Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Circa il problema della conoscenza, il pensiero medievale ha elaborato vari modelli epistemologici, riconducibili tuttavia nel loro complesso a due posizioni dottrinali fondamentali, corrispondenti a due differenti tradizioni speculative: da una parte, il modello neoplatonico-agostiniano; dall’altra, il modello aristotelico fiorito in relazione alla diffusione, nell’Occidente latino, della filosofia peripatetica greca e dei suoi commenti arabi.
Agostino d’Ippona
VII, 13, 20. Dal cervello si sprigionano i raggi che escono dagli occhi e da esso, come da un centro si dipartono anche i sottili canalicoli che arrivano non solo agli occhi, ma anche agli altri sensi, cioè alle orecchie, alle narici e al palato per rendere possibile l’udire, il percepire gli odori e il gustare. [...] È dunque mediante questa sorta di messaggeri che l’anima percepisce tutte le cose materiali di cui viene a conoscenza.
VII, 17, 23. La parte anteriore del cervello, donde si dipartono tutti i nervi sensori, è situata vicino alla fronte, e gli organi sensori nella faccia, tranne il sensorio del tatto che è diffuso in tutto il corpo; è dimostrato tuttavia che anche questo senso si diparte dalla stessa zona anteriore del cervello dalla quale torna indietro attraverso la sommità del capo scendendo fino al midollo spinale [...] per conseguenza ha il senso del tatto anche la faccia, come tutto il corpo eccetto i sensi della vista, dell’udito, dell’odorato e del gusto, situati solo nella faccia [...].
VII, 18, 24. E poiché non c’è alcun movimento fisico che tenga dietro alla sensazione senza intervalli di tempo, e d’altra parte non possiamo percorrere questi intervalli di tempo con moto spontaneo senza il soccorso della memoria, gli scrittori [di medicina] dimostrano che vi sono tre specie di ventricoli nel cervello: il primo vicino al volto, dal quale si dipartono tutti i nervi sensori; il secondo è quello posteriore situato presso la base del cervello, che regola tutti i movimenti; il terzo è sito tra gli altri due, ove gli scrittori dimostrano che ha sede la memoria, perché non avvenga che, siccome il movimento tiene dietro alla sensazione, l’uomo sia nell’impossibilità di collegare al passato ciò che deve fare, qualora si dimenticasse di quel che ha fatto. [...] L’anima tuttavia agisce su queste zone del cervello come su propri strumenti, ma non s’identifica con alcuno di detti organi; al contrario essa li guida tutti e, per mezzo di essi, provvede ai bisogni del corpo e della vita, poiché in virtù di essa l’uomo è divenuto un essere vivente.
Agostino d’Ippona, De genesi ad litteram
I, q. 78, a. 3 [...] Il senso è una potenza passiva, fatta per essere trasmutata dalle cose esteriori sensibili. Quindi l’oggetto esterno, causa della trasmutazione dei sensi, è propriamente ciò che viene percepito dal senso, e secondo le differenze di esso, si distinguono [tra loro] le potenze sensitive. Ora, due sono le specie della trasmutazione: una fisica e una spirituale. È fisica quella modificazione in cui la forma del modificante è ricevuta nel soggetto modificato secondo l’essere fisico, come quando il calore è ricevuto nel corpo scaldato; viceversa è spirituale quella modificazione in cui la forma del modificante è ricevuta nel modificato secondo l’essere spirituale, come quando avviene che la forma del colore è nella pupilla che lo vede e che non per questo diventa colorata. Ora, per l’attività sensitiva occorre una modificazione spirituale in virtù della quale nell’organo di senso ci sia la presenza intenzionale della forma sensibile; altrimenti per la sensazione bastasse la sola modificazione fisica, tutti i corpi naturali sentirebbero quando fossero modificati [...].
Vi sono però dei sensi, come la vista, nei quali si ha soltanto una trasmutazione spirituale. In altri, invece, vi è pure quella fisica; o esclusivamente per parte dell’oggetto, ovvero anche per parte dell’organo. Da parte dell’oggetto si ha una trasmutazione fisica di carattere spaziale nel suono, che è oggetto dell’udito; poiché il suono è causato da una percussione e dalla vibrazione dell’aria. Si attua invece mediante un’alterazione nell’odore, che è oggetto dell’olfatto; essendo necessario che il corpo, per emanare l’odore, sia in qualche modo alterato dal caldo. Da parte poi dell’organo, si ha una trasmutazione fisica nel tatto e nel gusto: infatti a toccare cose calde la mano si riscalda e la lingua a contatto con i corpi umidi si inumidisce. Ma gli organi dell’olfatto e dell’udito nel sentire non subiscono trasmutazioni fisiche se non in maniera del tutto accidentale. [...] Pertanto, la vista poiché funziona senza mutazione fisica dell’organo e dell’oggetto, è il senso più spirituale e perfetto, e più universale. Viene poi l’udito, seguito dall’odorato. Essi comportano entrambi una mutazione fisica da parte dell’oggetto [...] il tatto e il gusto sono i sensi più materiali [...]. Da ciò deriva che i primi tre sensi non operano servendosi di un mezzo immanente [al soggetto], perché nessuna trasmutazione fisica deve alterarne l’organo, come invece avviene per questo due ultimi sensi.
I, q. 78, a. 4, resp. Concludendo, per apprendere le qualità sensibili servono i sensi propri e il senso comune [...]. Per raccogliere però e per conservare queste percezioni abbiamo la fantasia o immaginativa; [...] una specie di ricettacolo delle forme apprese per mezzo dei sensi. Per apprendere invece quei dati intenzionali, che sfuggono ai sensi [propri], abbiamo l’estimativa. Finalmente, per conservare questi ultimi abbiamo la memoria, che è come un ricettacolo di codesti dati intenzionali.
La pluralità delle teorie della conoscenza medievali è legata alla diversa concezione del rapporto tra corpo e intelletto, al ruolo della conoscenza e alla natura dell’operazione svolta dalla sensibilità nella costituzione dell’oggetto dell’esperienza sensibile. Il corpo è il filtro attraverso il quale l’uomo, che non può esimersi dal fare esperienza del mondo, sperimenta e si appropria di ciò che lo circonda. In questo senso, vista, udito, olfatto, gusto e tatto sono veri e propri strumenti cognitivi, veicoli attivi e/o passivi di quelle percezioni sensoriali che rendono intelligibile e concreto il mondo che ci circonda.
Ponendo l’accento sul carattere attivo e spirituale della conoscenza, Agostino inaugura una linea di pensiero tesa a individuare non nell’attività dei sensi, ma in quella dell’anima il motore della conoscenza. Secondo Agostino, il meccanismo della sensazione è prettamente fisiologico: “dal cervello [...] come da un centro si dipartono sottili cunicoli che arrivano non solo agli occhi, ma anche agli altri sensi [...] per rendere possibile l’udire, il percepire gli odori e il gustare” (De genesi ad litteram, VII, 13-20). Tuttavia, la percezione sensoriale è un processo psichico, determinato dall’interazione tra anima e corpo. In questa interazione, è sempre l’anima ad agire sull’organismo sensibile, e non viceversa: superiore per natura a ogni realtà materiale, l’anima, che è spirituale, non può in alcun modo patire o essere modificata dal corpo. Agostino ammette che l’individuo è messo in movimento dall’oggetto che percepisce, tuttavia sottolinea che la percezione vera e propria si origina dalla riflessione che l’anima esercita volontariamente sugli stimoli sensoriali cui è sottoposto il corpo. I sensi sono sempre veritieri quando ci riferiscono le loro percezioni: l’errore nasce, infatti, solo nel momento in cui la mente esprime un giudizio intellettivo su ciò che appare.
Gli apparati olfattivo, visivo, auditivo, tattile o gustativo non prodigano separatamente i loro dati, ma si mescolano, si correggono continuamente, convergendo l’uno con l’altro. Così, ad esempio, il tattile e il visivo si alleano nella determinazione degli oggetti, mentre il gusto non è concepibile senza la visione, l’olfatto, la tattilità e persino l’udito. Spetta, poi, al senso interno (sensus interior) “regolatore e giudice dell’altro” (De libero arbitrio, II, 5, 12) unificare le diverse sensazioni provenienti dai cinque sensi esterni, di per sé non percepibili dal momento che “quando si gusta qualcosa, non ha sapore lo stesso gusto” (De libero arbitrio, II, 3-9) e, infine, alla ragione, alla facoltà intellettiva, decifrare tutte le percezioni e giudicare i dati del senso interno. In altre parole, non sono gli occhi a vedere, le orecchie a sentire, le mani a toccare, il naso a odorare e la bocca a gustare, ma la mente: “sentire non è una proprietà del corpo ma dell’anima per mezzo del corpo” (De Genesi ad litteram, III,5). Gli stimoli sensoriali subìti dal corpo sono immediatamente presenti all’attenzione dell’anima, che li giudica con un atto intellettivo, quindi la sensazione è già un atto del pensiero.
La percezione culmina nella visio corporalis, un’immagine che rappresenta l’oggetto in tutte le sue qualità sensibili. Tale similitudo è poi impressa nella memoria, con una forma che Agostino definisce visio spiritualis, che può essere recuperata nel pensiero ogni qualvolta la mente la voglia ricordare. Infine, la visio spiritualis è alla base di un nuovo atto mentale da cui si origina il pensiero intellettuale: l’anima volge il suo sguardo sull’immagine mnemonica che viene espressa dall’intelletto in una terza visione interiore, quella che più di tutte è lontana dal corpo e depurata dalla sensibilità: si tratta della visio cogitantis, che non è una semplice rappresentazione dell’oggetto, al pari delle precedenti visioni, ma piuttosto il pensiero della res, il suo concetto. Ciò che, da ultimo, esprime e schiude questa conoscenza è la parola del cuore (verbum in corde): “il pensiero nasce dalla visione dei contenuti della memoria e li raccoglie, esprimendoli attraverso le parole del cuore ”(Parodi, Il conflitto dei pensieri, 1988); pensare è per Agostino parlare nel proprio cuore, nell’interiorità, con una lingua che non s’identifica con nessun idioma particolare, ma si limita ad indicare gli oggetti e porli in luce nell’animo.
La conoscenza umana nel suo complesso si delinea come un susseguirsi di processi trinitari, in cui ogni azione dell’anima culmina nella creazione di una rappresentazione interiore, che è subito alla base di un nuovo atto cognitivo, analogo a quello precedente, ma più astratto e complesso. La prima trinità si attua nell’uomo esteriore, ovvero nell’anima unita al corpo e corrisponde alla conoscenza sensoriale; essa è permessa dalla compresenza e dall’interazione di tre elementi: la capacità percettiva dell’anima, la res conosciuta, e l’attenzione volontaria della mente che le tiene unite. Allo stesso modo, la trinità del ricordo – che appartiene già all’uomo interiore, all’anima spirituale, indipendente dal corpo – nasce dall’attenzione che la mente rivolge all’ oggetto, colto non nella sua presenza attuale, ma come similitudine immateriale della res. La trinità più interiore, che origina la vera e propria conoscenza intellettiva, è costituita dall’immagine dell’oggetto trattenuta nella memoria, dalla volontà di conoscere dell’anima e dalla facoltà cogitativa.
Questo susseguirsi di processi trinitari è per Agostino chiaro vestigio della presenza nell’uomo di un’immagine imperfetta delle tre persone divine: Padre (mens, ovvero la facoltà dell’anima), Figlio (notitia, l’oggetto verso cui tale facoltà si rivolge) e Spirito Santo (amor, la concentrazione del soggetto pensante sull’ oggetto conosciuto).
Nell’intero processo conoscitivo si succedono quattro forme; una forma reale, quella dell’oggetto percepito, e tre forme mentali derivate dalla prima: la similitudo impressa nei sensi (visio corporalis), la sua immagine mnemonica (visio spiritualis), il suo concetto espresso nel pensiero (visio cogitantis). È la concentrazione dell’anima a fungere da elemento mediatore unendo le forme in tre coppie e costituendo con esse altrettante trinità. La prima e la seconda trinità – la percezione e l’intellezione – hanno un ruolo propriamente cognitivo: consentono di tradurre le realtà corporee in oggetti mentali, sensibili o intellettuali. La trinità del ricordo – che permette il passaggio dalla visio corporalis alla visio spiritualis – svolge invece una funzione di copula, ovvero permette il collegamento fra la conoscenza sensoriale e quella intellettuale.
In ogni trinità, il ruolo fondamentale è giocato dall’ attenzione volontaria (intentio animi, ovvero l’attenzione volontaria con la quale l’anima dirige le proprie facoltà sull’oggetto che vuole conoscere): per comprendere la realtà esteriore, l’anima ha bisogno in primo luogo di ripiegarsi su se stessa, concentrarsi sui propri atti mentali e orientarli verso il mondo corporeo, per interiorizzare e far propri gli oggetti sensibili.
La riflessione agostiniana ha rappresentato un indiscusso punto di riferimento per larga parte dell’alto Medioevo. È il caso della teoria della conoscenza di Giovanni Scoto Eriugena; nel Periphyseon, l’Eriugena riprende Agostino legandone le tematiche alla dottrina dei moti dell’anima derivata dalla Pseudo Dionigi e ripresa poi da Massimo il Confessore. Giovanni Scoto ammette una concezione triadica della conoscenza tesa a sottolineare la corrispondenza tra uomo interiore e trinità divina. In termini conoscitivi, la trinità umana è composta dall’intellectus, ovvero dalla facoltà di intuire l’intelligibile; dalla ragione, logos, figlia dall’intelletto e coincidente con la facoltà discorsiva di risalire a Dio attraverso le cause e, infine, dal sensus, non quello esterno, ma quello interno coessenziale alla ragione e all’intelletto, distinguibile dal senso esterno perché “sebbene questo sembri appartenere più all’anima che al corpo, tuttavia, non costituisce l’essenza dell’anima” (Periphyseon, 568-569a).
Il meccanismo di funzionamento del senso interno è legato in primo luogo ai cinque sensi esterni senza i quali non potrebbe in alcun modo entrare in contatto con il mondo esterno e, di riflesso, al movimento della ragione senza la quale, una volta conosciute le cose naturali, non potrebbe conoscerne le cause. Intelletto, ragione e senso interno, non sono altro che tre potenze dell’anima, tre movimenti perfettamente corrispondenti tra loro, grazie ai quali e nei quali si compie nell’uomo il processo conoscitivo. L’unico vero soggetto percettivo è in Giovanni Scoto un’anima agostinianamente concepita; il corpo invece “ è governato dall’anima che [...] vivifica e controlla le parti locali del suo corpo ovunque si trovino” (Periphyseon , 731b).
All’interno del continuo rimando analogico e trinitario costituito dal modello di razionalità agostiniano-monastico, Anselmo d’Aosta ammette che la conoscenza comincia con i sensi. Il passaggio tra l’uomo esteriore e quello interiore si traduce, a livello conoscitivo, in quello dai dati sensibili conosciuti e conservati nella memoria alla riflessione su tali contenuti di pensiero. La presenza dell’oggetto nella mente, infatti, non può essere disgiunta dall’immagine sensibile, sia essa conservata nella nostra memoria o sia essa prodotta mentre noi riflettiamo sulla conoscenza della stessa cosa presente e ci avviamo a riconoscere che il funzionamento della nostra mente è analogo a quello della mente divina (Monologion, cap. 67). La conoscenza del mondo esterno, e il riconoscimento del suo ordine analogico, sono il primo, necessario passo della conoscenza. Per questo, qualsiasi immagine abbiamo in mente, essa è necessariamente legata all’esistenza della cosa nel mondo. Tuttavia, la conoscenza sensibile, come tale, non è ancora né vera né falsa. Quando noi diciamo infatti che i sensi ci ingannano, ci esprimiamo male: è il giudizio sui dati dei sensi quello che è falso. Anselmo ammette infatti che la falsità non è nell’apprensione sensibile, ma nel giudizio dato su ciò che appare (De veritate, 2; 5). La veridicità o meno delle cose, poi, dipende in ultima analisi da Dio, causa di ogni verità.
Abelardo distingue la conoscenza sensitiva da quella intellettiva, e se la prima termina alla cosa esistente, la seconda si riferisce a una similitudo della cosa. In altri termini, se con l’occhio si vede la mela davanti a me, con l’intelletto ci si forma e si contempla una similitudine della mela: in tal modo, si può pensare alla mela anche se la mela non c’è. Senso e intelletto non si distinguono per Abelardo come conoscenza del singolare e conoscenza dell’universale, poiché c’è intellezione e non percezione sensibile del singolare quando, ad esempio, il singolare è contemplato in una similitudine, la quale va distinta dall’atto conoscitivo poiché questo è reale, mentre la similitudine è ficta (Theologia Scholarium, 2).
La diffusione nella prima metà del XIII secolo dei libri naturales di Aristotele, legata all’evoluzione delle istituzioni universitarie, si intreccia con la storia della trasmissione della cultura antica all’Occidente latino (avvenuta tanto per via delle traduzioni dal greco, quanto attraverso la mediazione dei commenti dei falasifa arabi) ed è all’origine di un profondo rinnovamento delle dottrine filosofiche tradizionali.
È in questo periodo che si compie dunque il passaggio dal modello gnoseologico di stampo agostiniano a quello aristotelico, che il pensiero cristiano conobbe, almeno inizialmente, nella versione fortemente neoplatonica datane dalla falsafa musulmana. Secondo l’insegnamento dello Stagirita, la conoscenza, tanto sensibile quanto intellettuale, risulta dal processo di assimilazione dell’oggetto conosciuto nel soggetto conoscente. La sensibilità, concepita da Aristotele, a differenza di Agostino, come una facoltà eminentemente passiva, subisce l’azione degli oggetti esterni, che vi imprimono la loro forma sensibile. Attraverso un processo di progressiva attualizzazione della conoscenza, che si realizza grazie all’azione del senso comune, dell’immaginazione e infine dell’intelletto, le forme sensibili si spogliano dei caratteri dell’individualità per lasciare affiorare l’universale, il concetto.
Le opere di Aristotele, interpretate alla luce dei due grandi commentatori, IbnSina (Avicenna) e Ibn Rushd (Averroè), divengono testi fondamentali per lo studio universitario. I commenti di questi due pensatori, diffusisi nelle facoltà parigine e oxoniensi in due momenti successivi, si inseriscono all’interno di una ricca tradizione speculativa araba che, a partire dall’interpretazione data da Alessandro di Afrodisia di De anima, G 5 (il controverso passo aristotelico dedicato al nous poietikos), affronta il tema della trascendenza dell’intelletto attivo. Già Aristotele divideva la facoltà più alta dell’uomo in due intelletti: uno passivo, che, in analogia con il senso, “diviene di volta in volta tutte le cose”, e uno attivo, che “tutte le produce”, così come la luce, illuminando gli oggetti, li rende visibili. Sulla base dello statuto di separatezza (in verità soprattutto logica e operativa) riconosciuto dallo stesso Stagirita a questo secondo genere di intelletto, Alessandro di Afrodisia lo identificò con Dio, inaugurando una lettura neoplatonica del pensiero di Aristotele che venne prontamente recepita, in ragione della sua conformità con le rispettive esigenze religiose, tanto dall’islam quanto dalle fonti che parlavano latino.
La storia della ricezione araba del De anima aristotelico ha inizio con al-Kindī nella Baghdad del IX secolo ed annovera fra le sue fonti, oltre ad una parafrasi effettuata da Hunayn ibn Ishaq, anche alcuni commentari della tarda antichità (quelli di Temistio, dello stesso Alessandro di Afrodisia e, forse, di Giovanni Filopono) ed una Theologia tradizionalmente attribuita ad Aristotele (redatta in realtà nel IV secolo dai nestoriani siriaci sulla base delle Enneadi di Plotino), a partire dalla quale fu compilato (se non dallo stesso al-Kindī, perlomeno nel suo milieu) il neoplatonico Liber de causis (anch’esso ascritto allo Stagirita, ma largamente ispirato all’Elementatio theologica di Proclo), destinato ad improntare fortemente di sé l’interpretazione che la latinità diede del corpus aristotelico ben oltre il 1272 (data in cui Tommaso riconobbe il De causis come spurio, grazie all’importante strumento fornitogli dalle traduzioni di Guglielmo di Moerbeke). Secondo la filosofia di al-Kindī – e contrariamente ad Aristotele – non esiste tra conoscenza sensibile ed intellettiva alcuna continuità. L’importanza data al processo di astrazione del sensibile percepito viene drasticamente sminuita e sensi ed intelletto giungono ad identificare, in ragione di un diverso oggetto, due modalità gnoseologiche radicalmente distinte: i primi sono infatti rivolti alla realtà deteriore della materialità sensibile, mentre il secondo si proietta, attraverso la comunione con un divino Intelletto Agente, verso l’unica vera conoscenza, consistente nell’intellezione di una realtà immutabile ed eterna, non soggetta alle leggi della generazione e della corruzione. Fin da questa sua prima testimonianza la noetica araba si interroga quindi, giungendo ad esiti differenti, sulla natura del rapporto tra intelletto e anima come forma del corpo e sul processo conoscitivo che coinvolge l’uomo: il problema centrale è comprendere se e come l’uomo, caratterizzato da una natura corporea, possa contribuire al processo conoscitivo.
Anche la teoria psicologica di Avicenna, orientata tramite l’influsso di al-Fārābī ed al-Kindī verso una lettura fortemente neoplatonica del pensiero aristotelico, si colloca nel solco di questa tradizione; essa è esposta nel Kitāb al-Nafs, o Libro dell’anima, sesto volume dell’opus magnum di Ibn Sīnā, noto con il nome di Kitāb al-Šifā’, o Libro della guarigione. Nel pensiero di Avicenna l’anima acquista, in contrasto con l’insegnamento dell’ilemorfismo aristotelico, secondo il quale essa sarebbe esclusivamente forma corporis, una più pregnante sostanzialità, che le permette di conseguire uno statuto immortale. Questa teoria ha il risultato di emancipare totalmente l’intellezione dalla dipendenza dai dati sensibili: conformemente ai principi di un emanazionismo di chiara impronta plotiniana, la conoscenza deriva infatti al soggetto dalla comunione con un Intelletto Agente separato, unico per tutti gli uomini, identificato seguendo l’esempio di al-Fārābī con il decimo intelletto (il più basso fra gli intelletti trascendenti). Le immagini originate dalla percezione sensoriale hanno invece il solo scopo di disporre l’intelletto possibile umano a ricevere un’illuminazione proveniente dall’intelligenza divina, ma non recano in sé la possibilità di generare il concetto. Sulla base di queste premesse il filosofo arabo elabora una sequenza di quattro stadi di sviluppo per l’intelletto umano: 1) l’intelletto materiale (o ‘aql hayūlānī), totalmente privo di forme intelligibili; 2) l’intelletto in habitu (o ‘aql bi-limalaka), in possesso dei cosiddetti intelligibili primi, esprimibili in enunciati che attestano principi logici autoevidenti (come “l’intero è maggiore delle sue parti”); 3) l’intelletto in atto (o ‘aql bi-l-fi’l), che possiede gli intelligibili secondi (ovvero le forme intelligibili ottenute per astrazione dai dati sensibili), ma ancora non li pensa; 4) l’intelletto acquisito (o ‘aql mustafād), corrispondente all’ultimo stadio, in cui l’intelletto possibile pensa finalmente in atto gli intelligibili, grazie all’unione con l’intelletto agente. Per Avicenna – come del resto anche per Agostino – l’esperienza sensibile non ha un valore propriamente conoscitivo, ma prepara piuttosto la via alla conoscenza.
Averroè (il cui pensiero si sviluppò nell’Andalusia del XII secolo) riabilita invece almeno in parte il ruolo giocato dalla conoscenza sensibile nel processo intellettivo, affidandole il ruolo di fondare l’individualità della conoscenza. Radicalizzando la teoria di Avicenna egli pone nel suo Commento Grande al De anima non solo l’intelletto agente, ma anche quello possibile (o materiale, secondo il termine coniato da Alessandro di Afrodisia che il filosofo preferisce utilizzare) al di fuori dell’uomo: questa dottrina, che si diffonderà a Parigi intorno al 1265 ad opera di Sigieri di Brabante, è nota con il nome di monopsichismo. È chiaro come questa posizione, postulando un’unico intelletto per tutto il genere umano, escluda ogni sopravvivenza dell’anima dopo la corruzione del corpo, ponendo invece l’accento sull’immortalità del genere umano nella sua interezza. Con le parole di Marc Geoffroy: “ogni uomo pensante attualizza dunque l’intelletto della specie umana; dovunque disperso, non è che una sola e identica natura”. La conoscenza individuale è possibile in quanto le immagini ottenute attraverso i sensi sono rese intelligibili dall’intervento dell’intelletto separato: conformemente all’insegnamento di Avicenna, ma anche alla similitudine proposta da Aristotele tra pensiero e atto della visione, esse vengono accolte nell’unico intelletto materiale, dove vengono sottoposte all’azione dell’intelletto agente, descritta come l’opera della luce che, illuminando gli oggetti, li rende visibili. La percezione del sensibile, da cui gli uomini astraggono gli intelligibili, essendo legata alla phantasia e alla immaginazione, varia da uomo a uomo e produce l’individualità della conoscenza.
Se il modello gnoseologico prevalente tra il XII e il XIII secolo è quello di matrice aristotelica, l’influsso della dottrina avicenniana è ben evidente nel Tractatus de anima di John Blund: datato a prima del 1204, questo commentario è particolarmente significativo in quanto offre una delle prime testimonianze della ricezione latina della falsafa araba, il cui apporto teorico risulterà decisivo nell’assimilazione in chiave neoplatonica delle innovative ed eterodosse teorie psicologiche esposte nei libri naturales di Aristotele. Sulla base del Liber sextus de naturalibus (così era noto ai latini il Kitab al-Nafs di Avicenna) Blund concepisce l’intelletto agente come un’intelligenza angelica separata, da lui designata con il nome di Dator formarum, conformemente a una teoria già presente in al-Farabi: in questo modo il principio dell’intellezione viene delegato a un agente esterno e posto al di fuori dell’uomo.
Rifacendosi inoltre alla teoria avicenniana della sostanzialità dell’anima, secondo la quale essa svolge il ruolo di forma corporis in maniera accidentale e solo come un officium, Blund inaugura una linea esegetica che condizionerà pesantemente le prime interpretazioni latine del De anima aristotelico (per le quali però, a differenza che per i falasifa e per lo stesso Tractatus de anima, entrambi gli intelletti sono considerati come facoltà dell’uomo). Per quanto riguarda la conoscenza sensibile, egli individua il vero soggetto percettivo nell’anima e non nel nervo sensorio, il quale si limita a ricevere i cambiamenti prodotti nel suo strumento dell’oggetto esterno: ““il gusto è una forza ordinata nel nervo espanso, tale che ricevuto un cambiamento nello strumento del gusto attraverso il sapore, la volontà sia capace di volgere lo sguardo dell’anima a quella mutazione e apprenda il sapore”. Del resto, non è il nervo o la forza del nervo ad apprendere, ma “lo sguardo dell’anima” (Tractatus de anima, 213).
Se l’avicennismo penetrò nella latinità grazie al Tractatus di Blund, quella del pensiero di Averroè fu una ricezione posteriore e più complicata. Inizialmente connessa alle traduzioni effettuate negli anni Trenta da Michele Scoto, la diffusione della filosofia di questo autore si legò ben presto alle rivendicazioni di un autonomo ideale etico condotte dai maestri della facoltà delle Arti. La più significativa testimonianza dell’averroismo latino in ambito psicologico è costituita dalle Quaestiones in tertium De anima di Sigieri di Brabante: conformemente alle teorie di Ibn Rušd ed in polemica con l’ilemorfismo universale dell’israelita Ibn Gebirol (Avicebron), il quale assegnava all’anima intellettuale una composizione materica che le avrebbe reso impossibile l’intellezione degli universali, Sigieri delegò le sole facolta inferiori dell’anima (vegetativa, sensitiva) a svolgere il ruolo di forma del composto umano, capace di pensiero esclusivamente grazie all’unione (di carattere operativo, non sostanziale) con un intellectus separato. La dottrina espressa nelle Quaestiones in tertium De anima, in odore di eresia in quanto privava l’anima individuale della possibilità di una sopravvivenza post mortem, venne duramente attaccata da Tommaso d’Aquino nel suo De unitate intellectus contra Averroistas e, successivamente, dalle condanne dell’arcivescovo di Parigi Etienne Tempier nel 1270 e nel 1277. Già fra le 13 tesi sconfessate nel 1270, tre almeno rivelano una chiara ispirazione averroista: si tratta delle teorie proibite dal primo, dal secondo e dal settimo articolo, che insegnano rispettivamente l’unicità dell’intelletto, il ruolo passivo del soggetto nei processi cognitivi e la mortalità dell’anima individuale.
In generale, le posizioni dottrinali degli autori attivi fra XII e la seconda metà del XIII secolo furono il risultato di complessi tentativi di armonizzare il modello aristotelico all’interno di una concezione cristiana in cui l’autosussistenza dell’anima costituiva un dogma imprescindibile: gli scritti di Alessandro di Hales, Pietro Ispano, e Ruggero Bacone rappresentano bene questo sforzo. Sostanzialmente aristotelico nella teoria della conoscenza, Bacone sottolinea infatti il ruolo fondamentale dell’esperienza nell’ acquisire conoscenze intorno al mondo. Egli elabora così nel suo De multiplicatione specierum un complesso modello di conoscenza che lega, senza soluzione di continuità, ottica, fisiologia e percezione e astrazione delle rappresentazioni mentali universali. A livello sensibile, tale modello si basa sulla trasmissione di una serie di immagini sensibili che s’imprimono negli organi di senso, dando vita ai processi percettivi e, in seguito, intellettivi. Tali immagini sono dette species e, seguendo le regole dell’ottica prospettica sancite da Alhazen, o Ibn al-Haytham nel suo De Perspectiva, esse si trasmettono nell’aria ricoprendo la distanza che separa percetto da percepito in seguito alla rifrazione ottica di un corpo colpito dalla luce e s’imprimono in linea retta negli organi di senso dando luogo a immagini sensibili che verranno trasportate poi dai nervi alle facoltà superiori. All’interno dunque della dottrina gnoseologica elaborata da Bacone, la scienza della visione può essere concepita come teorizzazione di tutto il processo percettivo dell’uomo, alla luce, soprattutto, della considerazione, comune a molti pensatori medievali, che la vista sia il senso per eccellenza.
Diversa è invece la posizione di alcuni teologi come Bonaventura secondo cui la conoscenza sensibile non è concepita quale attività dell’anima sola, come era per Agostino, ma come attività propria dell’anima e del corpo. Le cose sensibili entrano nell’anima attraverso le porte dei cinque sensi, non fisicamente (per substantia), ma mediante similitudini o specie (Itineriarium mentis in Deum, II, 4). Spetta poi all’intelletto possibile rivolgersi alla specie sensibile, ricevere la specie astratta dall’intelletto agente e giudicarla. Tuttavia, poiché in ogni giudizio è implicita la conoscenza di una verità necessaria e la nostra mente mutevole non può scorgere tale verità, nonostante la conoscenza necessiti dell’ausilio dei sensi, essa è condizionata e fondata su quei principi innati ed infusi direttamente da Dio che sono indipendenti dai cinque strumenti corporali.
Secondo Tommaso d’Aquino, la conoscenza umana comincia con l’esperienza sensibile, attività non dell’anima sola ma di tutto l’uomo, inteso aristotelicamente come sinolo di anima e corpo. Poiché non vi è nulla nella mente che non sia passato attraverso i sensi è facile intuire come per Tommaso “sentire non è senza il corpo” (Summa theologiae, I, q.76, a.1).
La conoscenza passa sempre attraverso il prisma di un organo sensoriale: tuttavia, Tommaso ammette che, oltre ai cinque sensi, la sensibilità comprende anche (come già in Aristotele) il senso comune, l’immaginazione e la memoria, i così detti sensi interni, ai quali spetta il compito di ordinare le informazioni ricavate dai sensi esterni. ““Per apprendere le qualità sensibili servono i sensi propri e il senso comune [...] per raccogliere però e per conservare queste percezioni abbiamo la fantasia o immaginativa [...] una specie di ricettacolo delle forme apprese per mezzo dei sensi. Per apprendere invece quei dati intenzionali che sfuggono ai sensi, abbiamo l’aestimativa [...] per conservare questi ultimi abbiamo la memoria, che è come un ricettacolo di codesti dati intenzionali”” (Summa theologiae, I, q.78, a.4, resp).
Sulla veridicità o meno delle informazioni trasportate dai sensi, Tommaso si esprime molto chiaramente: ““i sensi non si ingannano circa l’oggetto proprio [...] la cosa può accadere solo per un impedimento casuale dell’organo. Così il gusto dei febbricitanti giudica amare le cose dolci perché la lingua è impregnata di umori cattivi”” (Summa theologiae, q.85, a.6, co., 1,3). Conoscere, tuttavia, implica per l’uomo ricavare dalla cosa conosciuta, per astrazione intellettiva, l’universale che vi si trova contenuto, ovvero, leggere nel phantasma (impressione sensibile, sempre individuale, provocata dall’azione dell’oggetto esterno sui sensi, ultimo prodotto dell’attività sensitiva può essere pensato come il prodotto di un soggetto conoscitivo corporeo) un significato universale, una essenza (quidditas).
La conoscenza, resa possibile dalla capacità astrattiva dell’intelletto, è intesa dunque da Tommaso come un caso particolare del passaggio dalla potenza all’atto: ““vi è dunque nell’anima intellettiva una facoltà che agisce sui fantasmi, rendendoli intelligibili in atto: e questa potenza dell’anima si chiama intelletto agente. E vi è in essa una facoltà che è in potenza alle similitudini determinate dalle cose sensibili: e questa potenza è l’intelletto sensibile”” (Summa contra Gentiles, II, 7). L’attività dell’Intelletto agente non è il conoscere, ma un’attività previa al conoscere: l’elaborazione, mediante astrazione, di una species capace di determinare l’intelletto possibile, in virtù del quale l’uomo conosce.
Oggetto proprio dell’intelletto umano è la natura del reale sensibile non separata, cioè, dalle cose sensibili. Del resto, ““secondo il punto di vista di Aristotele [...] il nostro intelletto nel suo stato naturale e nella vita presente si riferisce alle nature delle cose materiali [...] È chiaro che noi non possiamo conoscere in via primaria [...] le sostanze immateriali che non cadono sotto i nostri sensi”” (Summa contra Gentiles, I, 85).
Nel periodo immediatamente successivo a san Tommaso si assiste al progressivo indebolimento degli elementi tipici del modello gnoseologico aristotelico e all’affermazione di nuove teorie epistemologiche basate sulla conoscenza intellettiva diretta degli oggetti individuali esistenti.
Se per Enrico di Gand l’intelletto conosce direttamente il proprio oggetto, che resta pur sempre una rappresentazione anche se non è più un ente mediano attraverso il quale si ricevono informazioni circa la realtà esterna, secondo altri pensatori non è più necessaria la mediazione di una immagine (species) che rappresenti nella mente gli oggetti in quanto conosciuti; essi vengono conosciuti direttamente nella loro individualità. Guglielmo de la Mare, Pietro d’Alvernia e Matteo d’Acquasparta, tutti appartenenti all’ordine francescano, sono i primi ad abbracciare la teoria dell’intuizione intellettuale degli individuali; Pier di Giovanni Olivi sostiene invece la possibilità di avere una apprensione diretta degli individuali (notitia intuitiva). Tale teoria troverà in Giovanni Duns Scoto, Pietro Aureolo e Guglielmo di Ockham i suoi più originali interpreti.
Notitia intuitiva, ovvero apprensione diretta degli oggetti esterni e notitia abstractiva, ovvero possibilità di rappresentare la realtà in modo astratto e spogliato dalle qualità sensibili, costituiscono le due modalità conoscitive in cui si articola il modello gnoseologico di Giovanni Duns Scoto, il quale ammette un’apprensione diretta degli oggetti individuali e una conoscenza astrattiva per quanto concerne, invece, la possibilità di astrarre – secondo modalità aristoteliche – la loro essenza (quidditas). Ai cinque sensi, tra i quali la vista è quello che assicura una maggiore certezza, spetta il mero compito di attestare l’esistenza di un oggetto, non essendo in grado di individuare l’haecceitas, ovvero il principio che rende singolare un’entità distinguendola dalle altre (Quaestiones Quodlibetales, q.13). L’essenza (quidditas) di un oggetto è conoscibile solo in virtù della capacità astrattiva dell’intelletto il quale apprende le cose indipendentemente dall’esistenza reale e dalla presenza dell’oggetto. Tra la conoscenza derivata per astrazione e quella diretta, Scoto ammette inoltre un terzo modo di conoscere, analogo e derivante dalla notitia intuitiva, ma diretto a una res caratterizzata da uno statuto ontologico meno denso: si tratta della notitia intuitiva imperfecta, basata su un’immagine individuale che si ripresenta anche in assenza dell’oggetto – è ciò che avviene insomma quando si ricorda un evento passato o quando, viceversa, si prevede un evento futuro (Ordinatio, III, d.14, q.3).
Anche per Guglielmo di Ockham, il processo conoscitivo trova il suo fondamento nell’attività degli atti mentali, che dirigendosi sugli oggetti singoli, li conosce immediatamente (primo et per se). Secondo la dottrina gnoseologica elaborata da Ockham la notitia intuitiva coincide con quella conoscenza sufficiente a esprimere un giudizio evidente di esistenza o meno dell’oggetto intuito (Ordinatio, Prol., q.1). All’intuizione diretta segue poi la notitia abstractiva fondata sulla ripetizione degli atti di conoscenza diretta. La formulazione di proposizioni mentali contingenti, ovvero di quelle proposizioni nelle quali si afferma un giudizio non necessario, soggetto a possibili mutamenti, è resa possibile dalla modalità conoscitiva diretta degli oggetti. Le proposizioni conosciute in modo evidente sono quelle conosciute direttamente attraverso i sensi, cioè quelle che si originano dall’apprensione dei concetti-termini del linguaggio mentale, naturalmente formatisi e coincidenti con gli atti di conoscenza (Ordinatio, Prol. e d. 3). Si attua così il progetto di una causalità naturale, una sorta di epistemologia naturalizzata, che si basa sull’apprensione diretta delle qualità individuali e dalla loro immediata sostituzione in concetti proposizionali: una teoria della razionalità costruita su processi mentali naturali (Ernesto Perini-Santos, La théorie ockhamienne de la connaissance sensible, 2006).
Secondo Pietro Aureolo la notitia intuitiva va intesa nei termini di visione sensibile; dalla visione, poi, la conoscenza diretta può essere generalizzata alla “visione” intellettuale. Aureolo ammette che anche l’intelletto umano possa intuire direttamente le cose singole ed esistenti e separa, inoltre, la realtà di una conoscenza dall’esistenza dell’oggetto intuito. La conoscenza di quanto appare ai sensi e l’esistenza degli oggetti sono poste su due piani differenti; lo dimostrano le illusioni dei sensi, che sono conoscenze a tutti gli effetti, per quanto rivolte a oggetti non esistenti (In I sent., d. 23).
Più in generale, occorre rilevare come il nuovo modello conoscitivo incentrato sulla conoscenza diretta degli individuali, elaborato in ambiente francescano, pur senza eliminare in tutti gli autori le species – intese come rappresentazioni sensibili e/o intellettive degli oggetti – rompa l’unitarietà causale del modello conoscitivo basato sul concetto di species che aveva caratterizzato gran parte della speculazione del XIII secolo e che aveva permesso di legare tra loro in maniera coerente elementi apparentemente eterogenei come la fisiologia, la teoria prospettica della visione, la psicologia e, infine, la logica. (Katherine Tachau, Vision and Certitude in the Age of Ockham, 1988).