La questione romana
Per Pio IX la rinuncia al potere temporale sarebbe stata quasi un’eresia. Egli aveva sottolineato il carattere intangibile del patrimonio di Pietro già all’indomani delle vicende della Repubblica romana, con l’enciclica Nostis et Nobiscum (8 dicembre 1849), pubblicata durante il suo esilio a Gaeta, e ne aveva fatto in seguito un tema ricorrente di tutto il suo pontificato, a partire dall’allocuzione Ad gravissimum del 20 giugno 1859, che costituirà il modello per le preposizioni 75 e 76 del Sillabo e per il capitolo 12 dell’originario schema De Ecclesia discusso al concilioVaticano I. Dopo la perdita delle Romagne, l’enciclica Nullis certis verbis (19 gennaio 1860) e la lettera apostolica Cum Catholica Ecclesia (26 marzo 1860) reclamarono la restituzione sic et simpliciter dei territori annessi, ricordando la natura provvidenziale dello Stato pontificio che, se «suapte natura temporalem rem sapiat, spiritualem tamen induit indolem»1. PerGiovanni Mastai Ferretti la questione dei domini della Santa Sede non implicava conseguenze solo a livello materiale, ma assumeva una connotazione spirituale, quasi escatologica. A chi lo invitava – da parte cattolica e non, in Italia e all’estero – a rinunciare almeno alla province perdute, Pio IX opponeva il proprio non possumus, dichiarando che tale abdicazione sarebbe equivalsa a squarciare «la veste di Gesù Cristo, che rimase intatta anche sopra il Calvario»2. Si trattava di contraddire una storia secolare e soprattutto di venir meno ai giuramenti prestati dai pontefici al momento dell’accesso al soglio di Pietro ovvero di preservare la traditio, che includeva anche l’obbligo di trasmettere intatto il patrimonio della Chiesa. Una norma nata in tempi di nepotismo3 che alzava enormemente la posta in gioco. Proprio per questo Pio IX, che ricordò costantemente il proprio obbligo di fedeltà a tali giuramenti fino al termine della propria vita, si dichiarava ‘depositario’ – non già ‘proprietario’ – dei diritti della Santa Sede, per cui solo a Dio o al popolo dei fedeli (da qui discendono i tentativi di ‘internazionalizzazione’ della questione) toccava disporre dell’eredità di tanti secoli. Rifugiandosi nella natura ereditaria di ciò di cui era chiamato a essere custode, egli riuscì a procurarsi l’alibi per evitare i negoziati e lasciare le bocce ferme, o quasi, fino all’elezione del suo successore. Agli occhi degli osservatori contemporanei, infatti, solo un pontefice non direttamente coinvolto negli avvenimenti risorgimentali avrebbe potuto sbrogliare una tale matassa, anche perché, nella percezione dell’opinione pubblica del tempo, la responsabilità della posizione di arroccamento della Chiesa era attribuita principalmente al carattere passionale di papa Mastai Ferretti. A causa di tale temperamento, per molti c’era mancato poco perché la questione del potere temporale divenisse dogma di fede. Era stato questo, infatti, il timore delle potenze europee, e in primo luogo dell’Italia, all’indomani della convocazione del concilio Vaticano I, apertosi nel 1870. In realtà il concilio non dogmatizzò, come si temeva, lo Stato pontificio, ma attraverso la proclamazione dell’infallibilità pontificia costituì il coronamento di un processo di ‘rinserramento’ tra le fila della Chiesa. La fine dello Stato della Chiesa, scomparso per la maggior parte nel biennio 1859-1860, aveva anticipato d’un decennio la caduta del potere temporale, che sopravvisse nella città sacra e negli immediati sobborghi fino alla breccia di Porta Pia. Gli anni intercorsi fra i due avvenimenti videro dunque da parte della Santa Sede un giro di vite più forte nel tentativo di riaffermazione del ruolo della Chiesa nella società contemporanea e soprattutto per l’identificazione di essa con il papato, invitando le chiese locali e i fedeli delle nazioni a convergere su Roma e a stringersi attorno al pontefice. È precisamente in questo periodo che vedranno la luce l’enciclica Quanta cura e il Sillabo, documenti che condannavano le dottrine liberali e della modernità, mentre appunto nel 1870 il concilio Vaticano avrebbe attribuito per dogma, con la costituzione Pastor Aeternus, il carattere di infallibilità alla persona del pontefice. Tale processo, anticipato anche all’inizio del pontificato con la proclamazione del dogma dell’Immacolata, avvenuta subito dopo il rientro da Gaeta e con modalità che quasi precorrevano l’infallibilità, assorbì costantemente gran parte delle energie di Pio IX, che mirava a un potenziamento disciplinare e dogmatico del cattolicesimo, soprattutto riguardo ai rapporti gerarchici tra centro e periferia della Chiesa, nel contesto di un mondo sempre più assorbito dal sistema liberale e dalla secolarizzazione. In questo senso, si può certamente parlare di reazione della Santa Sede alla rivoluzione politica e culturale introdotta dal liberalismo. Una reazione condotta su due livelli, esterno e interno, affiancando alla condanna della modernità lo sforzo per l’elevazione spirituale del clero e la sua subordinazionale al centro della cattolicità, contro le tendenze centrifughe delle Chiese nazionali. L’enciclica Quanta cura e il Sillabo erano infatti rivolti precipuamente ai cattolici liberali e a quelle frange dell’episcopato europeo e d’oltreoceano più sensibili alle ragioni dei propri governi che a quelle del pontefice. A questo proposito, il temuto concilio Vaticano (tenutosi, per la prima volta nella storia della Chiesa, con l’esclusione dei capi di Stato dei paesi cattolici ai lavori) si riuniva al fine di ribadire l’indissolubilità del legame spirituale e giuridico dei vescovi con Roma, e la loro subordinazione gerarchica nel quadro dell’unità della Chiesa.
La breccia aperta nelle mura aureliane presso Porta Pia il 20 settembre 1870, oltre ad aver interrotto i lavori del concilio, squarciò il progredire di tale processo. Proprio la vecchia paura del separatismo delle Chiese nazionali venne nuovamente risvegliata a causa del rischio della fine dell’indipendenza del pontefice. Senza un regno temporale era infatti difficile che il papa potesse essere libero in casa d’altri: i cattolici di tutto il mondo mai avrebbero potuto accettare l’idea di un papa ‘cappellano del re d’Italia’. Inoltre, senza un popolo e senza un territorio dai confini ben delimitati non risultava possibile che egli potesse giocare un ruolo determinante sullo scacchiere internazionale alla pari o addirittura a livello superiore rispetto agli altri capi di Stato. Fu quindi proprio il timore della reazione dell’opinione cattolica internazionale a indurre la Santa Sede a rinchiudersi in un atteggiamento di strenuo rifiuto dei fatti compiuti, onde smarcarsi dalle accuse di parteggiare per il re d’Italia o d’aver favorito, anche tramite la sola accondiscendenza, il processo di unificazione. Anche i pontefici che succedettero a Pio IX dovettero fare i conti molto prudentemente con tale eredità, come dimostrarono i ripetuti e sempre falliti tentativi di conciliazione, manovre che richiesero un tempo tanto più lungo quanto decennale era stato il periodo trascorso dalla Chiesa nell’area di sosta, lasciando la Santa Sede in una situazione di stallo che la rendeva praticamente ‘prigioniera della questione romana’.
Il problema dell’indipendenza del papa era infatti una questione più che materiale. Le istanze legittimistiche, dalle quali derivava la protesta per l’usurpazione subita da uno Stato sovrano in opposizione al ‘comune diritto delle genti’, avevano un carattere più che altro strumentale. Molto più pesava l’operazione di ‘sacralizzazione’ dello Stato della Chiesa, dovuta alla sincera e vivissima preoccupazione per la sopravvivenza del potere spirituale senza il conforto del dominio temporale, possibilità che la stessa esperienza storica aveva escluso sino ad allora per tanti secoli, seppur con brevi parentesi. Non vanno sottovalutati infatti i risvolti psicologici della perdita del potere temporale, esemplificati dagli episodi di espropriazione dei conventi e degli istituti religiosi all’interno della stessa Roma, adattati a sede dei nuovi ministeri4. Con le macerie delle mura aureliane era stata spazzata via l’autocomprensione dell’esistenza stessa della Chiesa e delle comunità cristiane all’interno degli Stati nazionali. Se si assume il temporalismo soprattutto come una modalità di concepire la religione nelle società, modellate ufficialmente secondo i canoni etici del cattolicesimo, si può cogliere come la questione del potere temporale mettesse a repentaglio la stessa sovranità del papa come presidio della ‘civiltà cattolica’, tutela della fede e dei costumi dei fedeli5. In gioco erano dunque la secolarizzazione della società, il problema della separazione tra Chiesa e Stato, la legislazione religiosa e in materia etica, il sostanziale ‘conflitto di competenze’ nella giurisdizione morale dei cittadini dalla doppia appartenenza, al regno e alla Chiesa. Secondo la logica dell’intransigentismo, qualsiasi limitazione dei privilegi del clero e dei suoi diritti d’intervento nella società civile, qualsiasi evoluzione dello Stato che, rinunziando a essere braccio secolare della Chiesa, secondo il modello medievale della cristianità, accordasse le libertà ‘moderne’ (libertà religiosa, di pensiero, di associazione e di stampa, matrimonio civile e scuola pubblica) ai cittadini, equivaleva a una deliberata intenzionalità di diffondere l’immoralità ed allontanare i fedeli dalla religione6. Per questa ragione, dalle ‘stanze del Vaticano’ non potevano che contestarsi assai vivamente alcune delle motivazioni politiche che il governo italiano aveva addotto a giustificazione dell’occupazione del rimanente territorio pontificio, come per esempio la necessità di tutela dell’ordine pubblico nel Lazio contro le mene rivoluzionarie, le aspirazioni nazionali dei romani e la stessa sicurezza del papa e dei membri della Curia. Giustificazioni che, se accettate a livello internazionale, avrebbero costituito per la Santa Sede una débâcle politica e un’umiliazione del proprio prestigio, smentendo l’equivalenza dello Stato della Chiesa con la societas perfecta, per cui esso avrebbe dovuto offrire il modello di un’organizzazione politica in cui le regole della giustizia religiosa, presiedendo all’amministrazione degli interessi temporali, garantivano ordine, sicurezza e progresso. Il crollo dello Stato pontificio avrebbe così costituito anche il fallimento dell’esempio perfetto di Stato confessionale cattolico. Si dovevano perciò respingere a ogni costo le tesi italiane, come anche le accuse di arretratezza culturale ed economica degli Stati pontifici. La Santa Sede si sforzò costantemente di denunciare all’opinione pubblica di tutto il mondo come il problema della rivoluzione si fosse posto nei suoi territori non prima, ma a causa dell’entrata delle truppe italiane. A questo scopo erano dirette le prime circolari diplomatiche di protesta del cardinale Giacomo Antonelli e a questo fine era stata ideata quella distinzione tra ‘Italia reale’ e ‘Italia legale’ su cui si baserà tutta la politica della Santa Sede durante la questione romana.
Non era la prima volta che Roma veniva strappata ai pontefici. Dall’inizio del secolo o poco più, già in tre occasioni si era verificata la caduta del potere temporale dei papi: durante l’invasione francese del 1798, nel 1808, con l’espandersi dell’impero napoleonico, e nel 1848, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta, cui era seguita la proclamazione della Repubblica romana. Tali precedenti contribuirono ad alimentare, sia prima del crollo che dopo, la convinzione per la Santa Sede e per molti cattolici della temporaneità dell’occupazione italiana, nell’attesa di un intervento restauratore, che ciclicamente era ricorso in ognuna delle trascorse occasioni e che con fatalistica pazienza ci si attendeva anche dopo il 1870, o per mano diretta di Dio o per opera di Dio attraverso l’intervento di qualche potenza estera7. Una speranza che, seppur nella forma dell’attesa non di un evento miracoloso, quanto di un’intercessione straniera, magari in occasione di una guerra europea, sopravviverà fino ai tempi di Leone XIII. Tuttavia, la breccia di Porta Pia si era aperta nel contesto di un’Europa molto diversa rispetto a quella di pochi anni prima, lacerata com’era dal conflitto franco-prussiano, che attirava su di sé tutte le attenzioni e tutti i timori delle potenze europee. La Santa Sede non trovò come in passato governi disposti a impegnarsi per il ristabilimento dei propri domini. Dietro le manifestazioni di ossequio al pontefice da parte degli Stati stranieri, cominciava a rivelarsi la realtà di un’impietosa indifferenza, che col procedere degli anni e dei decenni andò sempre più consolidandosi come definitiva. A tale status quo non si abituavano solo le potenze europee, concentrate nel tirare le somme e ritrovare un equilibrio dopo l’unificazione tedesca, ma anche le masse cattoliche, sempre meno scandalizzate dalla condizione del pontefice. Tuttavia, la consapevolezza che l’opinione pubblica estera e italiana fosse assai meno allineata alla posizione del papa di quanto volessero pubblicamente far credere le ricorrenti proteste della Segreteria di Stato, si affermò tra i membri della Curia romana solo molto lentamente. La Santa Sede continuò quindi a concentrare la maggior parte degli sforzi proprio nel tentativo di internazionalizzare la questione romana ovvero di impedire che fosse considerata come problema politico interno allo Stato italiano. Il governo del Regno d’Italia era infatti ritenuto dalla Santa Sede ‘incompetente’ a legiferare, ad esempio attraverso la legge delle guarentigie, su un oggetto
«il quale è assai più religioso che politico, trattandosi qui nientemeno che delle condizioni di esistenza pubblica e di libertà spirituale del capo della Chiesa in quanto tale; cioè in quanto esercita l’ufficio di Pastore supremo di tutto il gregge cattolico. Ma con qual diritto [tuonava «La Civiltà cattolica»] uno Stato qualunque può assumersi di definire da sè solo, in una legge da sè solo concepita e da sè solo fabbricata, una questione che sorpassa di grandissimo intervallo tutte le competenze di qualsiasi autorità civile?»8.
Una delle prime strategie messe in atto dalla Santa Sede per contrastare l’occupazione consistette dunque nella raffica continua di circolari diplomatiche di protesta, sapientemente diramate dalla Segreteria Antonelli a ogni pretesto che ne desse occasione, onde suscitare la reazione dei governi stranieri9. Ciò impegnò il governo italiano nello sforzo di prevenire le mosse della Santa Sede e di smentirne prontamente le dichiarazioni sia riguardo alla libertà di azione del papa in Roma sia riguardo alla sua sicurezza. A questo fine l’Italia dispiegò un servizio di intelligence addestratissimo a intercettare le comunicazioni della Segreteria di Stato con i propri nunzi all’estero: una fitta rete di spionaggio e controllo di corrieri e dispacci dispiegata nell’intento di prevedere ogni passo diplomatico della Santa Sede e di precederlo con opportune dichiarazioni del capo del governo. Dal canto suo la Segreteria di Stato tentò di proteggere le proprie comunicazioni utilizzando un sistema di cifratura e servendosi soprattutto di corrieri insospettabili, come ad esempio nobili in visita presso il papa. Per mantenere viva l’attenzione sulla situazione della Chiesa in Italia occorreva rendere la questione romana come una frattura sempre aperta nell’ambito della diplomazia internazionale. La Santa Sede dovette quindi continuamente vigiliare perché non potessero essere raggiunti, consapevolemente o inconsapevolmente, accomodamenti sullo status quo. È alla luce di questa ferma posizione di rifiuto del fatto compiuto che andrebbero interpretati alcuni contradditori passi diplomatici intrapresi dal cardinale Antonelli già all’indomani del 20 settembre. Tra questi, il più emblematico e notorio è certamente l’invito, rivolto al generale Raffaele Cadorna per ragioni di ordine pubblico, a far occupare dalle truppe italiane anche la città leonina, rinunciando con ciò a un lembo del territorio romano che pure il governo italiano aveva sempre promesso alla Santa Sede e di cui anche il primo articolo dell’atto di capitolazione sottoscritto poche ore prima da Hermann Kanzler prevedeva la conservazione al pontefice. Nonostante tale spontaneo rifiuto, il 30 settembre Antonelli, in una circolare ai nunzi apostolici, protestò per l’inclusione del quartiere di Borgo nel plebiscito che avrebbe coinvolto qualche giorno dopo la città di Roma, ma chiariva che menzionava tale episodio non per confermare che la Santa Sede si sarebbe accontentata di quel compromesso, quanto piuttosto «per constatare soltanto la buona fede del governo italiano e l’impegno ch’esso pone e che porrà nel mantenere le sue promesse»10. D’altro canto, qualche giorno prima era stata proprio una lettera di Antonelli a Cadorna a chiedere alle truppe italiane di proseguire nell’occupazione11. Il fatto poi che Antonelli già il 30 settembre sapesse che gli abitanti di Borgo avrebbero partecipato al plebiscito, contrastante con le asserzioni fatte dal governo italiano davanti agli osservatori esteri secondo cui la raccolta dei voti della città leonina sarebbe avvenuta spontaneamente e all’ultimo momento, potrebbe far ipotizzare che tra il governo italiano e la Santa Sede fosse intercorso qualche accordo informale in questo senso per togliersi entrambi d’impaccio. Infatti, nonostante l’ufficiale rifiuto a riconoscere lo Stato italiano e quindi l’impossibilità di contatto con i rappresentanti del governo sia in Italia che all’estero, si presentarono più volte occasioni che misero obbligatoriamente Santa Sede e Stato italiano nella necessità di ricercare un colloquio e, talvolta, segreti accomodamenti. In tali frangenti, ci si servì con estrema accortezza di vie ufficiose. Uno di questi canali fu stabilito attraverso la figura del commissario di polizia del quartiere di Borgo, Giuseppe Manfroni, che riuscì a guadagnarsi la fiducia dei prelati vaticani e che in più occasioni trasse d’imbarazzo le due parti in gioco, allontanando il rischio di scandali diplomatici12. Nella questione dell’ordine pubblico a Roma, l’Italia si stava infatti giocando la propria credibilità internazionale, dovendo dimostrare di essere in grado di garantire l’incolumità e l’indipendenza del papa in quella che era stata la sua città. Per questo il commissariato di Borgo e quindi la questura di Roma divennero un fronte di prima linea nel dipanamento della questione romana, nel ricorrere di una moltitudine di episodi, anche molto quotidiani, che richiesero da parte delle autorità italiane un supplemento di prudenza e di pazienza. Situazioni delicate si verificarono ad esempio in occasione della morte di Pio IX e delle sue esequie. L’esposizione, protrattasi per giorni, del corpo del papa all’omaggio della folla fu garantita dalle forze dell’ordine italiane, schierate in uniforme nella piazza e in borghese all’interno della basilica di S. Pietro, a supporto del servizio d’ordine prestato, ufficialmente ma insufficientemente, dai gendarmi pontifici. Analoga soluzione si diede al problema della tutela dell’ordine pubblico nei giorni del conclave, quando la folla, tra fedeli e anticlericali, si riversò nella basilica e nella piazza in attesa della benedizione del nuovo pontefice.
Nella prassi, dunque, le necessità della convivenza comportavano in una certa misura una collaborazione con lo Stato italiano. Ciò si verificava non solo a Roma, ma anche presso i nunzi apostolici all’estero, che, pur nolenti, dovevano prendere parte ai ricevimenti diplomatici a cui partecipavano anche i colleghi italiani. Ancora più difficile era la posizione degli ordinari diocesani, costretti dalle necessità pastorali a dialogare quasi quotidianamente con le autorità italiane, mentre tra l’altro molti dei loro fedeli li incoraggiavano alla conciliazione. Nonostante i richiami di Roma, furono infatti numerosi i casi di vescovi presenti insieme al popolo e alle autorità cittadine ad accogliere la famiglia reale in visita per le province d’Italia, o che officiarono esequie in occasione di decessi illustri o permisero il Te Deum per la festa dello Statuto o altre ricorrenze. Gli ordinari appena nominati poi, per poter entrare pienamente in possesso del patrimonio della diocesi ed esercitare le funzioni amministrative, avevano bisogno secondo la legislazione italiana di ricevere il placet del governo13. Un compromesso, quello dell’exequatur, molto faticoso a raggiungersi e difficile tra l’altro a praticarsi, dato che le autorità civili chiedevano a quelle religiose copia della bolla di nomina ed era impossibile il dialogo fra le due parti. Si trovò un accomodamento pubblicando le bolle sulle bacheche delle cattedrali, per poi lasciare che solerti laici le ricopiassero onde inoltrarle all’autorità italiana. Ma più tardi, in un frangente di maggior frizione tra Santa Sede e Italia, governata dalla sinistra, tale stratagemma non bastò più. I seri disagi, non solo economici, affrontati dal clero e dall’episcopato relativamente al problema dell’exequatur, se inizialmente soccombettero davanti ai principi che tenevano la Santa Sede ferma sulla posizione di rifiuto del fatto compiuto, in seguito richiesero il raggiungimento di faticosi punti di equilibrio.
La stessa questione di principio sta all’origine del respingimento da parte di Pio IX della rendita a lui destinata dal governo italiano, malgrado le evidenti difficoltà finanziarie attraversate dalla sede apostolica dopo la caduta dello Stato pontificio. La rendita era rifiutata non solo per ‘mancanza di tatto’ da parte delle autorità italiane, dato che il denaro rientrava in un capitolo di spesa di volta in volta sottoposto ad approvazione, ma anche per timore di dar scandalo presso l’opinione pubblica internazionale (e intaccare conseguentemente le entrate provenienti dall’obolo di s. Pietro versato dai fedeli di tutto il mondo). La sua accettazione sarebbe equivalsa, infatti, al riconoscimento delle guarentigie, provvedimento che non poteva soddisfare la Santa Sede in quanto atto unilaterale e quindi ‘ottriato’. perché non potesse costituire un atto di subordinazione della Santa Sede al Regno d’Italia, la legge delle guarentigie avrebbe dovuto piuttosto avere la forma di un trattato tra due potenze che si riconoscevano reciprocamente, prevedendo un accordo tra le due parti su base territoriale (quindi, restituire al papa almeno una parte dei suoi vecchi domini) o una garanzia internazionale sulla condizione del pontefice, interessando le altre potenze. Invece la legge del 13 maggio 1871 era solo una legge ordinaria dello Stato, che vincolava unicamente il governo che l’aveva promossa e non lo Stato in quanto tale. La gerarchia ecclesiastica non poteva fare alcun affidamento su una legislazione che qualsiasi maggioranza al potere avrebbe potuto cancellare. La stessa natura costituzionale dello Stato italiano, con il suo alternarsi al governo di partiti e personalità anche molto distanti tra loro per sentire e per intenti politici, non impediva che tale garanzia fosse modificata in maniera unilaterale a piacere dei poteri legislativo ed esecutivo. Inoltre anche la pericolosa ascesa delle sinistre, che avrebbero conquistato il governo nel 1876, contribuiva a tenere in allarme la Santa Sede. Nel 1878, il ministro degli Interni Crispi interrogò il consiglio di Stato sulla fondamentalità o meno della legge delle guarentigie. In risposta ottenne che «questa legge non ha punto carattere di convenzione internazionale, dacchè fu spontaneamente e liberamente fatta dal potere legislativo nazionale». La commissione inoltre consigliò «che la legge del 13 maggio 1871 detta delle guarentigie sia una legge di diritto pubblico interno dello Stato delle più importanti ed una legge organica e politica […] qualificata come legge fondamentale dello Stato»14. Tuttavia, pur riconosciuta dai giuristi la fondamentalità della legge delle guarentigie, ad essa non fu mai attribuita dignità statutaria. Le guarentigie restarono perennemente una legislazione molto fragile e non mancarono allora come in seguito i detrattori che ne chiesero costantemente l’abolizione.
La scelta compiuta da Pio IX il 20 settembre di non fuggire da Roma, ma di dichiararsi ‘prigioniero’ nelle stanze del proprio palazzo, avrebbe dovuto nelle intenzioni equivalere a una permanente protesta, per se stessa più che eloquente a sollecitare il consesso delle nazioni, il governo italiano e le popolazioni cattoliche. In realtà non solo la ‘prigionia’ non ottenne gli effetti desiderati, apparendo all’opinione pubblica col passare degli anni sempre meno reale che formale, ma tale situazione si rivelò in seguito come una camicia di Nesso che complicava ulteriormente la già intricata questione romana. Il dibattito intorno alla possibilità di fuga del pontefice tornò infatti più volte all’ordine del giorno negli ambienti della Curia, ma in seguito fu sempre più difficile propendere per tale risoluzione, dato che occorrevano motivazioni di volta in volta sempre più gravi per poter giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale un passo che fino ad allora e che soprattutto davanti a uno sconvolgimento epocale come quello del 20 settembre non ci si era decisi a compiere.
In verità, nelle ore immediatamente seguenti al crollo delle mura aureliane, Pio IX aveva consultato alcuni dei cardinali residenti nella città per sciogliere in tempo breve il dilemma intorno al da farsi. Il 21 settembre una lettera del cardinale Costantino Patrizi, vicario di Roma, sottoponeva a tali porporati il quesito: «se si dovrebbe pensare al difficile passo della partenza del S. P. Pio IX da Roma e per dove»15. Si trattava di scegliere la strategia più idonea a procurare un rapido recupero della situazione precedente al crollo, nella speranza che nel frattempo qualche potenza straniera si fosse resa disponibile per un intervento. La fuga era certamente l’opzione principale, comprovata dalla precedente esperienza di Gaeta. Tuttavia, i vent’anni trascorsi dai tempi della Repubblica romana, non solo avevano aggiunto acciacchi e malanni al pontefice, che avrebbe dovuto affrontare i rischi e le fatiche del viaggio, ma riscontravano anche condizioni politiche molto differenti nel panorama internazionale e italiano. Ad esempio, non c’era più uno Stato estero facilmente raggiungibile e relativamente vicino come nel 1849 era stato per Pio IX il Regno delle Due Sicilie. Inoltre, nella Roma del 1870, accerchiata da una penisola ormai completamente unificata, la fuga avrebbe dovuto svolgersi prevalentemente attraversando il territorio italiano e quindi mettendo il pontefice alla mercé delle autorità nemiche. Infine, in un’Europa sconvolta dalla sconfitta di Napoleone III a Sedan, era lecito chiedersi quale nazione avrebbe potuto, nel caso lo Stato della Chiesa non fosse stato ristabilito in tempi brevi, ospitare il papa senza alla lunga suscitare invidie e gelosie nelle altre nazioni e senza attentare alla sovranità del capo della Chiesa.
I cardinali interpellati fecero pervenire le proprie risposte in forma scritta tra il 24 e il 27 settembre, invitati dallo stesso Pio IX a non recarsi personalmente in Vaticano per timore della rabbia popolare. Il risultato della consultazione fu nettamente a favore della permanenza, tra i pareri che sconsigliavano un tale passo in termini assoluti e coloro che avrebbero preferito attendere l’evoluzione dei tempi. Solo tre cardinali invitarono il pontefice a partire immediatamente. Vennero formulate inoltre delle ipotesi riguardo alla destinazione della fuga: si pensò al Belgio, dove i cattolici erano al governo, o all’isola di Malta governata dalla protestante Gran Bretagna, ma che a parer di molti avrebbe promesso una sufficiente indipendenza e, soprattutto, non avrebbe destato l’invidia delle altre corti. Qualcuno indicò anche i territori di lingua tedesca, come il Tirolo e le Province renane o la Baviera, dato che lì vi erano un governo stabile e una dinastia incontestata. In conclusione, comunque, l’invito quasi unanime fu quello di dilazionare la decisione, mentre il cardinale Antonelli sperava che la permanenza a Roma a lungo termine avrebbe gettato discredito sulle autorità italiane presso la diplomazia internazionale.
Pio IX decise dunque di non lasciare la ‘città eterna’. Con l’enciclica Respicientes ea omnia del 1° novembre 1870 dichiarava, «protestando innanzi a Dio e a tutto il mondo cattolico, che siamo tenuti in una prigionia tale che non possiamo esercitare sicuramente, tranquillamente e liberamente la Nostra suprema autorità pastorale»16. Risoluto a non abbandonare il soglio di Pietro finché le contingenze non lo avessero costretto a tale estrema risoluzione, Pio IX riteneva anche che il giorno in cui sarebbe partito da Roma non sarebbe stato nient’altro che una questione di tempo. I progetti di partenza torneranno attuali, infatti, in occasione della promulgazione della legge delle guarentigie, alla fine dell’inverno 1870-1871, quando diversi giornali esteri invitarono il pontefice ad allontanarsi dalla città, considerando tale soluzione come inevitabile al fine di conservare il carattere internazionale del papato. In quei giorni, il pericolo di una fuga fu talmente reale che lo stesso Manfroni venne mobilitato a sorvegliare notte e giorno i palazzi apostolici per informare prontamente i superiori di ogni novità17. Approntare un servizio di scorta al pontefice, onde accompagnarlo degnamente e con tutti gli onori fino al confine, avrebbe infatti permesso all’Italia di sventare qualsiasi critica a livello internazionale. Era questo anche il maggior timore della Santa Sede, per la quale tale omaggio sarebbe equivalso a un ‘insulto’ che avrebbe vanificato l’operazione18.
Altra occasione per meditare la fuga fu l’ingresso di Vittorio Emanuele II nella sua capitale, evento per il quale si riteneva come per certo che Pio IX se ne sarebbe contemporaneamente allontanato. Anche per questo motivo, ma soprattutto per non procurare l’ennesimo affronto al pontefice, il re d’Italia rimandò il più possibile il momento della sua prima visita nella città. L’inondazione del Capodanno 1871 gli diede l’occasione per poter mettere sommessamente piede nell’Urbe, spinto dai doveri di solidarietà verso la popolazione, ma vi rimase solo per poche ore. Fu solo il 2 luglio 1871 cheVittorio Emanuele fece finalmente il suo ingresso ufficiale nella capitale per stabilire la propria residenza proprio in quel palazzo del Quirinale che, già vecchia reggia estiva del papa e sede di molti conclavi, era stato al centro dell’ennesima polemica tra Santa Sede e autorità italiane19. D’altro canto, il governo francese lasciò ormeggiata al porto di Civitavecchia e permanentemente a disposizione del papa la nave Orénoque, un monito eloquente a ricordare come la fuga fosse solo questione di giorni. La ritirò nel 1874, in un clima di profondo imbarazzo nei confronti della Curia romana, che sentì tale partenza come un abbandono.
Nonostante avesse i bagagli sempre pronti, Pio IX alla fine restò fino al termine della propria vita nella città dove si trovano le tombe degli apostoli. Se prevalse dunque l’atteggiamento dell’attesa e della preparazione, in Vaticano si era però ben consapevoli dell’impossibilità di mantenere alla lunga una posizione di immobilismo rispetto alla perdita del potere temporale. Un’occasione propizia per un ripensamento di strategia si presentò con il conclave del 1878, quando sincera fu la preoccupazione dei cardinali circa la libertà e l’indipendenza della riunione alla quale si apprestavano. La morte di Pio IX pose infatti inevitabilmente il problema del luogo in cui sarebbe stato eletto il suo successore: tenere il conclave a Roma avrebbe significato smentire nella sostanza la tesi della prigionia, riconoscendo il retto comportamento e la collaborazione del governo italiano, che per parte sua si stava prodigando per assicurare di essere in grado di tutelare la sicurezza dei cardinali e la loro autonomia; d’altra parte, una partenza da Roma avrebbe significato trasferire le congregazioni, gli archivi, tutto l’apparato amministrativo, senza contare le difficoltà pastorali, ecclesiali e organizzative che ne sarebbero derivate. Inoltre, in quale nazione era certo che il conclave avrebbe potuto svolgersi in piena indipendenza?
Pio IX nel 1871, nel 1874 e poi ancora nel 1877 aveva emanato dei moti propri ovvero delle costituzioni segrete contenenti le proprie indicazioni per il conclave prevedendo la possibilità che questo si fosse tenuto fuori da Roma e dall’Italia. Nel novembre 1877 aveva anche consultato segretamente alcuni cardinali, invitati a dare per iscritto il proprio parere sulle precauzioni da prendere per l’elezione del suo successore20. Le sue disposizioni vennero lette nella prima congregazione generale del collegio cardinalizio, tenutasi l’8 febbraio 1878, il giorno successivo alla morte del pontefice. Immediatamente fu posta ai voti una scelta che poteva avere per la Chiesa proporzioni colossali. Tra le ipotesi sul tappeto vi erano un conclave fuori dal territorio italiano oppure un’elezione ‘presente cadavere’, cioè con una procedura ‘d’emergenza’ che non attendesse le esequie del pontefice. Sui trentadue cardinali presenti, solo otto si pronunciarono a favore dell’opzione romana, mentre cinque si astennero. Un certo numero di cardinali, influenzati da Henry Edward Manning, proposero di tenerlo a Malta, inquieti di salvaguardare la libertà del loro voto. Anche il cardinale Giuseppe Pecci votò per il trasferimento del conclave. Il cardinale Camillo Di Pietro, presidente dell’adunanza in quanto decano del Sacro Collegio, invitò i colleghi a ponderare con calma la decisione e a ripetere la votazione il giorno successivo21. Intanto vennero sondate le disponibilità dei paesi esteri e le intenzioni del governo italiano, che si affrettò a far pervenire le proprie rassicurazioni. Il ministro della Giustizia Pasquale Stanislao Mancini mandò a dire, pare attraverso don Giovanni Bosco, «che il governo rispetterà e farà rispettare la libertà del conclave e che niente turberà l’ordine pubblico»22. Per parte sua Francesco Crispi, allora ministro degli Interni, fece conoscere ai cardinali cosa avevano da aspettarsi nel caso che il Sacro Collegio avesse deciso di lasciare il Vaticano: «se la partenza è stata facile, difficile sarà il ritorno»23. Forse proprio per le assicurazioni (e per le minacce) avute dal governo italiano, o più probabilmente per l’assenza di proposte positive da parte dei paesi esteri, al secondo scrutinio le proporzioni delle preferenze risultarono rovesciate e fu deciso di allestire la cappella Sistina come sede del primo conclave tenutosi nella Roma italiana. Un’altra occasione di fuga, forse l’ultima seriamente giustificata, era stata persa.
Qualche giorno prima della sua morte, Pio IX aveva riconosciuto, come aveva confidato al cardinale polacco Włodzimierz Czacki, che tutto era cambiato: «il mio sistema e la mia politica hanno fatto il loro tempo, ma io sono troppo vecchio per cambiare indirizzo; sarà compito del mio successore»24. Tuttavia, l’eredità del pontificato di Pio IX, concretizzata non solo negli atti magisteriali ma anche nell’assortimento delle personalità inserite in Curia, si rivelò molto difficile da contraddire.
Poche ore dopo la sua ascesa al soglio di Pietro, Leone XIII dovette ad esempio sottomettersi al consiglio dei cardinali che lo avevano appena eletto e rifiutare di impartire la tradizionale benedizione alla popolazione romana affacciandosi dalla loggia esterna di S. Pietro: si mostrò invece alla folla dalla loggia interna alla basilica, confermando già con questo primissimo atto lo stato di ‘prigionia’25. Probabilmente a ciò spinto dalla preoccupazione di non smentire fin da subito l’operato di un così autorevole predecessore (non fosse altro per la lunga durata del pontificato diPio IX), nel primo decennio del pontificato furono decine gli atti pubblici con cuipapa Pecci riprovò la perdita del principato civile, ad esempio nelle lettere ai suoi Segretari di Stato o nella ripetizione regolare, quasi rituale, del tema delle condizioni della Chiesa in Italia in occasione della consueta allocuzione di marzo al consesso cardinalizio. Anche la sua prima enciclica, la Inscrutabili dei consilio (21 aprile 1878), si premurò di ripetere e confermare le dichiarazioni e le proteste di Pio IX «tanto contro l’occupazione del potere temporale che contro la violazione dei diritti della Chiesa romana», anche se Leone XIII non accennava più a tutto l’antico territorio, limitando le rivendicazioni alla sola Roma e lasciando quindi intendere di non voler più porre in discussione l’unità italiana.
Tali rassicurazioni erano rivolte ai cattolici all’estero, perché una nuova linea politica non alienasse il consenso del movimento intransigente; erano dedicate alla Curia, influenzata nei primi passi del nuovo pontificato dai grandi elettori del conclave, quasi tutti creati al cardinalato da papa Mastai Ferretti; erano indirizzate infine all’opinione pubblica, perché potessero essere moderate le grandi speranze conciliatoriste scaturite con la morte di Pio IX. Quali che fossero le sue motivazioni, la conformità delle scelte diLeone XIII a quelle del predecessore confermò di fatto l’indissolubilità del legame esistente tra il papa e la città in cui Pietro era sepolto, rovesciando ciò che i canonisti del Medioevo avevano riassunto nella formula ubi papa, ibi Roma26. L’opinione pubblica cattolica e le posizioni della Curia cambiarono orientamento solo in maniera molto graduale e, nella maggior parte dei casi, non bastò il pontificato per poter vedere compiersi questo processo. In tale contesto, anche il progetto di fuga tornò ciclicamente tra le preoccupazioni pontificie, soprattutto in coincidenza con i momenti di massima tensione anticlericale o per essere utilizzato dalla Curia come minaccia da avanzare in tema di negoziazione a livello internazionale.
Esemplare in questo senso è il dibattito riguardo uno dei primi problemi sottoposti all’esame di Leone XIII ovvero la possibilità di partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche. Nel 1881 papa Pecci decise di impegnare la Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari in un lungo e approfondito studio sul problema, che si protrasse per molti mesi e numerose sedute. Dei dieci dubbi sottoposti ai cardinali, quattro però toccavano il tema più generale della posizione della Santa Sede davanti alla questione romana27. Più volte, infatti, il dibattito dei porporati sul non expedit si era arenato sulle secche della possibilità (o impossibilità) di una conciliazione. Proponendo insieme i due problemi e sottolineando come essi fossero strettamente connessi e quasi inseparabili, Leone XIII sperava probabilmente di esaurire una volta per tutte il dibattito riguardo se e in qual modo fosse effettivamente praticabile il recupero della sovranità temporale e stimolare la Curia all’operatività, magari suggerendo come la partecipazione politica dei cattolici fosse già un primo passo in questo senso. Tuttavia, la discussione prese una piega non prevista, e, dal semplice quesito «se la Santa Sede debba tenere un’attitudine meramente passiva aspettando fiduciosa nella divina Provvidenza gli avvenimenti, ovvero debba ancora formarsi un piano e tenere una linea di condotta operosa ed attiva»28, si arrivò a dedicare cinque sessioni su sei al problema della questione romana, arrivando perfino a rispolverare i propositi di fuga, che stavolta furono approfonditi fino a elaborare un piano dettagliato29. Significativo è anche il fatto che, come emerge dai verbali, la speranza di vedere lo Stato italiano disgregarsi per moti interni o abbattuto da nazioni estere continuava a sopravvivere anche durante il pontificato di Leone XIII. Il 24 marzo 1881, per esempio, la Congregazione si dedicò nel dettaglio all’esame di tutte le eventualità che avrebbero potuto risolvere la questione romana: 1) una conciliazione basata sull’indipendenza territoriale oppure la creazione di una confederazione italiana presieduta dal pontefice; 2) un cambiamento politico interno in Italia (ovvero una rivoluzione repubblicana o radicale); 3) un intervento straniero ‘diretto’ o a seguito di una guerra europea; 4) un intervento straniero ‘indiretto’, come attraverso una conferenza internazionale. Come si vede, dodici anni dopoPorta Pia le attese dei cardinali non sembrano essere molto cambiate. Tuttavia, la posizione di un papa che sperava nella rottura della pace parve a tutti imbarazzante, dato che il ricorso alla forza o alla congiura politica mal si addice alla missione spirituale del papa: i cardinali si trovarono quindi d’accordo nel preferire le conferenze internazionali di pace e comunque nel ritenere che, rebus sic stantibus, la Santa Sede non dovesse fare passi azzardati, ma semplicemente attendere l’evoluzione delle cose30. Fu Ludovico Jacobini, Segretario di Stato di Leone XIII, a insistere perché i cardinali continuassero la discussione, prevedendo con anticipo e nel dettaglio ogni passo che la Santa Sede avrebbe dovuto compiere nel caso che la situazione fosse precipitata, ad esempio nel caso di una rivoluzione in Italia e la conseguente proclamazione della repubblica. Suo intento (e probabilmente anche del pontefice) era forse non soltanto quello di prevenire ogni eventualità, in modo che la Sede apostolica fosse preparata a mettere immediatamente in atto delle contromisure, contrariamente a quanto era successo in passato e specialmente il 20 settembre, ma anche quello di esaurire la discussione sulla questione romana, sull’eventualità di una conciliazione e sui progetti di fuga, in modo da poter far concentrare l’attenzione dei cardinali su altri problemi, ad esempio la soluzione del problema della partecipazione politica dei cattolici italiani.
Le sessioni successive videro i cardinali concordi nel ritenere che, nel caso di rivoluzione politica in Italia, fosse indispensabile la partenza del pontefice dalla ‘città eterna’, dato che il paese sarebbe caduto nelle mani dei radicali e la dinastia dei Savoia, fino ad allora in qualche modo garante per la Santa Sede, sarebbe stata rovesciata. Il ricordo della Comune di Parigi, risalente ad appena dieci anni prima, si ripresentò come un inquietante fantasma tra i porporati partecipanti alla discussione. Stessa soluzione si dava al caso che l’Italia entrasse in guerra contro altre potenze. Il cardinale Luigi Maria Bilio, concorrente di Pecci al conclave del 1878, ebbe in quest’occasione un ruolo determinante nell’influenzare l’opinione dei suoi colleghi. Per lui, il papa non sarebbe dovuto fuggire per salvare la propria vita, «perché ciò non sarebbe né utile, né glorioso, e le azioni del Papa debbono essere improntate da generosità e grandezza». Pur specificando che questo non sarebbe stato il caso diLeone XIII, dato che in tale contingenza la sua salvezza personale sarebbe stata inseparabile da quella della Chiesa, Bilio non poté fare a meno di citare l’opinione di un vescovo consultato a questo proposito: «se il Papa è disposto a subire il martirio è meglio che rimanga, altrimenti parta». Egli ricordò inoltre, a proposito degli episodi di fuga dei papi Pio VI, Pio VII e Pio IX, più volte menzionati dai sostenitori dell’ipotesi di partenza del papa, che tali pontefici «non son partiti da Roma, se non quando vi concorrevano due condizioni: 1) quando erano essi sicuri di essere bene accolti nei luoghi dove andavano 2) quando erano quasi moralmente certi del loro ritorno in Roma». Insinuando il sospetto che tali condizioni non si fossero fino ad allora presentate, rassicurava gli scandalizzati concordando con la necessità di prevedere nel dettaglio ogni evenienza: «senza nulla decidere pel momento della partenza del Papa da Roma motivata dal bene generale della Chiesa, essere cosa molto prudente che tutto si prepari per un siffatto avvenimento»31.
I pareri dei cardinali risultarono discordi anche riguardo alla destinazione della fuga. Tra le preferite, l’ipotesi di Malta presentava lo svantaggio della fede protestante del suo governo e della difficoltà dei collegamenti e delle comunicazioni, che avrebbero seriamente ostacolato l’espletamento dei doveri amministrativi e pastorali da parte del papa e delle congregazioni. La Spagna garantiva cattolicità e affetto della popolazione, ma era temuta perché, nel caso di una lunga permanenza, la Curia si sarebbe certamente ‘ispanizzata’ e avrebbe potuto presentarsi il rischio di una nuova cattività avignonese. Alla fine i cardinali presenti pervennero alla risoluzione di non badare alla cattolicità o meno dello Stato ospitante, quanto piuttosto «se sia conveniente ed utile alla ristorazione». Fu quindi dato mandato al cardinale Segretario di Stato di esplorare, «delicatamente e quasi in suo nome» le disponibilità delle varie potenze straniere32. Dopo approfonditi studi sui pontificati precedenti e su ciò che i papi dell’ultimo secolo avevano messo in atto in circostanze analoghe riguardo sia al loro allontanamento da Roma, sia ai provvedimenti presi per garantire, pur nell’eccezionalità di una fuga, il governo della Chiesa, fu inoltre preparato un piano per mettere al sicuro i valori più preziosi della Santa Sede e i documenti più sensibili degli archivi delle varie congregazioni, mentre due commissioni si riunirono per fissare l’una le modalità di svolgimento del conclave in caso di esilio e l’altra i criteri per l’organizzazione amministrativa della Curia nell’eventualità di una fuga.
Come si vede, i cardinali risultavano preoccupati per l’eventualità della partenza del papa, ma non si facevano troppe illusioni riguardo alla possibilità pratica di condurre a buon fine tale operazione. Tuttavia, mentre si svolgevano tali discussioni, un incidente di grande portata emotiva accadde quell’estate a confermare ai loro occhi l’urgenza di correre ai ripari: la notte del 13 luglio 1881 l’intero mondo cattolico fu sconvolto dall’assalto anticlericale al corteo che stava trasportando la salma di Pio IX da S. Pietro alla chiesa di S. Lorenzo fuori le mura, dove il pontefice aveva dichiarato nelle disposizioni testamentarie di voler essere sepolto. Le forze dell’ordine, che non seppero impedire i tumulti che avevano minacciato perfino di far finire la salma del defunto nelle acque del Tevere, cercarono di coprire la propria imprevidenza sostenendo la tesi della provocazione da parte dei cattolici, mentre il governo con circolari diplomatiche rivendicava il carattere interno della questione33. Il 19 luglio, meno di una settimana dopo gli avvenimenti, la Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari si riunì di nuovo per stabilire se si fossero finalmente presentate le condizioni che rendevano necessaria una fuga del pontefice dal Vaticano. Prevalse però il pensiero che una tale soluzione estrema fosse ancora prematura. Per alcuni, ai quali non piacevano le mezze misure (il cardinale Di Pietro aveva infatti proposto di far allontanare temporaneamente il pontefice dalla capitale col pretesto di problemi di salute), importante era che il papa capisse che se partiva non avrebbe dovuto pensare di tornare. Alla fine, tutti concordarono sul fatto che la responsabilità di tale atto sarebbe stata immensa e che bisognava spingersi a tanto solo in caso di assoluta necessità. Raccomandarono perciò a Leone XIII di non far parola dei propositi di partenza nella prevista allocuzione di agosto. Il pontefice si attenne a tali indicazioni e il 4 agosto, rivolgendosi ai cardinali, si limitò a rilevare a quali pericoli si sarebbe esposto se fosse uscito per le vie di Roma, dal momento che non si erano rispettate nemmeno le spoglie mortali del predecessore. Con questo argomento, la Santa Sede provava agli occhi di tutto il mondo come fosse effetiva la condizione di prigionia del pontefice, dato che egli non poteva uscire dal Vaticano senza rischio.
Gli avvenimenti dei giorni successivi non migliorarono la posizione dell’Italia. Una manifestazione tenutasi al Politeama il 7 agosto costituì quasi il trionfo dell’anticlericalismo. In quell’occasione, quasi 4.000 persone, riunite sotto le bandiere della società politica e operaia e delle logge massoniche, chiesero a gran voce l’abolizione della legge delle guarentigie e l’occupazione dei palazzi apostolici. A chi ricordava l’eventualità di fuga del pontefice, dal palco degli intervenuti fu risposto: «se egli ci facesse sapere il giorno in cui parte, tutta Roma sarebbe a dargli il buon viaggio»34. La sera stessa un corteo di manifestanti fu disperso davanti a palazzo Chigi dopo che aveva attraversato Roma urlando slogan contro la Santa Sede e minacciando di dirigersi oltre Tevere per assaltare il palazzo vaticano. In realtà il pericolo non fu reale, perché la polizia impedì ai facinorosi anche solo di avvicinarsi al quartiere di Borgo, tuttavia la cosa destò molta impressione sia tra la Curia romana che all’estero. I giornali cattolici d’Oltralpe non persero l’occasione per invitare il papa a fuggire. A Parigi apparve un opuscolo dal titolo La situation du pape et le dernier mot sur la question romaine, che riteneva ormai insopportabile la posizione della Santa Sede e vedeva come necessaria la scelta tra la conciliazione o la fuga, propendendo ovviamente per la seconda.
Intanto pervenivano i poco incoraggianti risultati dei sondaggi del cardinale Ludovico Jacobini presso le ambasciate straniere: solo il principato di Monaco offriva asilo, mentre Spagna e Brasile si limitarono a dar conferma della ricezione della circolare. L’imperatore d’AustriaFrancesco Giuseppe, al quale Leone XIII aveva scritto personalmente non nascondendo i propositi di fuga35, espresse solidarietà per l’accaduto, ma esortava il pontefice a non abbandonare la ‘città eterna’, divenuta agli occhi delle nazioni cattoliche «come il simbolo dell’unità della Nostra Santa Chiesa»36. Per dare maggior efficacia ai propri argomenti, mandò a Roma un diplomatico di carriera, il barone Joseph Alexander Hübner, col compito ufficiale di rinnovare al pontefice l’offerta di ospitalità da parte dell’Austria, ma in realtà per perseguire l’obiettivo esattamente contrario, cioè per convincere la Curia eLeone XIII a non partire, paventando i grossi rischi a cui si sarebbe andati incontro. Gli argomenti di Hübner sottolineavano come in fondo in Italia s’era creata una situazione giuridica per cui, malgrado tutto, il papa era padrone a casa sua, mentre l’orrore condiviso dall’opinione pubblica per la condizione del pontefice accresceva il prestigio del papato in tutto il mondo: si sarebbe potuto dire lo stesso una volta che la Curia, con tutte le sue congregazioni, si fosse trasferita in un paese straniero? La circolare inviata da Jacobini per i fatti del 13 luglio aveva prodotto in effetti un certo scandalo in Europa e gli ambasciatori italiani all’estero dovettero subire le rimostranze delle varie cancellerie.
Leone XIII alla fine si convinse e desistette. In cambio però si assicurò, attraverso il diplomatico austriaco, che in nessun caso l’imperatore d’Austria avrebbe restituito a Roma la visita che a sua volta gli aveva fatto a Vienna Umberto I (ottobre 1881). In quei mesi era infatti alle fasi finali la lunga operazione di corteggiamento fatta agli imperi centrali dall’Italia, desiderosa di uscire dal proprio isolamento. Anche a causa di tali contrattazioni Francesco Giuseppe non poteva promettere al papa di intervenire direttamente in sua difesa. Le recriminazioni del pontefice d’altro canto ben servivano i disegni di Otto von Bismarck che riuscì ad utilizzare la questione romana come arma di contrattazione con il governo italiano, nel momento in cui stava per essere conclusa la Triplice alleanza. Alla fine, infatti, il trattato firmato il 20 maggio 1882 non riconosceva all’Italia né Roma capitale né l’integrità territoriale, ma le offriva soltanto la garanzia di difesa in caso di aggressione. Mentre il governo italiano inghiottiva il boccone amaro, la notizia della stipulazione della Triplice, come in seguito anche quella del suo rinnovo, veniva accusata come un brutto colpo per la Santa Sede, la quale ovviamente accoglieva ogni successo diplomatico dell’Italia come una sconfitta inflitta a se stessa.
I cardinali riconobbero che la situazione attuale non giustificava ancora l’abbandono di Roma da parte del papa. L’argomento più efficace, oltre alle poche offerte d’asilo, fu il timore della mancata indipendenza della Santa Sede nel paese ospitante. In Italia in fondo non si era riscontrato nessun impedimento pastorale: fedeli di tutto il mondo giungevano a Roma per i pellegrinaggi, non c’erano impedimenti alle comunicazioni e alla corrispondenza e nessun atto, di fatti, era stato commesso contro la persona del pontefice. In Italia, poi, nel 1878, si era potuto persino tenere un conclave. In assenza di motivazioni più gravi, la partenza per il momento non poteva dunque ritenersi giustificata37. Il sentimento di disillusione nei confronti dell’aiuto che sarebbe potuto venire dalle potenze straniere già da qualche tempo aleggiava nei palazzi vaticani. L’ultima sessione del 1882 della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari dedicata all’esame della situazione della Chiesa in Italia, riunendosi il 9 febbraio, alla fine indicò come illusoria l’attesa di un aiuto esterno armato per ristabilire il potere temporale, sia per la conclamata indifferenza con cui le varie potenze guardavano alla situazione della Santa Sede, sia perché «non si tratta più di abbattere una piccola fazione di demagoghi e di ribelli impadronitisi dello Stato della Chiesa, ma di una intera nazionale, costituitasi in monarchia con governo regolare, finanze ed esercito proprio, che ha posto tra le primarie potenze d’Europa»38.
L’arrivo al potere di Francesco Crispi turbò definitivamente il clima di cauta attenzione reciproca che si era istaurato tra Agostino Depretis e Leone XIII, riportando nuovamente alla ribalta anche i progetti di partenza, proprio in un momento del pontificato in cui più violento esplodeva l’anticlericalismo. Un incidente di gravità simile a quello del 1881 fu l’erezione in Campo de’ Fiori del monumento a Giordano Bruno, nel 1889. L’erezione in Roma, su iniziativa delle logge massoniche, di un monumento commemorativo a un eretico convinse la Curia romana dell’imminenza di una rivoluzione. Ancora una volta, l’assenza di appoggio estero e le minacce di Crispi («Il papa non si faccia illusioni. Una volta partito, non tornerà più a Roma»39) convinsero la Curia romana ad abbandonare i progetti. Ancora: nell’autunno di quell’anno, il 14 ottobre, in occasione dell’anniversario dei vespri siciliani, Crispi pronunciò a Palermo un discorso che lanciava quasi una crociata laica contro il papato, esaltando Roma intangibile. A seguito di tale attacco alla Santa Sede, considerata ostacolo all’unificazione italiana, Leone XIII rinnoverà l’invito fatto agli storici per un’indagine approfondita della storia del papato, resa possibile dall’apertura dell’Archivio segreto vaticano, perché i fatti potessero parlare da soli a testimoniare i meriti della Chiesa nella storia d’Italia40. Da questo e da altri episodi del genere si deduce come il problema dell’ordine pubblico condizionasse fortemente il dibattito interno della Santa Sede, e come far fronte all’esplosione dell’anticlericalismo fosse per il governo italiano una delle priorità per il contenimento del problema romano. Tra la fine del 1883 e i primi mesi del 1884, ad esempio, Leone XIII aveva sottoposto ai cardinali il problema della preoccupante ascesa della setta massonica, a cui egli attribuiva gran parte della responsabilità della situazione della Chiesa in Italia41. Di nuovo vennero messe sul tappeto le eventualità di intervento straniero o di sollevazioni popolari interne (considerate dal cardinale Bilio ‘da desiderare, ma non da sperare’) e di nuovo si optò per l’auspicio di un congresso europeo. Per sollecitarlo o comunque per riportare la questione romana alla ribalta sullo scenario internazionale, fu chiesto al pontefice di pronunciarsi attraverso un’enciclica di condanna della massoneria: sarà la Humanum genus del 20 aprile 1884.
Il graduale spostamento delle responsabilità della situazione italiana dal governo italiano alle ‘sette’, permise alla Santa Sede, sia che l’avesse condotto deliberatamente sia che fosse stata un’operazione inconsapevole, di preparare il terreno ad un prossimo riavvicinamento allo Stato italiano. La stipula della Triplice alleanza aveva infatti impressionato fortemente Leone XIII, che si trovò a dover scegliere tra continuare la politica di ostilità all’Italia, sobillando le altre potenze contro di essa (ma con la Triplice, ciò non sarebbe stato possibile senza inimicarsi gli imperi centrali) o provare una politica più morbida con lo stesso governo italiano, pur di non restare isolato diplomaticamente. Starebbe a queste ragioni, secondo i primi biografi di Leone XIII – Crispolto Crispolti e Guido Aureli – la causa di quel fiorire di ottimismo e di speranze avvenuto intorno al 188742. Probabilmente, anche l’atteso anno giubilare 1888 sembrò costituire un’utile occasione per un conversione di strategia da parte della Santa Sede. Tra la fine del 1886 e l’inizio del 1887 Leone XIII aveva inoltre costituito due commissioni speciali per discutere della questione romana, l’una composta di cardinali intransigenti e l’altra di moderati. Le due commissioni avevano stesso ordine del giorno, ma consegna del segreto, per cui l’una non era a conoscenza dell’operato e della composizione dell’altra, e si riunivano praticamente in contemporanea, in due sedi differenti43. Dal loro lavoro, ma soprattutto dall’iniziativa del pontefice, dovette venire quel controverso tentativo conciliazionista che molte speranze fece fiorire tra i cattolici più progressisti. La prima spinta all’intensificazione dell’attività conciliazionista fu data alla fine del 1886 da una lettera di monsignor Geremia Bonomelli a Leone XIII, nella quale il vescovo di Cremona si augurava che, in occasione del giubileo episcopale di Pecci, egli potesse «compiere l’opera di tutte la più ardua e necessaria, la pacificazione della patria nostra, sospiro di tutti i buoni». Bonomelli chiedeva insomma a Leone XIII di estendere anche all’Italia la politica conciliante già praticata in Germania. Il papa non oppose un rifiuto categorico: «che poi tu ci prieghi dal padre dei lumi, affinché possiamo procurare la pace anche alle nostre contrade […]ciò risponde perfettamente ai nostri voti, che vedendo la durissima condizione delle cose, nel solo aiuto di Dio poniamo la nostra fiducia»44. A tali dichiarazioni del pontefice, che potevano effettivamente dare adito a speranze, ne seguirono altre, nel corso di alcune allocuzioni papali ai cardinali come quella pronunciata il 23 maggio 1887, con la quale Pecci si augurava la fine del «funesto dissidio col romano pontificato [...]. Dal che se si voglia giudicare secondo verità, lo Stato italiano non solo riceverebbe alcun danno, ma avrebbe molto aiuto per la sua incolumità e prosperità» . Non è ancora chiaro quanta verità ci sia nelle supposizioni avanzate nel corso degli anni di un effettivo avvicinamento, quasi un accordo, tra Vaticano e Quirinale in quell’anno di speranza 1887. Per Giorgio Candeloro il tentativo di conciliazione si ridusse in realtà a una semplice presa di contatto, voluta contemporaneamente dalle due parti: vere e proprie trattative non vi furono, e neppure furono elaborati piani precisi che potessero servire come base di partenza per un’eventuale discussione45.
La rottura arrivò con il noto opuscolo dell’abate di Montecassino Luigi Tosti, archivista della Santa Sede, pubblicato il 31 maggio con il titolo La conciliazione. L’opuscolo, che pare avesse avuto l’approvazione di Leone XIII e che fu sottoposto a Crispi, riscosse vigorose proteste da parte dei cattolici esteri, in particolare belgi, spagnoli e francesi. Mentre la reazione intransigente si scatenava, nel parlamento il deputato Giovanni Bovio interveniva contro qualsiasi atto di conciliazione, ritenuto a suo parere «un patto di mutua mediocrità tra Stato e Chiesa» che avrebbe avuto l’unico risultato di ottenere «un Papa mezzo principe, uno Stato mezzo cattolico, in un terreno comune, fungheggiante di mezze istituzioni, mezzi uomini e mezza religione». Tale intervento diede fiato a quello che Arturo Carlo Jemolo ha definito uno «squillo di fanfara» ovvero la risposta di Crispi alla camera:
«noi non domandiamo conciliazioni, né ce ne occorrono, perché lo Stato non è in guerra con nessuno. Né sappiamo né vogliamo sapere quello che si pensa in Vaticano […]. Da parte nostra però nulla sarà toccato al diritto nazionale sancito dai plebisciti. L’Italia appartiene a sé stessa, a sé sola, e non ha che un unico capo: il Re»46.
La grande impressione suscitata dal dibattito parlamentare spazzò via ogni speranza. A manovrare la ramazza, «L’Osservatore romano», che puntualizzò il disconoscimento dell’opera di Tosti all’indomani del discorso di Crispi alla camera. Il percorso verso la conciliazione si concluse lì, nell’anno della morte diDepretis e di Jacobini. Il successore di quest’ultimo, Mariano Rampolla, come primo atto diffuse una circolare, resa nota il 26 luglio 1887 ma datata 23 giugno dello stesso anno, in cui si dava spiegazione ai nunzi dell’allocuzione del pontefice del 23 maggio, nel senso del ribadire la necessità del potere temporale. Analoga lettera retrodatata al 15 giugno a firma del papa per il suo nuovo Segretario di Stato, affermava chiaramente come in Italia i rapporti fra Chiesa e Stato assumessero necessariamente un carattere diverso che in altri paesi:
«[...] per giungere a stabilire la concordia non basta [diceva Leone XIII] come altrove, provvedere a qualche interesse religioso in particolare, modificare o abrogare leggi ostili, scongiurare disposizioni contrarie che ci minaccino, ma si richiede, inoltre e principalmente, che sia regolata come conviene la condizione del capo supremo della Chiesa, da molti anni per violenze ed ingiurie divenuta indegna di lui, ed incompatibile colla libertà dell’apostolico ufficio».
La rappresaglia italiana non tardò. Pochi mesi dopo il sindaco di Roma, il cattolico Leopoldo Torlonia, fu rimosso dall’incarico per aver fatto omaggio al cardinale vicario per il giubileo del papa. Nel novembre 1887, poi, cominciava la discussione di quel nuovo codice civile del ministro Zanardelli che prevedeva severe disposizioni contro ‘gli abusi del clero’. Di nuovo, ‘dalle stanze del Vaticano’, si tornò a meditare la fuga.
Il fallimento del tentativo conciliatorista, ha affermato Fausto Fonzi, era logico e inevitabile. Sincera era certo la volontà di pace di Leone XIII e di alcuni governanti italiani, ma ogni progetto di conciliazione era immaturo. Anche a prescindere dalle molte forze, suggestioni e interessi che lavoravano presso le due parti perché nessun accordo fosse raggiunto, restava il problema centrale dell’indipendenza del pontefice, una distanza insuperabile per le parti in gioco, conLeone XIII che chiedeva l’intera città di Roma e i liberali risoluti nella certezza, come sosteneva Ruggiero Bonghi, che «l’Italia di territorio non può darne né poco né molto»47. Nel marzo 1889, con un articolo sulla rivista liberale «La rassegna nazionale», intitolato Roma, l’Italia e la realtà delle cose, l’abate Tosti tornerà a invitare la Santa Sede a chiudere il tempo delle proteste sterili e accettare quello della rassegnazione: per lui, il papa avrebbe dovuto accontentarsi di uno Stato in miniatura sulla riva del Tevere, sufficiente a dargli simbolicamente podestà territoriale. Il 13 aprile l’opuscolo sarà messo all’Indice. Interessante è notare però come nel 1882 fosse stata la stessa Santa Sede a sostenere l’esistenza di un pur limitatissimo Stato pontificio, quando fu sollevata la questione dei conflitti di competenza tra tribunali vaticani e italiani, sia in occasione della vertenza tra Giovanni Theodoli e l’architetto Filippo Martinucci, sia per i beni di Propaganda Fidae. Il segretario di Stato Jacobini aveva all’epoca sostenuto, in una nota dell’11 settembre 1882 dinanzi al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, che in base ai principi di diritto internazionale «non possono esercitarsi atti giurisdizionali se non precede l’occupazione del territorio. Ora è incontestabile che il Palazzo apostolico del Vaticano non fu mai occupato [...] non per buon volere del Governo, ma in presenza di resistenza armata». Se ne deduceva lo ius territorii per il pontefice nel Vaticano48.
Al di là di questi accomodamenti un po’ strumentali che rischiavano di contraddire la politica del rifiuto del fatto compiuto, Santa Sede e cattolici intransigenti erano accomunati da una sorta di fatalismo ovvero dalla passiva attesa dell’inevitabile e provvidenziale fallimento della dottrina liberale. Confortati dalla teoria della catastrofe, quella dei cattolici era una vera e propria opposizione extraparlamentare, al di fuori del sistema e dei metodi costituzionali. Eppure lo Stato italiano reggeva, anzi, si fortificava. Aveva retto all’urto dei movimenti repubblicani e radicali, che in più occasioni avevano minacciato di prendere il controllo di quello che chiamavano un processo risorgimentale ancora aperto. L’Italia aveva retto anche di fronte agli attentati anarchici, il più tragico dei quali fu certamente costituito dalla morte di Umberto I. Quello a cui non sembrava poter reggere il giovane Stato italiano era l’avanzata del socialismo. Davanti a un tale fenomeno i liberali compresero che era necessario chiamare a raccolta le forze ‘sane’ della nazione e invocarono l’intervento elettorale dei cattolici, che col loro astensionismo avrebbero altrimenti contribuito a consegnare il paese in mano alle fazioni più estreme. Per sollecitarli arrivarono perfino al tentativo di rendere obbligatorio il voto, giustificandolo con il grave momento di crisi attraversato dal nuovo Stato. In tale contesto si collocava il discorso che Crispi pronunciò a Napoli il 10 settembre 1894, discorso che pareva una vera e propria ‘mano tesa’:
«la società traversa un momento dolorosamente critico, ed oggi più che mai sentiamo la necessità che le sue autorità, la civile e la religiosa, procedano d’accordo per ricondurre le plebi traviate sulla via della giustizia e dell’amore. Dalle più nere latebre della terra è sbucata una setta infame, la quale scrisse sulla bandiera: né Dio, né capo […] stringiamoci insieme per combattere codesto mostro e scriviamo sul nostro vessillo: con Dio, col Re e per la Patria»49.
La Chiesa era però destinata a subire un’ulteriore delusione, intensa come quella del 1887, a cui seguì il consueto acuirsi dei rapporti con il governo. Nel 1898, all’apice della crisi di fine secolo, una circolare del marchese Antonio di Rudinì ai prefetti avrebbe accomunato socialisti e cattolici sotto la condivisa etichetta di sovversivi, e avrebbe scatenato contro entrambi una violenta campagna di repressione e chiusura della attività, dalla stampa ai circoli locali delle associazioni. I cattolici intransigenti, assimilati nei provvedimenti governativi a quei socialisti dei quali non avevano una paura minore rispetto a quella provata per il liberalismo, compresero che la demagogia antigovernativa e la polemica antiliberale non potevano più essere spinte oltre. Da questo punto di vista la repressione del 1898 chiuse una fase dei rapporti fra organizzazioni cattoliche e governo per aprirne un’altra, quella della ‘convergenza’50. Dopo la protesta ufficiale di Leone XIII, innalzata attraverso l’enciclica del 5 agosto Spesse volte, per aver infierito contro il movimento cattolico che per sua natura rappresentava una garanzia all’ordine costituito, la Santa Sede ricominciò infatti nuovamente a mettere in discussione l’astensione politica dei cattolici italiani. Tale processo approderà, conPio X, alla sospensione del non expedit (sarà poi Benedetto XV a rimuoverlo definitivamente) e alla prima partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, in un senso che però proprio Leone XIII aveva voluto evitare, cioè quello di un’alleanza clerico-moderata tra liberali e cattolici in chiave conservatrice. Il patto Gentiloni del 1913 fu solo una delle prime manovre di riavvicinamento, che approderanno alla conciliazione del 1929, quando l’illusione di aver trovato nel regime fascista l’atteso braccio secolare delle esigenze religioso-politiche della Chiesa si incontrerà con la necessità del sistema totalitario di una propria legittimazione e riconoscimento a livello internazionale.
Alla prova degli anni la strategia delle circolari di protesta non bastò: il riconoscimento dello Stato italiano da parte delle potenze europee e, in seguito, il trasferimento delle ambasciate estere presso Roma capitale, lasciò la Santa Sede, che ancora chiamava ‘subalpino’ il nuovo regno, esterrefatta. La politica di minacce e di anatemi perseguita daPio IX aveva aggravato l’isolamento diplomatico della Santa Sede. Fallita l’alleanza tra trono e altare, toccava instaurare un rapporto più diretto tra papa e fedeli di ciascuna nazione piuttosto che tra pontefice e capi di Stato. Pio IX cercherà dunque il connubio tra papa e popoli, invitando i cattolici di tutto il mondo a costituire un movimento internazionale a suo favore. La mobilitazione del laicato poteva infatti costituire il nuovo braccio secolare della Chiesa. A questo scopo papa Mastai Ferretti aveva incoraggiato i pellegrinaggi, dimostrazioni d’affetto per il pontefice in quella che era stata la sua città e manifestazioni di forza alla prova dei numeri davanti ai governi. L’immagine di un papa ‘prigioniero’ e quindi ‘martire’ provocò una valanga di lettere di solidarietà e petizioni provenienti dai fedeli di tutto il mondo e tenne unito il cosiddetto movimento cattolico di ciascuna nazione alla sede episcopale di Roma51. «Questa idea e questa azione» si legge nella risoluzione della Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari del marzo 1881
«che conviene mantenere sempre viva, senza escludere i Governi cui all’opportunità si dovranno indirizzare degli atti diplomatici, dovrà inculcarsi ed esercitarsi sull’episcopato e sui popoli, innanzi tutto per mezzo della parola del Papa, quindi per mezzo della stampa e delle associazioni cattoliche, cui bisognerà dare migliore organizzazione ed un indirizzo chiaro e sicuro»52.
Per i cardinali, ciò si traduceva nella promozione dei congressi cattolici all’estero53, nel riorganizzare la stampa cattolica per darle «un indirizzo sicuro, senza omettere di procurarsi di quando in quando qualche articolo favorevole di Giornali esteri molto accreditati e diffusi», nell’adoperarsi per conquistare alla causa della Santa Sede le simpatie delle popolazioni italiane e nell’incoraggiare le associazioni. La vita del movimento cattolico veniva così messa in contatto diretto con la possibilità di rappresentare presso i governi i supremi interessi della Chiesa, che, dopo la perdita del potere temporale, erano determinati «soprattutto non da ambizioni politiche, o da preoccupazioni di ordine economico, ma da sollecitudini pastorali». Prima tra tutte quella dell’unità del movimento cattolico. Per seconda, il «diritto di tutti i cittadini di riunirsi e di promuovere petizioni». Pio IX stesso a questo proposito ebbe a dire una volta: «Ripeto sempre di unirsi per chiedere. Se il popolo chiede, ottiene. Che volete? Finisco per essere anch’io un po’ repubblicano»54.
Con Leone XIII il laicato cattolico entrò pienamente nella progettualità politica vaticana. Sarà proprio la necessità di meglio organizzare e coordinare l’azione dei cattolici a costituire la ragione fondamentale dell’istituzione da parte di Leone XIII delle conferenze episcopali regionali, in modo da controllare soprattutto stampa e associazioni cattoliche. L’atto religioso nel suo complesso, cioè nei suoi aspetti sia cultuali che caritativi, veniva dunque usato sia in chiave politica sia per contrastare l’avanzata dei valori prodotti dalla cultura moderna55. Tuttavia il nuovo papa nutriva una concezione diversa del movimento cattolico, che avrebbe voluto sollecitare ad un impegno più direttamente sociale, secondo le direttive che saranno consacrate poi nella Rerum novarum. Contrariamente al predecessore, ad esempio, Leone XIII non riceverà più imponenti pellegrinaggi, ma ammetterà in udienza solo dei rappresentanti. I partiti cattolici esistenti nei vari paesi erano però considerati da Pecci essenzialmente come strumenti di una politica universale che teneva in scarso conto gli interessi e le tendenze delle forze cattoliche locali. Ne sarà un esempio l’accordo raggiunto con Bismack per la fine del Kulturkampft ottenuto al prezzo di costringere il forte partito cattolico tedesco ad astenersi nella votazione delle ‘legge del settennato’, con la quale il cancelliere ottenne i crediti per il rafforzamento dell’esercito per sette anni. Il nuovo rapporto che il Vaticano crea con l’associazionismo cattolico, dunque, sollecitava un movimento di laici più autonomo organizzativamente, ma docile alle indicazioni pontificie. Proprio per questo doveva essere autorevolmente diretto e mantenersi al suo interno unito e forte. Da qui, la continua iniziativa della Curia e del pontefice, ora di incitamento, ora di freno alle iniziative del laicato cattolico.
Nella circolare ai nunzi del 15 agosto 1878, il cardinale Lorenzo Nina, appena nominato Segretario di Stato, affermava che il Vaticano, per legarsi al mutabile «movimento degli Stati e delle nazioni», si affidava ora alla «forza dei popoli cattolici, strettamente legati alla potente organizzazione» della Chiesa. Si era consapevoli che la forza per resistere alle legislazioni, con le quali lo Stato sembrava invadere il campo della Chiesa, non sarebbe venuta, dalla sola Santa Sede, ma egualmente dalla costante fedeltà dei popoli cattolici di quelle regioni. Il cardinale Nina dava all’organizzazione della stampa e all’opinione pubblica ad essa collegata un ruolo significativo, quando affermava che la maggior parte dei conflitti tra la Santa Sede e gli Stati provenivano
«dall’avere lasciato che la periodica stampa se ne fosse impadronita prima che venissero portati sulla sola via atta ad appianarli, cioè quella dei rapporti diplomatici che necessariamente e legalmente uniscono il Supremo Gerarca della Chiesa ai Principi e Capi dei Governi Civili».
Funzionale al fine di catalizzare consensi e pietà popolare era quindi soprattutto la mobilitazione della stampa cattolica. Tuttavia anche in questo campo sussistevano notevoli differenze tra i due pontefici. Ne è un esempio la vicenda della rivista «La correspondance de Genève», la cui storia è da annoverare come una delle ultime acquisizioni documentarie56. Questa rivista intransigente, nata nel 1870 per iniziativa di un comitato segreto internazionale promosso spontaneamente da esponenti dell’aristocrazia conservatrice europea, inviava gratuitamente le proprie pubblicazioni ai giornali cattolici di ciascuna nazione, al fine di promuovere e sussidiare la stampa cattolica e quindi di sollecitare e coordinare il laicato di ciascun paese. Una speciale rubrica era dedicata alle Nouvelles de Rome ovvero alla situazione vissuta dalla Santa Sede nella capitale italiana, notizie che erano fornite direttamente da un membro della Curia, detto «l’Innominato» (probabilmente il cardinale Włodzimierz Czacki). Progressivamente tale ‘Internazionale nera’ andò sempre più assogettandosi alle dirette dipendenze della Santa Sede, fino a entrare in crisi negli ultimi anni del pontificato di Pio IX. Leone XIII non la risuscitò mai, nonostante i pressanti inviti di Czacki in questo senso57.
La mobilitazione cattolica mondiale a favore del papa prigioniero non era comunque andata oltre le petizioni, rimanendo priva di incidenza sia nell’opinione pubblica che sui governi. Papa Pecci indirizzò quindi le proprie energie soprattutto nel tentativo di riabilitare a livello internazionale il prestigio della Santa Sede e restituirgli quell’autorità morale che aveva persa. A lui stava infatti il compito di fondare un nuovo modo di vivere le relazioni internazionali per una Chiesa privata di domini territoriali. Una missione di ‘rinascita’ del pontificato che Leone XIII seppe ben adempiere, non solo riallacciando i rapporti con la Germania, superando il Kulturkampft, e con la Francia repubblicana, invitando i cattolici francesi al ralliement con il proprio governo e ad abbandonare le posizioni legittimistiche, ma soprattutto rilanciando il ruolo della Santa Sede come pacificatrice internazionale. Fu questo sforzo per ottenere il riconoscimento del papato come autorità morale sovranazionale la vera scommessa diplomatica diLeone XIII58. Costretto anche dalla nuova condizione in cui si trovava il pontificato in Italia, Pecci proponeva quasi una riedizione del neoguelfismo giobertiano, applicato stavolta su scala universale. Non si trattava solo di provare il riconoscimento della Santa Sede sul piano internazionale, ma anche di liberare la Chiesa dall’isolamento interno a ciascun paese, a causa del processo di laicizzazione degli Stati. Lo scambio di missioni diplomatiche, il cui episodio più famoso è certamente l’arbitrato per la questione delle isole Caroline, richiesto al pontefice da Bismarck in persona, non fu certamente accolto con giubilo dal governo italiano, che temeva viceversa il proprio isolamento in quanto nemico della Santa Sede. Tale atteggiamento però sembrava non considerare il vantaggio relativo che poteva risultare al governo italiano dalla partecipazione del papato alla vita internazionale, la quale avrebbe costituito la prova di fatto che le sbarre delle ‘prigione vaticana’, in cui il papa denunciava di trovarsi, non erano poi così serrate. D’altro canto Bismarck aveva perseguito il suo avvicinamento alla Santa Sede con scopi ben precisi, utilizzando la questione romana come arma di ricatto per tenere in scacco alternativamente sia il giovane Stato italiano, ad esempio durante le trattative per la Triplice alleanza, sia il pontefice, davanti alle richieste più insistenti in ambito di pacificazione religiosa nell’impero. Sia governo italiano che Santa Sede si trovavano insomma accomunati nella sorte di essere entrambi ‘prigionieri della questione romana’, eppure costante rimase l’atteggiamento di concorrenza, di antagonismo tra Vaticano e Quirinale. Nella guerra diplomatica tra loro ogni punto a favore del primo era recepito come una vera e propria aggressione dal secondo. Il già citato arbitrato delle Caroline costituì ad esempio un grande smacco perUmberto I che aveva a sua volta offerto sè stesso come mediatore, restando così mortificato dal veder preferito il papa a lui. La rivincita italiana arrivò con la visita di Gugliemo II a Roma nel 1888, quando, dopo che l’irruenza del conte Herbert von Bismarck ebbe sventato il rischio di un colloquio personale con l’imperatore, in cui il pontefice potesse sollevare il problema del potere temporale, il brindisi serale davanti al re d’Italia consacrò la splendida accoglienza ricevuta ‘nella sua capitale’. Nel 1895, Leone XIII poté rifarsi nel ‘sabotare’ deliberatamente la visita del re del Portogallo, dichiarando che se si fosse recato a Roma per rendere visita alle autorità italiane, il papa non l’avrebbe ricevuto. Il sovrano preferì non rischiare e annullò il viaggio. Questo scambio di scaramucce sembrò chiudersi nel 1899 in favore dell’Italia, con la mancata partecipazione della Santa Sede alla Conferenza di pace dell’Aja. Determinante era stato infatti il veto del governo italiano, spaventato dall’eventualità che tale assise potesse costituire l’occasione per sollevare sul piano diplomatico la questione di Roma capitale. Se tale episodio costituì una importante battuta d’arresto nell’impegno vaticano per una propria ‘rinascita diplomatica’ attraverso arbitrati e mediazioni, ciò non costituì un’interruzione definitiva. I sogni di Leone XIII per un papato capace di assumere agli occhi di tutto il mondo il ruolo di supremo mediatore di pace saranno destinati a risorgere nel corso dei pontificati del secolo XX, inaugurati dai tempi di Benedetto XV e della condanna dell’‘inutile strage’.
1 Lettera apostolica Cum Catholica Ecclesia, in Acta Pii IX P.M., Pars I, III, Roma 1864, pp. 137-147.
2 Lettera di Pio IX a Vittorio Emanuele II, 3 dicembre 1859, in P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, II, La questione romana (1856-1864), Roma 1951, p. 136.
3 La promessa dei pontefici di conservare integri i territori della Santa Sede risaliva alla bolla Admonet nos, del 1567, con la quale Pio V prescriveva ai cardinali riuniti in conclave di giurare di non alienare in nessun caso, nell’ipotesi di una loro elezione a pontefice, il patrimonio territoriale della cattedra di Pietro. Una disposizione allora volta a combattere il fenomeno del ‘nepotismo’ ma che fu utilizzata come argomento per difendere l’indipendenza della Santa Sede.
4 Uno studio accurato di tali episodi di espropriazione è stato compiuto da C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica (1870-1876). Il trasferimento della capitale e la soppressione delle corporazioni religiose, Roma 1996.
5 «Se la civiltà cristiana e la salvaguardia della persona trovavano fondamento nella dottrina del Vangelo e nell’autorità della Chiesa, la loro possibilità di sussistere risiedeva nell’indipendenza del papa e quindi nella sua sovranità», cfr. P.G. Camaiani, Motivi e riflessi della questione romana, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del IV Convegno di storia della Chiesa (La Mendola 1971), 2 voll., Milano 1973: II, Comunicazioni, pp. 65-128.
6 Giovanni Miccoli ha evidenziato come «nel corso dell’Ottocento la Chiesa si sforzò in ogni modo di realizzare una salda unità di organizzazione, di mentalità e di cultura. “Cattolico”, “cattolicamente”, pretesero di diventare più che mai qualificativi di un modo unitario di pensare, di sentire e di agire nelle scelte e nei problemi concreti che si ponevano nella vita civile […]. La drastica contrapposizione “cristianità” - scristianizzazione, caratterizza nel profondo la mentalità, la cultura e la visione degli uomini e delle cose, proprie del mondo ecclesiastico dell’età contemporanea», cfr. G. Miccoli, Fra mito della ‘‘Cristianità’’ e secolarizzazione, Torino 1985.
7 Sulla fiduciosa e generica attesa di un intervento straordinario di Dio in difesa dei diritti della Chiesa cfr. G. Martina, La fine del potere temporale nella coscienza religiosa e nella cultura dell’epoca in Italia, «Archivum Historiae Pontificiae», 9, 1971, pp. 309-376.
8 Cfr. «La Civiltà cattolica», 22, 1871, 1, p. 392.
9 C.M. Fiorentino, Dalle stanze del Vaticano: il venti settembre e la protesta della S. Sede (1870-1871), «Archivum Historiae Pontificiae», 28, 1990, pp. 285-333.
10 Archivio Segreto Vaticano (ASV), Segreteria di Stato, anno 1870, rubr. 165, fasc. 8, f. 97.
11 La vicenda è ricostruita in S. Marotta, L’occupazione di Roma e della città Leonina: rapporti tra Santa Sede e autorità italiane dal 20 settembre alla vigilia del plebiscito del 2 ottobre 1870, «Cristianesimo nella storia», 31, 2010, 1, pp. 33-74.
12 Le memorie di Giuseppe Manfroni sono state pubblicate dal figlio Camillo. Cfr. Sulla soglia del Vaticano (1870-1901), a cura di C. Manfroni, Bologna 1920; Dalle memorie di Giuseppe Manfroni, a cura di C. Manfroni, 2 voll., Bologna 1921. Nel luglio 2008 mi è stato possibile il ritrovamento di alcuni volumi del diario autografo, custoditi presso la Fondazione Baruchello di Roma. Dal confronto dei testi è emerso che il manoscritto si discosta notevolmente dalla versione edita non solo per la sproporzione in mole del materiale (su 17 volumi originari meno di 800 sono le pagine pubblicate), ma anche per l’operazione di riscrittura operata dal curatore, Camillo Manfroni, che ha trascritto il contenuto delle carte del padre modificandone frequentemente la sostanza e manipolandole secondo la propria personale interpretazione.
13 Cfr. M. Belardinelli, Il conflitto per gli exequatur (1871-78), Roma 1971.
14 Archivio del Consiglio di Stato, Consiglio di Stato. Processi verbali delle Adunanze Generali, 55, 1878, p. 99. Cfr. A. Piola, La questione romana nella storia e nel diritto: da Cavour al trattato del Laterano, Padova 1931, p. 136.
15 ASV, AES, I periodo, Stati ecclesiastici P.O. 968, fasc. 318. Cfr. M. Valente, Pio IX, il Sacro Collegio e il Corpo diplomatico di fronte alla questione della partenza da Roma dopo la caduta del potere temporale, «Il diritto ecclesiastico», 11, 1999, 3, pp. 784-792.
16 ASS, VI, 1870-1871, pp. 136-145.
17 Sulla soglia del Vaticano, a cura di C. Manfroni, cit.
18 Così definirono tale eventualità i cardinali riuniti in adunanza per la Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari il 5 aprile 1882. Cfr. ASV, AES II periodo, Stati ecclesiastici P.O. 1033, fasc. 335, f. 27.
19 E. Morelli, Il palazzo del Quirinale da Pio IX a Vittorio Emanuele II, «Archivum Historiae Pontificiae», 8, 1970, pp. 239-300.
20 ASV, Segreteria di Stato, Morte Pontefici e conclavi, Leone XIII, b. 4/a, fasc. 1. I ‘dubbi’ vennero presentati ai cardinali il 4 novembre 1877. Cfr. A. Ciampani, Da Pio IX a Leone XIII: il dibattito nella Curia romana dopo l’Unità d’Italia, in La moralità dello storico: indagine storica e libertà di ricerca. Saggi in onore di Fausto Fonzi, Soveria Mannelli 2004, pp. 71 segg.
21 R. De Cesare, Il conclave di Leone XIII, Roma 1887, pp. 195-204.
22 A. Auffray, La politique d’un saint. Don Bosco aux heures du Risorgimento, «Études», 20 giugno 1929, p. 649, cit. in G. Mollat, La question romaine de Pie VI à Pie XI, Paris 1932, p. 371.
23 F. Crispi, Politica interna. Diario e documenti raccolti e ordinati da T. Palamenghi-Crispi, Milano 1924, pp. 81-93.
24 G. Martina, Pio IX (1867-1878), Roma 1990, p. 298.
25 Sulle motivazioni che spinsero Leone XIII a non impartire la benedizione cfr. «La Civiltà cattolica», 29, 1878, 5, pp. 747-749 (rubrica Cronaca contemporanea); R. De Cesare, Il conclave di Leone XIII, cit., pp. 287-292; [G. Manfroni, Sulla soglia del Vaticano, vol. 2, cit., pp. 405-414].
26 J.M. Ticchi, Ubi Roma, ibi papa. Les projects de fuite des pape hors de Rome sous Léon XIII (1878-1895), «Rassegna storica del Risorgimento», 87, 2001, 3.
27 Sul dibattito interno alla Curia riguardo al non expedit, si rimanda al saggio presente in questo volume. Puntuale analisi delle riunioni della congregazione tra il 1881 e il 1882 riguardo ai propositi di fuga si trova in J.M. Ticchi, Ubi Roma, ibi papa, cit. I verbali delle riunioni sono conservati in ASV, AES II periodo, Stati ecclesiastici P.O. 1030-1033, fasc. 329-335.
28 ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici P.O. 1030, fasc. 329, f. 7.
29 Le sedute si tennero nelle seguenti date: 21 febbraio 1881, 24 marzo 1881, 31 marzo 1881, 28 aprile 1881, 19 luglio 1881, 16 agosto 1881. Dopo gli studi sui pontificati precedenti, le risoluzioni finali vennero prese nelle adunanze del 9 febbraio, 5 e 10 aprile 1882.
30 ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici P.O. 1030, fasc. 329, f. 35-44.
31 ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici, P.O. 1030, fasc. 329, f. 60.
32 ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici, P.O. 1030, fasc. 329, f. 65.
33 Per Manfroni quella fu «la notte che a mio giudizio fu moralmente dannosa all’Italia quanto le giornate di Custoza e Lissa», cfr. G. Manfroni, Sulla soglia del Vaticano, cit., p. 49.
34 Cit. in D.F., I fatti della nuova Roma contro alla salma di Pio IX e l’omaggio delle nazioni a Leone XIII. Memorie storico-politiche di un professore romano, Roma 1885, p. 714.
35 Lettera del 18 agosto 1881 di Leone XIII a Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria. Le minute della lettera si trovano in ASV, AES Stati Ecclesiastici, P.O. 1030, fasc. 330, ff. 15-26.
36 Lettera del 13 settembre 1881 di Francesco Giuseppe a Leone XIII, Cfr. F. Salata, Per la storia diplomatica della questione romana, Milano 1929, p. 140.
37 Tuttavia la congregazione continuò a lavorare, questa volta divisa in due commissioni, per elaborare un preciso piano di fuga, pronto a diventare operativo nel caso le circostanze si fossero aggravate, e progetti per il trasferimento delle congregazioni, il funzionamento del governo della Chiesa, la custodia degli archivi e perfino l’eventualità di un conclave in tutti i casi di esilio coatto o volontario del pontefice. Il dibattito si concluse nell’aprile 1882. È interessante rilevare come il luogo prescelto per l’esilio fu alla fine la Spagna, con l’opzione del principato di Monaco per una breve sosta intermedia. Il papa avrebbe invece dovuto allontanarsi per mare, nello yatch privato messo a disposizione da qualche nobile famiglia. La partenza, soprattutto, avrebbe dovuto essere segreta, per evitare gli onori, «equivalenti ad un insulto», che inevitabilmente il governo italiano gli avrebbe tributato scortandolo fino al confine. ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici, P.O. 1033, fasc. 333-335. Sui dettagli delle risoluzioni, vedi J.M. Ticchi, Ubi Roma, ibi papa, cit.
38 ASV, AES II periodo, Stati Ecclesiastici, P.O. 1033, fasc. 333, ponenza a stampa del 9 febbraio 1882, p. 23. Tuttavia, dopo il 1882 si verificarono altri episodi che misero la Santa Sede nuovamente di fronte alla scelta di una possibile fuga, il più famoso dei quali nel 1889, con l’erezione del monumento a Giordano Bruno e l’anniversario dei vespri siciliani. Un ultimo episodio si verificò nel 1891, quando pellegrini francesi, giunti a Roma per festeggiare entusiasticamente la Rerum Novarum, scrissero nel libro delle visite del Pantheon la frase ‘Viva il papa’: lo scandalo e l’indignazione dell’opinione pubblica italiana, per un insulto ricevuto davanti alla tomba di Vittorio Emanuele II, furono enormi. Pattuglie di anticlericali riversarono la propria furia contro i pellegrini, mentre da più parti tornò l’istanza per l’abolizione delle guarentigie. Per contro, si scatenò l’offensiva francese, a chiedere riparazione per l’oltraggio fatto ai propri connazionali. Nonostante tali ripercussioni internazionali, l’episodio non ebbe altre conseguenze: nel 1891 fu finalmente chiaro che né la Francia né gli imperi centrali sarebbero mai intervenuti nel conflitto tra Vaticano e Quirinale. La questione romana aveva assunto ormai irrimediabilmente un carattere esclusivamente nazionale.
39 Lettera del 24 luglio 1889, cfr. F. Crispi, Politica estera. Memorie e documenti, cit., pp. 332-333.
40 G. Martina, L’apertura dell’Archivio Vaticano: il significato di un centenario, «Archivum Historiae Pontificiae», 1981, 19, pp. 239-307; S. Pagano, Leone XIII e l’apertura dell’Archivio segreto vaticano, in Leone XIII e gli studi storici, Atti del Convegno commemorativo (Città del Vaticano 2003), a cura di C. Semeraro, Roma 2004, pp. 44-63.
41 G. Miccoli, Leone XIII e la massoneria, «Studi Storici», 1, 2006, pp. 5-64
42 C. Crispolti, G. Aureli, La politica di Leone XIII da Luigi Galimberti a Mariano Rampolla su documenti inediti, Roma 1912, p. 35.
43 Cfr. L. Koelliker, La strategie d’internationalisation de l’audience politique du Saint-Siège entre 1870 et 1921. Vers un règlement de la Question Romaine, Thèse présentée à l’Université de Genève, Genève 2002, pp. 65 segg. I verbali della commissione che si riuniva in Vaticano sono custoditi in AES, pos. 1070, ff. 343-344 e vanno, a cadenza settimanale, dal 14 novembre 1886 al 12 marzo 1887. I verbali delle riunioni che si tenevano nella sede di Propaganda Fidae sono invece custoditi nelle carte dello Spoglio Leone XIII, nella miscellanea Questione romana, busta 1.
44 Cfr. P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia. Storia documentaria dall’Unità alla Repubblica, Bari 1967.
45 G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma 1953, p. 208.
46 Atti parlamentari. Camera, Leg. XIV, sessione I, discuss., tornata 10 giugno 1887, pp. 3414 segg. Cit. in A.C. Jemolo, Chiesa e stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1963, pp. 298-301.
47 F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1960, pp. 45-46.
48 A. Piola, La questione romana nella storia, cit., p. 111.
49 Il discorso fu integralmente riportato sulla prima pagina de «La Riforma» del 12 settembre 1894. Per la politica di Crispi nei confronti della Santa Sede cfr. F. Mazzonis, Crispi e i cattolici, «Rassegna storica del Risorgimento», 82, 1986, 1, p. 12-42.
50 «L’insistenza sulla funzione della Chiesa e dei cattolici di autentica salvaguardia dell’ordine, del retto ordine civile e sociale, già tende impercettibilmente a spostare il discorso in un’altra direzione: a spostarlo cioè dal piano della polemica contro il liberalismo delle classi dirigenti a quello dell’offerta ad esse di una collaborazione che, partendo dalla constatazione della necessità della presenza della chiesa nella vita sociale, passasse attraverso un’almeno parziale restituzione alla chiesa di quel ruolo di guida e di magistero che ad essa spettava all’interno della società […]. Affiorano le prime distinzioni all’interno del fronte del nemico, si insiste sull’inganno su cui sarebbero incorsi i detentori del potere e li si richiama alle loro responsabilità», cfr. G. Miccoli, Chiesa e società in Italia dal Concilio Vaticano I al pontificato di Giovanni XXIII, in Storia d’Italia, V, 2, I documenti, Torino 1973, p. 1504.
51 A. Zambarbieri, La devozione al Papa, in Storia della Chiesa dalle origini ai nostri giorni, a cura di A. Fliche, V. Martin, 24 voll., Cinisello Balsamo 1990: XXII, 2, La Chiesa e la società industriale (1878-1922).
52 Verbale 24 marzo 1881, in ASV, AES II periodo, Stati ecclesiastici, P.O. 1030, fasc. 329.
53 Le catholicisme en Congrès (XIXe – XXe siècles), éd. par C. Langlois, C. Sorrel, Paris 2009.
54 G. Martina, Pio IX, cit., p. 372.
55 A. Marani, Il progetto politico-religioso di Leone XIII in Italia: la costituzione delle conferenze episcopali regionali, in Episcopato e società tra Leone XIII e Pio X: direttive romane ed esperienze locali in Emilia-Romagna e Veneto, a cura di D. Menozzi, Bologna 2000, pp. 13-70.
56 «La Correspondance de Genève» cominciò le proprie pubblicazioni all’indomani della breccia di porta Pia, nel 1870, al fine di scatenare una campagna di protesta internazionale. Inizialmente autofinanziata grazie al contributo delle associazioni cattoliche dei nove paesi membri del comitato internazionale con sede a Ginevra, progressivamente ricevette il sostegno economico e logistico del Vaticano, che però volle mantenere nascosto l’appoggio offerto a tale ‘Internazionale nera’. Motivo per cui vescovi e clero di ciascuna nazione, non essendo a conoscenza dell’esistenza dell’associazione e mancando un mandato esplicito della Santa Sede, diffidavano dalle iniziative delle organizzazioni laicali dei propri paesi. La rivista (e anche il comitato di Ginevra) chiuse le proprie attività nel 1873, su istanza della stessa Santa Sede, che attraverso il suo contributo non solo finanziario assunse gradualmente il controllo dell’organizzazione. Con la chiusura della rivista, venne smantellandosi anche la rete di contatti e di scambio di informazioni tra associazioni cattoliche nazionali. Il comitato originario, trasformatosi dopo la ‘riforma’ dell’organizzazione in Unione di Friburgo, non sopravvisse alla morte di Pio IX (1878). Cfr. The Black International: the Holy See and militant Catholicism in Europe/L’Internationale noire: le Saint-Siège et le Catholicisme militant in Europe, éd. par E. Lamberts, Leuven 2002.
57 Relazione di Czacki manoscritta, non datata, in ASV, Segreteria di Stato, Spogli di cardinali ed officiali di curia, Czacki Wlodimiro, b. 1.
58 Cfr. P. Levillain, J.M. Ticchi, Le pontificat de Léon XIII: renaissances du Saint-Siège? Actes du colloque de Paris du 2003, Roma 2006; J.M. Ticchi, Aux frontières de la paix. Bons offices, médiations, arbitrages du Saint-Siège (1878-1922), Roma 2002.