La questione giovanile: fra oratori, associazioni, movimenti. Dal 1861 alla fine del secolo XX
All’indomani dell’Unità nazionale, nella Chiesa italiana, zeppa d’inquietudini per i sempre più paventati ‘guasti’ prodotti dalla ‘rivoluzione liberale’, la preoccupazione di tutelare i giovani da simili pericoli andò crescendo sensibilmente. Ad aumentare i timori contribuirono, dagli anni Ottanta del secolo XIX, soprattutto nel Nord, tanto l’incipiente sviluppo industriale quanto il crescente processo di urbanizzazione, considerati entrambi gravidi d’insidie spirituali e morali. Il successo, poi, di orientamenti culturali e di movimenti socio-politici a forte timbro anticlericale (positivismo, socialismo, massoneria) concorreva, nella corrente valutazione cattolica, ad aggravare il quadro di poco rassicuranti presagi1.
Sarebbe senz’altro eccessivo parlare, per la Chiesa italiana del secondo Ottocento, di una sorta di ‘questione giovanile’ d’intensità problematica pari a quelle apertesi sui fronti ideologico (con il prevalente rigetto, nella linea del Sillabo, delle forme di pensiero moderno), politico (a seguito dello scontro con lo Stato unitario) e sociale (dopo l’avanzata delle organizzazioni socialiste nel mondo del lavoro)2. Però, la situazione d’allerta nei confronti della gioventù, esposta, soprattutto nei maggiori centri urbani, alle prorompenti novità, andò via via intensificandosi.
Nei decenni successivi all’Unità, il panorama degli oratori (l’istituzione educativa per ragazzi e giovani riconducibile alle attività pastorali promosse sin dai primi tempi della stagione post-tridentina3) si presentava alquanto variegato. Sui piani organizzativo e pedagogico, le pur evidenti differenze d’impostazione nei vari contesti, non ne intaccavano, tuttavia, la sostanziale convergenza d’indirizzo.
La Congregazione dell’oratorio, fondata da Filippo Neri nel secolo XVI, vantava in questo campo una ricca esperienza. Negli anni Sessanta dell’Ottocento, in quasi tutte le sedici fondazioni filippine d’Italia, funzionava un ‘oratorio secolare’, con attività formative e ricreative per la gioventù. A tal proposito si segnalò specialmente la casa di Brescia, denominata ‘la Pace’4. Dagli anni Ottanta del secolo XIX il servizio educativo, soprattutto per merito di padre Antonio Cottinelli, venne sempre meglio qualificato, tanto da risultare punto di riferimento per l’intera città.
Il 10 giugno 1895 si tenne alla Pace il primo congresso oratoriano, in occasione del terzo centenario della morte di s. Filippo Neri. Oltre all’aspetto celebrativo, l’incontro si proponeva di additare alla comunità ecclesiale il valore pastorale e educativo dell’oratorio, nonché di predisporre testi utili per le attività che vi venivano promosse.
In ossequio al secondo proposito, Antonio Cottinelli dava alle stampe, nel 1899, il Manuale per l’erezione dell’oratorio festivo, in cui sottolineava, fra l’altro, l’esigenza di un’autorità amabile da parte dell’educatore, la necessità di una conoscenza personalizzata del ragazzo, la moderazione nel ricorrere a premi e castighi, il valore d’un clima ambientale sereno e operoso. Preghiera, istruzione catechistica, gioco, momenti di festa, teatro, canto, debitamente graduati nei tempi e negli spazi, secondo l’autore, non potevano mancare in oratorio5.
Ma più ancora dei Filippini, la congregazione che dopo l’Unità diede impulso decisivo alla diffusione degli oratori fu quella salesiana. Don Giovanni Bosco aveva incominciato a svolgere il ministero fra i ragazzi poveri di Torino all’inizio degli anni Quaranta dell’Ottocento. Nella primavera del 1846, in località Valdocco, avviò l’oratorio festivo, intitolato a s. Francesco di Sales. Ad esso ne seguirono altri, sempre in zone periferiche della città. Il crescente cumulo d’impegni convinse ben presto don Bosco della necessità di collaboratori votati in modo stabile alla causa giovanile. Da qui l’idea della Pia società di s. Francesco di Sales, che iniziò il suo cammino nel 18596.
Gli anni Sessanta registrarono l’avvio delle prime fondazioni salesiane fuori dal capoluogo. Nel decennio successivo si estesero in Liguria, Lazio, Veneto, Toscana, Lombardia, Puglia, Sicilia. Il flusso espansivo proseguì sino alla scomparsa di don Bosco (31 gennaio 1888), interessando anche l’Emilia e il Trentino. Nella maggior parte dei casi fu promosso l’oratorio festivo.
Di carattere popolare, l’oratorio intitolato a s. Francesco di Sales assunse pian piano la fisionomia di un «ambiente educativo integrale», proponendosi come centro in grado di elaborare una vera e propria ‘pedagogia per la massa’. Tutto in esso (preghiera, catechismo, gioco, attività ricreative, celebrazioni, gite) doveva concorrere all’edificazione del «buon cristiano» e dell’«onesto cittadino», ripeteva don Bosco, che, coadiuvato da un numero crescente di collaboratori, poté sperimentare dal vivo, in un clima educativo familiare, il suo ‘metodo’ o ‘sistema preventivo’7.
Nella Congregazione salesiana l’esperienza di Valdocco fu sempre considerata modello di riferimento. In tal senso, don Michele Rua, primo rettor maggiore dopo don Bosco (dal 1888 al 1910) richiamò a più riprese i confratelli all’osservanza scrupolosa dell’eredità ricevuta dal fondatore. Occorreva guardarsi dal ridurre l’oratorio a semplice ricreatorio. Notiamo che alla scomparsa del Rua le fondazioni salesiane superavano il centinaio. Molte assicuravano l’oratorio festivo, sempre frequentato da un alto numero di ragazzi e di giovani.
Presente all’incontro bresciano del 1895, il salesiano don Stefano Trione fu l’anima dei congressi oratoriani del primo Novecento: Torino, 1902; Faenza, 1907; Milano, 1909; e poi ancora Torino, 1911. Dalle relazioni, dai dibattiti, dai voti congressuali emergeva la persuasione dell’importanza dell’oratorio, di cui si auspicava la diffusione in ogni parrocchia. Perno dell’attività doveva restare la formazione cristiana, con specifica cura dell’istruzione catechistica e della vita di pietà8.
Nei congressi d’inizio secolo s’incominciò, tuttavia, a registrare il frequente abbandono dell’oratorio da parte di adolescenti e di giovani entrati nel mondo del lavoro. Per arginare il fenomeno non bastava far leva sull’offerta ludico-ricreativa (gioco, passeggiate, teatrino, attività musicale): occorreva piuttosto predisporre interventi adeguati ai bisogni complessivi della gioventù lavoratrice. L’avvio di cicli di formazione sociale, l’apertura dell’oratorio anche nei giorni feriali, l’impegno per collocare gli apprendisti presso padroni onesti, la sensibilizzazione alla previdenza e al risparmio costituirono indicazioni precise nell’incontro congressuale del 1911.
Se dalle esperienze filippine e salesiane volgiamo l’attenzione a quelle fiorite per merito del clero diocesano, ci si dischiude un ampio e vivace ventaglio d’iniziative. Quanto attuato dalla Chiesa milanese nei primi cinquant’anni post-unitari costituì il caso di maggior risonanza e il riferimento indiscusso per l’intera regione lombarda.
Attorno al 1861, nella città di Milano si contavano undici oratori maschili. Il ‘San Carlo Borromeo’ e il ‘San Luigi Gonzaga’ assumevano un ruolo preminente. Nel secondo, durante gli anni Ottanta prese specifica configurazione un modello di ‘oratorio sociale’, pensato per andare meglio incontro ai bisogni di formazione culturale e professionale dei giovani9.
L’istituzione oratoriana ebbe forte slancio con l’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari (1894-1921). Sin dall’inizio, infatti, egli dispose che ogni parrocchia se ne dotasse, incominciando dal settore maschile10.
Nella complessa congiuntura socio-culturale di fine secolo, l’oratorio appariva una «necessità indeclinabile» e un’«ancora di salvezza» per la gioventù, insidiata, fra l’altro, da ricreatori e gruppi sportivi laico-massonici11. Durante il primo decennio dell’episcopato di Ferrari, in diocesi ne furono fondati 82 maschili e 63 femminili. Nel 1907, in risposta a un’esigenza di collegamento e d’indirizzo da tempo avvertita, prese il via «L’Eco degli oratorii. Periodico mensile illustrato». Con ragione, si era potuto scrivere in apertura: «I nostri Oratori sono l’istituzione più popolare di Milano. Se facciamo eccezione di coloro che già adulti immigrano nella nostra città, sono pochi quei figli del popolo che non abbiano fatto almeno per qualche mese una capatina in qualche oratorio»12. La considerazione si applicava anche al forese. In una zona come la Brianza l’oratorio maschile costituiva un passaggio pressoché obbligato per l’intera popolazione giovanile. Nel convegno diocesano del 1907, svoltosi a Monza, oltre a insistere sulla necessità di aprire i giovani oratoriani ai problemi sociali, fu pure affrontata la questione, rimasta a lungo in primo piano, del rapporto con la Gioventù di Azione cattolica. Un evento importante si registrava poi nel 1913: la nascita della Federazione degli oratorii milanesi (Fom)13. Con essa iniziava una fase nuova della vicenda oratoriana in terra ambrosiana.
Tra Otto e Novecento, anche nelle altre diocesi lombarde, seppur con diversi accenti, il ruolo degli oratori maschili guadagnò rilievo. Fu il caso, innanzitutto, di Brescia. Dopo l’Unità, gli oratori, in città e in provincia, conobbero una stagione di consolidamento, conseguendo nell’ultima frazione del secolo XIX rilevanti successi, destinati a ulteriore incremento nel quindicennio precedente la guerra mondiale14. Sul finire dell’Ottocento, anche in diocesi di Bergamo l’esperienza oratoriana registrò una significativa affermazione. Nuovo impulso venne dal vescovo Giacomo Maria Radini Tedeschi, che, fra l’altro, nel 1909 incoraggiò la nascita della Federazione diocesana degli oratorii maschili. Discorsi in parte analoghi dovremmo svolgere per le diocesi di Como, Cremona, Pavia, Lodi. Fra i secoli XIX e XX, gli oratori maschili vi ebbero un’interessante fioritura, pur non raggiungendo la diffusione capillare registrata sul territorio milanese15.
Al di fuori della Lombardia, Torino rappresentava un caso per certi aspetti simile a Milano. Dopo l’Unità, si assistette, infatti, a un costante incremento degli oratori maschili. Verso la fine del secolo, se ne contavano una dozzina. Oltre ai Salesiani e ad alcuni preti diocesani, si distinse per l’impegno in quel campo anche la Congregazione di s. Giuseppe, fondata nel 1873 da don Leonardo Murialdo, già collaboratore di don Bosco16.
Un’altra città interessante per il nostro discorso è Venezia. Sin dalla seconda metà del Settecento, vi erano diffusi i patronati, con impostazione e obiettivi analoghi agli oratori. Essi ebbero deciso impulso dopo il 1860, per merito di don Giovanni Battista Piamonte, coadiuvato da don Alberto Cucito e don Angelo Bortoluzzi. Alla morte del Piamonte (1879) i patronati ammontavano a 23. Dal 1883, i Giuseppini del Murialdo, su invito di don Cucito, assunsero la direzione del patronato interparrocchiale Pio IX e negli anni successivi furono alla guida di quelli di Chioggia, Oderzo, Vicenza, Bassano del Grappa, Rovereto17.
Rispetto ai maschili, gli oratori femminili offrivano contorni complessivi più modesti sia per il numero, di parecchio ridotto, sia per la proposta formativa, meno ricca e articolata. La direzione, di solito, era affidata a religiose. Pur con qualche inevitabile differenza di accenti, tali oratori convergevano sugli orientamenti educativi di fondo, proponendo un modello di forte timbro spirituale e morale, sostenuto da una tradizionale visione ‘familistica’ della ragazza. Essa veniva incoraggiata a coltivare doti e virtù (laboriosità, spirito di sacrificio, umiltà, riservatezza, dedizione, purezza) qualificanti la naturale vocazione a divenire un domani, nella maggior parte dei casi, sposa e madre.
A grandi linee, la distribuzione degli oratori femminili sul territorio nazionale fra Otto e Novecento ricalcava quella dei maschili. Anche in questo caso, la diocesi di Milano si mostrava all’avanguardia. Non fu però da meno Brescia, dove varie congregazioni, per lo più di origine ottocentesca (Canossiane, Suore maestre di Santa Dorotea, Ancelle della carità) e laiche consacrate (Figlie di Sant’Angela Merici) si prestavano al servizio oratoriano nei giorni festivi.
È altresì vero che gli oratori femminili, fra i secoli XIX e XX, si diffusero in parecchie zone del Nord e del Centro Italia. Tra le congregazioni segnalatesi per uno speciale carisma in questo campo furono le Figlie di Maria Ausiliatrice, fondate nel 1872 da don Bosco e Maria Domenica Mazzarello. Il loro sviluppo risultò impetuoso. Nel 1886 vantavano 31 case tra Piemonte, Liguria e Sicilia, con 23 oratori festivi; nell’imminenza della guerra mondiale, le prime erano salite a 194, i secondi a 140. Spiritualità, organizzazione e pedagogia oratoriana delle Figlie di Maria Ausiliatrice volgevano alla formazione di una ragazza pia, pura, riservata, laboriosa, generosa, insomma: interprete del modello di donna cattolica, dedita principalmente ai valori domestici.
Possiamo comunque dire che, nel periodo in esame, gli oratori femminili, nonostante alcuni limiti e chiusure, offrirono a un numero elevato di fanciulle e giovani, dal Nord al Sud del paese, opportunità di riflessione, d’incontro, di svago, unitamente a occasioni per aprirsi alle future responsabilità e alle scelte di vita che, sovente, né la famiglia né la scuola erano in grado di assicurare18.
Quando dagli oratori ci volgiamo alle associazioni giovanili, riferimento obbligato è la Società della gioventù cattolica italiana (Sgci), sorta nel 1868 per iniziativa del conte viterbese Mario Fani e dell’avvocato bolognese Giovanni Acquaderni19. Articolata in circoli locali e con al vertice un consiglio superiore (sede centrale dapprima a Bologna, poi a Roma), essa intendeva promuovere una robusta formazione spirituale degli iscritti, ‘ravvivare’ nella gioventù e nel popolo il sentimento religioso, difendere i diritti del papa, concorrere alla raccolta dell’obolo di s. Pietro, sostenere la stampa cattolica.
In un triennio, la Sgci si diffuse in parecchie regioni del Centro-Nord. Nel Meridione l’inserimento fu posteriore al 1870. Il quadro socio-politico e religioso dell’ex Regno borbonico non facilitava lo sviluppo di una simile associazione, perché essa avrebbe potuto scomporre i tradizionali equilibri anche nei rapporti tra gerarchie ecclesiastiche e potentati locali. I primi circoli sorsero in Sicilia. Successivamente interessarono qualche centro della Calabria e della Campania20.
Molti soci della Gioventù cattolica erano di estrazione medio-alta, con presenza anche di aristocratici. Circoli e affiliati dovevano distinguersi per: religiosità ‘militante’, sensibile agli aspetti cultuali e alle iniziative pubbliche della Chiesa, nonché ai bisogni del papato; impegno culturale (per lo più – si noti – d’impostazione apologetica); dedizione in campo socio-assistenziale (non esente, a onor del vero, da spirito paternalistico). Sul piano formativo, la Sgci presupponeva l’educazione cristiana ‘di base’ del socio, muovendo dalla quale, intendeva sviluppare una coscienza apostolica, bene espressa dal sostantivo ‘azione’, che, accanto a ‘preghiera’ e ‘sacrificio’, riassumeva senso e direzioni dell’esperienza associativa.
Gli avvenimenti politico-militari culminati con la presa di Roma (20 settembre 1870) alimentarono grande tensione nella stessa Gioventù cattolica. La reazione immediata fu quella di serrare le fila, accentuando la linea dell’intransigenza. Questa posizione prevalse sino alla scomparsa di Pio IX (1878), anche se a seguito del progressivo allontanamento nel tempo dal cosiddetto fatto compiuto, andarono emergendo posizioni meno rigide. Nel 1874, con l’entrata in scena dell’Opera dei congressi e dei comitati cattolici (Oc), s’inaugurava una nuova stagione per l’associazionismo militante. Sin dall’inizio i rapporti fra Sgci e Oc non furono semplici. Dopo le dimissioni di Acquaderni dalla presidenza della Gioventù cattolica (1880), i successori Filippo Tolli (1880-1881) e Augusto Persichetti (1881-1886), assecondando le velate aperture conciliatoristiche degli inizi del pontificato di Leone XIII, contribuirono, seppur indirettamente, ad acuire le tensioni in atto. Ma, tramontati i timidi spiragli dischiusi dal primo periodo leoniano, i segnali provenienti dal Vaticano apparivano inequivocabili: le associazioni cattoliche dovevano coordinarsi sotto l’egida dell’Opera21.
Il contrasto con la Gioventù cattolica s’inasprì, allorché Giambattista Paganuzzi, presidente del Comitato regionale veneto dell’Opera dei congressi, nel 1884, decise d’istituire, con esiti inevitabilmente concorrenziali, una Sezione giovani. Eletto poi al vertice dell’Opera (22 settembre 1889), egli non solo rafforzò la linea intransigente e centralistica, ma incrementò anche l’impegno in ambito giovanile. A quel punto, i rapporti con la Sgci (presieduta dal 1886 al 1893 da Guglielmo Alliata) subirono un ulteriore peggioramento.
Da parte della Santa Sede appariva ormai chiara la preferenza per le Sezioni dell’Opera dei congressi, il cui regolamento fissava così i principali obiettivi: «rassodare nel bene i giovani»; «abituarli alla professione pubblica e franca dei principii cattolici»; «addestrarli all’azione cattolica» (art. 1). Per l’ammissione occorreva avere compiuto i 13 anni e non oltrepassato i 25 (art. 17). Dopo quest’età, l’associato diveniva membro a tutti gli effetti del comitato parrocchiale. Tra le attività delle sezioni, l’art. 23 prevedeva servizi di catechesi per i minori, organizzazione di feste religiose, manifestazioni a sostegno del pontefice, pellegrinaggi, incontri socio-culturali, promozione di biblioteche popolari, diffusione della ‘buona stampa’, iniziative di beneficenza, società di mutuo soccorso. Forti del favore della Santa Sede, i dirigenti dell’Opera cercarono in ogni modo di guadagnare posizioni di vantaggio rispetto alla Sgci22. Quest’ultima, di conseguenza, si trovò in una condizione disagevole. Ciò nonostante, negli anni Novanta, sorsero nuovi circoli, che, anche a seguito dell’enciclica Rerum Novarum (15 maggio 1891), mostrarono crescente interesse per la questione sociale23.
Sul finire del secolo, alla tradizionale contrapposizione fra cattolici transigenti e intransigenti venne sostituendosi quella fra novatori e conservatori, sollecitata dall’entrata in scena, fra il 1895 e il 1896, del movimento democratico-cristiano. Vi fu una fioritura di gruppi in vari centri della penisola (Torino, Genova, Roma, Napoli, Cosenza, Bitonto), accomunati da una visione della fede attenta ai problemi storico-sociali e dalla sottolineatura dell’autonomia laicale nell’esercizio delle responsabilità politiche. Il marchigiano don Romolo Murri risultò figura centrale del movimento24.
Nel 1900, al vertice della Sgci venne nominato l’avvocato Paolo Pericoli. Sue prime preoccupazioni furono, all’interno, di moderare le frizioni fra l’ala filoconservatrice e quella democratica, all’esterno, di non peggiorare i già delicati rapporti con l’Opera dei congressi. Nei riguardi, poi, del potere politico, il presidente si premurò di difendere i diritti di libertà e il buon nome dell’associazione, impegnandosi ad accreditare l’immagine di una Società di sicuri sentimenti nazionali. Attento al sempre più acceso dibattito associativo sulla questione democratico-cristiana, Pericoli tentò di frenare le fughe in avanti, soprattutto dopo che, con l’enciclica Graves de communi (18 gennaio 1901), Leone XIII segnava una linea di demarcazione all’idea della democrazia cristiana, restringendone il significato al piano sociale25.
Salito al soglio pontificio il 4 agosto 1903, Pio X, circa un anno dopo (28 luglio 1904), decretava, per una serie di ragioni, in parte connesse con il mutato clima politico nazionale, lo scioglimento dell’Opera dei congressi. Cessavano così di vivere anche le Sezioni giovani. La decisione fu il preludio di una ristrutturazione del movimento cattolico (enciclica Il fermo proposito, 11 giugno 1905) in quattro organismi distinti: Unione popolare, Unione economico-sociale, Unione elettorale, Società della gioventù cattolica italiana26. In tal modo, quest’ultima organizzazione si trovò investita di responsabilità, ma anche di possibilità di manovra sin lì impensabili, che, sempre in coerenza con il proprio impegno formativo e apostolico, la sollecitarono a rinvigorire l’interesse per le questioni sociali sul tappeto, non disdegnando, poi, d’inserirsi nei dibattiti sul nazionalismo e, nell’imminenza della guerra, sull’interventismo27.
Il problema degli studenti, insidiati dalla cultura positivistica e anticlericale, preoccupava da tempo i responsabili del movimento cattolico. Per quanto concerne gli universitari, fu Murri ad avviare nel 1895 «La Vita nova», come strumento di collegamento fra i circoli della gioventù studiosa. Nel mese di novembre la rivista lanciava il programma, con annesso statuto, dell’istituenda Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci). L’obiettivo era quello di «ricostruire le scienze e la vita sociale», tramite l’impegno «a rifare la città umana, ma dietro le norme della fede ispiratrice e coi vincoli della operosa carità cristiana»28.
Sin dall’inizio, la Fuci dovette impegnarsi per salvaguardare la propria autonomia rispetto all’Opera dei congressi, nel cui alveo, infatti, fu da principio inserita. In chiusura di secolo, i circoli federati erano 28, con 1176 iscritti. Dietro la lenta ma costante espansione sussistevano tensioni fra i filointransigenti e i favorevoli alla linea democratico-cristiana. Al congresso cattolico di Taranto del 1901 fu eletto presidente il milanese Angelo Mauri. Per suo merito la Fuci recuperò slancio culturale e intensificò l’apertura sociale, guadagnando altresì margini di manovra autonoma all’interno dell’Opera. Naturalmente, lo scioglimento di quest’ultima significò per la Federazione l’inizio di un nuovo cammino. Mario Augusto Martini, subentrato nel 1905 al Mauri, continuò la battaglia in difesa dell’autonomia federativa. Con le presidenze di Giorgio Castelli (1907-1909), Giuseppe Casoli (1909-1910), Francesco Luigi Ferrari (1910-1911), collocate nel cuore della crisi modernista, la Fuci, non senza fatiche e contrasti interni, procedette verso la ricerca di un migliore assetto operativo, che bilanciasse ricerca culturale e azione sociale. Un episodio con spiacevoli conseguenze si verificò al congresso di Torino del 1911, posto nel mezzo delle celebrazioni per il cinquantesimo dell’Unità. I ‘fucini’, sempre più sensibili ai valori della laicità e delle libertà moderne, non si sottrassero alle professioni di patriottismo e di fedeltà costituzionale. Ciò scatenò la reazione degli ambienti conservatori-intransigenti e produsse lacerazioni con i vertici ecclesiastici, ricomposte non senza fatica. Al Ferrari, dimessosi nel febbraio 1912, succedette Ferruccio Galmozzi di Bergamo. Quindi, la presidenza passò al milanese Giovanni Battista Migliori (1913-1919). A mano a mano cresceva il dibattito sull’interventismo, tra le file degli universitari serpeggiò una certa attrazione nazionalistica, quantunque i vertici federativi fossero determinati nel respingere le esasperazioni di quella ideologia. Fu, ad ogni modo, inevitabile che il congresso tenutosi a Genova nel marzo 1915, e dunque precedente di poco la nostra entrata in guerra (24 maggio), si svolgesse in un clima di grande fervore patriottico. Per l’Italia, parecchi ‘fucini’ avrebbero versato il loro sangue sui vari teatri di battaglia.
Nella Federazione, il desiderio di misurarsi con i problemi filosofici, teologici, socio-politici del momento liberò energie intellettuali fresche e stimolò dibattiti proficui, nell’ottica di una vera e propria ‘pedagogia dell’intelligenza’. Sensibile al cruciale rapporto tra fede e scienza, religione e cultura, la Fuci del primo Novecento qualificò il suo cammino anche nell’approfondimento di una genuina ‘spiritualità dello studio’, così come pose con coraggio la questione relativa all’autonomia dell’azione laicale29. Non era certo poco per un periodo in cui gravava la cappa di paure e sospetti connessi al modernismo!
Accanto all’associazionismo studentesco (arricchito anche da iniziative per gli allievi dell’istruzione media, come nei casi dell’associazione Santo Stanislao di Milano e del circolo Silvio Pellico di Sassari)30, va ricordato quello sportivo. Fra Otto e Novecento, le migliori proposte formative di matrice cattolica si alimentavano d’una cultura pedagogica ‘realistica’ e come tale capace, contro le insidie di un certo spiritualismo disincarnato, di conferire conveniente risalto alle esigenze dello sviluppo fisico del giovane, nel quadro di una vigile formazione del carattere. All’inizio del secolo XX, il notevole aumento di associazioni dedite soprattutto alla ginnastica suscitò vivo interesse anche nella Sgci. Specialmente nei circoli del Nord, cresceva l’esigenza di promuovere, insieme con le opere di apostolato e di azione sociale, apposite sezioni sportive. A causa delle difficoltà incontrate da società cattoliche per affiliarsi alla Federazione ginnastica nazionale italiana, prese corpo l’ipotesi di un organismo federativo autonomo. Se ne incominciò a parlare nel 1903. Dopo lunghe discussioni, fu lo stesso consiglio superiore della Sgci, nel maggio 1906, ad attivarsi in favore del progetto ipotizzato, che poté così concretarsi nel mese di agosto, con la nascita della Federazione delle associazioni sportive cattoliche italiane (Fasci), sotto la guida di un comitato provvisorio. A seguito, poi, della nomina (aprile 1907) della direzione e del presidente, nella persona del conte Mario di Carpegna, l’attività incominciò a decollare. Statuto e regolamento affermavano, fra l’altro, il valore del principio confessionale, in virtù del quale ogni società aderente doveva promuovere «la sana educazione fisica unitamente a quella religiosa e morale». Nonostante alcune defezioni maturate in Lombardia, nel 1908 la Fasci registrava 103 affiliazioni, salite nel 1910 a 204. Prima della guerra, il movimento sportivo di matrice cattolica aveva ormai assunto la consistenza di un fenomeno di massa, con una consolidata struttura organizzativa autonoma e alternativa allo sport ‘ufficiale’31.
Nel gennaio 1916, ritroviamo Mario di Carpegna a capo di un’altra esperienza significativa: l’Associazione scautistica cattolica italiana (Asci). Ad essa si approdò dopo un periodo di dibattiti sul metodo scout, notoriamente introdotto dall’inglese Robert Baden-Powell fra il 1907 e il 1908. Tra i cattolici protagonisti di quella fase pionieristica figurava il genovese Mario Mazza. Negli ambienti dell’intransigentismo lo scautismo incontrò oppositori per motivi ideologici (scattava, infatti, la pregiudiziale delle sue origini protestanti) e pedagogici (l’accusa era di cedimenti verso un pericoloso ‘naturalismo’). A far evolvere il mondo ecclesiale su valutazioni più equilibrate di quell’esperienza contribuì non poco il Mazza. Il problema del movimento scout si pose in consiglio superiore della Sgci all’inizio del 1915. Bisognava decidere se, analogamente a quanto verificatosi nel settore sportivo, ai cattolici convenisse inserirsi nel Corpo nazionale giovani esploratori italiani oppure dare il via a un’organizzazione autonoma. Alla fine prevalse il secondo orientamento. Con la nascita dell’Asci incominciava il vero e proprio cammino dello scautismo cattolico. Esso, oltre ad avvalorare gli elementi tipici della proposta di Baden-Powell (formazione del carattere, cura della dimensione fisico-igienica, vita all’aria aperta, sviluppo delle abilità manuali, gusto dell’avventura, senso civico, servizio al prossimo), mise subito in luce la preoccupazione di promuovere nei ragazzi una chiara visione cristiana della realtà, introducendo, fra l’altro, l’insegnamento del catechismo32.
A completamento della nostra rassegna, vanno opportunamente citate alcune esperienze associative, in qualche caso molto vicine a famiglie religiose. Benché di minor incidenza ‘pubblica’ rispetto alla Sgci e alle realtà aggregative a essa riconducibili, hanno non di meno assunto un interessante rilievo ecclesiale e educativo. Pensiamo, innanzitutto, alle Congregazioni mariane. La prima sorse nel 1563 presso il Collegio romano a opera del gesuita belga Jean Leunis. Ebbero un buon successo in Europa sino alla soppressione della Compagnia di Gesù (21 luglio 1773). Momento di particolare importanza per le Congregazioni italiane fu l’incontro a Roma nel settembre 1904, durante il quale vennero poste premesse per lo sviluppo più organico e coordinato di un’esperienza, la cui proposta formativo-spirituale, in analogia con l’Azione cattolica, poggiava sul binomio santificazione personale e apostolato33.
Un altro caso interessante riguardava l’Unione dei cooperatori salesiani, voluta da don Bosco nel 1876 per costituire una rete di laici a sostegno degli ideali e delle iniziative promossi dalla sua Pia società. Animata da don Stefano Trione, nell’arco di un ventennio, essa raccolse in tutto il mondo circa 150.000 adesioni, destinate a costante crescita sia in Italia sia all’estero34.
Per la notevole diffusione fra le giovani degli strati popolari, merita di essere segnalata anche la Pia unione delle figlie di Maria, promossa nel 1864 dal romano don Alberto Passeri. Di carattere parrocchiale, a inizio Novecento raccoglieva migliaia di adesioni. La proposta spirituale e formativa, d’intonazione piuttosto tradizionale, mirava a suscitare viva dedizione all’impegno apostolico in campo educativo e catechistico35.
Dal canto suo, l’associazione delle Figlie di Maria Immacolata Ausiliatrice, ideata da don Bosco e da madre Maria Domenica Mazzarello, prese slancio nel 1895 per merito di don Michele Rua. Durante il rettorato di don Filippo Rinaldi (1922-1931) ottenne largo successo, potendo contare sul sostegno da parte delle suore salesiane presso le giovani frequentanti i loro ambienti educativi (scuole, collegi, oratori)36.
Al termine del primo conflitto mondiale, la Sgci riprendeva il suo cammino sotto la guida di Paolo Pericoli. In una circolare del 18 gennaio 1919, la Società salutava «con entusiasmo» il Partito popolare italiano, reputandolo carico di «promettenti speranze», anche se da esso si sarebbe mantenuta «assolutamente distinta»37.
Nel quadriennio 1919-1922, la Sgci incominciò a fare i conti con il fascismo. In seno al consiglio superiore si fronteggiarono due opposti schieramenti: il primo, con a capo Cesare Ossicini, Renato Vuillermin, Ercole Chiri, Luigi Stefanini, mostrava netta chiusura nei confronti di un movimento politico reputato intrinsecamente anticristiano per l’ideologia della violenza, sperimentata anche con le aggressioni a soci e circoli; il secondo, guidato da Egilberto Martire, scorgeva invece nella compagine mussoliniana un elemento di freno alla crescita della sinistra rivoluzionaria e un possibile alleato per la difesa degli interessi cattolici. Nonostante tensioni e difficoltà, nei primi anni postbellici, la Gioventù cattolica passava dai circa 1.900 circoli del 1919 ai quasi 4.500 del 1922. Per il presidente, la Società doveva fungere, «oggi come ieri», da «educatrice delle nuove generazioni», costituendo «la base di tutto il movimento cattolico in Italia»38.
Dopo la guerra, il problema educativo restava centrale nell’associazione. Pericoli paventava però il rischio, soprattutto nei più generosi, di deragliamento in un attivismo esteriore. Egli non sottostimava certo il valore della testimonianza pubblica di gruppo, ma dinanzi alle gravi sfide in gioco l’accento doveva battere sulla formazione di persone spiritualmente mature e dotate di senso apostolico.
Sul finire del 1919, la Società di Pericoli accoglieva con soddisfazione anche la nascita della Gioventù femminile (Gf) di Azione cattolica. All’origine dell’esperienza si collocava la signorina milanese Armida Barelli, che, dopo i buoni risultati ottenuti in diocesi, fu invitata da Benedetto XV a promuovere l’associazione su scala nazionale39. Nel primo congresso (1919), si contavano già un’ottantina di Consigli diocesani, distribuiti lungo la penisola, ma con prevalenza al Nord rispetto al Sud. Le iscritte ammontavano a circa cinquantamila. Eletta nel 1920 al vertice associativo, la Barelli, che nel frattempo andava sempre più rinsaldando i legami con i protagonisti della nascente Università cattolica del Sacro Cuore (su tutti, padre Agostino Gemelli e monsignor Francesco Olgiati), vi sarebbe rimasta sino al 194640.
Formazione delle dirigenti e delle ‘propagandiste’, cura degli aspetti organizzativi, direzione saldamente unitaria, presidio delle posizioni territoriali raggiunte, impulso costante a dilatare la presenza nelle diocesi contraddistinsero sin dall’inizio la Gioventù femminile, come movimento compatto, combattivo, aperto alle ‘conquiste’ apostoliche.
Di chiara matrice cristocentrica, la spiritualità ‘gieffina’, ricca d’influssi sul versante educativo, poneva in rilievo l’icona del Sacro Cuore, alla quale si saldò ben presto, nella scia del magistero di Pio XI (1922-1939), quella della Regalità di Cristo. L’associazione insisteva sulla necessità di coltivare una robusta ‘vita interiore’ e di tenere fermo il primato della grazia, come presupposti fondamentali per l’apostolato. Responsabilità, senso del dovere, coerenza, letizia, temperanza, laboriosità, prudenza, riservatezza dovevano essere tratti distintivi della giovane di Azione cattolica. Ma, più d’ogni altra virtù, la purezza costituiva la chiave di volta per l’edificazione di una personalità cristiana militante. Moda, ballo, carnevale, romanzi rappresentavano fonti di preoccupazione. Se per la moda la Gioventù femminile giunse a proporre una sorta di versione cattolica all’insegna della castigatezza, riguardo al ballo i divieti di accesso tanto in pubblico quanto in privato furono sempre tassativi.
Con l’avvio delle ‘specializzazioni’ interne (sottosezioni impiegate, signorine, insegnanti, lavoratrici, studenti), emerse anche l’esigenza d’istituire sezioni minori, per facilitare l’avvicinamento all’ingresso fra le socie effettive, fissato al sedicesimo anno di età. Nel 1920 iniziavano il loro cammino le ‘aspiranti’ (12-16 anni), mentre nel 1923 era la volta delle ‘beniamine’ (6-10 anni). Consapevole, inoltre, della crescente importanza e delicatezza della problematica ginnico-sportiva, la Gioventù femminile, sempre nel 1923, diede vita a una propria associazione di settore, denominata Forza e grazia.
Nell’arco di un quinquennio, il programma educativo aveva assunto organica configurazione. Esso, senza scostarsi dal suddetto modello tradizionale di giovane cattolica, proponeva però una non trascurabile novità, dal momento che, sollecitando le socie all’impegno apostolico, favoriva in loro un temperato ‘protagonismo’ ecclesiale (e, in parte, sociale)41.
Anche per la Gioventù femminile, agli esordi si pose il problema del rapporto con il fascismo. La Barelli colse subito l’insanabile contrasto fra la sua intrinseca anima violenta e il cattolicesimo. Da qui il tassativo divieto per le giovani associate di aderirvi42.
Pio XI investì molto sull’Azione cattolica, coinvolgendola nel programma di ‘restaurazione cristiana’ della società. La revisione degli Statuti (1923), da lui sollecitata, ridefinì l’intera struttura associativa intorno a tre punti fondamentali: unità nella molteplicità, perché la distinzione dei diversi rami (Sgci, Gf, Fuci, Universitarie cattoliche, cui si aggiunsero la Federazione italiana degli uomini cattolici e l’Unione fra le donne cattoliche d’Italia) non doveva distogliere dal comune obiettivo pastorale; struttura gerarchica, con il conseguente impegno a osservare ‘disciplina’ e ‘obbedienza’ verso l’autorità ecclesiastica; coordinamento fra le varie sigle associative e fra le loro articolazioni interne.
Nel magistero di Pio XI si precisarono i lineamenti di una vera e propria teologia dell’Azione cattolica. La tesi centrale era riassunta nella formula della «collaborazione» o «partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico, per la difesa dei principi religiosi e morali, per lo sviluppo di una sana e benefica azione sociale, sotto la guida della Gerarchia Ecclesiastica, al di fuori e al di sopra dei partiti politici, nell’intento di restaurare la vita cattolica nella famiglia e nella società»43.
Gli studiosi individuano due fasi nei rapporti fra Azione cattolica e fascismo durante gli anni Venti: la prima, per così dire, di attesa, si protrasse sino al 1924-1925; la seconda, contraddistinta da qualche apertura collaborativa, interessò il periodo della preparazione diplomatica del Concordato fra Stato e Chiesa (11 febbraio 1929).
Va ricordato a questo punto che il fascismo compì un passo decisivo ai fini del controllo socio-ideologico della gioventù, istituendo, nell’aprile 1926, l’Opera nazionale balilla (Onb). Essa doveva provvedere, in ambito extrascolastico, alla formazione fisica e morale di ragazzi, adolescenti e giovani (compresa, per i più grandi, la preparazione militare)44. Alla legge istitutiva seguirono decreti restrittivi verso associazioni che, in qualche modo, potevano ostacolare le iniziative dell’Opera. Gli esiti di ciò furono drammatici per la Fasci e l’Asci, costrette infatti a sciogliersi, rispettivamente, nel 1927 e nel 192845.
La forzata uscita di scena degli scouts cattolici privava l’associazionismo di una voce significativa anche sotto il profilo pedagogico. In espansione durante gli anni Venti, l’esperienza scautistica puntava sulla promozione di personalità giovanili robuste. Tutto doveva tendere alla ‘formazione del carattere’, espressione inclusiva di valori e virtù, come il sentimento dell’onore, la responsabilità, il gusto per la vita, la lealtà, la padronanza di sé, la fiducia nelle proprie possibilità, il coraggio, l’altruismo.
Nei primi anni Venti aveva preso avvio anche lo scautismo femminile, per merito della roveretana Antonietta Giacomelli. La sua Unione nazionale giovinette volontarie italiane si contraddistinse per una proposta educativa di forte impronta civico-patriottica e religiosa, ma non in senso rigidamente confessionale. Tanto bastava per suscitare perplessità o, addirittura, opposizioni in vari ambienti ecclesiali, già sospettosi nei confronti di un metodo pedagogico che prevedeva, anche per le ragazze, uscite e attività all’aria aperta46.
Dopo la soppressione, lo scautismo sopravvisse in alcune iniziative clandestine. Particolarmente significativa fu quella milanese delle ‘Aquile randagie’47. Alla caduta del regime, il sentimento antifascista, a lungo coltivato, indusse parecchi scouts alla scelta resistenziale.
Dal canto suo, la Fuci, all’indomani della ‘Grande guerra’, fece fatica a trovare il passo giusto per imporsi fra la gioventù studiosa. Il caratteristico spirito d’indipendenza le aveva attirato riserve anche da parte della Santa Sede. Non per nulla, l’ipotesi di controllare meglio la Federazione, inquadrandola come sezione della Sgci, trovò sostenitori fra le file della gerarchia e non. Ciò valse pure per le Universitarie cattoliche, che, dietro l’impulso di Maria Carena, all’inizio degli anni Venti incominciarono ad attivarsi con propri circoli. Erano in molti (compresa la Barelli) a non vedere di buon occhio il costituirsi delle studentesse in associazione autonoma, perché ciò – a loro dire – avrebbe indebolito il movimento giovanile cattolico e sottratto alla Gioventù femminile elementi preziosi per i ruoli dirigenziali. Pertanto, in avvio del pontificato di Pio XI le Universitarie dovettero impegnarsi nella difesa dell’autonomia associativa. Fu una battaglia difficile, ma, alla fine, vinta. Con la prima presidente nazionale, Maria De Unterrichter (1926-1928), si apriva per le ‘fucine’ una stagione di significativa dedizione culturale e apostolica fra la gioventù studiosa48.
Nel 1925, la Santa Sede, indispettita dal fatto che la Fuci aveva posto il congresso di Bologna sotto l’alto patrocinio del re, in una fase nella quale – ricordiamo – non era stata ancora giuridicamente risolta la ‘questione romana’, intervenne duramente, puntando alla destituzione dell’assistente ecclesiatico, monsignor Luigi Piastrelli e del presidente Pietro Lizier. L’anno successivo furono rispettivamente sostituiti da don Giovanni Battista Montini, collaboratore presso la Segreteria di Stato, e Igino Righetti, del circolo universitario romano. Sino alla Conciliazione intercorse un triennio denso di problemi per la Federazione, a seguito di vari e diversificati motivi: il rapporto sempre più teso con i Gruppi universitari fascisti (Guf)49, insofferenti di altre presenze organizzate negli atenei; l’innesto nelle file federative di elementi favorevoli al regime; le relazioni difficoltose con la gerarchia vaticana, non disposta a tollerare, nel momento in cui si stava avviando a conclusione la partita concordataria, azioni di dissenso del laicato militante verso il governo. Non è casuale che qualcuno reputasse persino preferibile sciogliere la Federazione, piuttosto che sottostare a limitazioni umilianti50.
Consapevoli della delicata situazione, Montini e Righetti s’impegnarono subito nel rilancio dell’attività ‘fucina’. Elaborazione d’idee per una rinnovata pastorale della cultura, superamento dello iato fra mondo moderno e Chiesa, formazione di coscienze cristiane solide e aperte costituivano tre capisaldi dell’opera intrapresa dai nuovi dirigenti. Alcuni scritti dell’assistente furono raccolti nel volume Coscienza universitaria (1930). Montini vi prospettava un modello di personalità giovanile chiara, propositiva, irrorata da ottimismo. L’universitario cattolico doveva essere un giovane riuscito e con vivo senso della militanza, capace di andare oltre le frammentazioni correnti, in modo da ricostituire l’unità fra pensiero e vita, fede e ragione, Vangelo e cultura51.
Per quanto concerne la Sgci, osserviamo che essa, nonostante la restrittiva legislazione e le continue vessazioni fasciste ai danni dei circoli, attraversò nei secondi anni Venti un periodo di progressivo consolidamento, sotto la guida di Camillo Corsanego (1922-1928). Nel 1929 le adesioni arrivarono a circa 130.000, con una presenza distribuita ormai in tutto il paese: cifra, considerevole, ma distante da quella della Gioventù femminile, che nel 1928 annoverava quasi mezzo milione di socie. Per entrambe le associazioni la scommessa era di riuscire a mantenere in equilibrio la sempre più evidente dimensione ‘di massa’ con la proposta di alto profilo educativo-spirituale.
Alla stregua di quanto verificatosi nella Gioventù femminile, anche nella Gioventù maschile, con il 1923 mosse i primi passi la Sezione aspiranti (ragazzi dagli 11 ai 15 anni), reputata vero e proprio ‘vivaio’ dell’associazione52. Inoltre, nel 1925, sotto la direzione dell’Unione fra le Donne di Azione cattolica, prese avvio l’Associazione fanciulli cattolici (6-10 anni)53.
La vigorosa espansione dei rami giovanili dell’Azione cattolica e l’investitura particolare a essi attribuita dallo stesso papa finirono con il porre un po’ in ombra altre esperienze associative, determinando difficoltà d’intesa, protrattesi nel tempo, fra queste ultime e i primi. Furono i casi delle Congregazioni mariane, in crescita negli anni Venti, e delle Compagnie salesiane, forme aggregative intraoratoriane che, volute da don Bosco, furono anche in seguito reputate indispensabili per l’organicità di una proposta educativa fedele al fondatore.
Dopo le tensioni seguite alla soppressione degli scouts, sembrava un ragionevole punto di equilibrio il compromesso raggiunto con l’art. 43 del Concordato, che recitava: «Lo Stato italiano riconosce le organizzazioni dipendenti dall’Azione cattolica, in quanto esse, siccome la Santa Sede ha disposto, svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l’immediata dipendenza della gerarchia della Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principii cattolici». Ma la relativa calma intorno alla questione giovanile durò poco.
La pretesa del governo di ridurre l’iniziativa dell’Azione cattolica al puro ambito ‘religioso’ non poteva trovare d’accordo i dirigenti dell’associazione, secondo i quali la collaborazione all’apostolato gerarchico implicava un impegno formativo e operativo ad ampio raggio, compreso lo stesso terreno sociale. Per questo, nel 1930, furono promosse le Sezioni professionali (fra le quali ebbe un certo successo quella dei maestri). La scelta costituì pretesto per incrementare le vessazioni ai danni dei circoli giovanili. Dopo che Giovanni Battista Giuriati, segretario del Partito nazionale fascista, il 21 aprile 1931, a Milano, aveva accusato la Gioventù cattolica di sconfinare in attività parapolitiche e sindacali, il papa in persona, il 26 dello stesso mese, rispondeva con una lettera pubblica all’arcivescovo di quella città, Alfredo Ildefonso Schuster. Nel progressivo montare della tensione, Mussolini il 29 maggio ordinò la chiusura dei circoli cattolici. Un mese dopo il pontefice replicò in forma solenne con l’enciclica Non abbiamo bisogno. Egli, opponendosi, ancora una volta, alla concezione totalitaria dello Stato e alla conseguente visione monopolistica dell’educazione, secondo quanto aveva argomentato nella Divini Illius Magistri (31 dicembre 1929), respingeva come false le accuse mosse ai giovani cattolici e sollecitava le autorità governative al pieno rispetto del Concordato. All’inizio di settembre, Santa Sede e governo trovarono una soluzione compromissoria alla difficile crisi; soluzione che, ovviamente, implicava la revisione degli Statuti. Nel nuovo testo veniva ribadito il carattere rigorosamente religioso dell’associazione (ora denominata Gioventù italiana di azione cattolica – Giac) e sottolineato il suo profilo diocesano (per cui competeva ai vescovi la scelta degli assistenti ecclesiastici e dei dirigenti laici)54.
La crisi del 1931 infranse le illusioni di chi era propenso a credere che il fascismo, come disse Sturzo, «potesse cattolicizzarsi». Ma, una volta attutitisi i contraccolpi dello scontro, per circa un sessennio, l’Azione cattolica, almeno a livello centrale, si attestò su posizioni di sostanziale consenso verso le principali scelte governative (propaganda demografica, espansione in Africa Orientale, resistenza autarchica). Nel consiglio superiore vi era chi coltivava ancora il convincimento di riuscire, nonostante tutto, a permeare di spirito cattolico il fascismo; altri, più pragmaticamente, accettavano di dovere fare i conti con esso per sopravvivere, altri ancora temevano che, prendendo le distanze dal regime, l’associazione potesse essere accusata di antipatriottismo. A livello locale, si registrarono, in proposito, posizioni articolate. Il diffuso consenso non impedì tuttavia che, da varie parti, emergessero voci critiche: in parecchi militanti, infatti, rimase ben ferma la consapevolezza di un’irriducibile ‘alterità’ della Giac rispetto al fascismo e alle sue organizzazioni.
Negli anni Trenta, la Gioventù maschile andò via via rafforzandosi come associazione di massa. Ciò implicava il rischio di enfatizzare gli aspetti organizzativi e di visibilità esterna rispetto a quelli formativo-spirituali. D’altra parte, la Giac doveva misurarsi con un contesto socio-culturale massificato, contraddistinto da forme sempre più estese di mobilitazione, dall’abile ricorso alle moderne tecniche comunicative, dallo sviluppo di mentalità e linguaggi collettivi. Luigi Gedda, nominato presidente nazionale nel 193455, diede subito risalto al problema dell’organizzazione, puntando su un modello associativo forte numericamente, coeso al suo interno, capace di proposte dinamiche. Esso doveva costituire punto di riferimento per l’intero associazionismo cattolico e, nel medesimo tempo, esperienza concorrenziale nei riguardi degli organismi fascisti rivolti ai giovani, circa i quali va detto che nel 1937 fu istituita la Gioventù italiana del littorio, al cui interno fu assorbita l’Onb56.
Durante la presidenza Gedda (protrattasi sino al 1946), la Giac conobbe un ulteriore moto espansivo in tutto il paese, accompagnato da uno sforzo per migliorare gli itinerari formativi, irrobustire la stampa associativa, perfezionare la cosiddetta ‘tecnica apostolica’. Ciò richiese un intenso lavoro, anche al fine di sintonizzarsi sulle strategie di comunicazione e di mobilitazione tipiche della società di massa57. Gli indirizzi educativi e organizzativi proposti dal Centro nazionale trovavano ampia corrispondenza su scala diocesana. In alcuni contesti, però, la convergenza di fondo con tali orientamenti non escludeva la possibilità di autonoma ricerca ed elaborazione. Fu il caso della Gioventù cattolica milanese, che, sotto la guida di Giuseppe Lazzati (1934-1945), si propose con una sua originale e incisiva capacità di proposta pedagogico-spirituale58.
Considerazioni in parte analoghe a quelle per il ramo maschile valgono per la Gioventù femminile. Superata «la grande prova» (Armida Barelli) del 1931, l’associazione ebbe di nuovo notevole impulso. Nel 1938, contava quasi un milione di socie. La sfida consisteva nel riuscire a coniugare la fisionomia di massa con una proposta di alto profilo formativo. Nel periodo centrale degli anni Trenta, la Gioventù femminile, non immune dal clima di esaltazione nazional-imperialistica, forniva un’immagine di sé compatta, capace di proposte serie, ma forse – notiamo – poco propensa a stimolare il dibattito interno e a suscitare tratti di sano anticonformismo socioculturale59.
Pure nella Fuci la crisi del 1931 provocò inevitabili ripercussioni. Gli accordi raggiunti con il governo furono accolti con perplessità. Oltretutto, il forzato cambiamento del nome in Associazioni universitarie di Azione cattolica, come segno di discontinuità rispetto al passato, risultava difficile da accettare. A quel punto, non vi era via d’uscita se non quella di provare a ‘convivere’ con il regime e con i Guf. D’altra parte, fra i ‘fucini’ i filofascisti si attestavano ormai intorno alla metà degli iscritti, rendendo quindi non semplice una linea di ‘disincanto’ politico-culturale. In quella difficile congiuntura maturarono (febbraio 1933) le dimissioni di Montini. Gli succedette monsignor Guido Anichini, al quale fu affiancato un viceassistente, il genovese don Franco Costa. Igino Righetti, pur fra crescenti tensioni, rimase al suo posto sino al novembre 193460, quando venne sostituito dal veronese Giovanni Ambrosetti. Un altro genovese, don Emilio Guano, fu nominato nel 1935 viceassistente per le Universitarie. Nonostante le difficoltà, i ‘fucini’ tennero fermo il tradizionale impegno per maturare coscienze credenti, capaci di sintesi fra fede e vita, aperte al dialogo con la cultura del tempo, consapevoli della dimensione vocazionale dello studio, disponibili all’apostolato. Nel maggio del 1939 fu eletto presidente il barese Aldo Moro, che si trovò pertanto a guidare l’associazione in una congiuntura politica interna ed esterna sempre più drammatica61.
Dinanzi alla legislazione antiebraica del 1938, fra molti giovani di Azione cattolica emerse chiara la consapevolezza d’essere ormai al passaggio decisivo del confronto-scontro con il regime. In quella congiuntura, evento di grande rilievo fu l’elezione (2 marzo 1939) di Pio XII. Nel mese di maggio egli nominò una Commissione cardinalizia per l’alta direzione dell’Azione cattolica in Italia, con il compito di presiedere alla riforma degli Statuti. Il nuovo testo, frutto di un iter travagliato, che vide parecchi vescovi opporsi al tentativo di ‘clericalizzare’ l’associazione, fu approvato nel giugno del 194062. Dal 14 del mese l’Italia era entrata in guerra. Incominciava per il paese, per la Chiesa e per l’associazionismo cattolico una stagione di pesanti incognite e sofferenze.
Va qui opportunamente ricordato che l’avvento dell’Opera nazionale balilla ebbe ricadute anche sugli oratori. L’impossibilità di proseguire con i congressi nazionali, come avvenne a inizio secolo, determinò un progressivo isolamento delle singole esperienze entro i confini di ciascuna diocesi o delle congregazioni di riferimento. Inoltre, le attività oratoriane, per evitare, anche in tal caso, d’interferire con quelle dell’Onb, subirono un certo restringimento agli aspetti formativo-spirituali, catechistici e ludici, con esclusione di manifestazioni pubbliche e limitazione per quelle sportive.
Se consideriamo, a titolo esemplificativo, la diocesi ambrosiana, osserviamo che il cardinal Schuster, nel febbraio 1930, approvò il nuovo Statuto della Fom. Da esso emergeva, per l’appunto, una sottolineatura del carattere ‘religioso’ dell’oratorio, il cui scopo principale, secondo quanto a più riprese ribadì il presule, doveva essere l’educazione cristiana ‘di base’, mentre la Gioventù cattolica, che trovava lì il «semenzaio» per i propri soci, mirava alla formazione apostolica63. In una diocesi vasta come quella ambrosiana, la realtà oratoriana degli anni Trenta, pur rispettando gli indirizzi generali del vescovo, presentava inevitabilmente fisionomie diverse, legate ai contesti locali, parrocchiali e alla personalità dei coadiutori. Fra questi ultimi vi erano alcuni non contrari al fascismo (talvolta per malinteso spirito patriottico), altri più o meno neutrali, altri ancora molto diffidenti e perciò convinti di dovere trasmettere a ragazzi e giovani il senso dell’irriducibile ‘differenza’ cristiana.
In casa salesiana, con la canonizzazione di don Bosco (1934) si assistette a una graduale lievitazione del consenso, almeno formale ed esterno, verso il regime. Non sorprende allora che i vertici della congregazione si premurassero di frenare i confratelli più insofferenti, come nel caso di coloro che, a Torino e a Roma, dopo i fatti del 1931, avevano assunto esplicita difesa degli oratoriani vittime delle violenze fasciste. A ogni modo, la presa di distanza dalla politica, teorizzata da don Bosco, durante il ventennio, rimase scelta precisa fra i Salesiani, convinti che uno schieramento in quel campo avrebbe anche potuto accendere passioni pedagogicamente negative. Su questa linea si collocò, del resto, il rettor maggiore don Pietro Ricaldone, che guidò con energia la congregazione dal 1932 al 195164.
Un atteggiamento pressoché costantemente critico verso il fascismo, motivato da ragioni etico-religiose, fu invece quello dei padri della ‘Pace’ di Brescia (ricordiamo Paolo Caresana, Giulio Bevilacqua, Ottorino Marcolini, Carlo Manziana). La loro refrattarietà nei confronti del regime segnò, in maniera prudente ma chiara, anche l’impostazione educativa dell’oratorio, favorendo così nei giovani cammini di genuina libertà, sfociati, poi, per alcuni, nella scelta resistenziale65.
La guerra privava oratori e associazioni di molti dirigenti. Pressoché ovunque, vi fu un forte rallentamento delle attività. Dopo la caduta del fascismo, le ben note vicende del biennio 1943-1945, aggravarono la già precaria vita negli ambienti oratoriani e associativi. Molte loro sedi nelle città del Centro-Nord furono colpite dai bombardamenti.
In quella situazione di estrema difficoltà, la riflessione dei cattolici maggiormente sensibili al futuro del paese trovò nei radiomessaggi natalizi di Pio XII indicazioni e incoraggiamenti per pensare a un «nuovo ordinamento», nazionale e internazionale, incentrato sul valore della persona umana e intonato ai valori democratici66. Dopo la Liberazione, occorreva ricostruire il paese dalle fondamenta. Il tema della democrazia, che tanto animava il dibattito del tempo, registrando in sede di Assemblea costituente il luogo di più appassionato confronto, trovò sensibile anche l’associazionismo giovanile cattolico.
All’indomani della guerra la Giac di Gedda tentò di estendere il raggio d’iniziativa, proponendosi come guida e riferimento per l’intero campo associativo. Se ne ebbe prova anche dalla decisione, maturata sul finire del conflitto, di attivare alcune «opere» specializzate per raggiungere i giovani nei loro principali contesti di vita (scuola, lavoro, tempo libero, sport). A ciò rispondeva l’avvio, nel 1944, di Gioventù studentesca, Gioventù operaia e del Centro sportivo italiano (Csi).
Sennonché, la pretesa egemonica della Giac alimentò tensioni con associazioni comprensibilmente gelose della loro autonomia. Fu il caso della Fuci, per nulla propensa ad accettare forme di subordinazione organizzativa e culturale. Discorso analogo valse per le appena nate (1944) Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), che, non sentendosi rappresentate da Gioventù Operaia, decisero di promuovere nel 1947 Gioventù Aclista. Anche gli scouts si sottrassero al tentativo di rilanciare l’Asci come specializzazione interna della Giac, scegliendo senza tentennamenti la piena autonomia.
Le difficoltà incontrate dal disegno della Gioventù cattolica suscitarono rammarico nei vertici nazionali, perché vedevano indebolirsi la possibilità di dare vita a un compatto movimento giovanile, in vista del probabile scontro con le organizzazioni comuniste.
Resta comunque vero che il nuovo statuto dell’Azione cattolica (novembre 1946) prospettava una soluzione accettabile dei rapporti interassociativi, salvaguardando, nel medesimo tempo, l’autonomia delle diverse sigle e l’esigenza di una loro unità d’intenti, anche operativa, sulle questioni di maggiore rilevanza civile e religiosa67.
La rottura dell’intesa fra i partiti antifascisti (1947) e le elezioni del 18 aprile 1948, con il successo della Democrazia cristiana sul fronte social-comunista, delinearono una nuova stagione nella vita politica, carica di ripercussioni per lo stesso associazionismo giovanile. Dopo la vittoria democristiana, andò gradualmente crescendo in larghi strati del cattolicesimo italiano una sorta di ‘sindrome da maggioranza’. Intanto, alla guida della Giac, nel 1946, veniva nominato Carlo Carretto68, fedelissimo (allora) di Gedda, passato alla testa degli Uomini cattolici. L’associazione risultava in continua espansione: dai 347.000 iscritti del 1945 arrivò ai 583.000 del 1957. A uno sguardo esterno, la Gioventù cattolica dei primi anni Cinquanta, periodo – ricordiamo – di consolidamento del ‘centrismo’ politico, offriva un’immagine di compattezza e di forza. Eppure, sotto la superficie, covavano fermenti e qualche inquietudine. In quella stagione di «onnipotenza» cattolica69, si assistette, non senza stupore, alle dimissioni, nel 1952, di Carretto, contrario all’accordo fra Segreteria di Stato e Gedda (quest’ultimo da poco nominato presidente della giunta centrale di Azione cattolica), per mobilitare l’intera associazione a sostegno di un’alleanza clerico-fascista in funzione anticomunista alle elezioni del comune di Roma. Di lì a breve (1954), a conferma di un disagio strisciante, si verificò la destituzione, da parte dell’autorità ecclesiastica, del successore di Carretto, il rodigino Mario Rossi, interprete di posizioni ecclesiali e culturali di notevole apertura. Queste vicende si collocavano nella fase di ‘eclissi’ del pontificato di Pio XII, sempre più incline a valutazioni di tipo ‘apocalittico’ sulla situazione del tempo70.
Nei controversi anni Cinquanta, le associazioni giovanili cattoliche, premiate sul piano delle adesioni, mantenevano la tradizionale distinzione per sessi. In Azione cattolica, accanto alla Giac figurava la Gioventù femminile, entrambe dotate di salda e autonoma struttura organizzativa. Fra gli universitari, la Fuci prevedeva la medesima bipartizione maschile e femminile. Negli scouts, a fianco dell’Asci, risultava attiva dal 1943-1944 l’Associazione guide italiane (Agi), articolata per fasce di età (coccinelle, 8-11 anni, guide, 11-15, scolte, 16-21). In campo sportivo, al Csi corrispondeva la Federazione attività ricreative (Fari), promossa dalla Gioventù femminile. Forse l’unico caso di gruppo misto (e anche a motivo di ciò discusso) fu Gioventù studentesca (Gs) di Milano, che, nonostante le origini interne alla Giac, dal 1954-1955 intraprese un percorso di progressiva autonomia, riconoscendosi sempre più strettamente nelle posizioni teologico-culturali e educative dell’assistente ecclesiastico don Luigi Giussani71.
Per quanto concerne, in particolare, l’associazionismo femminile del primo quindicennio post-bellico, conviene precisare che esso, quantunque conservasse una visione prevalentemente tradizionale della giovane, nondimeno, favorì, seppure con gradazioni diverse, l’apertura socio-culturale delle aderenti, mostrando, nel medesimo tempo, attenzione ai loro problemi concreti, compresi quelli della vita affettiva e socio-professionale. Il gruppo ecclesiale, non la famiglia e la scuola, costituì, per molte ragazze del tempo, luogo di maturazione vocazionale, di affinamento delle responsabilità civili, di preparazione all’esperienza coniugale72.
Se allarghiamo lo sguardo agli oratori, notiamo che essi, superate le difficoltà dell’immediato dopoguerra, con il ripristino, in non pochi casi, degli edifici danneggiati e la sistemazione dei quadri direttivi, negli anni Cinquanta conobbero un interessante processo espansivo. Rispetto a quelli femminili, i maschili conservavano una capacità d’iniziativa più ampia e articolata soprattutto nei campi ricreativo e sportivo, che assicurava maggiore incidenza a livello territoriale. L’oratorio del dopoguerra mantenne fede al suo carattere popolare. Il programma educativo proposto tentava, per la verità, non sempre in modo efficace, di armonizzare i momenti di formazione religiosa e catechistica con quelli d’intrattenimento ludico-ricreativo (gioco, sport, escursionismo, teatro, musica) e di sensibilizzazione socio-culturale (‘leva del lavoro’, cineforum, cicli d’incontri tematici ed altro ancora). Proprio per l’intrinseca ‘popolarità’, l’oratorio rivestì un importante ruolo di socializzazione giovanile73.
Gli eventi ecclesiali e socio-politici fra anni Cinquanta e Sessanta (pontificato di Giovanni XXIII, concilio ecumenico Vaticano II, primo ‘disgelo’ fra Est e Ovest, governo di centro-sinistra, boom economico e relativo aumento dei consumi di massa, sviluppo della televisione e della motorizzazione privata, scuola media unica) concorsero, seppur in diversa misura, a cambiare profondamente il nostro paese. In particolare, dopo il 1960, nel mondo giovanile andavano emergendo mutamenti di sensibilità, aspirazioni e stili di vita nuovi. L’espansione dei fenomeni hippy e beat, la difficoltà crescente di comunicazione con gli adulti, la diffusione di spinte anti-istituzionali, il distacco progressivo dalla ‘religione-di-Chiesa’ rivelavano un’inquietudine diffusa e un desiderio acuto, ancorché non ben definiti, di cambiamento.
Associazioni giovanili cattoliche e oratori riuscirono a comprendere quanto, in quel periodo, stava germinando, così da predisporre adeguate strategie d’intervento? È impossibile fornire una risposta univoca, benché non sembri azzardata l’ipotesi di un certo ritardo nel cogliere le profonde novità in evoluzione. Del resto, il generale calo degli iscritti costituiva un chiaro segnale di disaffezione nei confronti di esperienze aggregative sin lì attraenti.
Nella maggioranza delle associazioni e degli oratori il Concilio sollecitò una riflessione sulla propria identità e sui progetti formativi, favorendo processi di rinnovamento. Ma questa tensione innovatrice s’intersecò, a partire dal 1968, con la contestazione giovanile e con il dissenso ecclesiale, determinando anche per parecchi di quegli ambienti forti travagli e laceranti contrasti74.
Il ‘fattore politico’ incise notevolmente nelle esperienze delle associazioni e degli oratori del periodo. Rispetto ad esso, vi furono tre linee di tendenza: a) ‘depoliticizzazione’, come per l’Azione cattolica, che, dopo stagioni di collateralismo con la Democrazia cristiana, sotto la guida di Vittorio Bachelet (1964-1969), definiva senza equivoci la propria missione in chiave di ‘scelta religiosa’; b) ‘coscientizzazione’ verso l’impegno sociale, espressa, anche se con varia sensibilità, dagli scouts, da Gioventù aclista (per altro, coinvolta nel travaglio della ‘scelta socialista’ delle Acli: 1970) e dai nuovi gruppi di volontariato terzomondiale (si pensi a Mani tese) presenti in molti oratori; c) ‘massimalismo politico’ di tenore anticapitalistico, tipico di recenti forme aggregative, con larga rappresentanza giovanile, come le Comunità di base e i Cristiani per il socialismo. Insomma, fra anni Sessanta e Settanta il ‘fattore politico’ scatenò, nelle associazioni e negli oratori, passioni, conflitti, velleitarismi e numerosi abbandoni. Molti, non di rado i più generosi, lasciarono gli ambienti ecclesiali, reputandoli solidali con il mantenimento dello status quo.
Anche il ‘fattore educativo’ ebbe notevole peso nei contesti aggregativi in esame. Dietro l’impulso conciliare, maturò, infatti, su larga scala la consapevolezza di dovere rivedere gli itinerari di formazione. In alcuni casi però l’ansia di cambiamento produsse superficiali commistioni pedagogiche con orientamenti culturali in auge (su tutti il marxismo). Ma, a parte ciò, l’esigenza di una mediazione educativa degli indirizzi teologico-pastorali del Vaticano II divenne sempre più accesa, sollecitando confronti serrati anche su questioni tradizionalmente controverse, come la coeducazione. Con impostazione veramente innovativa, il nuovo statuto dell’Azione cattolica (1969) prefigurò un settore giovani unitario in sostituzione dei precedenti rami distinti della Giac e della Gioventù femminile. Nel 1974, la scelta coeducativa condusse alla fusione dell’Asci e dell’Agi nell’Agesci. Anche negli oratori si registravano fermenti volti a superare le tradizionali, rigide separazioni di genere75.
Non tutte le realtà associative raccolsero però con la medesima prontezza e disponibilità le sollecitazioni del Concilio. La ‘cultura conciliare’, con le sue aperture biblico-teologiche e pastorali, divenne elemento distintivo dell’Azione cattolica, della Fuci, delle Congregazioni mariane (denominate, dopo l’assemblea mondiale del 1967 Comunità di vita cristiana) e di molti contesti oratoriani. In altri casi, non incise con particolare efficacia, dal momento che si preferì procedere con gli indirizzi spirituali e educativi sin lì sperimentati, ‘autonomi’ e, talvolta, ‘paralleli’ rispetto agli orientamenti del Vaticano II. A tale riguardo, risulta esemplare la vicenda di Comunione e liberazione (Cl), che dal 1969 si propose come sigla nuova, intesa a rilanciare e rinnovare l’esperienza della Gioventù studentesca di don Giussani, entrata da qualche tempo in crisi per profondi travagli interni76.
Il riferimento a Comunione e liberazione ci introduce nel capitolo dei movimenti ecclesiali che, dagli annni Settanta, hanno conosciuto notevole fioritura, incontrando il favore anche di alti esponenti della gerarchia. Oltre a Comunione e liberazione, ricordiamo, ad esempio: i Focolarini (sorti a Trento alla fine della guerra per iniziativa di Chiara Lubich e presenti fra i giovani con il Movimento Gen); i Neocatecumenali (avviati nel 1964 in Spagna da Kiko Argüello); i Gruppi del rinnovamento nello Spirito (risalenti anch’essi agli anni Sessanta, con origini negli Stati Uniti); la Comunità di Sant’Egidio (promossa a Roma nel 1968 da Andrea Riccardi)77.
Quali tratti hanno via via contraddistinto queste (e simili) realtà aggregative fra loro diverse per sensibilità culturali, teologiche e educative? In che cosa esse si sono differenziate rispetto alle tradizionali associazioni?78.
Non v’è dubbio che i movimenti ecclesiali, sin dai loro inizi, si siano presentati con caratteristiche all’apparenza ‘più sciolte’ rispetto all’associazionismo ‘storico’, mancando, infatti, di statuto, di tessera di appartenenza, di regole scritte per l’elezione democratica dei dirigenti ecc. In generale, essi si sono configurati (e si configurano) come collettività consapevoli di condividere una comune speranza. Hanno aggregato (e aggregano) gli aderenti intorno a leader carismatici, efficaci nel propugnare alcune idee-forza, una teoria rivolta alla prassi e nel proporre esperienze coinvolgenti di natura spiritual-amicale.
Nella stagione postconciliare i rapporti fra le associazioni di lunga tradizione (Azione cattolica, in primis) e i nuovi movimenti hanno attraversato fasi altalenanti, non prive di tensioni. Di recente, la conflittualità sembra avere ceduto il passo ad atteggiamenti più distesi e di vicendevole ascolto, sulla scorta del convincimento secondo cui la diversità dei carismi costituisce una ricchezza per l’intera vita ecclesiale. Le differenze non sono annullate, ma accolte e riconosciute con maggiore rispetto reciproco. A favorire questo cammino di mutua apertura ha senz’altro contribuito l’avvio, in molte diocesi, di consulte o coordinamenti pastorali dell’associazionismo laicale.
Tutto ciò va ricordato, avendo nel medesimo tempo presente che il Congresso mondiale dei movimenti, promosso nel maggio 1998 dal Pontificio consiglio per i laici e concluso dall’incontro in piazza San Pietro con Giovanni Paolo II, ha costituito un evento particolarmente significativo. Nell’occasione, il papa insistette sull’importanza della recente fioritura di carismi e d’inedite forme aggregative, sottolineandone le potenzialità in ordine alla stessa ‘nuova evangelizzazione’. Questo non gli impediva però di richiamare l’attenzione anche su alcuni aspetti problematici, connessi allo sviluppo di simili realtà ecclesiali. La loro «novità inattesa, e talora persino dirompente – disse – […] non ha mancato di suscitare interrogativi, disagi e tensioni; talora ha comportato presunzioni ed intemperanze da un lato, e non pochi pregiudizi e riserve dall’altro». Additava, pertanto, «una tappa nuova: quella della maturità ecclesiale» dei movimenti, che doveva altresì implicare genuina collaborazione con le Chiese locali e le parrocchie79.
Se si abbracciano con uno sguardo d’insieme le variegate esperienze di associazioni e movimenti giovanili nella stagione postconciliare (dove figurano anche realtà legate a famiglie religiose: Taizé, Salesiani, Francescani, Carmelitani), possiamo dire che, accanto a significativi elementi di convergenza teologico-spirituale (apertura alla Bibbia, sensibilità cristocentrica, circolarità fra fede e vita, dimensione comunitaria), risultano motivi d’indiscutibile differenziazione. Essi toccano i profili culturale, ecclesiale, politico, con inevitabili ricadute sul piano educativo. Spie rivelatrici dei diversi orientamenti si accendono, allorché s’interroga ciascuna di quelle realtà su aspetti ‘sensibili’, come, ad esempio, l’idea di Chiesa e il suo rapporto con il mondo, la figura e il ruolo del fedele laico, l’interpretazione e il giudizio sulla cultura moderna, le opzioni partitiche. Va da sé, dunque, che le differenti posizioni su tali capitoli determinano esiti disomogenei circa il profilo di credente da promuovere attraverso l’opera formativa. Ma l’approfondimento lungo queste direzioni ci porterebbe lontano80.
Nel ripercorrere le vicende degli oratori e delle associazioni giovanili dopo l’Unità abbiamo potuto notare la loro rilevanza entro il complesso dipanarsi della vita della Chiesa e del cattolicesimo italiani, continuamente sollecitati a misurarsi con eventi politico-istituzionali e socio-culturali di grande, talvolta drammatica, problematicità. Su quelle realtà educative l’investimento ai vari livelli ecclesiali è risultato costante, trattandosi di ‘strumenti’ pastorali reputati importanti per assicurare all’Italia un futuro coerente con la sua tradizione religiosa. Se fra Otto e Novecento la preoccupazione di tutelare le nuove generazioni dagli influssi crescenti del laicismo indusse il mondo cattolico a moltiplicare le energie educative anche nei settori extrascolastici, fu però con il fascismo che la ‘questione giovanile’ s’impose agli occhi della Chiesa in tutta la sua gravità, a motivo del rischio di una mortale invasione di campo da parte del regime. Quando si esaminano le iniziative postunitarie dei cattolici per l’educazione della gioventù, ci rendiamo conto di toccare un aspetto centrale della «storia vissuta del popolo cristiano» (J. Delumeau). In tale senso, oratori e associazioni hanno rappresentato una tessera rilevante del cammino della Chiesa in Italia: senza la loro vitalità e il loro contributo educativi, l’intera esperienza della comunità ecclesiale sarebbe rimasta notevolmente depotenziata.
Ma, il valore storico delle realtà in parola supera l’orizzonte cattolico, per proporsi in tutto il suo rilievo nazionale. Lo attesta l’entità del servizio di formazione svolto, che, in un secolo e mezzo, ha interessato milioni di ragazzi-ragazze e giovani. Un fenomeno di tali proporzioni s’impone già per la forza dei numeri. Tuttavia, ad esso conferisce ulteriore credito la qualità del contributo educativo offerto. Oratori e associazioni giovanili, pur con gli inevitabili limiti, hanno mirato a un’educazione cristiana aperta al senso della responsabilità storica, da interpretare e vivere nei vari contesti ‘feriali’ di partecipazione (famiglia, scuola, lavoro, società…). Insomma, da tali ambienti ed esperienze è scaturito, ancorché con diversa incisività, un contributo per la maturazione di personalità giovanili consapevoli dell’inscindibile nesso fra fede ed esistenza concreta. Educare «buoni cristiani e onesti cittadini» era, come sappiamo, l’obiettivo perseguito da don Bosco sino dagli inizi di Valdocco. Possiamo ben dire che la ricerca di una valida sintesi nel senso indicato costituì tensione costante di molti operatori e operatrici nei campi oratoriano e associativo. Con esiti – ribadisco – di diversa qualità ed efficacia. È comunque inconfutabile sul piano storico il fatto che l’opera educativa svolta dagli oratori e dalle associazioni giovanili cattoliche abbia concorso a formare intere generazioni di giovani uomini e donne, consapevoli di doversi disporre, proprio a motivo della fede, con senso di maggiore responsabilità di fronte agli impegni della vita privata e pubblica.
Dirò di più: nell’avvio della stagione repubblicana non pochi rappresentanti della classe dirigente, ai livelli amministrativo, sociale, economico, politico, provenivano proprio dall’associazionismo cattolico. In virtù della rilevanza socio-educativa assunta da oratori e associazioni, diventa allora necessario conoscere da vicino anche le loro vicende e il contributo offerto, se si vuole comprendere, nella sua intera estensione, l’evoluzione dei problemi, delle mentalità, del ‘costume’ della gioventù italiana nei centocinquant’anni dall’Unità. Tutto ciò induce a ribadire l’importanza della ‘questione giovanile’ nella complessiva ricostruzione delle dinamiche socio-culturali e politiche che hanno contraddistinto il cammino postunitario del nostro paese81. Ne consegue, insomma, che per una storia realmente ‘globale’ dell’Italia unita deve essere riconosciuto un posto significativo anche agli oratori e alle associazioni giovanili di consolidata tradizione, giungendo sino al recente, variegato fenomeno dei movimenti (sui quali, però, la riflessione storiografica sta muovendo i primi passi). Quanto ho cercato d’illustrare, seppure in forma necessariamente schematica, penso possa confortare simile affermazione.
1 Per un primo accostamento alla problematica resta sempre di grande utilità R. Aubert, F. Fonzi, F. Traniello, et al., Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto convegno di storia della Chiesa (La Mendola 1971), Milano 1973.
2 Cfr. L. Osbat, Movimento cattolico e questione giovanile, in DSMC, I, 2, pp. 84-96.
3 Cfr. G. Barzaghi, Tre secoli di storia e di pastorale degli Oratori milanesi, Torino 1985, pp. 41-59.
4 Cfr. P. Guerrini, La Congregazione dei Padri della Pace, Brescia 1933.
5 Cfr. L. Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita, Brescia 2006, pp. 9-12.
6 Fra la vasta bibliografia relativa ai primordi dell’opera del prete torinese segnaliamo G. Chiosso, L’oratorio di Don Bosco e il rinnovamento educativo nel Piemonte carloalbertino, in Don Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità. Studi e testimonianze, a cura di P. Braido, Roma 1987, pp. 83-116. Per quanto concerne l’istituzione della Pia società di san Francesco di Sales cfr. P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, I, Vita e opere, Roma 19792, pp. 129-165.
7 Sulla pedagogia oratoriana del fondatore dei Salesiani restano fondamentali gli studi di P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel sec. XIX – Don Bosco, in Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, a cura di P. Braido, 2 voll., Roma 1981: II, Secoli XVII-XIX, pp. 271-389; Id., L’esperienza pedagogica di Don Bosco, Roma 1988.
8 Cfr. Id., L’oratorio salesiano in Italia. ‘Luogo’ propizio alla catechesi nella stagione dei Congressi (1888-1915), «Ricerche storiche salesiane», 2005, 1, pp. 7-87.
9 Cfr. G. Barzaghi, Tre secoli di storia, cit., pp. 209-273, 373-400.
10 Cfr. G. Ponzini, Il Cardinale A.C. Ferrari a Milano 1894-1921. Fondamenti e linee del suo ministero episcopale, Milano 1981, pp. 411-440; E. Apeciti, L’oratorio ambrosiano da san Carlo ai giorni nostri, Milano 1998, pp. 99-131.
11 Lettera pastorale dell’Episcopato Lombardo. L’emigrazione, i giovani chiamati sotto le armi, gli oratorii festivi, la minacciata precedenza dell’atto civile al sacramento del matrimonio, Milano 1899, p. 15.
12 Facciamo conoscere i nostri Oratorii, «L’Eco degli oratorii. Periodico mensile illustrato», 1907, 1, p. 1.
13 Cfr. G. Barzaghi, Tre secoli di storia, cit., pp. 434-440.
14 Cfr. G. Gregorini, Gli oratori, in A servizio del Vangelo. Il cammino storico dell’evangelizzazione a Brescia, III, L’età contemporanea, a cura di M. Taccolini, Brescia 2005, pp. 297-306.
15 L. Caimi, Cattolici per l’educazione, cit., pp. 32-33.
16 Cfr. L. Caimi, Il contributo pedagogico di Leonardo Murialdo al ‘movimento oratoriano’, in La figura e l’opera di San Leonardo Murialdo nel contesto della Torino dell’800, a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della morte di san Leonardo Murialdo, Roma 2001, pp. 19-51.
17 Cfr. S. Tramontin, Gli oratori di Don Bosco e i patronati veneziani, in Don Bosco nella Chiesa, a cura di P. Braido, cit., pp. 117-132; A. Marengo, Contributi per uno studio su Leonardo Murialdo educatore, Roma 1964, pp. 453-480.
18 Per approfondimenti sugli oratori femminili cfr. L. Caimi, Cattolici per l’educazione, cit., pp. 35-38.
19 Su queste figure cfr. P. Dal Toso, E. Diaco, Mario Fani e Giovanni Acquaderni. Profilo e scritti dei fondatori dell’Azione Cattolica, Roma 2008.
20 Cfr. L. Bedeschi, Le origini della Gioventù Cattolica, Bologna 1959; P. Borzomati, I ‘Giovani Cattolici’ nel mezzogiorno d’Italia dall’Unità al 1948, Roma 1970, pp. 3-29.
21 Cfr. D. Veneruso, La Gioventù Cattolica e i problemi della società civile e politica italiana dall’Unità al fascismo (1867-1922), in La “Gioventù Cattolica” dopo l’Unità 1868-1968, a cura di L. Osbat, F. Piva, Roma 1972, pp. 3-71.
22 Cfr. S. Tramontin, Opera dei Congressi e Società della Gioventù Cattolica. Storia e motivi dei contrasti, in La “Gioventù Cattolica”, a cura di L. Osbat, F. Piva, cit., pp. 139-204.
23 Cfr. D. Veneruso, La Società della Gioventù Cattolica Italiana e la questione sociale dalla ‘Rerum Novarum’ alla fine del pontificato di Leone XIII (1891-1903), «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 1971, 2, pp. 51-64; E. Preziosi, Educare il popolo. Azione Cattolica e cultura popolare tra ’800 e ’900, Roma 2003, passim.
24 Cfr. L. Ambrosoli, Il primo movimento democratico cristiano in Italia (1897-1904), Roma 1958. Sulla controversa figura del prete marchigiano cfr. ad. es. G. Cappelli, Romolo Murri. Contributo per una biografia, Roma 1965.
25 Cfr. D. Veneruso, La Gioventù Cattolica e i problemi della società civile e politica italiana dall’Unità al fascismo (1867-1922), cit., pp. 79-101.
26 Cfr. G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Roma-Bari 19795, pp. 253-274; A. Canavero, I cattolici nella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, Brescia 1991, pp. 110-125.
27 Riflessioni di notevole finezza riguardo all’associazione nel quindicennio iniziale del Novecento sono svolte in L. Ferrari, Appunti sulla Società della Gioventù Cattolica Italiana ai primi del secolo, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1990, 2, pp. 265-297.
28 Agli studenti cattolici italiani, «La Vita nova. Rivista universitaria», 1895, 2, p. 9.
29 Cfr. G. Marcucci Fanello, Storia della F.U.C.I., Roma 1971, pp. 17-58; F. Malgeri, 100 anni di vita, in F. Malgeri, M. Nicoletti, R. Pietrobelli, et al., Fuci. Coscienza universitaria fatica del pensare intelligenza della fede. Una ricerca lunga 100 anni, Cinisello Balsamo 1996, pp. 15-29.
30 Cfr. M.C. Foresio Dapra’, La Santo Stanislao di Milano. Un’esperienza studentesca del cattolicesimo ambrosiano, Milano 1983; G. Zichi, Il Circolo Silvio Pellico dal 1905 al 1930. Istruzione cattolica di intellettuali sassaresi a scopo religioso e sociale, Ozieri 1996.
31 Cfr. F. Fabrizio, Storia dello sport in Italia. Dalle società ginnastiche all’associazionismo di massa, Rimini-Firenze 1977, pp. 20-54; P. Andreoli, Associazionismo sportivo e ricreativo cattolico, in DSMC, I,2, pp. 176-178.
32 Cfr. A. Trova, Alle origini dello scoutismo cattolico in Italia. Promessa scout ed educazione religiosa (1905-1928), Milano 1986, pp. 9-63; M. Sica, Storia dello scautismo in Italia, Roma 1996, pp. 29-96. Vi si aggiunga anche P. Dal Toso, Nascita e diffusione dell’ASCI 1916-1928, Milano 2006, pp. 21-43.
33 Cfr. C. Goretti-Miniati, Manuale del congregato, Roma 19443; H. Rahner, Alle fonti delle Congregazioni Mariane, Roma 1956; E. Villaret, Storia delle Congregazioni Mariane, Roma [s.d.].
34 Cfr. A. Druart, La cooperazione salesiana secondo i congressi internazionali di Bologna e Torino, in Il cooperatore nella società contemporanea, a cura di F. Desramaut, Torino 1975, pp. 56-79.
35 Cfr. A. Bugnini, s.v. Figlie di Maria, in Enciclopedia Cattolica, V, Città del Vaticano 1950, coll. 1270-1273.
36 Cfr. F. Maccono, Piccolo manuale dell’Associazione di Maria Ausiliatrice per le giovinette, Torino 1910.
37 Relazione della Presidenza, «Gioventù italica», 1919, 12, p. 10. Sulla vicenda dei Giovani cattolici fra la conclusione della Grande guerra e l’avvento del fascismo cfr. L. Ferrari, La Gioventù Cattolica Italiana nella seconda fase della presidenza Pericoli (1910-1922), «Rivista di storia e letteratura religiosa», 1992, 1, pp. 533-589, passim.
38 P. Pericoli, Aspettando il Congresso!, «Gioventù italica», 1919, 11, p. 207. Approfondimenti sulla Sgci nei primi anni del dopoguerra sono offerti in D. Veneruso, L’Azione Cattolica Italiana durante i pontificati di Pio X e di Benedetto XV, Roma 1984, pp. 122-154.
39 Circa gli impegni programmatici dell’associazione cfr. F. Olgiati, I nuovi orizzonti della Gioventù Femminile, Milano 1919.
40 Si legge sempre con interesse il ritratto affettuoso della signorina milanese scritto da M. Sticco, Una donna fra due secoli. Armida Barelli, Milano 19832. Cfr. anche G. Lazzati, A. Monticone, G. Rumi, et al., Armida Barelli nella società italiana, Milano 1983.
41 Sugli inizi e i primi sviluppi della Gioventù femminile cfr. L. Caimi, Cattolici per l’educazione, cit., pp. 174-183. In ordine al percorso associativo negli anni Venti cfr. F. Olgiati, I fiori di un decennio. Ideali e conquiste della Gioventù Femminile Cattolica Italiana, Milano 1928.
42 Cfr. A. Barelli, La sorella maggiore racconta... Storia della Gioventù Femminile di Azione Cattolica Italiana dal 1918 al 1948, Milano 1949, pp. 70-73.
43 Il passo citato è tratto da una lettera di Pio XI (30 luglio 1928) alla presidente dell’Unione internazionale delle leghe giovanili femminili cattoliche (Cfr. L. Civardi, Manuale di Azione Cattolica, Roma 195212, p. 26). Per il pensiero di papa Ratti sull’Azione cattolica cfr. M. Casella, L’Azione Cattolica nell’Italia contemporanea (1919-1969), Roma 1992, pp. 67-185.
44 Cfr. C. Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze 1984; J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze 1996, pp. 326-344. Più in generale, sul processo di ‘nazionalizzazione’ fascista dei minori cfr. A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino 2005.
45 Sullo scioglimento della Fasci cfr. L. Caimi, Cattolici per l’educazione, cit., pp. 191-192; per il caso dell’Asci v. invece M. Sica, Storia dello scautismo in Italia, cit., pp. 149-187.
46 Ibidem, pp. 188-191.
47 Cfr. L’inverno e il rosaio. Tracce di scautismo clandestino, a cura di A. Luppi, Milano 1986; C. Verga, V. Cagnoni, Le Aquile Randagie. Lo scautismo clandestino lombardo nel periodo 1928-1945, Roma 2002.
48 Cfr. G. Marcucci Fanello, Storia della F.U.C.I., cit., pp. 59-115.
49 Su quest’associazione cfr. L. La Rovere, Storia dei GUF. Organizzazione, politica e miti della gioventù universitaria fascista 1919-1943, Torino 2003.
50 Cfr. G. Marcucci Fanello, Storia della F.U.C.I., cit., pp. 59-116; M.C. Giuntella, Circoli universitari cattolici e ambiente universitario nell’Italia settentrionale, in Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), a cura di P. Pecorari, Milano 1979, pp. 1112-1132.
51 Per approfondimenti circa il contributo montiniano alla Fuci cfr. M.C. Giuntella, Montini e gli universitari cattolici, in Id., La FUCI tra Modernismo, Partito Popolare e Fascismo, Roma 2000, pp. 135-155; M. Marcocchi, Introduzione a G.B. Montini, Scritti fucini (1925-1933), a cura di M. Marcocchi, Brescia-Roma 2004, pp. VII-XLVIII.
52 Cfr. E. Preziosi, Il progetto educativo dell’Azione Cattolica Italiana negli anni ’20 e ’30. Le ‘Sezioni Aspiranti’, «Studium», 1989, 5, pp. 187-192.
53 Su tale esperienza cfr. «Sinite parvulos…». Vademecum per Delegate ‘Fanciulli Cattolici’, a cura del Consiglio Superiore U.D.C.I., Roma 19283.
54 Cfr. P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Roma-Bari 1976, pp. 255-280; Chiesa, Azione cattolica e fascismo nel 1931, Atti dell’Incontro di studio (Roma 1981), Roma 1983; Gli Statuti dell’Azione Cattolica Italiana, a cura di E. Preziosi, Roma 2003, pp. 152-158.
55 Su questa controversa figura di militante laico non disponiamo ancora di studi storiografici appropriati. Ricordiamo, ad ogni modo, il volume, per la verità ormai datato, C. Falconi, Gedda e l’Azione Cattolica, Firenze 1958.
56 Cfr. A. Gibelli, Gioventù italiana del littorio (Gil), in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia, S. Luzzatto, 2 voll., Torino 2005: I, pp. 598-560.
57 Sulla Giac degli anni Trenta cfr. L. Caimi, Cattolici per l’educazione, cit., pp. 214-221.
58 Cfr. G. Formigoni, G. Vecchio, L’Azione Cattolica nella Milano del Novecento, Milano 1989, pp. 80-86; P. Zerbi, Giuseppe Lazzati presidente diocesano della Gioventù di AC, Milano 1989; M. Malpensa, A. Parola, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Bologna 2005, pp. 157-273.
59 Cfr. A. Barelli, La sorella maggiore racconta, cit., pp. 367-398; L. Caimi, Cattolici per l’educazione, cit., pp. 223-226.
60 Per il servizio ‘fucino’ dell’affiatatissima coppia Montini-Righetti, segnaliamo anche N. Antonetti, La FUCI di Montini e di Righetti. Lettere di Igino Righetti ad Angela Gotelli (1928-1933), Roma 1979, pp. 3-83; G.B. Scaglia, La stagione montiniana. Figure e momenti, Roma 1993, pp. 17-23; 43-67.
61 Cfr. G. Marcucci Fanello, Storia della F.U.C.I., cit., pp. 141-169; M.C. Giuntella, I fatti del 1931 e la FUCI, in Id., La FUCI tra Modernismo, Partito Popolare e Fascismo, cit., pp. 157-172. Sul contributo dei ‘fucini’ alla maturazione del laicato colto cfr. R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1979, passim.
62 Cfr. M. Casella, L’Azione Cattolica all’inizio del pontificato di Pio XII. La riforma statutaria del 1939 nel giudizio dei vescovi italiani, Roma 1985.
63 Cfr. G. Vecchio, La storia: gli oratori milanesi tra Chiesa e società dal primo Novecento alla vigilia del Concilio, in Progetto oratorio. Storia realtà profezia, Atti del Convegno (Milano 1987), a cura di G. Grampa, Milano 1988, pp. 8-12.
64 Cfr. L. Caimi, L’oratorio salesiano: la specificità di una proposta pedagogica, in Dipartimento di Pedagogia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Don Bosco. Ispirazioni Proposte Strategie educative, Torino 1989, pp. 81-83.
65 Cfr. P. Signorini, Il ‘Gruppo Pace’ contro il fascismo, in Brescia ieri, a cura di M. Faini, 1967, pp. 28-29; Antifascismo Resistenza e clero bresciano, a cura di D. Morelli, Brescia 1985, passim; R. Anni, Storia della Resistenza bresciana 1943-1945, Brescia 2005, passim. Sulla vicenda oratoriana durante il ventennio fascista v. anche G. Tassani, L’oratorio, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, III, Roma-Bari 1997, pp. 150-154.
66 Cfr. G. Campanini, La democrazia nel pensiero politico dei cattolici (1942-1945), in Cattolici, Chiesa, Resistenza, a cura di G. De Rosa, Bologna 1997, pp. 496-504.
67 Cfr. L. Caimi, L’educazione agli ideali democratici negli anni della ricostruzione nazionale. Il contributo delle associazioni giovanili di Azione Cattolica, in L’educazione alla democrazia tra passato e presente, a cura di M. Corsi, R. Sani, Milano 2004, pp. 87-96.
68 Su di lui v. il recente profilo offerto in P. Trionfini, Carlo Carretto. Il cammino di un ‘innamorato di Dio’, Roma 2010.
69 Cfr. M.V. Rossi, I giorni dell’onnipotenza. Memoria di una esperienza cattolica, Roma 20002.
70 Cfr. F. Piva, ‘La Gioventù Cattolica in cammino…’. Memoria e storia del gruppo dirigente (1946-1954), Milano 2003.
71 Su questa significativa figura di sacerdote e sul suo impegno in Gioventù studentesca v. M. Camisasca, Comunione e Liberazione. Le origini (1954-1968), Cinisello Balsamo 2001.
72 Per approfondimenti circa le tendenze delle associazioni dei giovani cattolici negli anni Cinquanta, rinvio ai seguenti contributi: L. Caimi, Aspetti e problemi dell’associazionismo giovanile nel secondo dopoguerra, in L’associazionismo educativo. Adulti e ragazzi: un rapporto difficile, a cura di G. Petter, F. Tessari, Scandicci 1990, pp. 69-76; Id., Esperienze e problemi dell’associazionismo giovanile dalla caduta del fascismo al 1968, in E. Catarsi, N. Filograsso, A. Giallongo, et al., Educazione e pedagogia in Italia nell’età della ‘guerra fredda’ (1948-1989), Trieste-Roma-Urbino 1999, pp. 111-118.
73 L. Caimi, Cattolici per l’educazione, cit., pp. 241-273.
74 Cfr. L. Pazzaglia, Le scelte delle associazioni di ispirazione cattolica negli anni della contestazione, in L. Charinelli, R. Pietrobelli, et al., L’idea di un progetto storico. Dagli anni ’30 agli anni ’80, Roma 1982, pp. 127-179.
75 Sulle linee di tendenza associative fra anni Sessanta e Settanta cfr. L. Caimi, Il contributo educativo dell’associazionismo giovanile, in G. Angelini, F. Castelli, C. Mazza, Educare nella società complessa. Problemi Esperienze Prospettive, Brescia 1991, pp. 125-141. Approfondimenti sono offerti da P. Dal Toso, L’associazionismo giovanile in Italia. Gli anni Sessanta-Ottanta, Torino 1995, pp. 3-126. Per quanto concerne in part. Azione cattolica e scautismo dal Sessantotto in poi cfr., V. De Marco, Storia dell’Azione Cattolica negli anni Settanta, Roma 2007; V. Schirripa, Giovani sulla frontiera. Guide e scout cattolici nell’Italia repubblicana (1943-1974), Roma 2006, pp. 183-274.
76 M. Camisasca, Comunione e Liberazione. La ripresa (1969-1976), Cinisello Balsamo 2003.
77 Cfr. Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche teologico-spirituali ed apostoliche, a cura di A. Favale, Roma 1980, passim; A. Favale, Comunità nuove nella Chiesa, Padova 2003, passim.
78 Vale qui la pena ricordare che, a seguito dei travagli attraversati durante gli anni Settanta dall’associazionismo cattolico, la Conferenza episcopale italiana intervenne nel 1981 per fissarne le linee-guida teologico-pastorali e giuridico-canoniche di accreditamento con la Nota pastorale Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti, associazioni.
79 Giovanni Paolo II, Oggi a tutti voglio gridare: apritevi con docilità ai doni dello Spirito! Non dimenticate che ogni carisma è dato per il bene comune, «L’Osservatore romano», 1-2 giugno 1998, pp. 6-7.
80 Qualche spunto di approfondimento in questa direzione è offerta da L. Caimi, Spiritualità dei movimenti giovanili, Roma 2005, pp. 173-192.
81 Se ne ha conferma, peraltro, anche dai seguenti studi Il mondo giovanile in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di A. Varni, Bologna 1998; P. Dogliani, Storia dei giovani, Milano 2003, passim; Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la storia del Novecento, a cura di P. Sorcinelli, A. Varni, Roma 2004.