La questione meridionale
L’espressione «questione meridionale» indica l’insieme dei problemi posti dall’esistenza nel Mezzogiorno d’Italia dal 1861 sino a oggi di un più basso livello di sviluppo economico, di un diverso e più arretrato sistema di relazioni sociali, di un più debole svolgimento di molti e importanti aspetti della vita civile rispetto alle regioni centrosettentrionali.
Il grave degrado della vita amministrativa e dei sistemi di potere locali e l’indigenza in cui versavano nel Mezzogiorno le masse popolari furono portati per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e delle classi dirigenti nei primi anni Settanta dell’Ottocento dagli studi di P. Villari e dalle inchieste di L. Franchetti e S. Sonnino, che denunciarono l’insufficienza dell’azione dello Stato nel Mezzogiorno, senza tuttavia alcun rimpianto filoborbonico, ma riponendo nello Stato unitario stesso qualunque speranza di soluzione dei problemi meridionali. La proposta di rimedio dei mali descritti fu, infatti, una serie di riforme promosse dal governo in materia economica, sociale e amministrativa (alleggerimento del carico fiscale, facilitazioni creditizie, riforma dei contratti agrari).
A partire dalla metà degli anni Ottanta si ebbe una differenziazione strutturale degli apparati produttivi della penisola molto più accentuata di quella esistente nel 1861, quando Nord e Sud avevano entrambi un’economia largamente agricolo-commerciale e un apparato industriale minimo. Dagli anni Ottanta a un Mezzogiorno persistentemente agricolo-commerciale si contrappose un’Italia settentrionale sensibilmente industrializzata. La differenza di reddito pro capite tra le due macroaree cominciò allora a crescere sensibilmente. Le plebi meridionali diedero luogo tra la metà degli anni Ottanta e lo scoppio della Prima guerra mondiale alla più grande emigrazione di massa all’estero che la storia del Mezzogiorno ricordi.
Nell’ambito del pensiero meridionalista comparvero nomi nuovi. G. Fortunato, F.S. Nitti, A. De Viti De Marco, G. Salvemini, L. Einaudi sostennero che tra Ottocento e Novecento esistevano due Italie, geografiche, economiche, sociali, che procedevano a velocità diverse. Il protezionismo introdotto nel 1887, mentre favoriva la cerealicoltura estensiva del latifondo, esponeva le esportazioni di prodotti dell’agricoltura specializzata del Mezzogiorno alle ritorsioni commerciali francesi. Il Sud era ridotto a mercato coloniale delle industrie settentrionali, nell’interesse degli industriali del Nord e dei latifondisti del Sud, alleati in un blocco politico-sociale conservatore e protezionista.
Per Salvemini questo stato di cose poteva essere scardinato solo mediante un’azione politica dal basso tendente al cambiamento radicale della forma dello Stato in senso federalista. Operai del Nord e contadini del Sud avrebbero dovuto lottare per l’introduzione del suffragio universale e, attraverso i mutati equilibri politici che ne sarebbero conseguiti, spezzare il blocco protezionista tra industriali e latifondisti che danneggiava non solo il Mezzogiorno ma l’intera economia nazionale.
Al contrario di Salvemini, Nitti, dopo una prima fase liberista e dopo avere messo in luce come lo Stato italiano avesse drenato risorse dal Sud al Nord attraverso le leve della politica fiscale e della spesa pubblica, si convinse della giustezza della scelta protezionista. In un contesto internazionale di altissima competitività essa soltanto poteva garantire al Paese un avvenire industriale, senza il quale l’Italia intera sarebbe stata condannata all’arretratezza permanente. Alla luce di tale superiore interesse nazionale si poteva anche giustificare il sacrificio del Sud, a patto però che lo Stato si facesse carico di una politica correttiva dello squilibrio promuovendo anche nel Mezzogiorno, con interventi legislativi specifici, un processo di industrializzazione, collegato a un razionale riordino delle risorse idrogeologiche indispensabili allo sviluppo della produzione di energia elettrica. La legislazione speciale a favore delle regioni meridionali varata dal governo Giolitti all’inizio del sec. 20° derivò soprattutto da questa sua analisi.
Per quanto apprezzabili, i risultati della legislazione speciale, fra cui la costruzione dell’impianto siderurgico di Bagnoli a Napoli, l’acquedotto pugliese, la direttissima Roma-Napoli, non ridussero però, né tanto meno annullarono il divario Nord-Sud. Le necessità belliche della Prima guerra mondiale, le successive politiche di restringimento degli scambi di merci e risorse umane affermatesi a livello mondiale tra gli anni Venti e Trenta, le scelte di politica demografica del fascismo e infine la Seconda guerra mondiale e la ricostruzioneagirono tutte in modo che alla fine degli anni Quaranta del Novecento il dislivello economico Nord-Sud raggiungesse i suoi massimi storici.
All’indomani del secondo conflitto mondiale si ebbe una vigorosa ripresa dell’azione di denuncia e proposta dei maggiori meridionalisti, nonché dei partiti che si riaffacciavano ufficialmente alla vita politica. Di fronte alla gravità del divario apparvero subito fuori tempo le posizioni della destra liberista, favorevole all’attesa dei tempi lunghi della crescita spontanea dell’economia meridionale. Tutte le altre forze intellettuali e politiche ritenevano indispensabile e urgente un intervento straordinario dello Stato sugli assetti socioeconomici del Mezzogiorno. Le differenze strategiche tra forze di ispirazione comunista, socialista, liberal-democratica e cattolica erano tuttavia marcate. Il PCI riproponeva sostanzialmente immutata la strategia di alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud che Gramsci all’indomani del primo conflitto mondiale aveva ripreso da Salvemini, inserendola nel disegno rivoluzionario marxista del suo partito. La riforma agraria fu concepita come strumento di avvio di un processo rivoluzionario degli assetti sociali e politici dell’intera società meridionale e nazionale. Fu in questa prospettiva che il Partito comunista, fiancheggiato dalla rivista Cronache meridionali con M. Alicata e G. Amendola, assunse una posizione avversa a quasi tutti i provvedimenti specifici varati a favore del Sud negli anni Cinquanta, inclusa l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e, più tardi, la stessa adesione al MEC. Alla riforma agraria guardavano con favore anche esponenti importanti del mondo cattolico. Riprendendo la linea di L. Sturzo, essi vedevano nella formazione di una piccola proprietà coltivatrice lo strumento principe per il rilancio del processo di modernizzazione di una società rurale meridionale elettoralmente controllata dalla DC. La riforma agraria era al centro anche del «grande disegno» di M. Rossi Doria e del meridionalismo socialista non inserito nell’orbita comunista. Nella riforma Rossi Doria vedeva un fondamentale strumento modernizzatore sul modello delle esperienze delle aree arretrate degli Stati Uniti. Le soluzioni prospettate puntavano a duraturi e significativi miglioramenti produttivistici, nella piena consapevolezza che essi peraltro non sarebbero bastati a riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse nel Mezzogiorno, un rapporto irrimediabilmente compromesso dalla politica demografica fascista. Rossi Doria vedeva pertanto inevitabile una nuova ondata migratoria dal Sud, come unica condizione per la creazione in tempi brevi di un’agricoltura competitiva e l’avvio di uno sviluppo economico autopropulsivo, che avrebbe potuto in un secondo tempo estendersi anche ad attività industriali.
La riforma agraria, che pure attraverso la «legge Sila» e la «legge stralcio» assestò un duro colpo alla proprietà terriera assenteista, non rispose comunque alle aspettative di Rossi Doria. A trainare la modernizzazione dell’agricoltura meridionale non furono mai le aree interne investite dalla riforma, ma quelle costiere dell’agricoltura specializzata. Tanto meno la riforma agraria fu il volano del processo di radicale sovvertimento economico e sociale preconizzato dalla sinistra comunista. Il più grande processo di trasformazione della società meridionale che la nostra storia ricordi, anche se non si è concluso con la rimozione del divario, è avvenuto solo grazie alla destinazione di una mole senza precedenti di risorse oltre che al settore agricolo anche e soprattutto al secondario e terziario, come aveva intuito a suo tempo Nitti e come sostennero a partire dal 1946 i fondatori della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), R. Morandi e P. Saraceno, e poi i meridionalisti liberaldemocratici gravitanti intorno al Mondo di M. Pannunzio e alla rivista Nord e Sud fondata da F. Compagna, con V. De Caprariis, G. Galasso e R. Romeo. Costoro negli anni Cinquanta ritenevano ormai improrogabile l’equiparazione del Mezzogiorno al benessere e alla civiltà delle democrazie industriali dell’Occidente, mediante uno sviluppo che rendesse quella meridionale una società pienamente e organicamente sviluppata in tutte le sue componenti, rurali e urbane. E ciò attraverso un intervento straordinario che doveva avvenire non solo attraverso leggi speciali come quelle dell’inizio del sec. 20°, ma anche attraverso istituzioni appositamente finalizzate alla loro applicazione quali anzitutto e soprattutto la Cassa per il Mezzogiorno.
La politica di intervento straordinario si concluse senza annullare il divario Nord-Sud e la sua liquidazione sancì una crisi gravissima del meridionalismo e per alcuni anni una scomparsa della questione meridionale dall’agenda politica del Paese. Ciò avvenne per una serie di ragioni che il meridionalismo di vari orientamenti (P. Saraceno, U. La Malfa, F. Compagna, G. Cingari, G. Galasso e altri) ha ripetutamente messo in luce. Crisi petrolifera, assenza di un’efficace programmazione a causa della scelta delle forze politiche e sindacali di non attuare una rigida politica dei redditi e di contenimento dei consumi, uniformità dei livelli salariali tra Nord e Sud che scoraggiava gli investimenti, insufficienza delle classi dirigenti regionali di fronte alla prova dell’autonomia, crescita della malavita organizzata, uso clientelare di parte cospicua delle risorse destinate al Mezzogiorno. Tuttavia, al cospetto di quanto avvenuto dopo la sua liquidazione, quando l’andamento dell’economia meridionale è stato, per almeno otto anni, il peggiore in assoluto di tutta la storia del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra, va anche detto che l’intervento straordinario resta a tutt’oggi l’unica strategia che si sia rivelata capace, al saldo di tutti i suoi risvolti negativi, di fare del Mezzogiorno una delle aree più progredite del Mediterraneo, radicalmente diversa per struttura produttiva e configurazione sociale da quella di sessant’anni addietro.
Il persistere del divario, e soprattutto l’assenza nel Mezzogiorno di una condizione strutturale per cui la sua economia sia in grado di mantenere, senza il sostegno di aiuti esterni, uno sviluppo autopropulsivo superiore a quello del Centro-Nord è peraltro un problema che non è possibile in alcun modo ignorare. Sembra al riguardo ancora attuale quanto scrisse nel 1959 R. Romeo a proposito del ruolo del Mezzogiorno nella storia dello sviluppo economico italiano. Romeo sostenne che il sacrificio del Mezzogiorno, ancorché obbligato, era stato altamente funzionale, se non addirittura essenziale, allo sviluppo dell’industria settentrionale e dell’intera economia nazionale fino alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia l’arretratezza accumulata dal Sud a causa dello sviluppo capitalistico nazionale protetto rischiava di trasformarsi ormai in un fattore di grave rallentamento della stessa economia settentrionale. Ed è quest’ultimo concetto che ci ricorda che è nell’interesse dell’intera comunità nazionale, e non solo del Mezzogiorno, interrogarsi sulla natura odierna della questione meridionale e sui suoi possibili rimedi.
Si veda anche