Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Novecento la psicologia è contraddistinta dalla dialettica tra due contrapposte concezioni epistemologiche della disciplina nonché tra due divergenti tradizioni di ricerca. Da un lato, la concezione “forte” di psicologia come scienza naturale, ovvero la concezione naturalistica della mente fondata sulla sperimentazione-spiegazione, dall’altro la concezione “debole” di psicologia come scienza umana, ovvero la concezione storico-culturale della mente fondata sull’interpretazione-comprensione. Verso la fine del XX secolo la psicologia come scienza naturale è stata definita come moderna mentre la psicologia come scienza umana viene detta postmoderna. Da ciascuna si sono sviluppati importanti – e spesso inconciliabili – paradigmi e settori di ricerca che, unitamente, compongono il multiforme panorama della psicologia contemporanea.
La psicologia moderna
John Carew Eccles
Il cervello
Finora la descrizione del funzionamento dei moduli è rimasta sul piano puramente materialistico. Potrebbe spiegare, per esempio, le operazioni della macchina neuronica che trasformano le afferenze sensoriali in qualche forma di risposta motoria passando attraverso complicatissimi schemi spazio-temporali di moduli. Ma se seguiamo l’ipotesi dualistico-interazionistica dobbiamo porci la domanda: quale attività della macchina neuronica può essere “decifrata” dalla mente autocosciente? Possiamo dire anzitutto che non è concepibile che la mente autocosciente sia collegata a singole cellule o a singole fibre nervose. Individualmente queste unità neuroniche sono troppo inattendibili e inefficienti. In base a ciò che sappiamo oggi sul modo di funzionare della macchina neuronica, dobbiamo porre l’accento sugli insiemi di neuroni (centinaia o migliaia) che cooperano nell’ambito di una qualche configurazione. Solo questi raggruppamenti possono essere attendibili ed efficaci. I moduli della neocorteccia sono appunto insiemi di neuroni. Entro certi limiti il modulo, con i suoi circa 2.500 neuroni di diversi tipi e con la sua organizzazione funzionale di eccitamento e inibizione a feedback e feedforward ha una vita indipendente. Per ora sappiamo poco sulla dinamica interna di un modulo; ma possiamo congetturare che esso, con la sua organizzazione complessa e la sua intensa attività, sia un componente del mondo fisico (1° mondo) in contatto sia emittente sia ricevente con la mente autocosciente (2° mondo).
in Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri , Milano, Marzorati, 1991
La psicologia moderna ha i suoi presupposti nel pensiero classico e moderno – da Aristotele a Alberto Magno, da Cartesio a Kant – e a partire dai primi del Novecento si costituisce come scienza, ossia come indagine di laboratorio sulla mente considerata come oggetto, secondo il modello delle scienze naturali. La mente è “la mente universale, astorica”.
Infatti, dal 1879, anno di istituzione del primo Laboratorio di psicologia all’università di Lipsia a opera di Wilhelm Wundt, la psicologia è essenzialmente caratterizzata dall’introduzione del metodo sperimentale e dei relativi concetti e procedure (relazione di funzione tra variabili, leggi, analisi statistica ecc.) nell’indagine sui processi psichici. I principi concettuali riprendono, seppur modificati, quelli dell’empirismo inglese e dell’associazionismo, secondo cui la mente viene intesa come un fascio di sensazioni e un sistema di associazioni. La sperimentazione di laboratorio, dunque, consente finalmente di verificare la “chimica mentale” sostenuta dai filosofi del Settecento e dell’Ottocento.
Tuttavia, lo stesso Wundt riconosce che non tutti i processi psichici possono essere studiati con il metodo sperimentale. I cosiddetti processi psichici superiori (come quelli evolutivi o sociali) necessitano di un metodo osservativo. Riappare la dicotomia, già dibattuta nel pensiero filosofico precedente, tra una concezione della mente intesa nella staticità e universalità della sua struttura e delle sue funzioni, e una concezione della mente intesa nella dinamicità e storicità delle relazioni interpersonali e sociali. In altri termini, si manifesta la dicotomia tra mente individuale – sede dei processi psichici inferiori, studiabile in laboratorio con il metodo sperimentale – e la mente nella sua relazione con le altre menti – studiabile con il metodo osservazionale. Nascono quindi “le psicologie”, o meglio, ovvero quella che Karl Bühler definisce “la torre di Babele della psicologia contemporanea”.
Tra le varie psicologie, è proprio nell’ambito della psicologia moderna che si sviluppa il dibattito su quali facoltà compongano la mente e su quale sia il loro funzionamento reciproco e complessivo.
Modularismo e connessionismo
Particolarmente rilevante è apparso il cambiamento occorso nell’ambito della psicologia moderna negli ultimi venti anni del Novecento: il paradigma cognitivista dello Human Information Processing, basato sull’analogia di processo tra mente e computer e sostenuto dai risultati delle sperimentazioni di laboratorio, si è confrontato con l’avvento delle teorie ecologiche della mente, ovvero con la necessità di integrare le microanalisi precedentemente sviluppate in una teoria generalizzabile al di là delle pareti del laboratorio che rendesse ragione del modo naturale dell’organismo di operare nell’ambiente.
Dagli anni Ottanta in poi, dunque, si assiste all’ampliarsi progressivo del dibattito sull’architettura della mente che vede, da un lato, i sostenitori dell’organizzazione “verticale” della mente in facoltà separate, i cosiddetti modularisti – il cui massimo esponente è Jerry Alan Fodor –, dall’altro i sostenitori della mente come sistema interconnesso, a parallelismo massivo, i cosiddetti connessionisti – si pensi a John Hopfield, Dana Ballard e Jacob Feldman, David Rumelhart e James McClelland – con il primo sviluppo delle reti neurali.
L’ipotesi modularista appare più legata a una concezione topdown della mente, ovvero a una concezione per cui la mente è generatrice autonoma dei propri modelli di elaborazione della realtà fenomenica. Il modularismo prevede un’architettura cognitiva articolata in strutture verticali di analisi dei dati della realtà, i moduli, che trasformano gli input in rappresentazioni a loro volta elaborate dal sistema cognitivo centrale. Questo modello ha riscosso un notevole successo soprattutto in neuropsicologia, con il riscontro reiterato di strutture modulari in molte sindromi neurologiche – From neuropsychology to mental structure (1988). Ampia parte delle neuroscienze, infatti, utilizzando i sofisticati metodi di indagine più recenti – Positron Emission Tomography (PET), Functional Magnetic Resonance Imaging (FMRI), il brain imaging – offre sostegno a questa ipotesi.
L’ipotesi connessionista, d’altro canto, sembra esprimere una concezione bottom-up della mente, in cui i processi mentali vengono innescati, guidati e continuamente regolati dai dati della realtà fenomenica. Anche i modelli connessionisti intendono essere neurologicamente plausibili, basandosi sullo sviluppo e sull’implementazione di reti neurali. Una rete neurale, simulando le reali strutture del sistema nervoso, è una struttura artificiale dinamica in grado di autoregolarsi e di apprendere. Per fare questo la rete deve essere dotata di dispositivi di ricezione dell’ input esterno e di dispositivi di emissione di risposta. Le reti sono costituite da unità (neuroni artificiali, nodi), dotate di una soglia di attivazione, connesse tra loro da legami cui sono attribuiti dei pesi; l’apprendimento consiste nella modificazione di questi pesi. Il pensiero, dunque, secondo questa concezione, sarebbe una proprietà emergente dall’auto-organizzazione di una mente intesa come una rete di unità profondamente interconnesse in modo distribuito.
Il rapporto mente-corpo
Le due ipotesi riportano, per tutto il XX secolo, il confronto a un tema tradizionale della filosofia e della psicologia, il rapporto mente-corpo, articolato nelle posizioni monistiche (materialistiche e idealistiche) e dualistiche. La posizione monistica sostiene che mente e corpo sono ontologicamente la stessa cosa; il punto di vista materialista sostiene che le due entità sono riducibili alla materia, cioè al corpo, mentre il punto di vista idealistico sostiene che le due entità sono riducibili allo spirito, ovvero alla mente. Particolare rilievo nella discussione assume la teoria dell’identità (A materialist theory of the mind di David Armstrong del 1968) secondo la quale il mentale è il funzionamento della materia nervosa. Si parla anche di eliminativismo per indicare l’estrema conseguenza di questa teoria, ovvero il fatto che, una volta chiarito del tutto il funzionamento della materia nervosa, sarà possibile eliminare ogni discorso mentalistico, anche a livello del linguaggio (gli atteggiamenti proposizionali, ovvero espressioni come “io credo che…”, “io spero che…”) come espresso in Una prospettiva neurocomputazionale di Paul Churchland (1989).
Si possono distinguere, nel dibattito avvenuto nel corso degli anni Settanta e Ottanta, quattro posizioni: la prima a sostegno della teoria dell’identità, che ha accomunato neuroscienziati, esperti di intelligenza artificiale e filosofi della mente; la seconda come riaffermazione del dualismo – di Roger Sperry, Karl Popper e John Eccles; una terza posizione emergentista sostenuta da Hebb O. Donald nel saggio Essay on mind del 1980 e da Mario Bunge in The mind-body problem (1980), infine una posizione di matrice dualistica iperrazionalista (si veda Il linguaggio del pensiero del 1975 e Representations: philosophical essays on the foundations of cognitive science del 1981 di Jerry Fodor).
Gli studi neuropsicologici, infine, hanno riproposto l’emergentismo come teoria generale unificatrice delle molte microricerche empiriche: non è possibile parlare di mente se la complessità strutturale del sistema nervoso si pone al di sotto di un certo livello critico (per il sorgere di questa teoria si veda L’organizzazione del comportamento di Hebb, pubblicato nel 1949). Un cervello semplice come quello di un rettile o di un uccello, così come di un mammifero inferiore, non può sviluppare in senso proprio una mente, che è una proprietà emergente a un certo livello dell’evoluzione.
La psicologia postmoderna
Secondo il pensiero postmoderno la cultura e la scienza non sono processi di accumulo di conoscenze e trasmissione di queste conoscenze da una generazione all’altra; piuttosto, la cultura e la scienza sono prospettive o “narrazioni” espresse in un linguaggio condiviso tra chi parla e chi ascolta.
La tradizione “debole” della psicologia postmoderna emerge solo nell’ultimo quarto del Novecento, pur derivando da una storia più antica, e studia la mente come strumento di interazione personale all’interno di un contesto storicamente marcato. La mente è “la mente del ‘qui e ora’”.
Kenneth Gergen individua alcuni assunti principali rispetto ai quali psicologia moderna e postmoderna si confrontano. Innanzitutto, secondo la concezione moderna della psicologia, gli psicologi hanno un comune oggetto di ricerca (ossia la mente, il comportamento manifesto, le relazioni interpersonali) condiviso da tutta la comunità scientifica. Il secondo assunto è che, individuato l’oggetto di indagine, esso possa essere studiato nei singoli casi solo per determinare leggi universali. Il terzo è che questo processo di conoscenza deve essere sviluppato attraverso la ricerca empirica e preferibilmente il metodo sperimentale, considerato scevro da fattori personali, morali, sociali e politici. Infine, vi è un processo di crescita continua della conoscenza derivante proprio dalla continua verifica sperimentale delle ipotesi.
Diversamente, la psicologia postmoderna ritiene, in primo luogo, che non esiste un oggetto della psicologia dato per sempre; l’oggetto della ricerca psicologica è una costruzione storica, veicolata dal linguaggio e influenzata dal contesto storico-culturale al quale il ricercatore appartiene ed entro il quale egli opera. In secondo luogo, si ritiene che il presupposto oggetto della psicologia, ovvero il soggetto, non possa perdere le proprie caratteristiche intrinseche di libertà e autonomia a favore dell’indagine universale di uno sperimentatore neutro. Infine, lo psicologo postmoderno non possiede una fede certa nell’evoluzione accumulativa della conoscenza, piuttosto egli contestualizza se stesso come ricercatore e il proprio operare collocandoli nella contingenza dei presupposti teorici e metodologici della ricerca.
Psicologia e narrazione
Appartiene al contesto della psicologia postmoderna la varietà delle teorie riconducibili alla psicologia del linguaggio e della comunicazione, alla psicologia culturale e a quella narrativa nonché tutti i settori di ricerca e le prassi che hanno come focus principale l’interazione umana e le relazioni (per esempio, psicoterapie, psicanalisi, counseling).
La narrazione, in particolare, si caratterizza progressivamente nell’analisi psicologica come una attività cognitivo-relazionale di costruzione dell’identità personale e dell’altro, nonché della realtà. Continuando il filone di ricerca aperto da Lev Vygotskij ma anche da Michail Bachtin e Paul Ricoeur, Jerome Bruner , distingue tra pensiero logico-scientifico e pensiero narrativo, del quale la narrazione è espressione comune. Mentre il pensiero logico-scientifico si serve di processi logici e categoriali, di procedure formali e di argomentazioni dimostrative, il pensiero narrativo è una sorta di capacità fondamentale e universale della mente umana, ed è proprio del ragionamento e del discorso quotidiano. Esso permette di strutturare l’esperienza intra e interpersonale rispetto al proprio interlocutore e rispetto a se stessi, di mettere in relazione il mondo interno (gli stati mentali, le credenze, i valori, le emozioni, le intenzioni e gli scopi) con l’esterno, il presente con il passato e con il futuro. Le modalità di tale organizzazione sono diverse in rapporto ai diversi sistemi simbolici di ogni cultura.
Gli ultimi anni del Novecento assistono, dunque, all’espandersi della ricerca sulla memoria autobiografica, sia individuale che collettiva, sull’interazione in contesti familiari, diadici, triadici, di gruppo, istituzionali e informali e alla progressiva sofisticazione dei metodi qualitativi di indagine, da quelli inerenti all’analisi dell’interazione linguistica (analisi conversazionale, delle strutture narrative) a quelli relativi alla comunicazione non verbale (classificazione dei gesti, studi sullo sguardo ecc.).
La coscienza
Il tema della coscienza percorre, come un fil rouge, gran parte della complessa articolazione delle psicologie moderna e postmoderna del Novecento.
Una distinzione fondamentale da compiere nelle varie accezioni di coscienza è quella tra coscienza cognitiva e coscienza fenomenica. Quest’ultima designa l’esperienza soggettiva in prima persona dell’avere stati qualitativi, ossia dell’avere un proprio punto di vista, di “ciò che si prova” a essere un determinato individuo. La coscienza cognitiva, invece, si caratterizza come la capacità di un sistema di avere accesso ai propri stati interni o allo scopo di (ri)produrli verbalmente o allo scopo di organizzare l’azione o, ancora, al fine di elaborare rappresentazioni di se stesso da utilizzare nell’interazione sociale.
Il Novecento vede in psicologia il dibattito tra studiosi della mente umana e studiosi delle “menti senza linguaggio”, secondo l’espressione usata da Simone Gozzano in Mente senza linguaggio (2001), nel tracciare una distinzione tra coscienza primaria e coscienza di ordine superiore.
La coscienza primaria è la capacità di elaborare una rappresentazione mentale, o scena, in cui una grande quantità di informazioni eterogenee viene integrata allo scopo di guidare il comportamento presente o immediato. Di questa coscienza sono dotati anche gli animali che possiedono strutture cerebrali comparabili alle nostre. Essi, tuttavia, hanno limitate capacità semantiche o simboliche e mancano di un vero linguaggio, sono privi di un concetto del passato e del futuro per cui pur possedendo un’individualità biologica non si può dire posseggano un vero sé.
La coscienza di ordine superiore, quella umana, invece, si sviluppa sulla base della coscienza primaria ed è caratterizzata dalla capacità, nello stato di veglia, di costruire esplicitamente e di collegare tra loro scene passate e future. La coscienza emerge a partire dal momento in cui nell’evoluzione si è verificato il collegamento tra pianificazione e linguaggio poiché il linguaggio ci consente di avere accesso alla nostra stessa attività cognitiva di pianificazione.
La teoria dei processi mentali superiori di Lev Vygotskij e Aleksandr Lurija sostiene che i processi che caratterizzano il pensiero umano, come l’uso e la manipolazione di strumenti, ovvero l’intelligenza pratica, e la produzione del linguaggio (speech) sono il risultato della convergenza delle due direzioni dello sviluppo biologico e socioculturale.
Il tema della coscienza vede confrontarsi ricerche di ambito moderno e postmoderno anche, o soprattutto, su scelte metodologiche, come in Understanding consciousness (2000) di Max Velmans. Si distinguono metodi in prima persona (o qualitativi), relativi all’introspezione e ai resoconti verbali (preferenza postmoderna), e quelli in terza persona (o quantitativi), in cui osservatore e osservato si suppone costituiscano elementi distinti, appartengano a diversi contesti e consentano la definizione scientifica di disegni sperimentali controllati (preferenza moderna).
Da un lato, dunque, appare imprescindibile salvaguardare la soggettività della coscienza fenomenica (metodi qualitativi), dall’altro, altrettanto irrinunciabile appare l’istanza di validazione intersoggettiva delle teorie (metodi quantitativi). Proprio a cavallo tra vecchio e nuovo secolo la ricerca pare orientata a uscire da questa dicotomia paralizzante adottando “la prospettiva in seconda persona”, ovvero l’adozione di una prospettiva condivisa da cui noi vediamo reciprocamente l’altro e il mondo, costruita dagli osservatori interagenti che influenzano l’uno le esperienze dell’altro, e condividono la comprensione dell’esperienza in più sottili modalità interpersonali e sociali.
Psicologia della Gestalt
La psicologia della Gestalt (la parola tedesca Gestalt significa “forma, schema, rappresentazione”), detta anche psicologia della forma, è una corrente psicologica riguardante la percezione e l’esperienza che nasce e si sviluppa nel periodo tra gli anni Dieci e gli anni Trenta in Germania, per poi spostarsi negli USA, dove i suoi principali esponenti si trasferiscono nel periodo delle persecuzioni naziste.
Gli studiosi più rappresentativi della psicologia della Gestalt sono Max Wertheimer – alla pubblicazione di un suo articolo sul “fattore phi” nel 1912 ne viene fatta risalire la nascita; Kurt Koffka – il cui interesse si accentra sullo sviluppo psichico; Wolfang Köhler – celebre per i suoi studi sull’apprendimento animale; Kurt Lewin – noto per la “teoria del campo” e Kurt Goldstein – con la sua definizione dell’“impulso all’auto-attualizzazione”. Anche Wolfgang Metzger e Kurt Gottschaldt sono considerati esponenti di spicco in Germania, così come Albert Michotte in Belgio. In Italia alcuni degli esponenti più noti della psicologia della Gestalt sono stati Fabio Metelli e Gaetano Kanizsa, assieme a Paolo Bozzi e Giovanni Bruno Vicario, che hanno contribuito a diffonderne lo studio nelle università italiane. Alla diffusione della Gestalt in Italia ha contribuito anche Cesare Musatti, in ogni caso maggiormente noto per il suo impegno di psicoanalista.
La psicologia della Gestalt focalizza il suo interesse principalmente sui processi percettivi e del ragionamento/problem-solving; è tuttavia ben presente il suo contributo anche nelle indagini sull’apprendimento, sulla memoria, sul pensiero e sulla psicologia sociale; per essa l’esperienza umana non è divisibile nelle sue componenti elementari; al contrario, è necessario considerare l’intero come fenomeno sovraordinato rispetto alla somma delle sue componenti: “L’insieme è più della somma delle sue parti”. Allo stesso modo, le caratteristiche di una società non corrispondono a quelle dei singoli individui che la costituiscono. Inoltre, quello che noi siamo e sentiamo, il nostro stesso comportamento, sono il risultato di una complessa organizzazione che guida anche i nostri processi di pensiero.
Per comprendere il mondo si tende a identificarvi forme secondo schemi che ci sembrano adatti – acquisiti e scelti per imitazione, apprendimento e condivisione – e attraverso simili processi, per lo più inconsapevoli, si organizzano sia la percezione sia il pensiero e la sensazione.
Per ciò che riguarda la percezione visiva, le regole principali di organizzazione dei dati percepiti sono:
1. buona forma (la struttura percepita è sempre la più semplice);
2. prossimità (gli elementi sono raggruppati in funzione delle distanze);
3. somiglianza (tendenza a raggruppare gli elementi simili);
4. buona continuità (tutti gli elementi sono percepiti come appartenenti a un insieme coerente e continuo);
5. destino comune (se gli elementi sono in movimento, vengono raggruppati quelli con uno spostamento coerente);
6. figura-sfondo (tutte le parti di una zona si possono interpretare sia come oggetto sia come sfondo);
7. movimento indotto (uno schema di riferimento formato da alcune strutture che consente la percezione degli oggetti);
8. pregnanza (nel caso gli stimoli siano ambigui, la percezione sarà buona in base alle informazioni prese dalla retina).
Queste regole vengono utilizzate per spiegare diverse illusioni ottiche.
Nell’ambito della psicologia sociale le teorie della Gestalt entrano in conflitto con quelle comportamentiste statunitensi, che descrivono il comportamento sociale come regolato dalle gratificazioni sociali, quali l’elogio e l’approvazione; esse propongono, invece, la teoria dell’attribuzione che sottolinea il ruolo delle sensazioni, percezioni, obiettivi, intenzioni, convinzioni, motivazioni e credenze nel comportamento sociale degli individui. In questo ambito di riferimento si sviluppa la teoria del campo di Kurt Lewin. Egli considera la realtà complessa della vita quotidiana come “il campo” in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi. Uno stesso oggetto nel campo può essere percepito con significati diversi a seconda degli obiettivi o del bisogno che l’individuo avverte in quel momento, così come essi interagiscono con il contesto situazionale in cui sono inseriti, per esempio il bisogno organizza il campo (1926).
Un’importante implicazione del modello gestaltico di Kurt Lewin è che il paradigma di tutta l’attività cognitiva del soggetto – inclusa la percezione – è improntata sul problem solving. Queste intuizioni di Lewin danno il via a una serie di ricerche sul problem solving e sul concetto correlato di insight (Koffka, 1935; Köhler, 1940; 1947)
Il modello teorico della Gestalt riguardante il pensiero e l’apprendimento animale si oppone a quello comportamentista secondo il quale gli animali risolvono le problematiche con un criterio costituito da tentativi ed errori, proponendo e privilegiando, invece, un criterio di spiegazione formato dalla comprensione e dalla intuizione, l’ insight appunto.
Un’ulteriore elaborazione della psicologia della Gestalt dal punto di vista dello sviluppo di una teoria della personalità e della psicoterapia è il contributo del neurologo Kurt Goldstein, del quale è assistente di laboratorio per un breve periodo Friedrich Perls, successivo fondatore della psicoterapia della Gestalt. L’unico impulso o istinto di cui si possa parlare nel comportamento umano è l’impulso a interagire con l’ambiente e a organizzare quella interazione in schemi, per esempio l’impulso all’auto-attualizzazione. Goldstein afferma ciò decisamente, in opposizione alla tendenza meccanicistica che caratterizza alcuni studi psicologici, tra questi anche la psicanalisi freudiana, e che riconduce il fine ultimo del comportamento umano alla riduzione della tensione.
L’influenza della psicologia della Gestalt investe anche le arti: la pittura, negli interessi critico-storiografici di Ernst Gombrich, e il cinema, almeno inzialmente, in quelli psicologici percettivo-visivi di Rudolf Arnheim; austriaco di origine, rifugiatosi a Londra il primo, tedesco rifugiatosi prima in Italia e poi negli USA il secondo. È il principio gestaltico della costanza percettiva che ispira le osservazioni di Gombrich: le percezioni o gli oggetti fenomenici mantengono la loro identità, la loro forma, la loro taglia e il loro colore a dispetto delle variazioni delle loro immagini retiniche e questo principio costituisce la base per lo schema, che viene declinato a seconda della soggettività di chi osserva un oggetto e/o lo rappresenta nella pittura; pertanto egli sottolinea il ruolo centrale dell’imitazione e della tradizione nella genesi dell’opera d’arte.
L’idea di fondo di Arnheim è che lo sviluppo cognitivo proceda nella direzione di una progressiva differenziazione e che questa differenziazione venga elaborata seguendo il principio gestaltico della semplicità. Secondo questo principio ogni figura tende a essere vista in maniera tale che la struttura che ne risulta è tanto più semplice quanto più le condizioni date lo consentono. In pratica, siamo propensi, biologicamente, a scegliere la soluzione più semplice e più economica.
A tutt’oggi, in alcuni ambiti di ricerca, come l’ambito delle neuroscienze computazionali, le teorie della percezione della Gestalt sono criticate per essere descrittive piuttosto che esplicative.