La questione del Mezzogiorno: societa e potere
Se non si considera la questione meridionale come innanzitutto economica, ma come frutto di condizioni culturali, l’attenzione si pone sul radicarsi nel Mezzogiorno di mentalità di potere autoritario e di correlativi costumi sociali di ‘ubbidienza feudale’. La nota battuta di Ferdinando II, per la quale il suo regno era stretto «tra l’acqua salata e l’acqua benedetta», indica una condizione di chiusura e di isolamento insieme geografica e storico-religiosa. In realtà il Mezzogiorno fu l’area italiana più soggetta al meticciamento, per l’arrivo di immigrati e conquistatori (greci e romani, bizantini, longobardi e arabi, normanni e svevi, francesi angioini e aragonesi, turchi, spagnoli e austriaci), tanto da essere indicata come esempio razzisticamente negativo nel Mein Kampf di Hitler.
Il ‘melting pot’ meridionale, tuttavia, fu diverso da quello che portò alla monarchia inglese (con la quale pure poteva condividere la stessa origine normanna). Giova riferirsi alle riflessioni storiche di uno dei più grandi intellettuali meridionali contemporanei, Benedetto Croce, il quale ha scritto:
«in Inghilterra i baroni adottarono presto fini generali e difesero interessi di tutta la loro classe e poi di tutto il popolo [...] sicché, nonostante le differenze delle razze e il contrasto di conquistatori e conquistati, si formò sin d’allora una nazione inglese. Nella monarchia normanno-sveva non accadde lo stesso: un popolo, una nazione non nacque; […] l’Italia meridionale ci si mostra, nelle storie, nelle cronache, nei documenti, per secoli, un paese in preda alle usurpazioni e prepotenze baronali, povero, con agricoltura primitiva, con scarsissima ricchezza mobiliare, con diffuso servilismo e congiunta ferocia»1.
Si trattava certo dell’inettitudine civile, economica e politica del baronaggio meridionale – notata da Machiavelli e da molti viaggiatori italiani e stranieri, fino al secolo XVIII – nonché della sua frammentazione e del suo particolarismo anarchico, feroce e litigioso, così che il Regno di Napoli appariva «un paradiso abitato da diavoli» e un popolano napoletano motteggiava: «Chisto Riame èi de la Santa Ecclesia, e io dico che èi de lo Santo Diabolo. Non vidite che tutte li signori so li dimonie, che non cercano se no guerre?»2. Ma si trattava anche del progressivo radicarsi di mentalità, comportamenti individuali e collettivi, costumi, indotti da dinamiche sociali che furono secolari.
Ecco perché la questione meridionale è, in effetti, soprattutto, una questione ‘culturale’, intesa in senso antropologico ampio. Vi è un fondo culturale meridionale, sedimentatosi nel tempo, quale portato dei processi storici tipici solo del Mezzogiorno (urbanizzazione diffusa ma di scala ridotta, precoce presenza di uno Stato, anarchia feudale e baronaggio ‘familistico’). Tale fondo culturale agisce nella società come un ‘basso continuo’ delle mentalità e dei costumi, sul lungo periodo.
In sintesi – inevitabilmente di prima approssimazione – questa cultura spinge a una chiusura nel contesto familiare (il ‘farsi i fatti propri’ come virtù civile), coniugata con un affidamento rassegnato, completo e impotente al ‘padrone’ di turno (padre, padrino, signore temporale o spirituale, burocrate, detentore di ‘potere’), secondo la regola del servilismo subalterno: «attacca l’asino dove vuole il padrone». Il bene privato si persegue anche a spese del bene pubblico, come aveva già notato Giuseppe M. Galanti3. Nel 1878 Giovanni Verga, nelle pagine molto note di Fantasticheria, evocava l’«ideale dell’ostrica». Scienziati sociali contemporanei come Edward C. Banfield, sarebbero invece giunti alla formulazione della categoria di «familismo amorale»4 (massimizzare i vantaggi materiali e immediati del nucleo familiare, supponendo che anche gli altri facciano lo stesso), che avrebbe avuto una larga e durevole fortuna, con esiti scientifici non sempre positivi sul piano dell’approfondimento critico e di una piena intelligenza storica della complessa e variegata realtà della società meridionale5. Tale atteggiamento familistico, peraltro, si unisce a una passiva e scettica attesa di un intervento risolutore e autoritario ‘dall’alto’.
Indubbiamente tale mentalità autoritaria e conservatrice si deve anche al radicarsi e al permanere di autoritarismi ecclesiastici e spirituali, da feudalesimo vescovile, paralleli ai poteri laico-temporali, così che ci sono, per così dire, ‘radici ecclesiali’ nella questione meridionale. Ciò è vero anche nel senso ‘omissivo’, cioè nel debole radicarsi di un costume cristiano attivo e virtuoso: come libertà della coscienza personale e come doveri di solidarietà comunitaria. Nel 1902 il giovane Nicola Monterisi scriveva:
«Residuo anche di lunghe tradizioni è la mancanza di iniziativa, comune un po’ a tutti nel meridionale: guardiamo sempre e ci aspettiamo tutto dall’alto, mai dalle nostre energie. Il popolo guarda il municipio, il municipio il deputato, questi il governo, il prete guarda e aspetta che tutto faccia il Vescovo»6.
Dopo l’Unità le dinamiche politiche e socio-economiche entravano in rapporto dialettico con questo retaggio culturale di lunga durata, rappresentando un pesante deficit per la società meridionale. Nel 1900 Francesco Saverio Nitti, a proposito del Mezzogiorno, scriveva:
«A causa di un dominio secolare si notava allora [al momento dell’Unità], si nota tuttavia, un grande contrasto tra la morale pubblica e la morale privata. Quest’ultima, soprattutto dal punto di vista familiare, è più elevata, in generale, che in qualsiasi altra terra d’Italia. La prima era – e chi può negare che spesso sia? – molto scadente […]. Politicamente l’Italia meridionale è assente: non è né conservatrice, né liberale, né radicale: è apolitica»7.
Nel 1911 Gaetano Salvemini vedeva i tipici vizi meridionali come espressione soprattutto della piccola borghesia intellettuale, che costituiva una larga parte della società meridionale, specialmente nella vita civile e nel formarsi dell’opinione pubblica:
«Le sue caratteristiche psicologiche fondamentali sono la vuotaggine, la vigliaccheria, il nessun senso di dignità […]. Avvezzi, fino dai primi anni, a sentir magnificare la “raccomandazione” come il solo mezzo per andare avanti nella scuola, nel tribunale, nella banca, nel municipio, a Roma, essi non vedono nella vita se non un gioco di protezioni, uno scontrarsi di influenze più o meno efficaci, un prevalere di simpatie o di antipatie capricciose. Per essi non esiste nessuna scala di valori morali obiettivi. Il merito consiste nell’avere un protettore potente»8.
La stessa complessa realtà ecclesiastica era interna a tale situazione e rapportava le logiche sue proprie alle dinamiche che condivideva con la più ampia realtà sociale meridionale. Ciò aveva significative conseguenze che giunsero fino al Novecento: da una parte la ‘clericalizzazione’ (cioè l’acquisizione dello stato clericale), in quanto via – per molto tempo la più accessibile – di mobilità sociale, era perseguita per questo motivo dalle famiglie; dall’altra i registri comunicativi autoritari e di potere traslavano dalle relazioni sociali ai linguaggi e agli stili pastorali.
Come si è visto, la Chiesa è stata ‘dentro’ la questione meridionale. Ma una questione meridionale è stata anche ‘nella’ Chiesa, sia pure molto debolmente avvertita al vertice e pressoché ignorata alla base. Vi è stata cioè, senza dubbio, nell’Italia unita una ‘questione meridionale ecclesiale’: ma il suo riconoscimento e la sua importanza nell’autocoscienza ecclesiale nazionale sono stati, per molto tempo, inesistenti e comunque per nulla paragonabili ai ben più decisivi aspetti del dibattito civile sulla ‘questione meridionale’ come grande e centrale questione dell’Italia unita. Questa consapevolezza debole e tardiva e perciò depotenziata ha i suoi motivi storici, non tutti riducibili al più ampio processo di forte centralizzazione romana che andava contemporaneamente sviluppandosi.
La ‘nazionalizzazione’ della Chiesa in Italia (cioè la nascita di una coscienza nazionale: di una Chiesa ‘italiana’) è avvenuta con una leadership settentrionale, che ha portato a una crescente egemonia – almeno fino al concilio Vaticano II – del personale ecclesiastico, dei paradigmi pastorali, delle forme organizzative laicali, perfino dei modelli di santità settentrionali nel Mezzogiorno. Ciò ha indubbiamente portato anche a una non sempre giustificata ‘penalizzazione’ di tradizioni spirituali e pastorali che avevano una venerabile antichità e che avevano ancora qualcosa da dire ai meridionali: tant’è che, pur sacrificate e in qualche modo marginalizzate, non sono scomparse. Soprattutto, attraverso la stampa cattolica e l’editoria religiosa si diffondevano un’omiletica e registri pastorali che avevano, si direbbe, cadenze lombarde, venete, piemontesi, emiliane, non sempre opportunamente mediate e ‘tradotte’. Nel 1931 monsignor Monterisi, allora arcivescovo di Salerno, lamentava:
«nella pratica di oggi l’omelia è imparaticcia dalle mille pubblicazioni correnti: la quale perciò né esprime l’elaborazione viva e spirituale di chi parla, né rispecchia i bisogni di chi ascolta. Come volete che il pensiero pratico di chi scrive a Milano o Torino, si adatti ai bisogni del legnaiuolo del piccolo paese o della parrocchia di montagna?»9.
Ma la leadership settentrionale ha comportato pure, per la Chiesa del Mezzogiorno, sul medio periodo, soprattutto dei vantaggi e l’accoglimento di utili innovazioni: costringendo, positivamente, a un’apertura e a una progressiva crescita ecclesiale.
Non si può accettare, pertanto, la categoria interpretativa della ‘colonizzazione’ della Chiesa meridionale da parte della Chiesa settentrionale: essa infatti, anche se vuole indicare la innegabile presenza di numerosi squilibri storici, appare per lo meno ambigua, se non del tutto fuorviante, se applicata alla storia religiosa ed ecclesiastica del Mezzogiorno. D’altra parte appaiono altrettanto deboli e scientificamente infondati i più recenti tentativi di introdurre, anche nella Chiesa, una ‘questione settentrionale’ dai contorni molto ambigui.
Il giurisdizionalismo tanucciano, a partire dal Concordato del 1741, rappresentava, per il mondo cattolico meridionale nell’età contemporanea, un’impronta profonda di sottomissione al potere politico10. Peraltro, nel passaggio tra i secoli XVIII e XIX11, la prima e la seconda restaurazione borbonica portarono alla decapitazione dell’intellettualità e alla ‘scissione in due popoli’ (contadini sudditi fedeli e borghesia liberale e carbonara) nella società meridionale. Questa scissione si riverberò anche nella Chiesa, con la presenza di un clero carbonaro e liberale di estrazione borghese. La cultura italiana della prima metà dell’Ottocento – anche con l’apporto di esuli meridionali – trovò dunque i suoi centri al Nord, a differenza che nel Settecento riformatore. La vicinanza con la Francia, da una parte, e con il mondo tedesco, dall’altra, determinava del resto una più incisiva circolazione delle idee, ormai a dimensione europea, dalla quale il Mezzogiorno, se non fu totalmente escluso, fu però decisamente emarginato. Peraltro, tale cultura italiana ottocentesca e romantica fu prevalentemente cattolica: di un cattolicesimo moderno (e filoliberale) che ebbe i suoi centri a Milano, a Firenze, a Torino, molto meno a Napoli, anche se il giobertismo si diffuse nel clero di origini borghesi. Lo stesso cattolicesimo sanfedista e reazionario si trasferì soprattutto al Nord: a Torino e a Modena.
Nel Regno delle Due Sicilie il Concordato del 1818, con il suo giurisdizionalismo moderato, aveva aperto a un’alleanza fra trono e altare: la struttura ecclesiastica si riprendeva dalla crisi del periodo francese e murattiano (anche se proprio in quel periodo, peraltro, era iniziata la ‘funzionarizzazione’ statale del clero, proseguita poi dai Borboni12); i vescovi, sempre più legittimisti, si legavano alla monarchia; il governo proteggeva e favoriva la Chiesa13. Ferdinando I esercitò un ruolo decisivo nella selezione dell’episcopato, nel quale i campani e in particolare i napoletani (con la loro formazione tomista, chiusa alle nuove correnti culturali cattoliche14) ebbero un peso preponderante. In tal modo, la Chiesa meridionale era meno legata a Roma e più al suo sovrano: anche il processo di centralizzazione romana, avviato da Pio IX, non ebbe significativi riscontri, almeno fino all’accendersi della polemica temporalista, ormai alla vigilia dell’Unità.
Tipici della Chiesa meridionale, nell’età della Restaurazione, furono la popolarizzazione dello spirito – in sé geniale – di Alfonso Maria de’ Liguori (canonizzato nel 1839, proclamato dottore della Chiesa nel 1871) e figure ecclesiastiche come quella di Angelo Antonio Scotti, che nelle sue opere esprimeva un giurisdizionalismo teocratico (Teoremi di politica cristiana) e una nuova tensione antilaicizzatrice (Catechismo medico).
L’alfonsismo meridionale, soprattutto nella sua versione popolarizzata, tendeva a non dare enfasi al ‘combattimento spirituale’ interiore per sottolineare invece un abbandono umile e confidente del cristiano alla divina provvidenza: un misticismo popolare, forse con qualche terrorismo ultramondano, ma senza ascetica. Permanevano, peraltro antichi vizi, come l’indisciplina del clero e i contenziosi tra vescovi e preti per i diritti di collazione o per la rivendicazione di rendite e benefici15.
Nell’ultimo decennio di vita del regno borbonico, i vescovi diventarono quasi dei funzionari del re, all’interno peraltro di un più generale processo di accentramento burocratico nello Stato16 e di assolutismo: quando anzi, in un ultimo e disperato tentativo, Francesco II concesse la Costituzione (25 giugno 1860), i vescovi furono in gran parte contrari17. Così, dopo l’annessione del Mezzogiorno e la nascita del Regno d’Italia, l’antiliberalismo, il filotemporalismo papale e il legittimismo borbonico saldarono un fronte episcopale meridionale che si schierò all’opposizione (con pochissime eccezioni)18, mentre, d’altra parte, non pochi preti e frati apostatarono. L’aggressivo giurisdizionalismo repressivo dei primi luogotenenti (in particolare di Mancini), che abolirono il concordato del 1818, irrigidì le posizioni. Tra allontanamenti forzosi e fughe prudenziali, molti vescovi abbandonarono le loro diocesi, in qualche caso anche per anni: i danni pastorali di tale diaspora furono notevoli. Per la prima volta, nella storia meridionale, l’episcopato si mostrò in pericolo, anche di incolumità fisica personale, e rese evidente una perdita di potere.
Il basso clero, per parte sua, tendeva a solidarizzare con l’opposizione contadina: «In qualche città [si doleva il nunzio] si è giunti perfino all’eccesso di veder de’ preti capitanar le masse della plebaglia»19. Così il fenomeno del brigantaggio non mancò di sponde ecclesiastiche (in alto, per motivi politici e ideologici, e in basso, per motivi sociali)20. Il clero medio, proveniente da famiglie di proprietari fondiari o di piccola e piccolissima borghesia e per lo più concentrato nei corpi capitolari, fu invece più sensibile alle istanze unitarie, in sintonia con gli ambienti sociali d’origine21: acutamente Alfonso Capecelatro vi distingueva, comunque, i preti liberali dai preti ‘libertini’22.
Nei primi decenni postunitari, dunque, al Nord si andò sviluppando una contrapposizione tra liberali, laici e spesso laicisti, e cattolici intransigenti, antiliberali e antilaicisti; nel Mezzogiorno23 la contrapposizione fu soprattutto tra Stato e Chiesa: tanto che la Chiesa si configurava come un anti-Stato, ma il cattolicesimo era ancora largamente riconosciuto come ‘religione civile’. Così mentre al Nord il clericalismo fu soprattutto un fenomeno religioso (preponderanza del clero sul laicato all’interno della comunità ecclesiale), al Sud fu piuttosto un fenomeno civile e temporale. L’affrancamento da questo clericalismo fu fenomeno debole e, comunque, limitato ad ambienti urbani. In questo contesto, in una fase ancora ‘agraria’ della mafia, si ebbero pure gruppi mafiosi comandati da preti24.
Nell’Italia unita, peraltro, si produceva quasi subito uno squilibrio ecclesiale, come risultato delle politiche soppressive messe in atto dallo Stato liberale. Nel Nord la tridentinizzazione, e perciò la spina dorsale della pastorale in età moderna, era passata attraverso le diocesi, nel Sud era passata soprattutto attraverso gli istituti religiosi. La soppressione postunitaria, dunque, danneggiò molto più la Chiesa del Sud della Chiesa del Nord: proprio per la rilevanza degli istituti religiosi, più ancora forse che per la struttura della Chiesa ricettizia meridionale (sulla quale ha insistito, peraltro giustamente, Gabriele De Rosa)25. Si trattò di una grave perdita di efficacia pastorale che coinvolse più ambiti, compreso quello delle potenzialità economiche a servizio di possibili ammodernamenti della presenza sociale della Chiesa.
Da una parte un clero più povero e perciò in cerca di prebende municipali e legato all’assegno vitalizio, che la legge riconosceva ai residui del clero ricettizio, e, dall’altra, il clericalismo civile, di cui si è detto, produssero un fenomeno nuovo: la crisi, cioè, della pratica sacramentale e l’affermarsi di una sociabilità di feste con drammaturgia religiosa, ma con preponderante apparecchio mondano (paramenti esteriori, bande, luminarie, processioni, fuochi d’artificio, fiere, giochi, dolci)26. Non si trattò di una sociabilità popolare, espressione della devozione dei ceti bassi, bensì di una sociabilità municipale, che dava una risposta ‘santorale’ alle necessità di identità locale, che riproduceva al suo interno le gerarchie sociali e in cui inevitabilmente emergeva un naturalismo religioso legato a un cristianesimo cultuale.
Così mentre al Nord si avevano preti del sacramento e preti del movimento (cattolico)27, al Sud si avevano preti del sacramento e preti del ‘paramento’. Il giovane Monterisi nel 1894 annotava:
«N’è avvenuto quindi che pochissimi frequentano i sacramenti, degli uomini specialmente è una parte minima quella che si fa il precetto, a messa si va, ma per consuetudine […]. D’altra parte intanto feste religiose (almeno dovrebbero essere), a bizzeffe, le quali però si riducono a chiasso esterno di paramenti, bande, processioni, fuochi artificiali ecc. […]. Le conseguenze, si sa, sono deplorevolissime, specialmente una somma confusione d’idee e di cose, ibridismo dannosissimo di profano e di sacro, di secolaresco e di religioso, per cui si fa tanto quanto basta ad attutire un resto languido di sentimento religioso ed il resto, tutto l’essenziale, va a sfascio»28.
Bisogna tuttavia rilevare che, data la situazione di debolezza materiale, questo nuovo equilibrio socio-civile consentì comunque un rinnovato radicamento ecclesiale, che poteva avere importanti risvolti umani. Lo rilevava, fin dal 1877, Sidney Sonnino, che pure non nascondeva i propri sentimenti anticlericali e laicisti: «Al contadino siciliano la società non si presenta che sotto la veste del padrone rapace, oppure dell’esattore, dell’ufficiale di leva e del carabiniere. Il prete è la sola persona che si occupa di lui con parole di affetto e di carità»29.
L’impoverimento della Chiesa meridionale pose le basi per un possibile superamento di molti limiti storici della pastorale nel Mezzogiorno, recidendo le radici strutturali di una vita ecclesiale da ‘antico regime’, affievolendo gli interessi e le attenzioni temporali dell’episcopato e minando la fiducia del clero nell’alleanza fra trono e altare.
La debolezza iniziale della Chiesa meridionale nel periodo postunitario portò a uno sviluppo ecclesiale e pastorale che fece della Chiesa del Nord il vettore trainante: la voce del cattolicesimo transigente e conciliatorista – cioè la rivista «Rassegna Nazionale» – era a Firenze (e ben scarsa rilevanza ebbero i gruppi post-giobertiani meridionali30); ma soprattutto l’organizzazione dell’Opera dei congressi si radicò nelle regioni settentrionali; così fu per lo sviluppo dell’editoria cattolica e delle banche popolari cattoliche; non a Roma ma a Milano ebbe infine sede l’Università dei cattolici italiani. Tra le tante congregazioni religiose italiane di fondazione ottocentesca e poi novecentesca, quelle settentrionali ebbero una forza e una vitalità maggiori, diffondendosi in tutto il paese. In particolare non si ebbero nel Sud congregazioni ‘insegnanti’.
Indubbiamente il ‘movimento cattolico’ italiano fece fatica a svilupparsi nella realtà meridionale31, solo con qualche eccezione nel Mezzogiorno continentale. In Sicilia, forse per l’eredità lasciatavi dal teatino Gioacchino Ventura ma soprattutto per l’impulso ‘concorrente’ dei Fasci siciliani, la presenza fu invece più radicata, grazie all’impegno di personalità come Vincenzo Mangano, Giuseppe Traina, Giuseppe Lo Cascio, Emanuele Arezzo, Ignazio Torregrossa, oltre, naturalmente, Luigi Sturzo32, che nel 1897 fondava a Caltagirone il suo giornale «Croce di Costantino» e avviava un impegno di municipalismo sociale cristiano.
Tuttavia il cattolicesimo meridionale postunitario non era immobile33. Numerosi e innovativi fermenti si registravano sul piano della vita religiosa e devozionale: il multiforme apostolato del padre Lodovico da Casoria, che rilanciava il francescanesimo meridionale; l’opera di Bartolo Longo e il rinnovamento della pietà mariana a Pompei; l’attività di Caterina Volpicelli e la diffusione della devozione al Sacro Cuore34; la nascita di nuove congregazioni religiose35 molto legate ai bisogni locali (e prevalentemente di diritto diocesano); l’attenzione in forme innovative alla religiosità meridionale da parte della ‘Lega della sincerità’ di Gennaro Avolio36; l’apostolato del ‘Boccone del povero’ di Giacomo Cusumano a Palermo.
Ma fu soprattutto durante il pontificato di Leone XIII che sembrò emergere un’originale linea pastorale della Chiesa del Mezzogiorno, in grado di porsi, per consapevolezza dei problemi e solidità di riflessione, a livello nazionale37. Tale linea pastorale fu espressa da Capecelatro e da Sturzo.
Il cardinale filippino Alfonso Capecelatro fu uno dei maggiori esponenti delle posizioni transigenti o, meglio, conciliatoriste. Collaboratore del papa, nel 1879 fu chiamato a Roma come vicebibliotecario di S. Romana Chiesa, nel 1885 ottenne la berretta cardinalizia e nel 1893 divenne prefetto della Biblioteca Vaticana; fu pure, dal 1880 e fino alla morte nel 1912, arcivescovo di Capua. Sul piano spirituale, la pietà filippina che lo contraddistingueva poteva rappresentare un terreno d’incontro tra lo spirito salesiano, forte al Nord, e quello alfonsiano, più radicato al Sud. Ma soprattutto egli vagheggiava una prospettiva che contemperasse lo spirito dei conciliatoristi con un’ansia sociale più tipica dei giovani democratici cristiani, andando oltre le vecchie contrapposizioni tra intransigenti e transigenti. Guardando alle ‘piaghe’ della vita religiosa del Sud, egli criticava quella che chiamava ‘indifferenza religiosa’38. Lamentava infatti «una mescolanza di vita pagana con qualche esterna pratica di religione». Così raccomandava la lettura della Sacra Scrittura al clero e ai laici: «La fonte più limpida, più efficace, più santa di una pietà vera e interiore è la Bibbia»39. Nella Lettera pastorale su La frequente lettura dei Santi Evangeli chiariva il più ampio senso cristologico e la portata spirituale di tale indicazione40.
Emergeva un’ecclesiologia moderna, senza asprezze integralistiche ma pure spiritualmente esigente:
«La chiesa è senza dubbio una scuola, che insegna nobili e alte dottrine; è una palestra di combattimento, nella quale, per mezzo della fede e della carità, l’uomo vince se stesso, e dà per iscopo alla vita nobili ed eccelsi ideali; è infine una società perfetta nel suo organamento, che aspira al regno dei cieli. Ma, notatelo bene, intorno a questa chiesa spira sempre un’aura di soave maternità, che l’abbellisce e la rende mirabilmente feconda»41.
Era una prospettiva pastorale che prefigurava il superamento del clericalismo intransigente del Nord e del clericalismo ‘secolaresco’ e civile del Sud:
«Quando noi cattolici si spera in una società cristianamente civile, non vogliamo in alcun modo una società governata dal clero. Il clero ha più alta missione: governa le anime per infiammarle di Dio, e così indirettamente fa gran bene altresì alla società civile [...]. Noi desideriamo e speriamo che la società civile del secolo XX sia retta da quei medesimi principî religiosi e morali, che regnavano nella società medioevale; ma non crediamo né desiderabile, né possibile che risorga la stessa società del Medio Evo in tutte le sue parti»42.
Da parte sua, don Sturzo individuava con precisione le difficoltà che provenivano da una certa commistione sacro-profana e dai diversi effetti negativi prodotti dalle pressioni ‘civili’ sul clero. Pertanto, con lucidità, indicava la via di un’organizzazione economico-sociale ed elettorale dei cattolici totalmente sganciata dalla comunità ecclesiale locale e perciò laicamente autonoma43.
Da questi presupposti spirituali si svilupparono gli impegni antimafiosi di alcuni preti meridionali, che pagarono con la vita tale loro scelta, religiosa e pastorale prima ancora che umana e sociale: don Filippo Di Forti, assassinato nel 1910 in provincia di Caltanissetta, e don Giorgio Gennaro nel 1916 a Palermo.
Il pontificato del veneto Pio X bloccò lo sviluppo di questo modello pastorale, marginalizzando tanto Capecelatro, fino alla sua morte, quanto Sturzo, fino alla morte dello stesso Pio X. Papa Sarto, peraltro, non si limitò a far fallire questa linea pastorale moderna, ma propose in realtà una sua linea di modernizzazione, anche radicale, della Chiesa cattolica: modernizzazione che, per quanto riguardava l’Italia, passava per una nazionalizzazione guidata dai modelli pastorali settentrionali.
Il trovarsi, dopo l’Unità, quasi tutti unanimemente all’opposizione del nuovo Stato aveva indotto un senso di collegialità nell’episcopato meridionale, prima disgregato e unificato soltanto dall’egemonia esercitata dal clero napoletano. Tuttavia i vescovi italiani, nel nuovo regno, si riunivano per gruppi, secondo aggregazioni che riflettevano gli antichi Stati preunitari: segno di non accettazione del dato di fatto unitario44. La ‘nazionalizzazione’, resasi ormai necessaria anche dal punto di vista pastorale, fu sollecitata da Pio X, incontrando però molte opposizioni e resistenze45. Un passaggio fondamentale e centralizzatore, anche qui con Pio X, fu l’istituzione dei seminari regionali, il primo dei quali fu in Puglia.
Al termine del pontificato di Pio X, una relazione inviata dal vescovo di Bari Giulio Vaccaro tracciava le linee di un semifallimento pastorale e auspicava un rinnovamento di tipo diverso, fondato sulla parrocchia46.
Il successivo pontificato di Benedetto XV, pur frenato e ostacolato dagli eventi bellici, rappresentò un momento di breve ripresa del modello pastorale meridionale. In questo contesto, infatti, don Sturzo assunse una leadership nazionale, sia nell’Azione cattolica sia nell’azione politica, con la fondazione del Partito popolare (che ebbe pure una proposta politica meridionalista in senso regionalista47). Nel clima del popolarismo sturziano, altri preti siciliani, ribellatisi alla mafia, furono uccisi: don Costantino Stella in provincia di Caltanissetta nel 1919; don Gaetano Millunzi a Monreale nel 1920; don Stefano Caronia in provincia di Trapani, sempre nel 1920. Nello stesso periodo il vescovo di Monreale Augusto Intreccialagli, in una relazione alla Santa Sede, poneva il problema delle collusioni mafiose di membri del clero48.
Ma il pontificato di Benedetto XV (e la stessa vita del Ppi) fu una parentesi. Con l’ascesa al soglio pontificio del lombardo Achille Ratti si tornò saldamente a una leadership settentrionale.
Si diffondeva intanto una sorta di pregiudizio etnico-ecclesiale, un sospetto generale e generico di indegnità, indisciplina e ignoranza sul clero meridionale, visto come una sorta di palude pastorale, e sul cattolicesimo meridionale, visto come semisuperstizioso, se non superstizioso del tutto (i viaggiatori protestanti in Italia, fin dall’Ottocento, si scandalizzavano per quello che appariva loro un materialismo sacro, a fondo scettico).
Non si può dire, peraltro, che, ancorché semplicistici, fossero sospetti del tutto pretestuosi: dal punto di vista, almeno, di ‘standard tridentini’ sulla formazione e la cultura del clero, sulla obbedienza al vescovo, sulla moralità ed esemplarità dei costumi, sulla vitalità e sull’impegno nell’organizzazione pastorale delle comunità. Si riflettevano sulla Chiesa luci e ombre della società meridionale: ma il clero, generalmente considerato, si dimostrava incapace di comprendere i processi del tempo e di guidarli. Già al momento dell’impresa garibaldina, nel 1860, il nunzio a Napoli scriveva al Segretario di Stato:
«È cosa però affliggente lo scorgere, che fatte le dovute e non picciole eccezioni, il Clero di questo Regno è forse per pochezza di Dottrina, per costumi, per condotta, e per poca opinione sulle masse dei Fedeli, il meno preparato alle tribolazioni ed alle prove, cui la Provvidenza sembra volerci sottoporre»49.
Sono noti i giudizi di Salvemini nel 1911 sull’ambizione delle famiglie meridionali ad avere un figlio prete50. E Gramsci avrebbe osservato con ironia che il prete settentrionale «comunemente è il figlio di un artigiano o di un contadino; ha sentimenti democratici, è più legato alla massa dei contadini; moralmente è più corretto del prete meridionale, il quale spesso convive quasi apertamente con una donna, e perciò esercita un ufficio spirituale più completo socialmente, cioè è dirigente di tutta l’attività di una famiglia»51. Già Monterisi, nel 1902, aveva notato le pressioni sui vescovi per le ordinazioni52. Gli faceva eco qualche anno dopo Capecelatro, che criticava quei «genitori i quali credono che in qualche loro figliuolo la scarsa intelligenza, unita alle pratiche cristiane di pietà, debba essere quasi un titolo, a sperare, e talvolta a pretendere, il sacerdozio»53. Così pure, lo stesso Monterisi, da arcivescovo, ancora nel 1940 criticava la tendenza del prete meridionale a restare in famiglia54.
In questi giudizi si coglie la nascita di quello che si potrebbe definire un ‘meridionalismo pastorale’, caratterizzato dall’autocritica alle ‘piaghe’ del cattolicesimo meridionale, dalla capacità di indagarne con acutezza le cause storiche, remote e recenti, dal tentativo di intravedere prospettive pastorali che potessero efficacemente inserirsi in tale realtà per modificarla ed ‘evangelizzarla’. Monterisi aveva letto Capecelatro ma anche la murriana «Cultura sociale»55. In quest’ambito murriano rientrava, del resto, pure l’altro grande esponente di tale meridionalismo pastorale (oltre che di un meridionalismo sociale cattolico56), il già ricordato don Sturzo57.
Ma il pregiudizio etnico-ecclesiale, in particolare in riferimento al basso livello del clero, non rimaneva senza effetto. Per ‘bonificare’ il clero del Mezzogiorno e per disciplinarlo, a partire dal primo Novecento cominciò un massiccio invio di vescovi settentrionali nelle diocesi meridionali, mentre pressoché mai avvenne il reciproco. Nel 1922 il 18% dei vescovi meridionali proveniva dal Nord (tutti nominati da Pio X), nel 1929 si era al 23% e nel 1939 al 29%: se si considerano i non meridionali (cioè anche coloro che venivano dall’Italia centrale) le percentuali salgono, rispettivamente, a 24%, 33%, 37%58. Nel 1958, alla fine del pontificato del romano Pio XII, i vescovi provenienti dal Nord erano scesi al 25,5% (32,4% Centro-Nord); per risalire, nel 1963, alla fine del pontificato del lombardo Giovanni XXIII, al 26,3% (35% se comprendiamo anche il centro)59. Ancora nel 1973, con Paolo VI, 75 vescovi provenivano da diocesi meridionali e 19 da diocesi centro-settentrionali60.
Si ebbe, si può dire, per la prima metà del Novecento, il progressivo affermarsi di un progetto centralizzatore romano, ma secondo un modello pastorale lombardo-veneto. Migliore rappresentante di questa linea modernizzatrice fu l’emiliano Marcello Mimmi, vescovo di Bari dal 1933 (e che, nel secondo dopoguerra, sarebbe passato a Napoli)61: sotto la sua guida la Chiesa barese «usciva dalla pastorale tradizionale condizionata dalla religiosità popolare e apriva varchi al rinnovamento»62.
L’impiantarsi di tale modello pastorale non fu, comunque, scevro da difficoltà. Cominciò allora una diminuzione delle vocazioni al sacerdozio che, nel Sud, rimase una costante. Sul medio periodo, tuttavia, non mancarono pure i frutti positivi, in particolare nella selezione e formazione di un laicato militante colto (giovani quali Aldo Moro, Emilio Colombo, Fiorentino Sullo), con una progressiva presenza, nelle parrocchie, di famiglie di piccola borghesia che facevano, sia pur lentamente, emergere nuovi bisogni spirituali. Sul breve periodo invece si produssero notevoli discrasie pastorali: evidenti durante i cosiddetti ‘fatti del ‘31’, quando Pio XI, per difendere l’Azione cattolica dagli attacchi del regime fascista, sospese in tutta Italia le processioni religiose. Al Sud tale indicazione non fu sempre compresa e talvolta fu disattesa: con l’appoggio dei fascisti, confraternite laicali e perfino qualche prete organizzarono comunque processioni devote (e obbligarono qualche vescovo a chiedere una deroga al papa)63.
Questo, naturalmente, non contribuiva a superare quel pregiudizio etnico-ecclesiale sulla religiosità meridionale, sospettata di deviazioni magico-superstiziose. Si trattava certo, ancora largamente, di una religiosità popolare e devozionistica, per il debole sviluppo di una più colta religiosità borghese. In questo prisma, che mescola diversità e pregiudizi, è da vedere, per esempio, la diffidenza ostile del francescano settentrionale padre Agostino Gemelli verso il francescano meridionale padre Pio da Pietralcina64.
Ovviamente non tutte le critiche erano false o pretestuose. Nel 1931, monsignor Monterisi denunciava deviazioni e abusi nel ‘culto naturalistico’, proprio della religiosità meridionale, osservando:
«il culto o liturgia cristiana è sobria e prevalentemente simbolica, perché il simbolo eccita dolcemente i sensi e poi dà luogo alla riflessione. Il culto naturalistico invece vuole la soddisfazione de’ sensi, quindi la parata, la drammatica, le statue, l’abbondanza, lo sfarzo. […] il culto cristiano vuole elevare alla conoscenza e contemplazione de’ Misteri di Dio e di Gesù Cristo: la Trinità, lo Spirito Santo, la Consacrazione della Chiesa, immagine della Eterna e Celeste Gerusalemme: il Popolo invece preso dal culto naturalistico ha dimenticato tutto ciò, e si è attaccato ai suoi santi particolari, come ad idoli, e li sostituisce a quelle feste liturgiche»65.
Monterisi si batteva per indirizzi pastorali fondati sul primato della Parola di Dio e dell’eucarestia66, sull’impegno per l’istruzione religiosa, la direzione spirituale, la catechesi per gli adulti67. Ma il suo meridionalismo pastorale diventava ormai analisi critica, sia pure non espressa pubblicamente, della forma pastorale egemone nella Chiesa di Pio XI, del suo inquadramento di massa, del suo accentramento romano, del suo giuridicismo68.
Dopo la seconda guerra mondiale69, con Pio XII, tale modello pastorale raggiunse il suo culmine ma, progressivamente, cominciarono ad avvertirsene insufficienze e debolezze. Tra l’altro, come fu evidente con il mantovano cardinale Ernesto Ruffini70 a Palermo, l’origine settentrionale di parte dell’episcopato rallentò una presa di coscienza ecclesiale nei confronti dei fenomeni mafiosi71, che erano visti come parte naturale e inestricabile della cultura meridionale: fisiologici, non patologici, dunque da gestire e se mai da ‘evangelizzare’ più che da combattere. Si è così avuta una paradossale omertà pastorale.
I vescovi assunsero intanto un fondamentale ruolo di mediatori72. Nel contesto della guerra fredda e dello scontro con i comunisti, da una parte la loro mediazione era tra diversi soggetti politici anticomunisti presenti nella realtà meridionale (cioè non solo la Dc, ma anche i qualunquisti, i monarchici, i missini), dall’altra si esercitava verso il governo – e il sottogoverno – per condizionare scelte a favore dei rispettivi territori e drenare risorse per i bisogni della ricostruzione73: consoli di Dio e, insieme, suoi ‘amministratori unici’74.
Peraltro, nel secondo dopoguerra, due importanti svolte segnarono la storia dei rapporti tra Chiesa, società meridionale e dialettiche di potere. La prima svolta era determinata dall’avvento della democrazia repubblicana, dalla stesura della Costituzione, dall’imporsi del partito cattolico alla guida del governo nazionale. Se, come leader della Dc, Alcide De Gasperi riprese il disegno sturziano, anche nel suo profilo di ‘laicità’, la propensione nuova verso una politica pubblica di sviluppo delle aree depresse era sostenuta dalla più giovane generazione dei ‘dossettiani’: chi ne fornì la lettura cristiana, in relazione alle attese della povera gente, fu il siciliano Giorgio La Pira.
La riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno segnarono, certo, l’avvio di una fase nuova di intervento straordinario nel Sud. Anche se i risultati non furono sempre soddisfacenti, fu comunque il più forte impegno, dall’Unità d’Italia, per ridurre il divario e superare la questione meridionale. Il punto più alto fu raggiunto con i governi di centro-sinistra, guidati dal barese Aldo Moro, la cui figura rappresentò la sintesi tra Sturzo e La Pira75: i suoi sforzi per un’autonoma e laica responsabilità dei cattolici impegnati in politica si scontrò con i ‘punti fermi’ del genovese card. Siri, espressione dell’integralismo centralista del modello pacelliano.
Fino ai primi anni Sessanta, dunque, la Dc, almeno in alcune sue importanti componenti, rappresentò, in un Mezzogiorno in cui la destra cattolica e neofascista era largamente presente, un’istanza di rinnovamento democratico, di apertura a istanze di giustizia e di ascesa sociale, che ebbe anche riflessi ecclesiali. Ma l’espressione più importante delle istanze di giustizia sociale era stata, il 25 gennaio 1948, la Lettera collettiva dell’episcopato meridionale sui problemi del Mezzogiorno76, scritta dal vescovo di Reggio Calabria Lanza (non firmata dai vescovi siciliani: segno, più che di ‘separatismo’ ecclesiale, di tensioni incipienti nello stesso episcopato), ripresa su «Cronache sociali» e su «Studium». La lettera aveva un preminente timbro sociale, guardava con realismo alla situazione economica e sociale permeata di ingiustizia. Chiedeva allo Stato riforme incisive, chiedeva ai meridionali una profonda riforma del costume e della mentalità, chiedeva soluzioni conformi a giustizia anche ai rappresentati degli enti proprietari ecclesiastici. Ma aveva pure un timbro pastorale, perché i problemi del Mezzogiorno «nascondono più profonde carenze e rivelano una più alta istanza: quella, cioè, di una religione più pura e di una giustizia più piena». Pertanto, puntando sulla ‘logica di carità’ più che sulla ‘strategia di conquista’, dava indicazioni per una religio munda et immaculata, alimentata da una fede cosciente e non intristita da forme parassitarie.
Peraltro il mancato impatto di questa lettera sulla realtà ecclesiale meridionale è indice emblematico della progressiva sconfitta delle istanze sociali più aperte e democratiche, durante la fase finale del pontificato di Pio XII. Si puntò, piuttosto, sulla modernizzazione – nelle forme dell’apostolato ‘di massa’ – di morfologie devote tradizionali. Intanto, anche per l’opera dei meridionalisti democristiani77, la società del Sud cominciò una profonda trasformazione, in collegamento con il ‘miracolo economico’ italiano, sul quale venne a inserirsi la seconda grande svolta del concilio Vaticano II. I vescovi meridionali entrarono in concilio, prevalentemente, con qualche scetticismo, ma – almeno in alcuni casi, come quelli di Nicodemo78, di Jannucci, di Sorrentino – ne uscirono trasformati. Tuttavia l’attuazione del rinnovamento conciliare nel Mezzogiorno fu faticosa e non priva di contraddizioni.
Da una parte, l’affermata ‘laicità’ della politica e la fine dei collateralismi staccarono progressivamente la Dc dai vescovi, ma spesso anche dai fermenti religiosi della comunità ecclesiale. Tra l’altro ciò avveniva in un Sud che, nella seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta, conosceva la sua vera ‘grande trasformazione’, anche per un aumentato fatturato economico illegale dato dal mercato della droga, assunto dalla mafia79. In questa modernizzazione senza sviluppo e senza autonomia80, la funzione di ‘mediatori’, di fatto abbandonata (o comunque ridimensionata) dai vescovi, fu assunta dai notabili democristiani locali81.
D’altra parte, il rinnovamento ecclesiale postconciliare fu rallentato, oltre che da pastori rimasti arroccati su posizioni autoritarie o di mera modernizzazione organizzativa82, dall’orientamento prudente di Paolo VI. Quando si rendevano vacanti delle sedi vescovili nel Mezzogiorno, piuttosto che nominare nuovi vescovi di spirito conciliare, il papa tese ad affidare tali diocesi a presuli di chiese vicine: vi era così un tentativo riformatore che cercava di aggredire un nodo storico (la fitta rete di piccole diocesi da ridurre), ma a prezzo di un mancato rapido rinnovamento generazionale e pastorale dell’episcopato. Del resto, quando il papa aveva ‘forzato’, come nel caso della nomina di Loris Capovilla a Chieti, vi era stato un insuccesso, per le opposizioni, abilmente dissimulate, dei notabili democristiani e per le resistenze ecclesiastiche più conservatrici (così che infine Capovilla fu spostato a Loreto). Ma anche quando l’azione pastorale seguì il filo prudente, graduale e moderato, auspicato da Paolo VI, come nel caso del cardinale Corrado Ursi a Napoli83, se ne rivelarono le insufficienze84: a fronte della mancanza di un più audace sforzo di riforma nel segno del concilio, permanevano, chiaramente inadeguati, i vecchi indirizzi pastorali.
Intanto le lentezze provocavano spinte estremistiche di segno opposto. Si ebbero dunque anche nel Sud momenti di dissenso e di contestazione ecclesiale: legati talvolta alla ‘scelta di classe’ delle Acli e poi al movimento dei Cristiani per il Socialismo85. Dopo la stagione dei ‘gruppi spontanei’ (interessante il caso di Napoli86), tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta vi furono sia alcune esperienze elitarie87, sia comunità di base più popolari88 (quella di Conversano con don D’Aprile89, quella di Lavello con don Bisceglie, quella di Gioiosa Jonica con don Bianchi). Una voce di coscienza critica era poi la rivista napoletana «Il Tetto»90. Complessivamente il dissenso ecclesiale al Sud fu piuttosto circoscritto e limitato. Forse anche per questo furono altrettanto limitati e deboli i movimenti di ‘contro-contestazione’ e di tradizionalismo.
Alcuni vescovi, certo, non mancarono di riprendere e rilanciare il ‘meridionalismo pastorale’: così, in forma più indiretta, Raffaele Pellecchia91, ma, soprattutto, Aurelio Sorrentino92 e Giuseppe Vairo93. Nell’aprile 1969, a margine della quarta assemblea generale della Cei (che avrebbe rieletto Nicodemo alla vicepresidenza), mons. Michele Mincuzzi, allora ausiliare di Nicodemo, e altri due vescovi – ricordando che si era nel ventesimo anniversario della lettera collettiva del 1948 – proposero un breve documento che rilanciava la questione dei problemi sociali del Mezzogiorno, osservando che la pastorale stessa «essendo essenzialmente evangelizzazione dei poveri, ne risultava seriamente condizionata»94. Il documento fu approvato all’unanimità dall’assemblea, ma non ebbe un vero seguito. La Cei dedicò ancora, nel 1971, mezza giornata ai problemi meridionali.
Nel 1972, dall’episcopato pugliese, emerse l’idea di ricordare il 25° della lettera del 1948 con un nuovo documento95. Il progetto fu assunto dalla presidenza della Cei, per farne un pronunciamento di tutto l’episcopato italiano. Furono prodotte varie stesure, con il concorso del gesuita Giuseppe De Rosa e di studiosi laici (come Maria Mariotti), e si giunse, nel 1974, a una bozza conclusiva96. I fuochi essenziali erano due: la scelta pastorale dell’evangelizzazione e l’orizzonte della ‘riconciliazione’ delle due Italie. L’esigenza di una svolta pastorale – frutto ormai maturo delle due svolte storiche del secondo dopoguerra – era posta con chiarezza97. Del resto, le profonde trasformazioni della società meridionale, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento, facevano entrare in crisi la festa religiosa tradizionale98, pur promuovendo recuperi laici del folklore popolare. Ma infine, per le numerose opposizioni interne all’episcopato, il documento non venne varato99. Nel primo convegno ecclesiale nazionale Evangelizzazione e promozione umana del 1976, la questione del Mezzogiorno emergeva più volte nei dibattiti, anche se non era oggetto di specifiche relazioni.
Anche se lentamente, l’attuazione del concilio Vaticano II portava frutti positivi ‘originali’ nel Mezzogiorno. Tra il 1966 e il 1987 il numero delle diocesi diminuiva: da 122 a 78 nel Sud e da 32 a 28 nelle Isole; nello stesso tempo, le parrocchie diminuivano nel Centro-Nord, ma aumentavano a Sud (da 5.230 a 5.537) e nelle Isole (da 2.132 a 2.528)100.
Soprattutto si configurava un nuovo modello di pastorale, potenzialmente fungibile sul piano nazionale. Si potrebbe riassumere questo ‘modello pastorale meridionale’, sulla via delVaticano II, richiamandone i due punti focali: ‘comunità’ (cioè imprescindibilità della ‘relazione’ umana fraterna che strutturi la parrocchia come vera comunità, battesimale ed eucaristica, tutta ministeriale e missionaria) e ‘liberazione evangelica’ (cioè contrasto a quella cultura ‘padronale’ che ancora persisteva nel Sud e perciò anche orientamento antimafioso, orientamento che ormai diventava un bene per tutto il paese, essendo le mafie ramificate anche al Nord; opzione preferenziale per i poveri, così da ‘ripartire dagli ultimi’).
All’avvio degli anni Ottanta tale ‘modello meridionale’ ebbe effettivamente una speciale udienza nazionale. In quel periodo, che si aprì con il tragico terremoto in Campania e in Basilicata, presidente della Cei era il cardinale Ballestrero (che aveva avuto un incontro diretto e profondo, a Bari, con la realtà pastorale meridionale101); tra i vice presidenti (dal 1981) vi era poi il card. Pappalardo, figura carismatica di riferimento per l’episcopato siciliano e, più in generale, del Mezzogiorno102. Si apriva una prospettiva che voleva la riconciliazione: sul piano civile, una svolta culturale per ‘ripartire dagli ultimi’ (ripartire dai Sud, si potrebbe anche dire) nel segno della sobrietà e della solidarietà, mangiando con i poveri «il pane amaro del mondo»; sul piano ecclesiale, una Chiesa-comunità, tutta ministeriale e missionaria, che valorizzasse in particolare il laicato.
Ben espressivo di questo clima ecclesiale e pastorale era il movimento delle Comunità ecclesiali di base (Ceb) italiane che si sviluppava, nella seconda metà degli anni Settanta, in Sicilia (con don Antonio Fallico e quella che sarebbe diventata la Missione Chiesa-mondo103) e nel Mezzogiorno104. Si promuovevano alcuni incontri prima regionali, poi estesi a tutto il Sud e, infine, a livello nazionale, a Roma nel 1985105, con la partecipazione, tra gli altri, di Bruno Forte, forse la voce più originale e autorevole della teologia meridionale.
Anche la presenza dei Gesuiti nel Mezzogiorno conosceva importanti cambiamenti. Da una prevalente attenzione all’educazione delle classi dirigenti, l’interesse si spostava verso opere di apostolato sociale di tipo innovativo: come per la Comunità Emmanuel, fondata nei primi anni Ottanta da padre Mario Marafioti106. Nello stesso periodo, a Palermo veniva costituito il Centro Arrupe, animato da padre Bartolomeo Sorge e, con sensibilità diversa, da padre Ennio Pintacuda107. Il Centro doveva, tra l’altro, ispirare la cosiddetta ‘primavera di Palermo’ (1985-1990) con la giunta di Leoluca Orlando, il quale più tardi – nei primi anni Novanta – avrebbe promosso il Movimento per la democrazia – la Rete, con un pronunciato intento antimafioso108. Cominciavano anche le esplicite condanne ‘ecclesiastiche’ della mafia, con un forte documento dei preti di Bagheria, Altavilla Milicia e Casteldaccia del 1982. Ma soprattutto, nello stesso anno, ebbe un carattere dirompente la perentoria omelia del card. Pappalardo, in occasione dei funerali del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un impegno antimafioso si avviava anche in parrocchie catanesi109.
Al convegno nazionale della pastorale sociale e del lavoro, tenutosi nel 1982, Mincuzzi, traslato nel frattempo a Lecce, stigmatizzava con intonazione autocritica la mafia («lo stile mafioso può inquinare anche qualche angolino ecclesiastico») e sottolineava la necessità di un «evangelismo radicale» per fare pastorale per il Sud110. A questi indirizzi, dunque, egli improntava la sua azione pastorale, impegnata a evangelizzare la pietà popolare111 e a valorizzare la dimensione comunitaria e perciò a combattere il clericalismo112.
Sulla scia di Mincuzzi si poneva il vescovo pugliese Tonino Bello, l’espressione forse più rappresentativa di questa stagione ecclesiale. I suoi indirizzi di fondo erano espressi nel progetto pastorale proposto, nel 1984, alla sua diocesi: Insieme, alla sequela di Cristo, sul passo degli ultimi113. Qualche anno dopo egli avrebbe intravisto nel Mezzogiorno fermentare «l’era dei liberi», con un irrompere di spirito comunitario114.
Questi indirizzi pastorali tendevano, almeno indirettamente, a ritirare la delega in bianco alla Dc, allentando i legami con un partito sempre più coinvolto in una degenerazione clientelare115. Nascevano, in qualche caso, dal mondo cattolico, nuovi movimenti politici, spesso a sfondo civico ma non di taglio localistico, quali Città per l’Uomo a Palermo.
Nel 1985 il Convegno di Loreto della Chiesa italiana ben esprimeva ancora – nel tema Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini – questa nuova stagione pastorale che partiva dal Mezzogiorno per raggiungere tutta l’Italia. Tuttavia, già in quel convegno, si avvertiva che qualcosa stava cambiando: le voci critiche, espresse nei gruppi di discussione, non emersero a livello di sintesi finale116. In ogni caso, la riflessione programmatica, sviluppata da mons. Bello per la sua diocesi, dopo tale convegno, ben esprimeva il punto di vista meridionale:
«Una chiesa povera, semplice, mite. Che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità. Che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza. Una chiesa sicura solo del suo Signore, e, per il resto, debole. Ma non per tattica, bensì per programma, per scelta, per vocazione [...]. Che mangia il pane amaro del mondo. Che nella piazza del mondo non chiede spazi propri per potersi collocare»117.
Lo slancio di questa stagione pastorale, che modificava profondamente le chiese meridionali e che offriva frutti importanti alla comunità ecclesiale nazionale, giunse fino a far approvare da tutti i vescovi italiani il primo organico documento della Cei sul Mezzogiorno, nel 1989118. Ma era il canto del cigno nazionale del modello pastorale di ‘tipo meridionale’.
Gli anni Novanta vedevano, attraverso il trauma di Tangentopoli tra il 1992 e il 1993, lo sbriciolarsi della Dc e il profondo cambiamento, non privo ovviamente di vischiosità trasformistiche119, del sistema politico italiano nato nel secondo dopoguerra. La fine della Dc provocava contraccolpi preoccupati nelle comunità ecclesiali del Centro-Nord che dovevano, nel contempo, fronteggiare derive localistiche e cripto-razzistiche di vario conio, non prive di sponde nel mondo cattolico e perfino ecclesiastico. Si cominciò perfino a parlare di una ‘questione settentrionale’: e non mancarono le traveggole di chi la intravide addirittura nella Chiesa italiana.
Tuttavia i rischi di frantumazioni e di possibili tensioni centrifughe all’interno della Chiesa stessa portarono a un’affermazione, sempre più forte, di un nuovo paradigma pastorale che proponeva un accentramento al vertice, con un meccanismo di ‘cooptazione’ che aveva effetti negativi anche nella Chiesa meridionale120.
Nel Mezzogiorno, comunque, la fine della Dc fu un fatto decisamente positivo per le comunità ecclesiali, per le quali le evidenti degenerazioni del potere democristiano rappresentavano un sempre più chiaro freno alle potenzialità pastorali di evangelizzazione e di promozione umana. L’affermarsi, anche in Italia, di una politica neoliberista, se rafforzava le disuguaglianze121 e lo stesso divario Nord-Sud, tagliava pure i rubinetti all’assistenzialismo clientelare.
Il nuovo clima politico e culturale, veicolato principalmente dalle televisioni commerciali del Nord, non mancò di avere effetti negativi sulla società meridionale e sulla stessa Chiesa del Mezzogiorno. Non si era visto male al seminario promosso nel 1990 dalla diocesi di Benevento e i cui atti furono pubblicati nel 1992. In tale occasione, infatti, si paventò un duplice rischio:
«da una parte una forma di etnicismo, di nativismo, che noi vediamo rifiorire nelle varie Leghe lombarde, venete, piemontesi, fino a punte di razzismo (la riscoperta delle proprie radici porta ad una chiusura verso gli altri) e dall’altra il fenomeno opposto, quello di adeguarsi ed abbracciare il moderno in versione berlusconiana, dimenticando tutta l’elaborazione storico-culturale che ci deriva dalla nostra particolarità»122.
Il lungo periodo che dall’ultimo decennio del secolo XX giunge al primo del XXI ebbe anche l’effetto di portare, per la prima volta, in primo piano l’attenzione sui rapporti tra mafia e Chiesa. La mafia infatti ormai permeava e controllava larghe aree territoriali e sociali del Mezzogiorno (tanto che nel 1991 lo scioglimento di amministrazioni comunali per mafia fu regolato da una legge)123. Ma fare i conti con il fenomeno mafioso non era facile.
Il rapporto tra le mafie e la fede religiosa cristiana è, infatti, particolarmente complesso124. Le quattro mafie meridionali (camorra campana, cosa nostra siciliana, ‘ndrangheta calabrese, sacra corona unita pugliese) hanno storie diverse, con origini differenti in tempi differenti: vi è comunque sempre un avvio come illegalità prevaricatrice, connesso a dinamiche quasi unicamente di tipo socio-economico. I mafiosi hanno portato con sé la mentalità religiosa degli ambienti sociali di provenienza; hanno sviluppato il loro potere colonizzando la cultura (anche religiosa) delle società in cui agivano, rafforzandone i codici di ‘onore’ e di ‘patriarcato’; hanno trovato forme di collaborazione, di collusione, di connivenza o anche solo di contiguità con gli altri poteri, compresi i poteri ecclesiastici, soprattutto ai livelli più bassi.
È indubbia la religiosità cristiana dei mafiosi. Essi chiedono il battesimo per i figli (e, anzi, su questo fondano il legame di ‘comparaggio’), si sposano in chiesa, fanno da padrini di cresima, vanno – soprattutto le donne – a messa e si comunicano. La loro fede cristiana si è orientata prevalentemente verso le devozioni, i pellegrinaggi e il culto santorale (con voti ed ex-voto), verso l’occupazione delle confraternite e il monopolio delle feste religiose (in questo sconfinando con la necessità della legittimazione sociale e del controllo del territorio)125, ma, sia pure non frequentissime, vi sono anche testimonianze di forme che si direbbero postconciliari (così, per esempio, per Pietro Aglieri, per Bernardo Provenzano e, in qualche modo, anche per Totò Riina).
Ciò che, tuttavia, principalmente caratterizza la religiosità mafiosa è una scissione dicotomica e tragica tra ‘destino’ e ‘protezione divina’: su tale psicologia religiosa si innesta un immaginario sacro di guerra. Quella del mafioso è una religiosità di guerra, che implica una fede ‘crociata’ contro l’infedele (secondo i moduli antichi dei paladini contro i mori e quelli, più recenti, della milizia contro i comunisti, visti come nuovi turchi): ci si appella a un superiore codice di giustizia, del quale ci si ritiene depositari e amministratori di diritto, e perciò a un senso dell’onore che rende infamante il ‘tradimento’. Si possono così compiere omicidi e sentirsi in pace con Dio126.
A fronte di un fenomeno così complesso e ‘vicino’, la Chiesa meridionale aveva per lo più taciuto: la presenza, per un lungo periodo, di vescovi del Nord aveva ritardato una forte autocritica e una decisa consapevolezza pastorale.
Le stragi in cui morivano i magistrati-simbolo Falcone e Borsellino, nel maggio e nel luglio 1992, l’acuto, solenne e terribile anatema lanciato ad Agrigento da Giovanni Paolo II nel 1993 («Nel nome di Cristo, crocifisso e risorto, di Cristo che è via, verità e vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi, un giorno arriverà il giudizio di Dio!»), gli omicidi mafiosi di don Pino Puglisi a Palermo nel settembre 1993127 e di don Peppino Diana a Casal di Principe nel marzo 1994128 segnavano tuttavia un passaggio periodizzante. Da allora la Chiesa meridionale, nel suo complesso, si schierò decisamente nel campo dell’antimafia. Non solo a livello di vertici episcopali: sono via via aumentati, per esempio, i casi di sacerdoti che non collaborano a feste religiose ‘gestite’ da mafiosi. Permanevano alcune confusioni sul pentitismo e sul dovere di denunciare i complici in associazione mafiosa (è noto il caso di padre Mario Frittitta). Ma nel 1997 le conclusioni della commissione promossa dal cardinale di Palermo Salvatore De Giorgi per studiare la questione non lasciavano margini di dubbio sul dovere di riparare i danni arrecati e di collaborare sinceramente con le autorità civili129.
In questo nuovo contesto, la presenza di personalità del mondo ecclesiale settentrionale acquistava tutto un altro segno: così don Luigi Ciotti e il gruppo Abele che davano vita al movimento antimafia Libera; così il vescovo di Locri Bregantin che incoraggiava i giovani e ne sosteneva l’impegno antimafioso, anche in campo dell’iniziativa economica; così il comboniano Alex Zanotelli che a Napoli si impegnava a contrastare gli affari della camorra.
All’affacciarsi del nuovo decennio, il sentimento diffuso della necessità di un cambio di passo nella pastorale della Chiesa italiana riporta l’attenzione sul Mezzogiorno, come si vede dal documento della Cei nel 2010130, molto fermo sia nella condanna della mafia sia nel denunciare i rischi di certa xenofobia, figlia del pregiudizio etnico, così forte nel Nord del paese: meno incisivo invece sul piano pastorale, indice forse di una più generale incertezza.
1 B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 19723, pp. 12, 26.
2 Ibidem, pp. 68-69.
3 Cfr. G.M. Galanti, Testamento forense, II, Venezia 1806, p. 259.
4 Cfr. E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna [1961], 1976.
5 Cfr. almeno A. Pizzorno, Familismo amorale e marginalità storica, ovvero perché non c’è niente da fare a Montegrano, «Quaderni di sociologia», 17, 1967, 3, pp. 237-253; Famiglia e religione: aspetti di una transizione difficile. Ricerca sociologica su un’area italo-meridionale, a cura di C. Lanzetti, L. Mauri, Milano 1983; Dopo il familismo cosa?, a cura di G. Bottazzi, F.P. Cerase, Milano 1992; G. Gribaudi, Familismo e famiglia a Napoli e nel Mezzogiorno, «Meridiana», 17, 1993, p. 40; F. Alcaro, Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Torino 1999; D.L. Zin, La raccomandazione. Clientelismo vecchio e nuovo, Roma 2001; E. Nutile, Analisi psicologica del Mezzogiorno, Soveria Mannelli 2001; A. Martinelli, A.M. Chiesi, La società italiana, Roma 2002; La Mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, a cura di G. Lo Verso, Milano 2005.
6 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato nel Mezzogiorno (1913-1944), a cura di G. De Rosa, Roma 1981, pp. 254-255.
7 F.S. Nitti, Nord e Sud, Torino-Roux-Viarengo 1909, poi in Id., Scritti sulla questione meridionale, II, Bari 1958, p. 447.
8 G. Salvemini, La piccola borghesia intellettuale nel Mezzogiorno d’Italia, «La Voce», 16 marzo 1911, poi in Id., Movimento socialista e questione meridionale, Milano 1968, p. 482.
9 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato, cit., p. 355.
10 Cfr. A. Placanica, Chiesa e società nel Settecento meridionale: vecchio e nuovo clero nel quadro della legislazione riformatrice, «Ricerche di storia religiosa e sociale», 1975, pp. 121-187; M. Spedicato, “Al servizio della chiesa e della monarchia”. L’episcopato salentino nel secolo dei lumi e della rivoluzione, Galatina 2006.
11 Cfr. E. Delle Donne, Chiesa e potere nel Mezzogiorno. Istituzioni ed economia, 1741-1815, Salerno 1990; M. Spedicato, Chiesa e rivoluzione. L’episcopato pugliese nella congiuntura repubblicana di fine Settecento, Bari 2001.
12 Cfr. M. Miele, Il clero del Regno di Napoli, 1806-1815, «Quaderni storici», 13, 1978, 1, pp. 284-285; Id., La chiesa del Mezzogiorno nel decennio francese. Ricerche, Napoli 2007.
13 Cfr. W. Maturi, Il Concordato del 1818 tra la Santa Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929.
14 Cfr. C.D. Fonseca, Appunti per la storia della cultura cattolica in Italia. La storiografia ecclesiastica napoletana (1878-1903), in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Atti del Convegno (Bologna 1960), a cura di G. Rossini, Roma 1961, p. 498.
15 Cfr. A. Gambasin, Religiosa magnificenza e plebi in Sicilia nel XIX secolo, Roma 1979; A. Sindoni, Chiesa e società in Sicilia e nel Mezzogiorno: secoli XVII-XX, Reggio Calabria 1984; P. Borzomati, Chiesa e società meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Roma 1982.
16 Cfr. A. Cestaro, La ricerca storico-religiosa nel Sud con particolare riferimento alla tipologia dell’organizzazione ecclesiastica, in Territorio e società nella storia del Mezzogiorno, a cura di G. De Rosa, A. Cestaro, Napoli 1973, p. 878.
17 Cfr. A. Scirocco, Governo e Paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860-1861), Milano 1963, p. 6; Risorgimento democrazia Mezzogiorno d’Italia. Studi in onore di Alfonso Scirocco, a cura di R. De Lorenzo, Milano 2003.
18 Cfr. B. Pellegrino, Vescovi «borbonici» e Stato «liberale» (1860-1861), Roma-Bari 1992; A. Monticone, I vescovi meridionali: 1861-1878, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di storia della Chiesa (La Mendola 1971), I, Milano 1973, pp. 59-100.
19 Cit. in B. Pellegrino, Vescovi «borbonici» e Stato «liberale» (1860-1861), cit., p. 33.
20 Cfr. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 19722.
21 Cfr. P. Sposato, Sull’atteggiamento del clero calabrese all’indomani dell’annessione (1860-61), Atti del II Congresso storico calabrese (Catanzaro-Cosenza 1960), Napoli 1961, pp. 371-411. Più in generale cfr. M.L. Trebiliani, Indicazioni su alcuni gruppi del clero nazionale, «Rassegna storica del Risorgimento», 1956, pp. 561-575.
22 Cit. in M.L. Trebiliani, s.v. Capecelatro Alfonso, in DSMC, II, 1982, p. 84.
23 Cfr. F. Fonzi, Tendenze politiche e sociali dei cattolici nel Mezzogiorno dopo l’Unità, in Studi in memoria di Nino Cortese, Roma 1976, pp. 135-151.
24 Cfr P. Pezzino, Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia, a cura di M. Aymard, G. Giarrizzo, Torino 1987, p. 934.
25 Cfr. A. Lerra, Chiesa e società nel Mezzogiorno: dalla ‘ricettizia’ del sec. XVI alla liquidazione dell’Asse ecclesiastico in Basilicata, Venosa 1996.
26 Il fenomeno avrebbe avuto una singolare testimonianza nella letteratura verista: per la Sicilia (Giovanni Verga), la Campania (Matilde Serao), l’Abruzzo (Grabriele D’Annunzio).
27 L’allusione è ovviamente ad A. Erba, Preti del sacramento e preti del movimento. Il clero torinese tra azione cattolica e tensioni sociali in età giolittiana, Milano 1984.
28 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato, cit., pp. 94-95.
29 S. Sonnino, I contadini in Sicilia, Firenze 1877, ora in Il Sud nella storia d’Italia, a cura di R. Villari, Bari 1961, 19724, pp. 134-135.
30 Cfr. P. Lopéz, Enrico Cenni e i cattolici napoletani dopo l’Unità, Roma 1962. Cfr. anche A. Cestaro, La stampa cattolica a Napoli dal 1860 al 1904, Roma 1965.
31 Cfr. S. Tramontin, Società, religiosità e movimento cattolico in Italia meridionale, Roma 1977; P. Borzomati, s.v. Movimento cattolico e Mezzogiorno, in DSMC, I,1, 1981, pp. 122-129; P. Borzomati, I «giovani cattolici» nel Mezzogiorno d’Italia dall’Unità al 1948, Roma 1970; Id., Aspetti religiosi e storia del movimento cattolico in Calabria (1860-1919), Roma 19702.
32 Cfr. E. Guccione, Ideologia e politica dei cattolici siciliani. Da Vito D’Ondes Reggio a Luigi Sturzo, Palermo 1974; C. Naro, Il movimento cattolico a Caltanissetta (1893-1919), Caltanissetta 1977; C. Mochi, Vincenzo Mangano e il movimento cattolico palermitano (1884-1905), Roma 1989; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Roma-Bari 1969, 19795, pp. 219-226.
33 Cfr. P. Borzomati, G. Caridi, A. Denisi, et al., Chiesa e società nel Mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, Soveria Mannelli 1998; F. Barra, Chiesa e società nel Mezzogiorno d’Italia, Pratola Serra 2002.
34 Cfr. A. De Spirito, Caterina Volpicelli santa aristocratica e bizzoca rivoluzionaria, Roma 2010.
35 Cfr. P. Borzomati, Le Congregazioni religiose nel Mezzogiorno e Annibale di Francia, Roma 1992.
36 Cfr. C. Sgroi, Riformismo religioso e sociale a Napoli tra Otto e Novecento. La figura e l’opera di Gennaro Avolio, Urbino 1996.
37 Cfr. D. Ivone, Associazioni operaie, clero e borghesia nel Mezzogiorno tra Ottocento e Novecento, Milano 1979; L. Orabona, Chiesa e società meridionale di fine Ottocento. Storia di Aversa e il vescovo Caputo. Religiosità, cultura e ‘Il Corriere diocesano’, Napoli 2001.
38 A. Capecelatro, La indifferenza religiosa. Lettera pastorale per la Quaresima del 1901, in Id., Problemi moderni, Roma 1904, pp. 220-243.
39 A. Capecelatro, Le vie nuove del Clero negli studi e nel culto divino, Roma 1907, p. 20.
40 A. Capecelatro, La frequente lettura dei Santi Evangeli, in Id., Problemi moderni, cit., p. 436.
41 A. Capecelatro, La possente vitalità della chiesa di Gesù Cristo nel secolo presente. Discorso fatto per l’inaugurazione dell’anno scolastico 1903-1904, in Id., Problemi moderni, cit., p. 514.
42 A. Capecelatro, L’ora presente. Ammaestramenti e speranze [1898], in Id., Problemi moderni, cit., p. 57.
43 L. Sturzo, Note sul clero meridionale, in Id., Scritti inediti, I (1890-1924), a cura di F. Piva, Roma 1974, p. 297; F. Traniello, Luigi Sturzo nuovo intellettuale, in Dai Quaccheri a Gandhi, a cura di F. Traniello, Bologna 1988, pp. 243-275.
44 Cfr. G. Feliciani, Azione collettiva e organizzazioni nazionali dell’episcopato cattolico da Pio IX a Leone XIII, «Storia contemporanea», 3, 1972, pp. 337, 341. Cfr. anche Id., Le conferenze episcopali, Bologna 1974.
45 Cfr. La chiesa di Sicilia dal Vaticano I al Vaticano II, a cura di F. Flores D’Arcais, Caltanissetta-Roma 1994; M. Mariotti, Forme di collaborazione tra vescovi e laici in Calabria negli ultimi cento anni, Padova 1969; F. Barra, Chiesa e società in Irpinia dall’Unità al fascismo, Roma 1978.
46 Cfr. G. Vaccaro, La situazione socio-religiosa della Puglia, in Vescovi e regione in cento anni di storia, 1892-1992. Raccolta di testi della Conferenza Episcopale pugliese, a cura di S. Palese, F. Sportelli, Galatina 1994, pp. 78-82. Cfr. D. Morfini, Parrocchia e laicato cattolico nel Novecento meridionale: l’episcopato barese di Giulio Vaccaro, 1898-1924, Bari 2006. Per la centralità della parrocchia nella Chiesa contemporanea del Mezzogiorno, cfr. La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Atti del II Incontro seminariale (Maratea 1979), Napoli 1982.
47 Cfr. S. Zoppi, s.v. Movimento cattolico e questione meridionale, in DSMC, Aggiornamento 1980-1995, 1997, pp. 70-82 (con relativa bibliografia).
48 Cfr. E. Mignosi, Il Signore sia coi boss, Palermo 1993, p. 24.
49 Cit. in C. Turrisi, La diocesi di Oria nell’Ottocento. Aspetti socio-religiosi di una diocesi del Sud (1798-1888), Roma 1978, p. 32.
50 Cfr. G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Torino 1955, p. 413.
51 A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in La questione meridionale, a cura di F. De Felice, V. Parlato, Roma 1974, p. 149.
52 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato, cit., p. 249.
53 A. Capecelatro, La coltura del clero nel nostro secolo particolarmente in Italia, Roma 1907, p. 22.
54 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato, cit., p. 393.
55 Cfr. R. Murri, La questione religiosa nel Mezzogiorno d’Italia, «Cultura sociale», 6, 1903, pp. 353-354. Cfr. anche Id., Battaglie d’oggi, 4 voll., Roma 1901-1904.
56 Cfr. L. Sturzo, La battaglia meridionalista, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1979; L. Sturzo, Mezzogiorno e classe dirigente. Scritti sulla questione meridionale, a cura di G. De Rosa, Roma 1986; Id. G. Trimarchi, La formazione del pensiero meridionalista di Luigi Sturzo, Brescia 1965; Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Atti del Convegno Internazionale di studi promosso dall’Assemblea regionale siciliana (Palermo-Caltagirone 1971), 2 voll., Roma 1973.
57 Si veda L. Sturzo, Note sul clero meridionale, cit., p. 296.
58 Cfr. R.P. Violi, Episcopato e società meridionale durante il fascismo (1922-1939), Roma 1990, p. 86.
59 Cfr. A. D’Angelo, Vescovi Mezzogiorno e Vaticano II. L’episcopato meridionale da Pio XII a Paolo VI, Roma 1998, p. 173.
60 Cfr. S. Tramontin, Società, religiosità e movimento cattolico in Italia meridionale, cit., p. 344.
61 Cfr. Marcello Mimmi e la svolta pastorale moderna della chiesa di Bari, 1933-1952, a cura di S. Palese, F. Sportelli, Bari 1995; Marcello Mimmi a Napoli e nella Chiesa del suo tempo, Atti delle Giornate di studio (Napoli 1989), «Campania Sacra», 24, 1993, pp. 223-239.
62 M. Mincuzzi, Scommesse pastorali: facendo memoria del passato, per costruire il presente, Bari 1993, p. 15.
63 Cfr. R.P. Violi, Episcopato e società meridionale, cit., pp. 216-232.
64 Non a caso apprezzato invece da stranieri più vicini a sensibilità spirituali in sintonia con forme di religiosità popolare: come Karol Wojtyla.
65 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato, cit., pp. 365-367.
66 Ibidem, p. 278.
67 Ibidem, pp. 274, 354-357.
68 Ibidem, pp. 229-232, 240. Cfr. A. Fino, S. Palese, V. Robles, Nicola Monterisi in Puglia, Galatina 1989; Chiesa e spiritualità di Nicola Monterisi nel Mezzogiorno, Atti della IV Primavera di Santa Chiara (Barletta 1984), a cura di S. Spera, Roma 1985.
69 Cfr. almeno La chiesa nel Sud tra guerra e rinascita democratica, a cura di R.P. Violi, Bologna 1997.
70 Cfr. A. Romano, Ernesto Ruffini, Caltanissetta 2002; F.M. Stabile, La chiesa nella società siciliana, Caltanissetta 1992.
71 Cfr. M. Tedeschi, La Chiesa e la questione della mafia in Calabria e in Sicilia nel secondo dopoguerra, in Mafia e potere, II, a cura di S. Di Bella, Soveria Mannelli 1983.
72 Cfr. Il vescovo meridionale nell’Italia repubblicana (1950-1990) tra storia e memoria, a cura di A. Denisi, Soveria Mannelli 1998.
73 Cfr. Il Mezzogiorno nella ricostruzione, a cura di E. Nocifora, Roma 1983.
74 Cfr. Le Chiese di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1986, ma anche F.M. Stabile, I consoli di Dio. Vescovi e politica in Sicilia (1953-1963), Caltanissetta-Roma 1999.
75 Cfr. G. Di Capua, Aldo Moro e il Mezzogiorno, Roma 1986.
76 Pubblicata integralmente in G. De Rosa, A. Cestaro, Territorio e società nella storia del Mezzogiorno, Napoli 1973, pp. 748-761.
77 Cfr. D. Ivone, Meridionalisti cattolici. Antologia di scritti (1946-1960), Roma 2008; Id., I cattolici meridionali tra scelte economiche e riforme istituzionali (1944-1947), Napoli 1984.
78 Cfr. Un vescovo meridionale tra modernizzazione e concilio. Enrico Nicodemo a Bari (1953-1973), a cura di A. Riccardi, Bari 1989.
79 Cfr. P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna 1983.
80 Cfr. C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, Bologna 1992; P. Barcellona, La modernizzazione del Sud. Dalla Sicilia al Mediterraneo, Catania 2000.
81 Cfr. G. Gribaudi, Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Torino 19912; P. Allum, Società e potere a Napoli nel dopoguerra, Torino 19792; L. Graziano, Clientelismo e sistema politico. Il caso dell’Italia, Milano 1984; Società, politica e cultura nel Mezzogiorno, a cura di R. Catanzaro, Milano 1989; N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari nell’Italia repubblicana. 1943-1991, Roma-Bari 1992.
82 Cfr. per esempio F. De Giorgi, Il postconcilio a Lecce, «La rivista del clero italiano», 73, 1992, 7-8, pp. 519-530.
83 Cfr. A. Giovagnoli, La diocesi di Napoli e l’episcopato di C. Ursi, in Chiese italiane e Concilio. Esperienze pastorali nella chiesa italiana tra Pio XII e Paolo VI, a cura di G. Alberigo, Genova 1988, pp. 217-245.
84 Cfr. P. Colella, La chiesa a Napoli in questi ultimi anni: persistenza di vecchie e nuove forme di intreccio tra istituzione e potere e sorgere di nuovi comportamenti religiosi, «Il Tetto», 16, 1979, p. 396.
85 Cfr. in particolare Cristiani per il socialismo, Movimento operaio, questione cattolica, questione meridionale, Atti del secondo convegno nazionale (Napoli 1974), Pistoia 1975.
86 Cfr. Contro la chiesa di classe. Documenti della contestazione ecclesiale in Italia, a cura di M. Boato, Padova 1969, pp. 425-452
87 Cfr. F. De Giorgi, Post-concilio e dissenso nella chiesa di Lecce, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 30, 1994, 1, pp. 111-139.
88 Cfr. R. Sciubba, R. Sciubba Pace, Le comunità di base in Italia, II, La mappa del movimento, Roma 1976, pp. 191-263; D. Pizzuti, Religiosità popolare e dissenso cattolico, in Massa e Meriba. Itinerari di fede nella storia delle comunità di base, Torino 1980, pp. 60-64.
89 Cfr. M. Papadia, Conversano, il sistema contro una comunità cristiana, Vibo Valentia 1992.
90 Cfr. A. Monasta, Il dissenso cattolico nell’esperienza di quattro riviste, in Intellettuali cattolici tra riformismo e dissenso, a cura di S. Ristuccia, Milano 1975, pp. 386 segg.; P. Colella, «Il Tetto» ha venticinque anni: appunti per una storia, «Il Tetto», 1988, 1, pp. 1-15.
91 Cfr. R. Pellecchia, Con il vescovo a servizio del mondo, Roma 1978. Cfr. anche I. Mancini, Raffaele Pellecchia: come lo ricordo, Avellino 1983; A. Marranzini, Raffaele Pellecchia: vescovo del Concilio, Sorrento 1978.
92 Cfr. A. Sorrentino, I problemi del Mezzogiorno, 1948-1973, Potenza 1973; Id., “Per amore del mio popolo non tacerò” (Is. 62, 1). Magistero sociale del decennio di episcopato a Reggio Calabria, 1977-1987, Reggio Calabria 1987; Id., Ascolta, Signore, la mia voce (Sal 27, 1). Preghiere di un vescovo, Reggio Calabria 1995.
93 Cfr. G. Vairo, Venticinque anni di dialogo pastorale in tempi di Concilio e dopoconcilio, Napoli 1986; Id., Luce e decoro dell’Episcopato. Il dialogo pastorale di S.E. Mons. Giuseppe Vairo negli anni 1986-1997, Potenza 1999. Cfr. anche V. Cassese, Mons. Giuseppe Vairo: partecipazione al Concilio Vaticano II, tematiche conciliari e questione meridionale ecclesiale nel suo magistero episcopale 1962-1993, Soveria Mannelli 2009.
94 M. Mincuzzi, Comunità ecclesiali e Mezzogiorno d’Italia, in Id., Parla al mio popolo, a cura di E. Bambi, Lecce 1986, p. 59.
95 Ibidem, p. 61.
96 Il testo è pubblicato in P. Borzomati, I cattolici e il Mezzogiorno, cit., pp. 199-229.
97 Ibidem, p. 212.
98 Cfr. V. Orlando, Feste devozioni e religiosità. Ricerca socio-religiosa in alcuni Santuari del Salento, Galatina 1981.
99 Cfr. P. Borzomati, La chiesa nel Mezzogiorno dopo il 1948: progetti e vicende di un quarantennio, in P. Borzomati, D. Pizzuti, M. Giordano, La Chiesa e i problemi del Mezzogiorno 1948-1988, Roma 1988, pp. 32-34.
100 Cfr. A. Melloni, Da Giovanni XXIII alle Chiese italiane del Vaticano II, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, III, L’età contemporanea, Roma-Bari 1995, p. 396.
101 Cfr. L’arcivescovo Anastasio Ballestrero a Bari nel post-concilio 1974-1977, a cura di S. Palese, Bari 2001.
102 Cfr. S. Pappalardo, Magistero episcopale, 6 voll., Palermo 1996. Cfr. anche Id., Da questa nostra isola, Milano 1986; Id., Palermo salverà Palermo. Frammenti di speranza da un ventennio di ministero pastorale, Cinisello Balsamo 1992.
103 Cfr. A. Fallico, Chiesa-Mondo. Un movimento per le comunità ecclesiali di base, Roma 1982; Id., Le comunità ecclesiali di base, Roma 1982.
104 Cfr. A. Sarcià, Parrocchia si nasce Comunità si diventa. La ramificazione della parrocchia sul territorio attraverso le comunità ecclesiali di base (CEB), Catania 2004.
105 Comunità ecclesiali di base e rinnovamento conciliare, Atti XI Convegno nazionale delle comunità ecclesiali di base (Roma 1985), Bologna 1986.
106 Cfr. D. Amodio, Una luce nella notte. I primi dieci anni della comunità Emmanuel, Fasano 1991.
107 Cfr. E. Pintacuda, Sottosviluppo, potere culturale, mafia, Palermo 1972; Id., La scelta, Casale Monferrato 1993.
108 Cfr. A. Galasso, La mafia non esiste, Napoli 1988, 19932; P. Battaglia, L. Orlando, Leoluca Orlando racconta la mafia, Torino 2007.
109 Cfr. N. Dalla Chiesa, Storie di boss ministri tribunali giornali intellettuali cittadini, Torino 1990, pp. 35-52.
110 M. Mincuzzi, Le Chiese italiane e i problemi del Mezzogiorno, in Id., Parla al mio popolo, cit., pp. 76-77.
111 M. Mincuzzi, Le feste popolari religiose occasione di solidarietà, in Id., Parla al mio popolo, cit., pp. 80-88. Si tratta di una relazione tenuta al Convegno nazionale della Caritas italiana.
112 Cfr. F. De Giorgi, Michele Mincuzzi e la chiesa di Lecce, in M. Mincuzzi, Servi di tutti schiavi di nessuno. Le Pastorali della Messa Crismale (1981-1988), Cavallino di Lecce 1989, pp. 7-83.
113 A. Bello, Diari e scritti pastorali, Molfetta 1993, pp. 241-283.
114 A. Bello, La profezia oltre la mafia, in Id., Scritti di pace, Molfetta 1997, pp. 274-280.
115 Cfr. L. Musella, Clientelismo. Tradizione e trasformazione della politica italiana tra il 1975 e il 1992, Napoli 2000.
116 È il caso, per esempio, dell’intervento di Mincuzzi nella commissione ‘Nord-Sud. Dalla divisione all’integrazione’, cfr. M. Mincuzzi, La chiesa italiana deve risolvere la sua questione meridionale, in Id., Parla al mio popolo, cit., p. 89.
117 A. Bello, Sui sentieri di Isaia, Molfetta 1989, p. 217.
118 Cei, Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà, 18 ottobre 1989, n. 37.
119 Cfr. N. Dalla Chiesa, I trasformisti, Milano 1995; P. Allum, Il potere a Napoli. Fine di un lungo dopoguerra, Napoli 2001; Id., Napoli punto e a capo. Partiti, politica e clientelismo: un consuntivo, Napoli 2003; N. Tranfaglia, Mafia, politica e affari 1943-2008, Roma 2008.
120 È interessante quanto dichiarava Giuseppe Dossetti a un gruppo di sacerdoti di Foggia nel 1996: «Si è esercitata all’infinito la cooptazione. Nel ricambio delle generazioni di politici e di classi dirigenti, e forse anche di sacerdoti, si sono assunti elementi omogenei, soffocando invece quelli disomogenei, che dovevano salire e che potevano salire. Questo è il sistema orribile della cooptazione, di circuito mafioso per così dire, in senso largo, comunque interessato, non gratuito. Ritengo di dovere testimoniare che non si è dato che uomini di responsabilità, in tutti gli ambiti, abbiano elevato personalità vigorose, illuminate, intense, capaci di portare effettivamente un apporto; hanno preso figure comode, squallide, ancora più deviate di loro, e con questo sistema hanno soffocato l’emergere delle nuove generazioni e delle nuove possibilità. Questa è l’esigenza del Sud che, se trova risposta, potrà far maturare grandissime cose», cit. in C. Paradiso, P.M. Fragnelli, Giuseppe Dossetti. Sentinella e discepolo, Milano 2010, pp. 162-163.
121 Cfr. G. Nervo, Il consenso democratico rafforza le disuguaglianze?, Bologna 1994.
122 F. D’Agostino, Identità culturale e sviluppo: una lettura sociologica del Mezzogiorno, in Chiesa e società civile nel Mezzogiorno. La memoria, l’analisi, il progetto, a cura di M. Iadanza, Roma 1992, pp. 35-36.
123 Cfr. S. Lupo, Storia della mafia, Roma 1993; A. Coletti, Mafie. Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno, Torino 1995.
124 Vi è una considerevole pubblicistica che, significativamente, è successiva al 1993: S. Lodato, Dall’altare contro la mafia, Milano 1994; A. Cavadi, Il Vangelo e la lupara, Bologna 1994; Id., Il Dio dei mafiosi, Cinisello Balsamo 2009; G. Savagnone, La chiesa di fronte alla mafia, Cinisello Balsamo 1995; V. Ceruso, Le sagrestie di Cosa Nostra, Roma 2007; A. Dino, La mafia devota, Roma-Bari 2008; P. Reski, Santa mafia, Modena 2009; I. Sales, I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica, Milano 2010.
125 Cfr. F.M. Stabile, Cattolicesimo siciliano e mafia, «Synaxis», 14, 1996, 1, p. 31.
126 Cfr. N. Fasullo, Una religione mafiosa, «Synaxis», 14, 1996, 1; C. Naro, Il fenomeno della mafia: fallimento dell’evangelizzazione, «Horeb», 1, 1994, pp. 14-28.
127 Cfr. M. Torcivia, Il martirio di don Giuseppe Puglisi, Saronno 2009.
128 Cfr. R. Giuè, Il vangelo della carità in terra di mafia, Palermo 1995.
129 Cfr. A. Dino, La mafia devota, cit., p. 185.
130 Cei, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, Milano 2010.