La radio fa novanta
Nell’agosto del 1924 nasceva il primo embrione di quella che diventerà la RAI. L’inizio di una lunga avventura che ha cambiato il mondo della comunicazione e forgiato l’immaginario degli italiani.
È stata la mamma, la sorella e per certi aspetti la figlia della tv. Ma, a dispetto dei 90 anni che si porta sulle spalle, la radio non è affatto invecchiata e, malgrado i cambiamenti di quasi un secolo di vita, rimane uno dei migliori antidoti alla solitudine, il male di questo tempo. La storia cominciò il 24 marzo 1924, con la messa in onda, tentata e fallita e per questo rimasta nella storia, del discorso di Mussolini al teatro Costanzi (oggi Teatro dell’Opera) a Roma. C’è chi sostiene che questa fu la causa della diffidenza iniziale del capo del regime nei confronti della radio, che nei suoi primi anni mandò in onda prevalentemente musica, classica o da camera, preceduta dai messaggi delle annunciatrici che, con le loro voci seducenti, entrarono nei sogni degli italiani. Le trasmissioni cominciavano con il cinguettìo di un uccellino, il più antico richiamo per gli ascoltatori, e i giornali erano pieni di pubblicità che invitavano all’acquisto degli apparecchi radiofonici: il modello più popolare, la Radio Balilla, negli anni Trenta era posta in vendita a 430 lire. Ma fu dopo il viaggio del 1937 di Mussolini in Germania, dove ebbe modo di capire come Goebbels avesse trasformato la radio nel più formidabile strumento di consenso per il nazismo, che il duce si convinse a fare lo stesso in Italia. Da quel momento in poi, le cronache quotidiane e le guerre che si combattevano e dividevano il mondo si trasformarono nella colonna sonora quotidiana di un paese e di un popolo, per dare la sensazione a ogni singolo ascoltatore, almeno nelle aspirazioni mussoliniane, di prendere parte al farsi della Storia con la ‘s’ maiuscola (fra le trasmissioni-simbolo del periodo ricordiamo Le cronache del regime, di Roberto Forges Davanzati, la rubrica serale di Mario Appelius e I cinque minuti del signor X di Alberto Giannini).
Va detto che la sensazione che la radio fosse uno strumento assai potente, da adoperare con cura e nell’interesse del governo, continuò ancora per molti anni nel dopoguerra, e la radio della Repubblica democratica nata dal plebiscito del 2 giugno 1946 continuò per un certo tempo a essere pedagogica, cauta, trattenuta. A cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta sono stati la prosa, il varietà e i quiz a mettere in scena un’Italia che ancora non telefonava, non viaggiava, non conosceva se stessa: insieme a essi, nella ricetta di quegli anni, ancora cultura, cultura e cultura (programma di punta L’approdo, deliberatamente serio e qualche volta anche pesante da ascoltare, ma allestito dal meglio del panorama culturale italiano). La mutazione, tuttavia, era notevole, anche se non fu nell’informazione e nei programmi che bisognava subito cercare il segno delle novità: fu soprattutto la musica che cambiò. Ed è in questa stagione che la radio si trasformò nell’incubatrice della tv che stava per nascere: a prepararne l’avvento contribuirono anche le prime radiocronache, a opera di una redazione sportiva che inventò un genere e trovò subito un pubblico di massa (nel 1954 Roberto Bortoluzzi s’inventò Tutto il calcio minuto per minuto, il programma di collegamenti domenicali da un campo all’altro che farà scuola fino ai giorni nostri).
All’arrivo della tv, nel 1954 (anche se per una vera diffusione generalizzata dei televisori tra le famiglie sarebbe occorso aspettare qualche tempo), ci fu chi preconizzava la crisi, se non proprio la fine della radio. E in effetti, almeno nei primi anni, la televisione, sebbene andasse in onda per poche ore a partire dal pomeriggio, funzionava da grande idrovora di talenti e programmi di successo nati negli studi radiofonici. La radio trovò però la sua riscossa nell’informazione: la tv infatti era ancora un mezzo pesante, ingessato sul governo, lento sulla cronaca e seduto sulla mancanza di concorrenza. Per la radio, invece, la diretta e il contatto telefonico con il pubblico erano diventati la normalità con un nuovo programma, Chiamate Roma 3131, durante il quale si mettevano in onda quotidianamente le voci del pubblico che chiedeva aiuto, sollevava problemi, rifletteva, discuteva, si disperava e attaccava l’uso disinvolto del potere. La nuova crisi sarebbe arrivata a metà degli anni Settanta, quando nacquero una dopo l’altra le piccole emittenti private che avrebbero cambiato per sempre il panorama dell’offerta radiofonica.
Erano radio piccole o piccolissime (il tempo dei grossi network privati doveva ancora venire), che trasmettevano da ogni dove, facevano informazione, ma soprattutto, e coraggiosamente, ‘contro informazione’, erano radio politiche o dei ‘movimenti’, erano radio del Nord, ma anche del Sud, musicali o di pura chiacchiera, caratterizzate dal presupposto che la professionalità di chi stava al microfono si formava mentre si andava in onda, erano ancora emittenti impegnate su un tema specifico: un esempio per tutte Radio Aut di Terrasini, fondata nel 1976 da Peppino Impastato, ucciso 2 anni più tardi perché dai suoi microfoni attaccava il capomafia del posto, Gaetano Badalamenti.
Era una sfida imprevista, di tanti piccoli David contro il Golia di Radio RAI, che però sapeva reagire. Un punto importante fu ovviamente la diffusione e la forza del segnale: le radio private, almeno all’inizio, si sentivano poco e male, mentre la RAI avviava il progetto per le trasmissioni stereofoniche. Decisiva, sul piano dei contenuti, fu l’agilità conquistata dalla macchina informativa, l’uso ormai corrente del telefono, delle dirette, dei ponti radio, ciò che consentiva ai microfoni della RAI di essere dappertutto e in qualsiasi occasione. Se solo si riflette che nel novembre 1963 la notizia della morte di Kennedy, un’ora dopo l’attentato di Dallas, fu seguita dall’annuncio della sospensione dei programmi in segno di lutto, siamo di fronte a un completo capovolgimento della logica editoriale: la radio era sempre in diretta, pronta a raccontare quel che stava accadendo mentre accadeva. Una rivoluzione che aprirà la strada, alle soglie del Duemila, all’introduzione delle reti all-news, solo di informazione, a ogni ora del giorno e della notte: anche stavolta, prima sulla radio e poi in tv. Intanto la web-radio insegue su Internet il pubblico giovanile abituato a costruire la propria vita come palinsesto personale. Così, anno dopo anno – ma verrebbe da dire, momento per momento – la sfida della radio continua all’infinito.
Dalle radio pirata alle radio libere
Un decreto regio del 1923 aveva confermato il monopolio dello Stato sulle comunicazioni radio al fine di impedire la nascita di radio private potenzialmente sovversive. Questa situazione rimase tale – la RAI decise di portare in causa Radio Montecarlo che dal 1966 trasmetteva programmi ricevibili anche nella parte tirrenica dell’Italia, mentre Radio Capodistria copriva il versante adriatico della penisola – fino al momento in cui i venti di contestazione non trovarono un naturale sbocco nella necessità di comunicare le nuove idee anche con un mezzo così potente: di fatto fu la nascita delle radio ‘pirata’, che diventarono ‘libere’ solo dopo la storica sentenza del 1975 con cui la Corte costituzionale autorizzò la trasmissione in ambito locale. Prima di allora le emittenti trasmettevano grazie alla interpretazione estensiva della legge vigente, ma erano continuamente esposte a denunce e a sequestri. La prima radio operante in Italia fu Radio Parma (1° gennaio 1975) seguita da Milano International (marzo 1975) e Radio Roma (giugno 1975), e alla fine di quell’anno le radio attive erano 11. Le radio locali furono il trampolino di lancio per molti musicisti trascurati dalla emittenza di Stato, coinvolsero il pubblico con le dediche in diretta, diedero voce a opinioni politiche talvolta ‘estremiste’ ma allo stesso modo stimolarono la crescita di una coscienza civile contro la mafia e il malgoverno. Le radio libere ebbero anche il merito di stimolare un rinnovamento con idee nuove, programmi provocatori e strampalati. Una stagione celebrata prima da Eugenio Finardi con il brano La radio (1976) e poi da Luciano Ligabue con il film Radiofreccia (1998).