La questione politica della Russia contemporanea
Nel primo decennio del 21° sec., la Russia postsovietica ha superato gli aspetti più incerti della sua transizione e ha consolidato i propri caratteri politici, economici e sociali sotto la guida di Vladimir Putin. La figura di Putin, presidente dal 2000 al 2008 e poi primo ministro, ha dominato la scena politica e ha impresso un’impronta fondamentale all’evoluzione del Paese, ancora legato a una tradizione di estrema personalizzazione del potere. Putin ha goduto di un consenso senza precedenti costruito sulla restaurazione dell’autorità dello Stato, sulla crescita economica, sul ristabilimento del prestigio internazionale del Paese. Il passato sovietico è ormai alle spalle: tra le principali forze politiche, salvo casi marginali, nessuno mette in discussione l’integrazione del Paese nell’economia mondiale e nelle istituzioni internazionali, tutti accettano l’idea della democrazia rappresentativa e l’economia di mercato. Gli elementi di nostalgia per la dimensione di superpotenza non implicano una vera tendenza a tornare alle ideologie della guerra fredda. Tuttavia, la notevole modernizzazione conosciuta dal Paese appare ambigua: da un lato sono state letteralmente ricostruite la forza e l’autorevolezza dello Stato, innovata la legislazione, accresciuta l’integrazione nell’economia globale, si è prodotto nuovo sviluppo, rilanciato il prestigio internazionale; dall’altro, le istituzioni della democrazia non si sono consolidate e la risposta ai processi di crescente interdipendenza economica e politica del mondo attuale è apparsa prevalentemente difensiva e tradizionalista. La cultura politica e istituzionale del Paese sembra ancora molto condizionata da un passato profondo. Questa ambivalenza tra modernizzazione e tradizione, tra apertura e chiusura è la principale eredità lasciata dalla presidenza Putin.
L’ascesa di Putin
Laureato in giurisprudenza, non ancora cinquantenne (essendo nato a Leningrado nel 1952), capo del Servizio federale di sicurezza (FSB, Federal´naja Služba Bezopasnosti, l’istituzione erede del celebre Comitato per la sicurezza dello Stato, KGB, Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti), Putin fu nominato inaspettatamente capo del governo nell’agosto 1999 e poi designato come proprio successore dal primo presidente postsovietico, Boris Nikolaevič El´cin. Dopo aver trascorso una lunga carriera nei servizi segreti, Putin poteva vantare importanti frequentazioni nelle alte sfere del potere, ma non una visibilità pubblica e un’autentica esperienza politica. L’aspetto più significativo della sua oscura biografia era appunto l’appartenenza al KGB, l’apparato di sicurezza più forte del tardo potere sovietico che aveva espresso meno di venti anni prima un segretario generale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), Jurij Andropov. La sua carriera, iniziata in età giovanissima, annoverava un lungo incarico nella Germania orientale, dalla quale rimpatriò dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. La sua percezione della perestrojka di Michail Gorbačëv fu perciò distante e limitata, mentre assai più acuto fu da lui avvertito il senso della catastrofe del blocco sovietico e della stessa Unione Sovietica. Tornato nella propria città di origine, Putin fu uno dei principali collaboratori di Anatolij Sobčak, sindaco di San Pietroburgo, e per un certo tempo tra i politici più in vista della Russia postsovietica. Trasferitosi a Mosca nel 1996, fece una carriera brillante, entrando nell’amministrazione presidenziale e divenendo nel 1998 capo dell’FSB.
Le modalità stesse della sua designazione mostrarono i limiti dell’evoluzione democratica della Russia. Tuttavia, molto rapidamente egli conquistò un forte consenso popolare, soprattutto per la determinazione con cui riprese le operazioni militari in Cecenia (sett.-ott. 1999), che agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica apparve una giusta vendetta dell’umiliazione subita dalla Russia tra il 1994 e il 1996 in occasione della prima campagna militare russa nella Repubblica cecena voluta dal presidente El´cin. Grazie al sostegno dei media, il suo improvvisato partito, Edinstvo (Unità), conseguì un buon risultato (23,3% dei voti) nelle elezioni alla Duma (dic. 1999), favorendo per la prima volta la nascita di una maggioranza parlamentare anticomunista, composta anche dal partito di Evgenij Primakov e Jurij Lužkov (Otečestvo-Vsja Rossija, Madrepatria-Tutta la Russia, 13,3%). Il Partito comunista russo (Kommunističeskaja partija Rossijskoj federacii), pur rimanendo la prima forza politica del Paese con il 24,3% dei voti, subì una riduzione della propria rappresentanza parlamentare. Le forze liberali di ispirazione occidentalista conseguirono risultati modesti: l’Unione delle forze di destra (Sojuz pravych sil) di Egor Gajdar e Anatolij Čubajs ebbe l’8,5%, Jabloko (Mela) di Grigorij Javlinskij il 6%. La destra radicale di Vladimir Žirinovskij declinò e si arrestò attorno al 6%. Putin poté presentarsi alle elezioni presidenziali del 26 marzo 2000 come il candidato di gran lunga più autorevole. Il suo successo al primo turno contro il principale candidato dell’opposizione, il comunista Gennadij Zjuganov, fu trionfale (53% dei voti), nettamente superiore al risultato ottenuto dal suo predecessore nelle elezioni di quattro anni prima.
Da allora in avanti, la figura di Putin restò stabilmente popolare fino a configurare nel Paese un consenso di tipo plebiscitario. Sebbene il nuovo presidente non esprimesse un progetto politico chiaro e un carisma personale, la sua immagine di uomo forte fece presa sull’opinione pubblica. Egli promise di mettere un freno al dilagare della corruzione, di usare il pugno di ferro contro il terrorismo, di garantire ai cittadini russi una vita normale dopo gli sconvolgimenti politici ed economici del decennio precedente, di restituire alla Russia un ruolo attivo nella politica estera.
Le prime mosse di Putin nella politica interna furono volte a distinguere la propria immagine da quella, ormai sbiadita e impopolare, dell’ex presidente El´cin. Putin si rivelò subito uno strenuo centralizzatore dello Stato nel contesto dell’economia di mercato: una caratteristica che incontrava molti consensi nei settori più dinamici della società russa interessati a una stabilizzazione dopo il caotico passaggio al mercato e alle privatizzazioni del decennio precedente, ma che era anche favorita dalla passività dei cittadini e dalla scarsa sensibilità democratica ancora imperante in tutto il Paese a cominciare dalle sue classi dirigenti. Questa prassi centralizzatrice si affermò nel corso degli anni come il tratto più tipico dell’azione di Putin. La presidenza come potere forte della Russia postsovietica, sia nei confronti del governo sia nei confronti del Parlamento, era stata istituita già dalla Costituzione del 1993: ma molto più del suo predecessore, Putin fece corrispondere il dettato costituzionale alla realtà dei fatti (Sakwa 2004).
Secondo una consolidata tradizione egli promosse ai vertici del potere statale uomini fidati che si caratterizzavano soprattutto per la loro appartenenza all’istituzione nella quale egli stesso aveva a lungo lavorato e che aveva diretto, il Servizio federale di sicurezza. Più in generale, si affermarono ai vertici del potere i rappresentanti dei cosiddetti apparati della forza (siloviki), vale a dire gli apparati garanti della sicurezza interna ed esterna del Paese, che più avevano preservato la loro struttura e la continuità con l’epoca sovietica sotto il segno del patriottismo e dello spirito di corpo (Ministero degli Interni, Ministero della Difesa, Servizio federale di sicurezza). Il presidente mise subito in atto una riforma amministrativa volta a limitare fortemente le autonomie, introducendo un nuovo anello di burocrazie territoriali (i distretti federali), che ricalcava l’organizzazione distrettuale delle forze armate. Pose sotto controllo presidenziale il Consiglio della Federazione, scompaginando le lobby del potere locale che lo componevano. Centralizzò le entrate fiscali, riducendo fortemente le prerogative delle unità federali. Lanciò la sua lotta contro i potentati economici aggregatisi nell’epoca di El´cin: le prime vittime furono i finanzieri Boris Berezovskij, proprietario del complesso industriale Avtovaz e principale azionista dell’Aeroflot, e Vladimir Gusinskij, proprietario della televisione NTV e di alcune testate giornalistiche. Entrambi inquisiti sin dal 2000, si rifugiarono all’estero. Presto sarebbe venuto il turno di altri oligarchi, colpevoli di arricchimento illecito, ma anche scomodi per la loro influenza politica.
Nel contempo, Putin pose le premesse per una ripresa dell’economia russa dopo il crollo del rublo nel 1998. L’azione del presidente e del governo guidato da Michail Kas´janov si rivolse anzitutto alla costruzione delle istituzioni proprie di una società di mercato, quali un sistema bancario regolamentato e un insieme di misure legislative diretto a tutelare le imprese, le società per azioni, le transazioni economiche e commerciali. Sin dal 2000 si delineò una crescita del PIL, dopo l’andamento negativo del periodo precedente, destinata a stabilizzarsi su tassi ragguardevoli negli anni seguenti (tra il 6 e l’8%). Il nuovo ciclo virtuoso si consolidò grazie alla crescita sul mercato mondiale del prezzo del petrolio.
Incentrata sull’esportazione di energia, l’economia russa conobbe tuttavia anche un potenziamento del mercato interno che consentì di bilanciare e ridimensionare le importazioni di generi di consumo. La ripresa economica e la relativa affidabilità degli istituti del mercato, certamente maggiore di quella del decennio precedente, consentirono un afflusso di capitale straniero, specie dall’Europa. Il volume dei commerci con l’estero crebbe in modo esponenziale. Il capitalismo selvaggio degli anni Novanta divenne però solo in parte un ricordo. Il suo lascito principale restava la polarizzazione tra un’élite ricca secondo i più elevati standard mondiali e un quarto della popolazione, in buona parte composta da anziani, sotto la soglia della povertà e largamente priva di forme minimali di protezione sociale, mentre stentavano a consolidarsi i ceti sociali intermedi. Né vennero invertite alcune delle tendenze più preoccupanti lasciate in eredità dal collasso della società comunista, quali il declino nelle aspettative di vita della popolazione adulta di sesso maschile. La vera innovazione introdotta da Putin rispetto al decennio precedente fu costituita dallo Stato inteso come motore della modernizzazione russa (Gudkov, Zaslavsky 2005).
Una ‘democrazia controllata’
Alla fine del primo mandato di Putin, il suo partito Edinaja Rossija (Russia unita, nuova denominazione assunta nell’aprile del 2001 da Edinstvo dopo la fusione con il partito di Primakov e Lužkov) divenne di gran lunga il primo partito, ottenendo alle elezioni alla Duma del dicembre 2003 circa il 37% dei voti. Fu una svolta politica di notevole portata, visto che nel decennio precedente nessun partito aveva mai raggiunto neppure la metà di simili percentuali e che per la prima volta la maggioranza presidenziale si raccoglieva in un’autentica formazione partitica, sebbene assai variegata al suo interno. Questo risultato evidenziava un cambiamento molto significativo del sistema politico stesso. Il nuovo partito filogovernativo Rodina (Patria) ottenne il 9% dei voti, completando in tal modo il clamoroso successo delle forze che appoggiavano il presidente. I comunisti subirono una drastica sconfitta, scendendo al minimo storico (12,6% dei voti) e perdendo irrimediabilmente le posizioni di relativa forza avute nel Paese e nella Duma negli anni Novanta. Essi restavano una minoranza organizzata, ma residuale, incapace di offrire un’alternativa di governo. Le forze liberali e socialdemocratiche, che avevano costituito sino ad allora una ristretta minoranza parlamentare, non ottennero voti sufficienti per essere presenti in Parlamento. L’elettorato aveva espresso un orientamento filopresidenziale e nazionalista. A questo punto, assieme agli alleati minori, il partito del presidente (nella realtà, un rassemblement elettorale basato su un appello genericamente patriottico) si trovò a dominare la Duma. Corrispettivamente, si verificavano il crollo e la perdita di peso politico delle opposizioni. Né i deputati della destra radicale, inclini al trasformismo e facilmente corruttibili, né quelli comunisti, ridotti a un ruolo di sterile critica, potevano infatti definirsi un’autentica opposizione parlamentare. L’esclusione dei liberali e dei socialdemocratici dalla Duma significò, in altre parole, la fine di un’opposizione politica a Putin, sia pure fortemente minoritaria. Sotto questo profilo, le elezioni parlamentari del 2003 si rivelarono un punto di arresto e di involuzione di quel tanto di pluralismo politico che si era affermato nella Russia postsovietica. La debolezza del sistema istituzionale, l’inconsistenza culturale dei partiti postsovietici e il loro scarso radicamento sociale favorirono un simile esito.
Tuttavia la trasformazione semiautoritaria del sistema politico appariva anche il risultato di una deliberata azione svolta dall’alto. La liquidazione di importanti potentati economici fornì al presidente un consenso di tipo populista, facendo leva sui diffusi sentimenti popolari di ostilità verso i nuovi ricchi. Ma portò anche alla soppressione degli unici interessi costituiti in grado di esprimere un certo grado di pluralismo nella società russa. Nello stesso tempo, la lotta selettiva contro gli oligarchi produsse un crescente uso politico del potere giudiziario e una tendenza a sopprimere ogni critica e aggregazione contraria al presidente. I magnati che intuirono per tempo tale indirizzo, come Roman Abramovič, si allearono al presidente e si sottomisero al potere politico.
Forte dell’esperienza mediatica che aveva contribuito alla sua ascesa dall’anonimato alla presidenza, Putin monopolizzò progressivamente i mezzi di informazione. Soltanto poche voci indipendenti si salvarono nel campo della carta stampata, nessuna tra le televisioni. Tutto ciò delineò nel Paese un regime di ‘democrazia controllata’ già prima delle elezioni parlamentari del 2003, predisponendone l’esito (Shevtsova 2003, rev. and expanded ed. 2005).
Il corso verso una democrazia controllata venne influenzato dalla guerra in Cecenia. Provocata da un complesso intreccio di interessi economici e politici, la seconda guerra in Cecenia (1999) fu una scelta dettata soprattutto dalla volontà di mostrare la ‘mano forte’ contro il terrorismo, ma anche contro ogni insubordinazione centrifuga, lanciando un segnale inequivocabile contro ogni tendenza disgregativa della Federazione. La ricerca di una soluzione di carattere esclusivamente militare fu la conseguenza diretta di tale approccio. Per alcuni anni, il prezzo pagato fu una crescita della spirale del terrorismo che tendeva a fondere la matrice indipendentista con quella internazionalista islamica. Nel 2004 numerosi attentati terroristici avvennero non soltanto in territorio ceceno, culminati nell’assassinio del capo del regime fantoccio filorusso, Achmat Kadyrov, ma anche in territorio russo e a Mosca, dove furono colpite due stazioni della metropolitana. L’episodio più tragico fu la strage di più di trecento bambini in una scuola di Beslan, in Ossezia, provocata da un attentato terroristico e dal conseguente blitz attuato dalle forze di sicurezza russe, nel settembre 2004. Pochi mesi dopo, l’eliminazione di Aslan Maschadov, il capo della componente meno radicale della guerriglia cecena, indipendentista ma estranea al fondamentalismo islamico, mostrò ancora una volta che l’unica strategia di Mosca risiedeva nell’uso della forza e nella vittoria militare.
Una nuova politica di potenza
Il pragmatismo mostrato da Putin nella politica interna si accompagnò a un forte realismo nella politica estera, più commisurata alle possibilità e ai limiti della Russia. Putin seguì la bussola degli interessi nazionali in maniera molto più lineare del suo predecessore (Lo 2003). Rivendicò da subito con forza un ruolo di grande potenza della Russia, base essenziale del consenso nazionale da lui raccolto, senza legare il Paese ad alcun asse preferenziale. Dichiarò la propria opposizione all’idea di un mondo unipolare e si pronunciò in favore di un ordine internazionale multipolare. Si propose di interpretare in questo senso il ruolo della Russia nell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Strinse saldi rapporti economici e commerciali con l’Unione Europea, prendendo atto del suo allargamento verso Est. Ma sviluppò anche proficue relazioni con l’India, che si collocavano nel solco della tradizione sovietica, e con la Cina, che erano invece state normalizzate soltanto nel 1997.
Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, Putin portò la Russia a stringere una nuova partnership strategica con l’Occidente in nome della lotta contro il terrorismo. Ma questa mossa rivelò presto il suo carattere prevalentemente strumentale: legittimare la strategia della forza in Cecenia. Putin non esitò ad affermare, con un’evidente allusione agli Stati meridionali nati dalla dissoluzione dell’URSS, che la Russia avrebbe potuto compiere un intervento militare preventivo anche all’estero, ai fini della lotta al ‘terrorismo’. In realtà, l’asse con l’Occidente fu sostenuto da Mosca con una certa tiepidità. La Russia non inviò le proprie truppe in Afghānistān, evitando di partecipare all’intervento bellico della coalizione NATO su mandato delle Nazioni Unite. I rapporti tra la Russia e la NATO, sempre più tesi già nella seconda metà degli anni Novanta, non migliorarono. Lo scenario di un’espansione della NATO nell’Est europeo, con il coinvolgimento di alcuni Stati dello spazio ex sovietico, venne giudicato da Mosca negativo e pericoloso.
Il pragmatismo di Putin in politica estera non fu perciò privo di un disegno: restaurare il più possibile la potenza russa, puntando sulla prospettiva futura di un mondo multipolare. In questa luce occorre valutare l’opposizione russa alla guerra unilaterale statunitense in ῾Irāq nel 2003, che tuttavia non portò a stabilire un vero asse con i Paesi che vi si opposero più nettamente, la Francia e la Germania. La guerra in ῾Irāq segnò piuttosto la fine del periodo di avvicinamento della Russia agli Stati Uniti e ai Paesi occidentali avvenuto dopo l’attacco terroristico alle Twin Towers. Le relazioni con Washington non migliorarono neanche quando la seconda amministrazione Bush aumentò le sue critiche all’evoluzione della politica interna russa, a partire dal 2004, e accentuò l’appoggio statunitense al cambiamento politico in atto in alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica. L’ingresso della Russia nella WTO (World Trade Organization) venne ostacolato dagli Stati Uniti, che invece si erano comportati benevolmente verso la Cina. Putin evitò allora di cercare la comprensione dell’Occidente per la guerra in Cecenia, dichiarata una volta per tutte un affare interno della Federazione Russa. Nello stesso tempo si acuì l’opposizione di Mosca alla presenza statunitense, presunta o reale, nello spazio geopolitico dell’ex URSS, sia in Asia centrale, sia nel Caucaso: entrambe aree di cruciale importanza strategica sotto il profilo delle risorse, ma anche percepite come una vasta frontiera meridionale al cospetto del mondo islamico. Anche in altre zone di crisi emersero frizioni e aperte divergenze con gli Stati Uniti: nei Balcani, dove la difesa russa degli interessi della Serbia nella questione del Kosovo prolungò le tensioni con Washington e con l’Unione Europea risalenti agli anni Novanta; in Medio Oriente, dove la partecipazione della Russia al processo di pace non si rivelò pari alle aspettative di Mosca; in Irān, dove la Russia continuò a sostenere il programma di Teherān volto a sviluppare la tecnologia nucleare a uso civile, respingendo l’allarme statunitense per il possibile impiego in ambito militare di tale tipo di tecnologia.
Il progetto del multipolarismo sembra perciò aver segnato il limite delle possibili alleanze della Russia verso l’Occidente nel suo complesso. Nella visione di Putin, infatti, quel progetto implicava il rifiuto di ogni nozione universalistica della democrazia nonché una rivendicazione di legittimità per la diversità politico-culturale e per le varianti ‘nazionali’ della democrazia, a cominciare da quella semiautoritaria russa. Tale visione si è intrecciata con la politica estera della Federazione Russa nello spazio postsovietico. Sin dall’epoca di El´cin, il cosiddetto vicino estero venne sempre più considerato poco meno che una sfera d’influenza della Russia. In realtà, il vuoto di potere creatosi nello spazio postsovietico e l’attrazione esercitata nel Caucaso e nell’Asia centrale da altre potenze (Turchia e Cina soprattutto) o a Occidente dall’Unione Europea, crearono situazioni differenziate e difficoltà all’esercizio dell’influenza russa.
L’area più critica è stata il Caucaso, anzitutto la Georgia, a causa della permeabilità della sua frontiera con quella cecena. Le tensioni con la Georgia si acuirono decisamente dopo la destituzione del presidente Eduard Ševardnadze, sulla spinta di un ampio movimento di massa, e l’elezione di Michail Saakašvili (genn. 2004). Il Paese ex sovietico più legato alla Russia rimaneva tradizionalmente la Bielorussia, ma il principale partner di Mosca apparve il Kazakistan. In entrambi i casi si trattava di regimi dalla credibilità democratica quanto meno dubbia. In generale, Mosca mostrava scarsa sensibilità, e in qualche caso aperta diffidenza, verso i processi di democratizzazione avviati nei Paesi dello spazio postsovietico.
Sotto questo profilo, appare significativo l’atteggiamento di Putin verso la cosiddetta rivoluzione arancione in Ucraina, vale a dire la contestazione di massa contro i dubbi risultati delle elezioni presidenziali svoltesi nell’ottobre-novembre 2004, che portò alla ripetizione della consultazione elettorale e alla vittoria del candidato nazionalista e filoccidentale Viktor Juščenko, inviso al governo della Federazione Russa. Tale evento pose fine alle buone relazioni sino allora esistite tra la Russia e l’Ucraina e suscitò profonda irritazione a Mosca, dove venne visto come un segno della penetrazione nello spazio ex sovietico di modelli allogeni e ritenuti difformi dalla tradizione. Mosca reagì aspramente, soffiando sul fuoco della divisione esistente in Ucraina tra est e ovest del Paese, ossia tra tendenze filorusse e antirusse.
In altre parole, la politica di potenza di Putin mostrò di essere molto sensibile al principio dell’influenza della Russia in alcune aree di importanza strategica dello spazio postsovietico, in particolare in quelle poste ai confini occidentali. Ma l’esercizio concreto di tale influenza risultò largamente inadeguato, basato su schemi e stereotipi antioccidentali. Mosca continuò anche in seguito a rivendicare una legittima esigenza di avere Paesi amici alle proprie frontiere. Tuttavia non sempre riuscì a mostrare la determinazione e la capacità di seguire una linea di condotta idonea a conseguire tale risultato.
Neoautoritarismo e ruolo della Russia
Il 14 marzo 2004 Putin venne rieletto presidente con un autentico plebiscito nazionale, raggiungendo oltre il 70% dei voti. La rielezione di Putin coronò la nascita del regime di democrazia controllata. Il consenso che sorreggeva il potere del presidente non mostrava alcun segno di logoramento e anzi appariva in crescita: la stabilità ottenuta con il pugno di ferro continuava ad avere l’appoggio popolare, malgrado la tragedia della guerra cecena; la campagna contro gli oligarchi era percepita nell’opinione pubblica prevalentemente come una giusta azione moralizzatrice contro gli arricchimenti illeciti; la ripresa economica era un dato reale, ora sospinto visibilmente dalla sensibile crescita del prezzo del petrolio, e in prospettiva creava l’aspettativa di maggiori benefici a settori di popolazione più ampi che in passato; le abissali diseguaglianze sociali non avevano prodotto conseguenze politiche; la retorica nazional-patriottica del prestigio russo continuava ad avere successo, e in occasione del sessantesimo anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale (maggio 2005) non si fermò neppure dinanzi alla rivalutazione di Josif Vissarionovič Stalin come capo militare. Nella medesima occasione, Putin proclamò solennemente che il collasso dell’URSS aveva costituito «la più grande catastrofe geopolitica del 20° secolo». Più che suonare come una nostalgia del passato, tale formula alludeva al ruolo di stabilizzazione che, secondo il presidente, prima l’URSS e poi la Federazione Russa avrebbero assolto nel continente eurasiatico. Alla luce di tale ruolo, si intendeva che le particolarità dello Stato e della politica russa avrebbero dovuto ricevere riconoscimento e legittimazione da parte della comunità internazionale. Più volte, nei suoi discorsi alla nazione e alla Duma, Putin indicò esplicitamente i nessi tra centralizzazione del potere, modernizzazione dell’economia e vincoli geopolitici quali elementi centrali della propria azione politica.
L’evoluzione della politica russa aveva consolidato il regime nei suoi aspetti plebiscitari e autoritari. Dopo l’attentato di Beslan il corso centralistico nella Federazione venne sensibilmente accentuato, soprattutto mediante l’introduzione della norma della designazione presidenziale per i candidati al governo delle regioni e alla presidenza delle repubbliche, prima della loro presentazione al corpo elettorale. Di fatto, lo stesso carattere federale dello Stato venne così attenuato in favore dei poteri esercitati al centro. La continuazione della lotta agli oligarchi fu l’aspetto più visibile di un attacco selettivo ai centri di potere che potevano insidiare l’autorità presidenziale. Tale azione conobbe un netto spostamento in direzione del potere economico. Il caso più clamoroso fu quello di Michail Chodorkovskij, magnate della compagnia petrolifera Jukos e finanziatore di alcune forze di opposizione al presidente. Arrestato nell’ottobre 2003 con l’accusa di evasione fiscale, questi venne condannato nel maggio 2005 e poi mandato ai lavori forzati in Siberia: un accanimento difficile da spiegare se non con motivazioni di natura politica. La Jukos venne smantellata e in parte sottoposta al potere statale. Contemporaneamente, la quota azionaria detenuta dallo Stato nel Gazprom, il gigantesco complesso del metano russo, venne elevata al di sopra del 50%. Di conseguenza, lo Stato espandeva il proprio controllo e partecipazione nei settori strategici dell’economia. Nel settore energetico si affermò anzi un monopolio statale di fatto, che configurava un formidabile aggregato di potere economico e politico sotto la tutela del presidente, fuori da qualunque forma di controllo istituzionale. A questo punto, non si poteva più dubitare del fatto che sotto la presidenza Putin si stesse verificando un vero e proprio conflitto tra autocrazia e oligarchie. Il risultato di tale conflitto fu il consolidamento del controllo dello Stato sia sul cuore pulsante dell’economia russa, sia sulla gran parte del sistema dei media, anzitutto le televisioni.
Restrizioni sempre più pesanti furono imposte dall’alto agli spazi di associazione, di dibattito e di critica nell’opinione pubblica. Nel gennaio 2006 venne approvata una legge che restringeva le attività svolte nella Federazione dalle Organizzazioni non governative (ONG) occidentali, considerate uno strumento di agitazione che aveva avuto parte essenziale nel suscitare movimenti di massa in Georgia e in Ucraina e un mezzo per influire dall’esterno sulla situazione interna della Federazione. Il presidente e la Duma ignorarono le proteste volte a sottolineare come tale restrizione costituisse un serio limite alle libertà civili e alla tutela stessa dei diritti umani. La creazione dall’alto di un forum civico destinato a raccogliere le istanze della società civile apparve un espediente prevalentemente propagandistico per far fronte a tali critiche. Sempre più frequenti divennero i casi di giornalisti intimiditi e perseguitati con pretesti non credibili: per es., Andrej Babickij venne arrestato nel 2005 con l’accusa di spionaggio per aver svolto un’inchiesta sul teatro di guerra ceceno. In questo clima, l’assassinio nell’ottobre 2006 della giornalista Anna Politkovskaja, una tra le voci più coraggiose levatesi a denunciare i crimini e le atrocità della guerra in Cecenia, apparve a molti osservatori, sia all’interno sia fuori del Paese, un segnale particolarmente inquietante, che suscitò sconcerto e indignazione. Tali denunce lasciavano però largamente indifferente gran parte dell’opinione pubblica russa e sensibilizzavano soltanto parzialmente quella internazionale.
La guerra in Cecenia rivelò così una piaga profonda, a breve termine insanabile, della vittoria sul campo riportata dalle forze russe. Le elezioni tenutesi in Cecenia nel marzo 2006 in un clima di controllo militarizzato registrarono la scontata vittoria delle forze fedeli a Mosca, guidate dal figlio di Achmat Kadyrov, Ramzan. Poco più tardi, l’uccisione di Šamil´ Basaev, il capo della guerriglia più radicale, indebolì decisamente le forze antirusse ancora attive nella regione. Più che una vera pacificazione, tali eventi apparvero il logico corollario della politica della forza che ha largamente evocato le spietatezze del passato zarista e le repressioni del regime comunista, richiamando la ciclicità storica delle guerre tra Russia e Cecenia. Il dato di fatto è che la questione cecena mortificò a lungo le riforme più importanti della Russia postsovietica: la ricerca di un nuovo spirito pubblico e la nascita di un’autentica cultura civile.
La volontà del Cremlino di esercitare un potere incondizionato nella vita politica, economica e finanziaria del Paese mostrò risvolti che non riguardavano soltanto la politica interna. Durante il suo secondo mandato, emerse la tendenza di Putin a impiegare la ricchezza energetica come un’arma della politica estera russa, soprattutto volta a condizionare gli Stati dell’ex Unione Sovietica. Questa tendenza si affermò specialmente attraverso le tensioni con l’Ucraina. Più di una volta, Mosca non esitò a ventilare la possibilità di restrizioni delle forniture energetiche, nel tentativo di condizionare la lotta politica ucraina e di favorire le forze filorusse. Nel gennaio 2006 il governo russo decise di ritirare il trattamento di favore sino allora riservato all’Ucraina, chiedendo che questo Paese pagasse il metano proveniente dalla Russia secondo i prezzi del mercato mondiale. Venne infine raggiunto un compromesso tra Juščenko e Putin, ma l’ammonimento mandato da Mosca costituiva un significativo precedente, sebbene la richiesta di un allineamento dei prezzi dell’energia al mercato mondiale fosse legittima. A partire dal 2006, l’impiego della risorsa energetica come strumento della politica estera divenne ricorrente, con il fine di rafforzare la politica di potenza della Russia anzitutto nello spazio postsovietico, ma non solo in esso. Il controllo statalista sull’energia costituì perciò sotto Putin sia un elemento centrale del potere, sia uno strumento per rilanciare la politica di potenza della Russia. Alcuni autori hanno parlato di un ‘petro-State’, uno Stato che basa la propria forza economica essenzialmente sul gas e sul petrolio (quasi il 50% del budget federale) e che presenta caratteri conseguenti, quali il dominio di vasti monopoli statali, la preponderanza della rendita derivante dalla vendita di risorse naturali, l’intreccio profondo tra ceto politico e mondo degli affari, un grado elevato di corruzione, un’estrema refrattarietà a modernizzare il modello di sviluppo, una politica economica che aggrava, invece di contenere, le diseguaglianze sociali (Shevtsova 2007).
In ogni caso, la politica di potenza e la crescente affermazione di un ruolo peculiare della Russia negli affari internazionali rappresentarono alcuni elementi costitutivi dell’azione politica di Putin e del suo consenso nel Paese. La politica di potenza della Russia non si basò più sui livelli di militarizzazione conosciuti in epoca sovietica e la modernizzazione delle forze armate non puntò a ricostruire la dimensione della superpotenza. Tuttavia, l’identità stessa della Russia come grande potenza (deržavnost´) sembrò essere un dato irrinunciabile e condizionante nella mentalità delle élites russe e in larghi settori dell’opinione pubblica. Ciò spiega il carattere difficile e problematico delle relazioni con l’Occidente, concepite in termini di collaborazione, ma anche di sfida e talvolta di rivalsa. Emblematico apparve il discorso tenuto da Putin a Monaco nel febbraio 2007, che riassumeva al meglio la sua visione della politica mondiale. Il presidente russo espose così le proprie principali coordinate, destinate a lasciare un solco profondo: un mondo unipolare non è solo inaccettabile, ma anche impossibile, dato l’emergere di nuovi centri del potere globale; un’ulteriore espansione della NATO nell’Est non aumenta la sicurezza europea e anzi minaccia la sicurezza reciproca; il dialogo della Russia con gli Stati Uniti e con gli europei è opportuno e necessario, ma solo alle suddette condizioni.
L’elezione di Medvedev
Durante il suo secondo mandato, il rafforzamento dell’autorità di Putin nel Paese gli consentì di perfezionare l’inserimento nelle posizioni chiave del potere di uomini a lui vicini, in buona parte provenienti da San Pietroburgo, liquidando definitivamente i rappresentanti del vecchio establishment legato a El´cin. Sin dal momento della propria rielezione egli cambiò il capo del governo Kas´janov con Michail Fradkov. Nel settembre 2007 quest’ultimo fu a sua volta sostituito da Viktor Zubkov. Anche il capo dell’amministrazione presidenziale, Aleksandr Vološin, venne sostituito da Dmitrij Medvedev. Nel novembre 2005 Medvedev divenne vicepresidente del Consiglio insieme a Sergej Ivanov, già ministro della Difesa. Tali avvicendamenti ebbero anzitutto l’ovvia motivazione di garantire una più sicura gestione del proprio potere da parte del presidente. Ma furono anche dettati dalla volontà di Putin di preparare la propria successione alla presidenza della Federazione. La Costituzione russa non consente infatti che il presidente possa essere rieletto per un terzo mandato. Putin dichiarò più volte di essere fedele a tale dettato e di non voler porre mano a una modifica costituzionale, malgrado il largo consenso dell’opinione pubblica russa verso una simile eventualità. Egli mantenne la parola, ma fu lo stesso Putin a scegliere il proprio successore e a investirlo della propria autorità, seguendo insieme uno stile largamente autocratico e una prassi di moderna manipolazione della democrazia.
Sotto ogni punto di vista, le elezioni alla Duma tenutesi nel 2 dicembre 2007 registrarono un’evoluzione scontata e irresistibile verso la formazione di un regime dominato dal partito del presidente. Questa volta l’affermazione di Russia unita superò infatti di gran lunga la soglia della maggioranza assoluta con il 64,3% dei voti (corrispondenti a 315 seggi su 450). Gli altri partiti politici apparvero ridotti a insignificanti comprimari. I comunisti confermarono il risultato precedente, attestando il loro declino attorno alla modesta percentuale dell’11,5%. Altrettanto fece la destra radicale, conseguendo l’8%. Il quarto partito fu Russia giusta (Spravedlivaja Rossija), formazione filopresidenziale che aveva sostituito Patria ottenendo il medesimo risultato, con il 7,7% dei voti. Nessun altro partito superò la soglia del 7% prevista per ottenere seggi alla Duma. Nel complesso, le forze che sostenevano il presidente possedevano una maggioranza nettamente superiore ai due terzi con la possibilità di realizzare cambiamenti costituzionali. Le modalità con cui si svolse la prova elettorale suscitarono molte serie perplessità tra gli osservatori internazionali. In particolare, l’Unione Europea e l’OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe), pur riconoscendo che tecnicamente non verificarono irregolarità, sollevarono dubbi sulle limitazioni imposte alla competizione politica e sulla correttezza dei metodi impiegati dal governo. L’uso monopolistico dei media e le intimidazioni verso gli oppositori più noti, come l’ex campione di scacchi Garri Kasparov, più volte arrestato per aver organizzato dimostrazioni di piazza, apparvero veramente eccessivi.
In altre parole, le elezioni del 2007 replicarono, sviluppandolo, lo scenario del 2003. Paradossalmente, le forze presidenziali avrebbero potuto con ogni probabilità prevalere anche in una competizione autentica, ma la logica stessa della politica putiniana portò di fatto alla liquidazione del pluripartitismo. Uno schiacciante consenso di natura fondamentalmente patriottica e nazionalista si cementò attorno alla figura presidenziale, evidenziato anche dalla nascita di club e di organizzazioni collaterali che presentavano in modo più o meno esplicito tale ispirazione. Come accadde già nel 2003, nessun partito di orientamento liberaldemocratico o socialdemocratico fu rappresentato in Parlamento. Tale risultato confermò l’assenza di un consenso popolare attorno alle forze di ispirazione occidentalista. Ma esso costituì anche una mortificazione del ruolo del Parlamento, nel quale erano rappresentati due soli autentici partiti, Russia unita e il Partito comunista, senza che esistesse alcuna possibile alternativa tra loro, data la preponderanza del partito del presidente. Le elezioni alla Duma apparvero una manifestazione preparatoria delle elezioni presidenziali dell’anno successivo.
All’indomani delle elezioni parlamentari del dicembre 2007, Putin sciolse le riserve e indicò il proprio successore in Medvedev, tra i suoi delfini colui che aveva alle spalle una carriera molto più legata al potere economico che non alla tradizione degli apparati della forza e della sicurezza. Giurista di formazione e tecnocrate di vocazione, Medvedev si affacciò alla politica sotto l’ala protettrice di Sobčak a San Pietroburgo, proprio come Putin. Sin dall’inizio chiamato a un ruolo dirigente nello staff presidenziale, Medvedev divenne dopo il 2000 capo del Gazprom, essendo così protagonista, insieme a un altro putiniano, Alexej Miller, della restaurazione del controllo statale sul settore energetico. Quanto a Putin, la sua mossa potrebbe ricordare quella compiuta a suo tempo dal leader cinese Deng Xiaoping, cioè designare i successori ritagliando per sé il ruolo di un’eminenza grigia. In realtà, egli riservò per sé un ruolo più esposto e significativo. Nella sua veste di candidato segnalato dal presidente uscente e sostenuto dal partito del presidente, Medvedev annunciò pubblicamente la propria volontà di garantire la piena continuità dell’eredità lasciatagli da Putin, mentre quest’ultimo si preparava ad assumere il ruolo di capo del governo. Le elezioni presidenziali del 2 marzo 2008, di conseguenza, si svolsero secondo un copione già scritto. Praticamente senza avversari di rilievo, Medvedev trionfò al primo turno delle consultazioni ottenendo oltre il 70% dei voti, come aveva fatto Putin quattro anni prima. Subito dopo la propria elezione, Medvedev annunciò la nomina di Putin alla carica di primo ministro. All’insediamento ufficiale del terzo presidente della Russia postsovietica, che si svolse il 7 maggio 2008, fece seguito puntualmente l’assegnazione dell’incarico di primo ministro al presidente uscente. In questo modo l’estrema personalizzazione del potere determinatasi negli anni della presidenza Putin si articolò attorno a due personalità decise a ripartirsi consensualmente il potere politico.
Gli scenari del dopo Putin
Il testamento politico di Putin come secondo presidente della Russia postsovietica è rappresentato dal discorso che egli ha tenuto nel febbraio 2008 dinanzi al consiglio di Stato, fornendo un bilancio della propria azione politica. Egli ha rivendicato la performance dell’economia russa, la ricostruzione dell’autorità statuale e dell’ordine costituzionale, l’intervento militare in Cecenia come argine contro il rischio di una disgregazione della Federazione, la lotta al terrorismo, la ripresa del ruolo internazionale della Russia come Stato ‘potente’. Ha annunciato il raddoppio del PIL nel prossimo decennio e vagheggiato un cambiamento qualitativo della vita. Ha presentato la Russia come un partner affidabile della comunità internazionale e respinto ogni tentazione isolazionistica. In sintesi, egli non ha avanzato alcun auspicio di sviluppo della democrazia e ha invece promesso di mantenere e accrescere il ruolo internazionale della Russia. Dopo l’elezione di Medvedev, l’atto politico più significativo compiuto da Putin è stata la partecipazione al summit tra NATO e Russia all’inizio dell’aprile 2008. Putin non ha perso l’occasione per ribadire sia la disponibilità del suo Paese alla cooperazione e il distacco irreversibile dall’epoca della guerra fredda, sia l’ostilità russa all’espansione della NATO, all’installazione di un sistema missilistico in Polonia e nella Repubblica Ceca, all’indipendenza del Kosovo.
Pochi mesi dopo, nell’agosto 2008, la guerra tra Russia e Georgia ha confermato l’estrema determinazione di Putin e di Medvedev in politica estera, laddove a Mosca si ritengano violati interessi nazionali vitali. L’occupazione armata russa della Abkhasia e dell’Ossezia meridionale è giunta dopo una lunga serie di tensioni e provocazioni reciproche con la Georgia, il cui significato va molto al di là della questione delle minoranze etniche russe. La decisione della guerra è maturata, in realtà, come una risposta e un monito contro l’espansione della NATO a Est e la perdita d’influenza di Mosca in un’area decisiva dello spazio postsovietico, anche sotto il profilo energetico. Invocando il precedente del Kosovo, la Russia ha così rivendicato la legittimità dell’uso della forza alla sua periferia e ha creato le premesse per uno smembramento dello stato georgiano. È evidente che i destinatari del messaggio russo sono anzitutto gli Stati Uniti e l’Unione Europea.
Il bilancio degli otto anni della presidenza Putin non può prescindere da tre considerazioni: la Russia ha conosciuto un notevole sviluppo economico, dopo le crisi degli anni Novanta; ha raggiunto una innegabile stabilità interna, sia nel suo sistema politico e istituzionale sia nel rapporto tra centro e periferia della Federazione; ha rilanciato il proprio ruolo internazionale, consolidando l’idea dell’interesse nazionale. Ciò appare sufficiente a motivare la popolarità e il consenso di Putin che non sono soltanto il risultato dei vincoli imposti dall’alto alla competizione politica. Tuttavia i limiti della transizione democratica sono il prezzo molto elevato pagato dal Paese per conseguire i suddetti successi. Putin ha abbandonato il tentativo di coniugare l’introduzione del mercato con una riforma democratica del sistema politico e ha chiuso così una fase importante della storia russa aperta da Gorbačëv. La transizione democratica della Russia non è stata la priorità di Putin che ha invece costruito uno Stato fortemente centralizzato. In una società ancora scarsamente strutturata, che non conosce il ruolo di istituzioni quali i sindacati e le organizzazioni degli interessi, l’evoluzione della Russia avviene in una chiave diversa da quella dell’occidentalizzazione, senza rinunciare all’integrazione del Paese nell’economia internazionale.
La democrazia controllata creata da Putin appare ormai sufficientemente consolidata e in grado di consentire una transizione del potere. La Russia è un Paese privo di un’autentica opposizione parlamentare, con un sistema politico dominato dal partito del presidente e con un sistema dell’informazione pressoché integralmente controllato dall’alto. Ma il presidente e il primo ministro ricevono un’ampia legittimazione popolare dai riti di una democrazia manipolata. La personalizzazione della politica ha giocato e gioca un ruolo fondamentale, nella prassi come nella cultura politica della Russia. Sotto questo profilo, lo sdoppiamento dei ruoli tra Medvedev e Putin sembra aprire una potenziale contraddizione nel sistema dagli sviluppi imprevedibili. Lo scenario di una conflittualità latente o manifesta ai vertici del potere deve essere tenuto in attenta considerazione, specie in un sistema che registra la preponderanza del potere esecutivo sugli altri poteri. Tuttavia, al momento dell’insediamento di Medvedev come presidente e di Putin come capo dell’esecutivo, lo scenario più probabile per il futuro della Federazione Russa appare quello della consonanza di fondo su alcuni elementi essenziali: la centralizzazione del potere e l’espansione del controllo dall’alto sui centri vitali dell’economia del Paese; i limiti imposti alla crescita e alla libera espressione della società civile; la modernizzazione del Paese entro le linee del modello di sviluppo sinora seguito; l’ideologia della grande potenza russa e la visione della Russia come centro autonomo di un sistema internazionale multipolare; la retorica patriottica e paternalistica presente come elemento centrale nel discorso politico ufficiale.
È stato osservato che dopo il crollo dell’Unione Sovietica il passaggio dall’impero allo Stato-nazione si è verificato per la Russia in un momento storico particolarmente sfavorevole, quando cioè le interdipendenze dell’economia e della politica mondiale che hanno sprigionato la cosiddetta globalizzazione si sono intensificate in una misura estrema, mettendo in crisi la stessa sovranità degli Stati. Ciò spiegherebbe le oscillazioni verificatesi tra le spinte verso l’integrazione internazionale, che presuppongono l’adozione di modelli economici e politici occidentali, e le spinte verso la difesa della compagine statale, che invece producono un allontanamento da quei modelli (Benvenuti 2007). In ogni caso, la scelta di affrontare le nuove sfide globali tramite uno Stato forte e una concentrazione delle risorse strategiche del Paese rivela la persistenza di una cultura politica molto tradizionale. Non soltanto la prospettiva dell’integrazione nell’economia globale è stata bilanciata dal consolidamento della sovranità statuale, ma si è anche affermato un primato della dimensione di potenza della Russia, sia pure rivisto in chiave di potere energetico piuttosto che militare. Gli imperativi legati agli interessi nazionali e alla sicurezza hanno sinora prevalso su quelli dell’adeguamento normativo e sistemico ai principali criteri mondiali di liberalizzazione economica e di democratizzazione. La definizione stessa dei concetti di interesse nazionale e di sicurezza ha oscillato tra un’idea moderna, volta ai principi della prosperità economica e del soft power, e un’idea più tradizionale, ispirata ai principi dei rapporti di forza e della geopolitica. Sotto questo profilo è sembrata riprodursi una permanenza della storia russa, compreso il periodo sovietico: la priorità assegnata allo status internazionale del Paese come grande potenza rischia di compromettere le chances di una sua futura evoluzione liberale e democratica (Russian foreign policy in the 21st century, 2007).
Il pragmatismo neoautoritario di Putin non ha sciolto un simile nodo, ma non ha neppure annullato la possibilità di una soluzione che possa finalmente liberare il Paese dal retaggio del suo passato. La finestra di opportunità costituita dalla crescita economica, dall’integrazione internazionale, dalla mancanza di autentiche minacce esterne alla sicurezza statale, mantiene aperta la chance di portare avanti la transizione verso la democrazia.
Soltanto su questa strada la Russia potrà svolgere il ruolo di una potenza democratica eurasiatica in un mondo multipolare: un obiettivo che è però ancora lontano dall’essere raggiunto.
Bibliografia
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