivando a lasciar intendere qualcosa di diverso da ciò che è realmente accaduto. La cultura d’onore è, infatti, un tratto ineludibile della società ottocentesca, nei rapporti diplomatici come nelle relazioni, e le persistenze dei codici culturali e politici inevitabilmente fanno aggio sulla patina ancora superficiale dell’“età della borghesia”, che, peraltro, contribuiscono a modellare.
Ma Otto von Bismarck, cui si deve l’unificazione della Germania, il ridimensionamento dell’Austria e la caduta dell’impero di Napoleone III, è ben diverso da quest’ultimo, come pure dall’altro grande statista coevo, Cavour: l’uno, i cui tratti di cesarismo precipitano nella storia francese e ne sono edulcorati e, certamente, condizionati; l’altro, rifuggente le dittature e convinto assertore del parlamento e del suo ruolo. Viceversa la storiografia tedesca, incardinata inizialmente nel mito bismarckiano, sin da Max Weber, lo ha poi riconsiderato: “Sotto la guida di Bismarck – afferma Erich Eyck – il popolo tedesco era diventato unito, forte e potente. Ma il senso della libertà, dell’indipendenza personale, della giustizia e dell’umanità era stato fatalmente indebolito dal governo del grande statista, dalla sua politica utilitaria e realistica”. Tuttavia, ha fatto notare Schulze, i primi a proclamare – nella “Sala degli specchi” di Versailles – l’imperatore non sono i principi ma la Deputazione del Parlamento tedesco del Nord. Nonostante Bismarck, o grazie a Bismarck, il nuovo Stato sin dall’inizio ha legittimazione: il consenso dei pari grado ma, anche, quello parlamentare e plebiscitario.
Il II Reich
La nascita dell’Impero tedesco che sin dal nome – II Reich – rievoca il “mito fondativo” del Sacro Romano Impero – inaugura una lunga stagione di pace per l’Europa occidentale: da Londra, tuttavia, il conservatore Disraeli afferma alla Camera dei Comuni che un uomo senza principi ha distrutto l’equilibrio europeo: “Abbiamo a che fare con un mondo nuovo, con pericoli sconosciuti”.
Eppure la concezione bismarckiana delle relazioni internazionali – ispirata a una politica di potenza, più che al principio di nazionalità e libertà dei popoli – pur contaminando le relazioni internazionali, produce una sua forma di equilibrio: fondato però sull’egemonia tedesca che impedisce, anche grazie a un’alleanza con gli imperatori russo e austriaco (1873), alla Francia ogni tentativo di rivincita. Per Bismarck si tratta di una scelta necessaria: un’alleanza austro-tedesca rischia di spingere la Russia su posizioni filofrancesi, mentre un’alleanza russo-tedesca potrebbe irritare fortemente l’Austria e allarmare l’Inghilterra, che mantiene una posizione defilata rispetto agli equilibri del Vecchio Continente. Austria e Russia, tuttavia, hanno più di una ragione per non essere alleate ma concorrenti e nemiche: entrambe, ad esempio, nutrono mire espansionistiche verso i Balcani, dove la disgregazione dell’Impero turco apre enormi spazi di penetrazione che solo la Conferenza di Berlino (1878) – in seguito alla guerra russo-turca – e la successiva Triplice Alleanza (1882) riconducono nell’alveo degli equilibri politici europei.
Al tempo stesso un Sonderweg sostiene e permette tale egemonia e disattende le altrui pretese, ora per timore, ora per opportunismo: in quattro anni, anche grazie al sapiente uso delle liberalizzazioni per imprese e commerci, queste quadruplicano di numero, mentre i cinque milioni di franchi pagati dalla Francia a titolo di risarcimento irrorano un’economia già in espansione; la “Grande Depressione” iniziata nel 1873, che sconvolge il sistema mondiale dell’economia, enfatizza e sostiene piuttosto lo slancio tedesco: nel declinare dell’agricoltura, che tende però a specializzarsi e non a scomparire, la Germania diventa uno stato industriale. È, tuttavia, un capitalismo ben diverso, “organizzato” e reso funzionale dallo Stato che ne razionalizza e concentra la crescita, anche mediante il sapiente uso delle “banche miste”. All’esistenza di importanti risorse naturali – come le miniere di carbone della Ruhr – la Germania unisce infatti una buona dotazione infrastrutturale, un’elevata qualificazione della manodopera e soprattutto un sistema politico che favorisce l’espansione industriale, considerata parte integrante della politica di potenza. La cosiddetta “seconda industrializzazione” si caratterizza dunque non solo per i nuovi settori coinvolti (chimico, siderurgico, elettromeccanico), ma anche per la partecipazione dello Stato al reperimento dei capitali, alla promozione industriale, alla difesa della produzione domestica e allo sviluppo di una politica estera in grado di reperire mercati di smercio per le esportazioni. È un “matrimonio tra ferro e segale”, celebrato dallo Stato e garantito dalle sue leggi.
Ne deriva, secondo lo storico Wehler, una progressiva divergenza di interessi industriali e agrari mediata da Bismarck, che produce un sostanziale immobilismo istituzionale garantito dai corpi burocratici e amministrativi, mentre lo Stato si fa appunto camera di compensazione di interessi e conflitti. Certo una svolta protezionistica, decisa nel 1879, segnala il prevalere del blocco sociale ed economico tradizionale: ma sono necessarie, anche, limitate concessioni liberaleggianti come un’estensione del suffragio, l’assicurazione obbligatoria per gli infortuni, la malattia e la vecchiaia ispirata dalle idee del cosiddetto “socialismo della cattedra”, cui si intende togliere linfa e possibilità di organizzazione e proselitismo mediante leggi repressive contro gli scioperi e la libertà di stampa. Dagli anni Sessanta, infatti, anche in Germania cominciano a diffondersi i primi movimenti dei lavoratori di ispirazione socialista: si tratta della Allgemeine Deutsche Arbeitverein (ADAV) fondata nel 1863 da Ferdinand de Lassalle, e del Sozialdemokratische Arbeiterpartei (SDAP), nato nel 1869 su iniziativa di Bebel e Liebknecht e di ispirazione marxista e dalla cui confluenza al congresso di Gotha (1875) nasce il Partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Deutschlands, SPD), che subito si segnala per l’infiammarsi dei consensi, sostenuto anche dal movimento sindacale e dalla scelta – al congresso di Erfurt – di accogliere un programma di ispirazione marxista: dal 9 percento dei suffragi raccolti nel 1878, passa – malgrado la repressione – al 19 percento nel 1890.
È necessario, dunque, cercare e ottenere l’appoggio cattolico: con il Kulturkampf Bismarck – nel timore di un partito cattolico che, forte nelle campagne e tra i ceti medi urbani ed espressione di umori autonomistici insofferenti dell’accentramento prussiano – inaugura un’offensiva contro l’integralismo promuovendo il matrimonio civile, stabilendo il controllo imperiale sulle nomine ecclesiastiche ed espellendo i Gesuiti. Ma il timore del socialismo e il rafforzamento dei cattolici alle elezioni del 1878 quando ottengono 100 seggi, sollecitano la necessità di allargare – nel crescere delle organizzazioni popolari – in questa direzione le alleanze auspicando un successivo rientro del baricentro politico nei gangli del proprio, centralizzato e controllato, “dispotismo illuminato”.
D’altra parte – nella concezione bismarckiana – l’economia, come la politica, sono in un sistema di vasi comunicanti che transita necessariamente per lo Stato e le sue prerogative e funzioni, per le sue capacità di disciplinare e reprimere, concedere e permettere, giudicare, amministrare, governare, guidare e difendere l’espansione. E anche l’Africa, dove la Germania rivendica il proprio spazio coloniale, diventa cogente alle funzioni e all’esercizio dell’arbitraggio: laddove si stabilisce, come nella conferenza internazionale di Berlino del 1884-1885, il principio della “occupazione effettiva” abolendo le dichiarazioni di sovranità sulla carta, si sottolinea anche che lo Stato tedesco aspira a governarne gli equilibri e gli esiti.
Il modello bismarckiano sembra, dunque, l’unico in grado di convogliare le energie economiche e sociali smussandone gli “estremi” e sviluppandone le potenzialità: eppure, nel 1890 Bismarck viene licenziato. Il giovane, nuovo imperatore – Guglielmo II, dopo il brevissimo regno di Federico III – ne teme il crescente consenso e decide di imprimere un “nuovo corso” alla vita politica e sociale tedesca: considera, infatti, il “modello” del Cancelliere, all’interno come all’estero, sempre meno adeguato e quasi insufficiente; d’altra parte, il consenso a un regime troppo elitario e autoritario si sta indebolendo mentre si è ormai consumata anche l’adesione a una politica estera non sufficientemente aggressiva, specie sul piano coloniale. Leo von Caprivi, che sostituisce il “Cancelliere di ferro”, mostra di avere maggiore considerazione del “parlatoio” (il parlamento, secondo la definizione di Guglielmo I): abolisce, infatti, la legislazione antisocialista e attenua le misure protezionistiche. Ma, su indicazione del Kaiser, si lancia in nel contempo una politica di riarmo, imperniata sulla costruzione di una potente flotta e di forte penetrazione commerciale in Medio Oriente, attraverso la costruzione di un importante asse ferroviario tra Berlino, Istanbul e Baghdad, mentre in politica estera si afferma una tendenza filoaustriaca, producendo quell’alleanza franco-russa (1894) che Bismarck ha a lungo cercato di evitare. La Germania, che mantiene inalterati gli equilibri di potere, si prepara all’“assalto al potere mondiale”.