La rappresentazione del territorio
Per capire come si sono costituite le immagini condivise – e quindi le rappresentazioni, discorsive e grafiche – relative al territorio oggi italiano, occorrerebbe fare riferimento addirittura agli scrittori di cose geografiche dell’antichità, che concorsero a modulare un insieme di elementi topici (dal clima alla fertilità, dalla varietà dei paesaggi all’abbondanza di abitanti) che a torto o a ragione sarebbe sopravvissuto per secoli. A quegli elementi, altri si aggiungeranno durante il medioevo e il Rinascimento (dalla ricchezza di reliquie e di luoghi sacri all’abbondanza di edifici e città notabili, dalla magnificenza delle espressioni artistiche all’evidenza della ricchezza materiale), sovrapponendosi ai lineamenti della rappresentazione più antica, senza cancellarne e anzi rafforzandone la sostanza.
Un insieme che si cristallizzò in un vero e proprio canone espositivo, fatto anche di clausole ricorrenti, riprese di autore in autore, e che finì per falsificare seriamente la rappresentazione e la percezione dell’Italia: il territorio, come è logico, in realtà evolveva senza sosta e assumeva via via aspetti ben differenti da quelli compresi nel canone delle rappresentazioni correnti. D’altra parte, chi seguiva quel canone – i visitatori stranieri come gli stessi italiani – tendeva in primo luogo, e a volte esclusivamente, proprio a inseguire e verificare le informazioni che gli erano state fornite dai testi, e questa ricerca di conferme portava a rafforzare il canone stesso. Il processo, insomma, si autoalimentò e rimase operante fin quasi alla vigilia dell’unificazione politica del paese. Per certi aspetti, del resto, si può dire sia operante ancora oggi. Va da sé che un meccanismo analogo ha agito non solo per la rappresentazione corrente dell’Italia, ma anche per gli altri paesi, europei e non, tradizionalmente frequentati e descritti.
Il processo sopra descritto è attestato e riconoscibile, ad esempio, in molti itineraria messi a punto nel Basso medioevo per i romei di tutta Europa, che durante il Rinascimento si trasformeranno gradatamente in vere e proprie guide storico-antiquarie e già un po’ turistiche, come le opere di Flavio Biondo, Leandro Alberti, Francesco Scoto e molte altre similari. Oppure nell’iconografia allegorica, come la statuiva Cesare Ripa: «Una bellissima donna vestita d’habito sontuoso, e ricco [...] coronata la testa di torri, e di muraglie, con la destra mano tien uno scettro [...] e con la sinistra mano un cornucopia pieno di diversi frutti» (1613, s.v. Italia con le sue provincie), dove gli stessi elementi caratteristici delle descrizioni verbali sono allestiti in una messinscena visuale che rappresenta appieno e fissa il compimento del processo. O ancora nelle tante raccolte di vedute d’Italia, più o meno dal vero, che dal Cinquecento in poi inaugurano uno specifico genere editoriale e artistico. Per finire con i libri di viaggio, fin dentro e oltre l’Ottocento, che incorporano i caratteri dei generi precedenti: itinerario ottimale, riassunto storico, guida per successivi visitatori, cronaca occasionale, raccolta di immagini esemplari. Non molto diverso è il quadro che emerge dai vari dizionari geografici, che si affermano specialmente nell’Ottocento conoscendo una certa diffusione. Il ruolo della cartografia, in questo processo, è alquanto diverso dagli altri, per la differente natura della rappresentazione, meno immediatamente in grado di veicolare dati qualitativi; e soprattutto, quasi al contrario, dalla fine del Seicento in poi, incaricata piuttosto di fornire solamente misure oggettive, nell’esplicita presunzione di una perfetta o almeno perfettibile aderenza alla realtà geografica.
Malgrado la vulgata voglia che la produzione scientifica, e in genere intellettuale, realizzata in Italia nel primo Ottocento fosse scarsa, irrilevante o inadeguata, sarebbe fin troppo lungo ricordare le opere geografiche e cartografiche di buona qualità e di rilevante impatto pubblico che precedettero – e per qualche verso prepararono – il processo di unificazione (fermo restando che è pur vero che accanto a queste molte altre indubbiamente mostravano caratteri di intrinseca debolezza e assenza di originalità, sia fra i lavori accademici sia fra quelli destinati alla divulgazione). Si farà comunque ricorso solo a pochi esempi, fra i molti possibili.
È innanzi tutto da notare come gli argomenti geografici, con tanto di corredo cartografico sia pure elementare, si incontrassero non di rado anche nelle pubblicazioni esplicitamente popolari come gli almanacchi. Destinate «agli operai», scritte in maniera facile, fantasiosa e tutt’altro che paludata, tenute a trattare temi vari e prevalentemente di interesse pratico, queste pubblicazioni esponevano anche dati statistici, informazioni corografiche, descrizioni di regioni italiane, accanto a informazioni di carattere storico o letterario, evidentemente funzionali a un progetto di educazione popolare. Tra i più noti – o tra i meno dimenticati – spicca «Il Nipote del Vesta-Verde», almanacco milanese «resuscitato» nel 1848 e animato fra gli altri da Cesare Correnti (erano esistite varie serie di almanacchi «del Dott. Vesta-Verde», almeno dal primo Settecento, come altre serie sarebbero proseguite fino nel pieno del Novecento). I testi apparsi in questa serie dell’almanacco non sono firmati e solo raramente siglati dai collaboratori; in seguito Correnti si attribuì esplicitamente la paternità di alcuni scritti specifici (come quelli qui ricordati in bibliografia sotto il suo nome), che vennero anche ristampati dopo la sua morte. Da varie testimonianze è comunque noto che fu lui il promotore e il responsabile primo della pubblicazione, benché ne seguisse l’edizione da Torino, dove si era dovuto rifugiare dopo la conclusione dell’insurrezione milanese del 1848, mantenendosi in contatto tramite Teresa Tagliaferri, moglie dell’editore Francesco Vallardi. Ciò detto, va comunque riconosciuto che la censura austriaca, considerata particolarmente occhiuta, lasciò vivere l’almanacco.
In un anno decisamente molto delicato, come fu il 1848, «Il Nipote del Vesta-Verde» faceva la sua prima uscita esponendo Nozioni storico-geografiche su l’Italia. Lo scritto si apre con una definizione più o meno elementare dell’«espressione geografica» («L’Italia è una penisola, ossia un gran tratto di terra che sporge nel mare», p. 13) e si conclude con un neutro «specchio statistico» debitamente ripartito in base alle «divisioni politiche», dal quale risulta una stima complessiva di circa 24 milioni di abitanti. Ma nel testo gli aspetti economici vengono presi in considerazione nel loro insieme, unitariamente, del tutto al di là della divisione politica: «le nostre ricchezze», «le nostre sete», «le nostre industrie»..., intendendo con queste formule riferirsi all’insieme della penisola. Si arriva anche, sia pure indirettamente, a toccare gli aspetti politici, vale a dire le politiche seguite per lo sviluppo delle produzioni, delle comunicazioni e del commercio con l’estero. Nel complesso, emerge un’immagine dello spazio italiano piuttosto ibrida, ma equilibrata e non scorretta: le concessioni alla tradizione del «Bel Paese» sono certamente molte, e possono giustificarsi considerando il pubblico dell’almanacco; accanto a queste, però, si susseguono anche valutazioni aggiornate e improntate a un realismo disincantato ma non disfattista, su uno sfondo di polemica nazionale appena velata.
Ad esempio, l’Italia è «un paese essenzialmente agricola [sic]; e diffatti i prodotti del suolo formano la parte maggiore delle nostre ricchezze» (p. 17), però «La nostra industria, nei tempi di mezzo, superiore ad ogni altra in Europa, dopo le nuove scoperte meccaniche e le altre cagioni [tra le quali, chiaramente, quelle di natura politica] che repressero l’attività del nostro paese e isterilirono il suo lavoro, decadde profondamente. Nondimeno in alcune industrie sosteniamo onorevolmente la concorrenza straniera»; «Anche il commercio nostro è assai decaduto dal suo antico splendore» (pp. 17-18). Si fa qui notare la chiara intenzione di non distinguere fra i diversi Stati italiani, ma al contrario di sottolineare, con l’uso della prima persona plurale, la piena condivisione dei problemi esposti. Come, d’altronde, si rende esplicito subito dopo, in un parziale elenco (pp. 17-18) di manifatture che include i setifici dal Piemonte alla Sicilia, i prodotti ottici modenesi, quelli alimentari di Genova e Napoli. (Ragionando di persistenze delle immagini condivise, non sembra futile segnalare che quell’elenco include anche «i cappelli di paglia della Toscana», da sempre e fino a oggi considerati fra le produzioni industriali italiane anche dal Calendario Atlante De Agostini – nell’edizione 2009-2010 la menzione è a p. 235 − che resta pur sempre un annuario fra i più apprezzabili e aggiornati a livello internazionale.)
La conclusione di quel rapido quanto esemplare schizzo di patria geografia è un po’ un classico delle descrizioni dell’Italia: «Tale è l’Italia, la quale, ad una straordinaria felicità di condizioni naturali, congiunge le bellezze dell’arte di cui fu qui assiduo il culto, e la gloriosa aureola di grandi memorie e di più grandi sventure» (p. 21). Gli fa seguito, a ribadire certe affermazioni, un altrettanto rapido schizzo di storia patria (pp. 27-34), che così entra nel merito: «Francia e Inghilterra, ch’ora ci fanno le maestre addosso, erano ancora boschi e paludi in cui giravano masnade di selvaggi, quando già i nostri padri avevano fabbricate le città, coltivate le campagne, arginati i fiumi, e scritte le leggi» (p. 28). Un passo che, con vari altri che seguono, si presterebbe a un’interessante esegesi a proposito di costruzione di un’idea nazionale e che strettamente riecheggia Giuseppe Giusti de La terra dei morti, indirizzata a Gino Capponi: «E poi se lo domandi, / Assai siamo campati; / Gino, eravamo grandi / E là non eran nati» (il che può anche non essere un caso, se di un’edizione luganese di poesie del Giusti, nel 1844, Correnti era stato prefatore).
La storia d’Italia del «Nipote del Vesta-Verde» lascia comunque uno spazio larghissimo ai luoghi comuni più popolari – molto più di quanto faccia la parte dedicata alla geografia – ma palesemente non mira affatto a fornire una vera ossatura dei processi storico-politici che ebbero per teatro l’Italia, quanto a risvegliare il sentimento nazionale, ricordando glorie e disgrazie dell’intero paese e attribuendo queste ultime, in larga misura, all’intromissione violenta di interessi stranieri, e in parte alle «discordie interne»: tra classi nella Roma repubblicana, tra latifondisti e proletari in quella imperiale, tra comuni nel Basso medioevo. Più che una storia d’Italia, insomma, è una storia della non-Italia, delle ragioni per cui il paese aveva mancato le varie occasioni di unificazione e di emersione come potenza europea; e il suo scopo sembra essere sollecitare l’amor proprio, un sentimento di pretesa ingiustizia patita, l’idea di una superiorità morale conculcata dall’esterno con la forza, la voglia di riscatto. L’argomento storico, in definitiva, viene utilizzato in chiave retorica in maniera più decisa, benché ai nostri occhi – e forse anche agli occhi dei lettori dell’epoca, per quanto ingenui fossero – più scoperta, rispetto a quello geografico.
Il riferimento geografico, invece, con il suo oscillare dalla «straordinaria felicità di condizioni naturali» alla sapiente loro valorizzazione nel corso del tempo e soprattutto nell’epoca contemporanea a chi ne scriveva, vuole rimandare a un dato di fatto non suscettibile di interpretazione o di discussione: il riferimento geografico viene cioè presentato come autoevidente. In questo modo, non richiede neppure di dimostrare la fondatezza della pretesa unitaria, perché l’unità della penisola è «data» dalla sua natura geografica; e, traslando di poco i termini della questione, lo stesso «destino» del paese è segnato dalla natura dei luoghi. È, del resto, il procedimento retorico che sottostà alla definizione (tutta ideologica) di «confini naturali», utilizzata certo non solo né per la prima volta in Italia; con il vantaggio che nel caso del nostro paese risultava piuttosto agevole sostenere che non vi sia «al mondo vasta regione geografica meglio conterminata dell’Italia» (Correnti 1852, p. 42): asserzione per più versi falsa, e anzi oggi da considerare come concettualmente improponibile, ma probabilmente creduta vera sia da chi la formulava, sia da chi la intendeva. In questo senso, può anche darsi che l’argomentazione geografica non possa essere considerata come elemento di una consapevole retorica nazionale, se davvero veniva impiegata in buona fede come sembra, ma non si può non riconoscerla come tema di grande peso nel discorso nazionale. In altri casi, tuttavia, la stessa pubblicazione riportava osservazioni che alle positive potenzialità naturali opponevano, a bilanciarle e a ridimensionarne l’efficienza, l’insufficienza delle pratiche di valorizzazione («La natura ha fatto tanto per noi, che talvolta noi ci addormentiamo sul seno fecondo della nostra generosa nudrice»: ivi, p. 105): ancora la volontà di magnificare le condizioni naturali del territorio italiano, ma insieme anche qualcosa che suona evidente rimprovero e risponde all’intenzione di proporre uno stimolo al miglioramento.
D’altro canto, che la geografia in quanto sapere e in quanto discorso abbia una sua contiguità con la scienza politica, è fatto più che noto da tempo immemorabile, per quanto sia stato, secondo i casi, declinato in maniera piuttosto variabile. Secondo quanto nel 1844 aveva detto Adriano Balbi, uno tra i più noti geografi italiani (che però lavorava in Francia) del primo Ottocento, «La geografia [...] ci parla specialmente degli uomini [...] mostra il grado della civiltà loro, descrive l’industria, il commercio e gli scompartimenti politici che formano gli Stati. Certo una scienza di così grave momento e così universalmente utile, che fissa le basi della politica, stabilisce le sue demarcazioni, modifica o cambia del tutto le sue vedute, ed in seno a cui i sistemi economici e tutti gl’interessi sociali trovano elementi di grandezza e di successo» merita «l’attenzione di un Congresso Scientifico Italiano» (Balbi 1845, pp. 151-152).
Per tornare agli almanacchi, va tenuto presenti che essi, come un po’ tutte le pubblicazioni popolari dell’Ottocento, si ponevano programmaticamente un obiettivo di istruzione. Nel caso del «Nipote del Vesta-Verde» – anche a prescindere dalla specifica sensibilità di Correnti verso le questioni dell’istruzione pubblica, di cui si occupò a lungo – quell’obiettivo generale si lascia scomporre in più aspetti: la formazione culturale in senso lato e la proposta nazionale, mediante testi che, insieme, fossero anche moralmente edificanti e significativi sotto il profilo del civismo. Aspetti che, più che paralleli gli uni agli altri, appaiono congiunti nelle medesime formulazioni. A questo scopo i brani geografici sembrano, in effetti, prestarsi meglio di altri.
A partire dalla prima annata, 1848, «Il Nipote del Vesta-Verde» avviò una sorta di ricognizione delle «regioni» italiane – individuate non esattamente nella forma delle partizioni politiche, ma certo facendovi ricorso – svolta secondo i normali canoni della descrizione geografica. La prima regione presa in esame fu, ragionevolmente per una pubblicazione milanese, la Lombardia (poi le Venezie nel 1849, la Sardegna nel 1851, il Piemonte nel 1852 e così via). L’articolo trattava largamente anche dell’economia lombarda, mediante un’elencazione di attività produttive che intendeva rappresentare «lo stato di un paese che non s’appoggia sulle sole rendite della coltura territoriale, ma si emancipa, per quanto può, e gli è concesso, con un’industria attivissima ed intelligente, dai tributi infiniti che dovrebbe, senza di questa, pe’ suoi numerosi bisogni, agli altri popoli» (p. 52). Una volta fornita l’informazione di base su qualità e quantità delle produzioni, si allude all’importanza economica e sociale non solo della grande proprietà (le «rendite della coltura»), ma anche del lavoro dei piccoli proprietari, di cui molto si era detto in precedenza; si fa riferimento al successo della modernizzazione in atto; si fa menzione di una forma di soggezione economica dalla quale tuttavia la Lombardia è capace di «emanciparsi» progressivamente («per quanto [...] è concesso», che sembra a sua volta un’allusione a limitazioni politiche o politico-economiche); si dichiara l’importanza del capitale umano di attività e intelligenza applicate alla manifattura; si sottolinea il peso delle importazioni, ma insieme anche l’ampiezza dei consumi (i «numerosi bisogni»), che segnala una condizione generale di benessere; e nell’insieme si instilla nel lettore l’idea di fare parte di una comunità che condivide interessi generali alla cui promozione ciascuno è chiamato a contribuire.
Qualcosa di sostanzialmente diverso, ma simile nello scopo, si può ritrovare nell’annata 1852, nelle pagine dedicate all’economia piemontese. Considerando l’industria tessile, viene proposto un confronto fra i lanifici del Biellese e quelli «degli altri paesi d’Europa». Si segnala, innanzi tutto, che le condizioni di lavoro degli operai sono «infinitamente» migliori, grazie alla salubrità dell’aria e alla struttura architettonica degli opifici, luminosi, arieggiati, puliti («qualche cosa di altamente umano, un senso incancellabile di arte e di magnificenza latina ispirano i nostri fabbricanti»). In aggiunta, il ricorso all’acqua come forza motrice e la dispersione degli impianti stabiliscono ulteriori differenze profonde: «l’indole del motore, e l’acconcia distribuzione geografica delle industrie, non ammucchiate, come altrove, entro le città, in piccolo spazio, in luoghi oscuri e mal sani, arroventati dalla bragia del carbon fossile, asfissiati dallo spurgo dei residui della fabbricazione, dalle esalazioni delle bestie da tiro, e incatenati nel confine della mercede da un’odiosa concorrenza [… da noi, invece, esiste] una generosa emulazione che non degenera in furore. Il più delle fabbriche è nei campi, e il caro del combustibile vegetale, e la rarità del fossile, ne tengono la sorte intimamente legata al sito che fornisce il motore idraulico». E, soggiunge l’autore, «la descrizione delle fabbriche subalpine rappresenta precisamente il carattere tecnico e morale anche di tutti i grandi opificii che si stabiliscono nella regione Lombardo-Veneta a piè delle Alpi» (pp. 102-103).
L’orgoglio patrio non può che sentirsi sollecitato e forse anche soddisfatto da confronti del genere, che esprimono – almeno su certe questioni – una sorta di superiorità italiana rispetto agli «altri paesi d’Europa», per una volta dovuta non tanto alla natura benigna, ma piuttosto a «qualche cosa di altamente umano»; non solo, ma sembrano istituire su questo punto una differenza quasi genetica («un senso incancellabile») che rimanda a pretese antiche radici (la «magnificenza latina») e che, nel tracciare un destino, rassicura anche sul suo ineluttabile e fausto compimento. Non si può trascurare poi un’altra circostanza: il contesto comunicativo. L’almanacco è tutto dedicato, oltre che alla costruzione di un sentimento di identità nazionale, a raccontare storie edificanti, a divulgare iniziative filantropiche e benefiche, a spacciare «agli operai» consigli buoni e disinteressati – dall’igiene alimentare all’etica sociale – che sono altrettanti strumenti dello stesso disegno educativo. In questo quadro, la concorrenza dal volto umano e la buona sorte degli operai tessili italiani rispetto ai colleghi europei avranno certo risvegliato nei lettori un senso di sollievo per essere nati nel posto giusto, li avranno magari rinfrancati segnalando loro questa non piccola fortuna di avere padroni e architetti dotati di «qualche cosa di altamente umano», avranno forse confermato in qualcuno altri luoghi comuni, non meno potenti e non meno efficaci di quelli geografici e storici nel costruire una identità nazionale, a proposito della migliore indole degli italiani perfino sub specie padronale: una sorta, insomma, di «italiani brava gente» ante litteram.
Non molto prima dell’unificazione, una sorta di sintesi delle varie forme di rappresentazione ricordate sopra, ammodernata con un ampio ricorso alla statistica descrittiva, è costituita da una grande opera coordinata da Attilio Zuccagni-Orlandini, che può essere assunta come plausibile riferimento generale dello stato dell’immagine dell’Italia preunitaria. La Corografia fisica, storica e statistica dell’Italia e delle sue isole, corredata di un atlante di mappe geografiche e topografiche, e di altre tavole illustrative, opera giustamente celebre, fu stampata a Firenze tra il 1835 e il 1845 in undici cospicui volumi, per uno sviluppo totale di ventuno tomi tra aggiunte e supplementi. La integrano due atlanti. Un grande Atlante geografico degli Stati italiani delineato sopra le migliori e più moderne mappe per servire di corredo alla Corografia fisica storica e statistica dell’Italia (Firenze 1844, 2 volumi in folio), in cui la cartografia fisico-politica dei vari Stati italiani, debitamente aggiornata, viene resa in scale medio-grandi e con una grafica uniforme al punto che, scorrendo le tavole, non si ha l’impressione che le regioni rappresentate appartengano a Stati differenti (non è uniforme invece la scala, per cui le singole tavole non possono comporre un mosaico coerente e, per altro verso, non rendono possibili i confronti dimensionali); e un Atlante illustrativo, ossia Raccolta dei principali monumenti italiani antichi, del medio evo e moderni e di alcune vedute pittoriche per servire di corredo alla Corografia fisica storica e statistica dell’Italia (Firenze 1845, 3 volumi in folio), largamente basato su materiali prodotti da altri autori, ma selezionati e allestiti in modo organico e tale da non evidenziare solo gli aspetti magniloquenti o considerati caratteristici – le rovine, le chiese, i briganti – che erano oggetto prevalente nelle illustrazioni dei «viaggi pittoreschi».
La Corografia di Zuccagni-Orlandini consiste in una narrazione descrittiva della regione italiana, con attenzione agli aspetti fisici (fiumi, pianure...), a quelli umani, storici e politici (popolamento, lingua, città, Stati,...) e a quelli statistico-economici (produzione, commercio...). I due atlanti contengono insieme circa 700 immagini, tra carte geografiche e piante urbane, da un lato, e vedute di località e monumenti più o meno celebrati e suggestivi dall’altro. Per una buona parte, si tratta di materiali che il curatore aveva già edito in precedenza o che avrebbe pubblicato anche a parte in opere a carattere regionale (o per meglio dire statale, secondo il giudizioso ordine politico adottato dall’autore). Malgrado le dimensioni (14.000 pagine) e il costo, la Corografia e i suoi derivati ebbero un’ottima accoglienza da parte del pubblico e una notevole diffusione: il che sembra dimostrare come l’opera rispondesse bene alle aspettative, cioè rappresentasse il territorio della penisola in maniera sufficientemente organica e consona all’immagine allora corrente.
Molto interessante, e certamente non priva di significato, la circostanza che la Carta dell’Italia in scala 1:600.000 (datata al 1842), che apre il primo volume dell’Atlante geografico, distingua una «Italia francese» (Corsica), una «Italia inglese» (Malta) e una «Svizzera italiana» (che non si limita al Canton Ticino, ma comprende anche parti dei Grigioni), sebbene taccia prudentemente di una «Italia austriaca», che però il disegno chiaramente indica in Tirolo meridionale, Carniola e Istria. Con l’eccezione della Savoia (che non viene denominata «Francia italiana»), la carta enfatizza palesemente i limiti cosiddetti naturali e in particolare lo spartiacque alpino. Zuccagni-Orlandini, dunque, tentava una rappresentazione sostanzialmente unitaria della penisola, anche se scandita secondo l’articolazione in Stati, ma così come oggi potrebbe essere scandita secondo le regioni. E doveva essere ben consapevole delle implicazioni politiche, specie per la soluzione adottata nella parte cartografica, se concludeva le Avvertenze dell’Atlante geografico con l’auspicio «che dai connazionali sarà benignamente accolto questo patrio lavoro». I garbati rilievi critici che all’epoca furono rivolti alla Corografia riguardarono proprio un certo squilibrio fra le sue parti (la trattazione degli Stati sardi aveva uno sviluppo maggiore di quella del Regno di Napoli): si sarebbe desiderato, insomma, un lavoro ancora più bilanciato e unitario, che superasse più decisamente i condizionamenti della frammentazione politica.
Altrettanto interessante è il fatto che Zuccagni-Orlandini, insieme con Giovan Pietro Vieusseux e altri toscani gravitanti attorno all’Accademia dei Georgofili, avesse dato vita nel 1826 a una Società toscana di geografia, statistica, storia naturale patria, di cui sembra fosse il principale animatore. La prima società geografica al mondo era nata a Parigi cinque anni prima, nel 1821; la seconda, quella di Berlino, sarebbe stata fondata nel 1828, e quella celeberrima londinese nel 1830: che l’intellettualità italiana fosse in affanno e arretrata rispetto al movimento europeo sembra pertanto, almeno dal punto di vista di certi settori di studio, solo un luogo comune. Chiusa d’autorità la Società toscana nel 1833, si cominciò a parlare con insistenza, ad esempio fra gli studiosi riuniti per il primo Congresso degli scienziati italiani (Pisa, 1839), di fondarne una «italiana».
Se per una società geografica che portasse la qualificazione di «italiana» si dovette in realtà aspettare l’unificazione (nel 1867 fu appunto fondata la Società geografica italiana tuttora esistente), nel 1843 la Bologna papalina registrava l’istituzione di un Ufficio di corrispondenza geografica, promosso da Annibale Ranuzzi. Nel denominarsi, l’Ufficio aveva fatto a meno di aggettivi ulteriori, ma dall’anno seguente si dotò di una pubblicazione dal più esplicito titolo di «Annuario geografico italiano». Anche questa iniziativa ebbe vita brevissima, e chiuse per intervento delle autorità: in linea con la famosa affermazione di Klemens von Metternich, i riferimenti all’«espressione geografica» erano davvero considerati in sé come attentati alla sicurezza degli Stati della penisola. Non a torto, del resto, se nella prima pagina del primo numero dell’«Annuario» (1844) si lamentava che «l’Italia [fosse] al presente posta in condizioni particolari, per le quali non le è dato esercitare, come nazione, un’influenza»: un’affermazione che non può essere considerata politicamente neutra, se poco oltre si additava «la mancanza di unità politica fra i diversi paesi d’Italia» come ostacolo alla realizzazione di «una generale descrizione geografica» della penisola (p. 15) che superasse i limiti della Corografia di Zuccagni-Orlandini e del lungo elenco di opere a taglio «regionale» (come quelle di Lorenzo Giustiniani per il Regno di Napoli, di Guglielmo Stefani per gli Stati pontifici, di Emanuele Repetti per la Toscana e così via), alle quali tuttavia non si lesinavano argomentate lodi; e se, ancora, non imitando affatto la maggiore discrezione di Zuccagni-Orlandini, le tavole statistiche poste in fine del volume citavano non solo un’Italia francese e una inglese, ma anche l’«Italia svizzera» e l’«Italia austriaca», mentre altrove nell’«Annuario» venivano discussi i confini naturali d’Italia e i recenti progressi della cartografia della penisola, auspicando la rapida realizzazione di una «gran carta» dell’intero paese.
Pochissimi anni dopo, Correnti su «Il Nipote del Vesta-Verde» (1852) e più tardi Pietro Maestri nell’«Annuario statistico italiano» (1864) riprendevano a discutere della ripartizione regionale, in senso geografico, dell’Italia tutta, di cui l’«Annuario geografico italiano» di Ranuzzi aveva già trattato nel 1845. Si ammette generalmente che per Correnti e specialmente per Maestri si trattasse soprattutto di organizzare il territorio italiano in «compartimenti» a fini prevalentemente statistici, che sarebbero poi diventati, senza nessuna riformulazione, le nostre attuali regioni costituzionali.
Ancora in questa sede, per Correnti, il riferimento geografico è chiaramente all’imprescindibile unitarietà politica dettata dai limiti naturali: «Unità nella varietà [...] è il carattere principale della nostra patria comune, dell’Italia. Massima unità nella massima varietà» (Correnti 1852, p. 42). Non solo, ma entro l’ambito territoriale considerato «Le varie divisioni storiche dell’Italia coincidono in gran parte colle divisioni naturali» (ivi, p. 43): asserzione assolutamente infondata, come è stato in seguito più e più volte ribadito a proposito sia dei limiti degli Stati preunitari, sia di quelli dei compartimenti statistici e poi delle regioni. Infondata, ma insistentemente proposta e argomentata. Correnti si provava a suddividere «geograficamente» l’Italia in 16 regioni comprese la Corsica e l’Istria. Nessuna di queste, a scorrerne l’elenco (manca una carta dimostrativa), trova corrispondenza con la divisione politica corrente all’epoca o in epoche anteriori né, come si è detto, con «limiti» naturali continui e coerenti. Maestri, per parte sua, portava il totale delle regioni a 19, ma non si poneva che il problema di raggruppare province contigue così da ottenere ripartizioni relativamente confrontabili dal punto di vista della consistenza demografica.
La cosa, se si vuole, più singolare è che nella medesima annata dell’almanacco, poche pagine più in là, dove si tratta del Piemonte (sotto il notevole titolo Dalla periferia al centro), si smentisce compiutamente la pretesa unitarietà naturale e storico-culturale postulata per la generalità delle regioni individuate in territorio italiano. Definito il Piemonte geografico, alla lettera, come la pianura che si stende ai piedi delle Alpi, si aggiunge tranquillamente che «Il Piemonte politico non può scompagnarsi dalla Savoia [...] Ma le altre regioni che si vennero aggruppando d’intorno al doppio nucleo primitivo, introdussero nuovi elementi e diversi: Aosta, Ivrea, il Canavese, benché da lungo tempo soggetti ai Savoini-Piemontesi, hanno altra tempra» e così le Langhe e il Monferrato, e «al di qua della Sesia e della Bormida, dialetti, tradizioni, affetti, fisonomia di cielo, di paese e di abitanti, tutto assomiglia alla Lombardia» (ivi, p. 78). Non per nulla, la carta schematica che accompagna il testo ha titolo Piemonte, ma anche un secondo titolo Italia occidentale (Piemonte, Monferrato, Liguria e Savoia). In altre parole, e benché in maniera un po’ ondivaga, si fa prevalere senz’altro un criterio storico-politico, ben sintetizzato nell’antinomia periferia-centro, e se ne difende il fondamento contro l’evidenza delle forme geografiche e dei dati culturali.
Ancora inconsistenti – e proprio sulla scorta delle vicende storiche cui Correnti si richiama in più luoghi ad altri riguardi – appaiono poi le considerazioni a proposito del valore strategico delle Alpi e degli Appennini, del Po e del mare («niuno negherà, che l’Italia non sia la terra meglio e più agevolmente difensibile d’ogni altra regione Europea»: ivi, p. 47). Ma queste e quelle asserzioni hanno evidentemente lo stesso scopo persuasivo che si è già segnalato, come le altre – meglio accettabili – che seguono a proposito delle condizioni climatiche e delle vocazioni agricole del territorio italiano: convincere il lettore della naturale esistenza dell’Italia e della sua naturale predisposizione a essere il miglior luogo del mondo.
La Corografia di Zuccagni-Orlandini e gli annuari o gli almanacchi come il «Nipote del Vesta-Verde» non erano affatto casi isolati sul versante delle discipline «scientifiche», tacendo di letteratura, storia, filosofia, il cui ruolo politico è ben chiaro a tutti. Nei congressi degli scienziati italiani, come negli studi più tecnici (geologia e mineralogia, chimica, tecnica industriale, trasporti, statistica, commercio internazionale), ci si imbatte in continui riferimenti, più o meno obliqui, all’Italia come entità unitaria. Fra tutte quelle possibili, probabilmente proprio le idee che derivavano dal discorso geografico finirono per essere le più strettamente contigue al discorso politico.
Nei decenni che precedettero l’unificazione politica del paese, non solo era ben diffusa e radicata la convinzione che l’Italia corrispondesse a una precisa regione geografica unitaria, da descrivere, studiare e organizzare in maniera coerente nel suo insieme, distinguendola in sé, ma si deplorava esplicitamente la «mancanza di unità politica»: unità che la rappresentazione geografica, e quella cartografica in specie, poteva e doveva sforzarsi di argomentare e di surrogare.
Accanto alla questione dell’identità e dell’unità, gli autori e le opere che davano una rappresentazione dell’Italia in quanto regione, soprattutto sul piano delle sue potenzialità o delle sue espressioni in campo economico, oscillavano tra due tendenze. Da un lato, c’erano coloro che potremmo definire tradizionalisti ingenui o entusiasti: quelli che sentivano e rilanciavano il richiamo puro e semplice alla visione tradizionale, e piuttosto idilliaca, del Bel Paese «ricco di biade» («Tutto quello che appartiene al regno vegetale quivi cresce rigoglioso»: così Carta 1844, p. 355), dalla giacitura invidiabile e invidiata, dalla «luce limpidissima», dalle innumerevoli testimonianze culturali, maestro a ogni straniero, dalla popolazione «svegliata e attiva»; ma perfino ricco di canali e vie d’acqua, di pianure e di suoli generosi, e di ogni genere di risorse minerarie, oltre che agricole, e di manifatture. È una posizione tradizionalista e ottimistica, evidentemente, e per molti versi preindustriale: riferibile a una fase in cui, effettivamente, le risorse del suolo e del sottosuolo e la loro trasformazione potevano ancora agevolmente fare fronte alla domanda di un mercato ristretto, non di massa, limitato alle classi dirigenti, mentre per il resto vigevano l’autoproduzione, l’autoconsumo e la frugalità più spinta.
Dal lato opposto, c’erano invece i modernisti, più o meno pessimisti e più o meno esterofili. Per loro, l’Italia si fermava alla Toscana e il resto era tutto da «riscattare»; la povertà dilagava e si imponeva anche nelle città più opulente; l’agricoltura era arretrata, soffocata da paludi onnipresenti e da consuetudini medievali, e avrebbe potuto produrre molto di più; l’industria muoveva i suoi primi passi e del resto non sarebbe potuta andare lontano per la totale assenza di materie prime; le comunicazioni erano primordiali e il commercio non riusciva a riprendere l’ampiezza di un tempo; l’assetto politico, coartato dalle divisioni e dalla cecità delle classi dominanti, soffocava anche il senso civico; le società urbane vivacchiavano sulle spalle dei contadini, senza porsi troppi problemi e senza nessun progetto per il futuro.
Le posizioni intermedie, che avrebbero avuto le maggiori probabilità di fornire una rappresentazione almeno verosimile, risultavano discretamente diffuse proprio tra chi si occupava di geografia patria. Magari – come si è visto per l’almanacco di Correnti – ondeggiando fra l’uno e l’altro estremo; ma, nell’insieme, considerando i diversi aspetti fino a fornire un quadro attendibile almeno nelle grandi linee.
Tipicamente, queste rappresentazioni cominciano (secondo il canone geografico) da una descrizione della posizione e delle fattezze naturali della regione italiana: vi possono trovare posto disquisizioni sui «confini naturali», sull’articolazione e sulla nomenclatura delle Alpi e degli Appennini, sulla rete idrografica, sulla natura geologica e sulla varietà dei suoli, sul clima unanimemente considerato «favorevole». Suoli e clima vanno immancabilmente associati alle potenzialità agricole, più o meno enfatizzate secondo i casi (e soprattutto secondo le regioni italiane che offrono esempi ai vari autori). Di qui, si passa all’attività economica in generale.
Nei due o tre decenni che precedono l’unificazione politica – ma secondo vari autori già a partire dalla parentesi napoleonica – gli effetti della modernizzazione appaiono evidenti in tutti i settori produttivi, nella crescente prosperità del commercio a breve e lungo raggio, nell’aumento costante della popolazione. Non si manca di ricordare come il porto di Trieste sia il secondo del Mediterraneo dopo Marsiglia, senza dimenticare gli altri, da Venezia a Genova, e in generale il grande miglioramento in atto nelle strutture portuali. Si sottolinea che le principali città vedono ridursi «l’inverecondo spettacolo del mendico infingardo» (Balbi 1845, p. 70), grazie alle provvidenze pubbliche e a precise politiche di «ricovero» e di avvio al lavoro, e a differenza di quanto si verifica ancora in molte delle grandi città europee. Si menziona il progresso dell’irrigazione e quindi dell’agricoltura irrigua nella valle del Po, ma anche dell’Arno e di altri fiumi centro-settentrionali, come anche le sistemazioni del basso corso del Po, i «murazzi» di Venezia, le bonifiche idrauliche avviate o proseguite in varie parti, da Aquileia a Mantova alla Maremma senese. Si celebra la modernizzazione in atto nelle città (illuminazione, pavimentazioni stradali, edifici pubblici, teatri, chiese) e nelle vie di comunicazione, per le quali spesso viene vantata una posizione di avanguardia, specialmente a proposito delle strade di valico transalpine – prime quelle, allora recenti, del Moncenisio, del Sempione e dello Stelvio – e a proposito dei ponti (per strade e ponti «L’Italia non gareggia, ma è superiore a qualunque altra nazione»: Carta 1844, p. 355). La cantieristica viene opportunamente segnalata fra le attività industriali più promettenti e non più prevalentemente orientata alla costruzione di naviglio a vela, e accanto a questa sono ricordate le produzioni manifatturiere, da quelle tradizionalmente sviluppate come tessile, alimentare, pelletteria, a quelle più innovative, fra cui metallurgia, chimica, ottica.
Lo sviluppo del settore finanziario e assicurativo consente la formazione e la mobilitazione di capitali liquidi, in parte almeno a sostegno dell’industria e delle numerose costruzioni ferroviarie in progetto, per le quali si preconizza un rapido sviluppo e un ruolo di rilievo non solo per i collegamenti interni, ma anche per quelli internazionali. Per le ferrovie, peraltro, già negli anni Quaranta dell’Ottocento circolava un «sistema dei progetti» che prevedeva la connessione delle linee progettate o costruite da ciascuno Stato preunitario, così da comporre una «rete» italiana.
L’istruzione pubblica, nei vari ordini di scuole come nelle università, appare in pieno sviluppo nel ridurre costantemente un tasso di analfabetismo che in molte province supera abbondantemente il 90%; e così sono definite in crescita e diffusione le pubblicazioni a stampa (con oltre 200 giornali, ben distribuiti fra le varie regioni, e circa 4.000 volumi stampati per anno sul finire degli anni Trenta). Infine, o talvolta in principio, non mancano le informazioni anche molto dettagliate sulle singole città, grandi e piccole, e sulle loro caratteristiche, soprattutto culturali (musei, teatri, università), urbanistiche e architettoniche, in un certo modo proseguendo il filone delle guide turistiche dal quale abbiamo preso le mosse in questo ragionamento.
Nel loro insieme, le opere geografiche che più o meno diffusamente trattavano dell’Italia e delle sue componenti politiche, rimandavano tutte a una rappresentazione coerente, che solo su alcuni elementi si differenziava da un autore a un altro. Il caso più tipico è forse la valutazione riguardo alle ricchezze naturali (e minerarie in specie): per la maggior parte dei geografi, si trattava di produzioni interessanti e certamente utili, però inadeguate al moderno sviluppo del paese, dal momento che erano insufficienti quasi tutti i metalli e i principali minerali e, in modo particolare, il ferro e il carbone, cioè la base per l’industria siderurgica, perno e volano dell’industrializzazione. Per un minor numero di studiosi, invece, continuava a prevalere la valutazione tradizionalmente ottimistica, poggiata in particolare su produzioni come il marmo e lo zolfo – che erano certamente rilevanti anche a livello di scambi internazionali, ma che nei fatti incidevano ben poco sullo sviluppo manifatturiero contemporaneo – senza tralasciare le pur esigue produzioni di metalli vari, che un tempo avevano alimentato le manifatture, ma che non potevano più soddisfare l’industria moderna. Va notato, tuttavia, che il rifarsi dichiaratamente alle statistiche, come era da tempo prassi consolidata in campo geografico, finiva per ridurre alquanto lo spazio delle interpretazioni o delle inclinazioni, ottimistiche o pessimistiche, dei singoli, e in un certo senso costringeva i geografi a fare i conti con certi dati di fatto apparentemente inoppugnabili: per questo le impostazioni ottimistiche furono frenate dal confronto con i valori numerici e viceversa, con il risultato complessivo di un maggiore equilibrio. Del resto è anche da questa peculiarità del discorso geografico che derivò, appunto verso la metà del XIX secolo, il credito che la disciplina piuttosto rapidamente ottenne.
Un esempio piuttosto evidente di quanto appena affermato lo offre Francesco Predari, bibliotecario a Brera e geografo solo per compilazione, con il suo Dizionario (1864, s.v. Italia). Ragionando, in apertura, della marittimità dell’Italia e delle attività attinenti al mare, Predari non solo elenca i caratteri che avrebbero potuto fare della penisola la «dominatrice del Mediterraneo», ma si dilunga sulle produzioni: a cominciare dai legnami necessari per le costruzioni navali, che abbondavano, a suo dire, sulle Alpi, sull’Appennino, nell’Istria e nelle tre grandi isole (Corsica, Sardegna e Sicilia); Isola d’Elba, Sardegna, Bresciano e Bergamasco fornivano il ferro; la canapa (per i cordami) nella valle del Po e il pesce nel Regno delle Due Sicilie (peraltro ormai estinto, ma così ricordato) completavano il quadro.
Proseguendo, e sottolineato che l’idraulica può essere considerata una scienza italiana per nascita, fornisce un lungo elenco di canali e di vie navigabili – una specie di chiodo fisso, all’epoca, malgrado la strutturale pochezza delle nostre vie d’acqua interne – per poi passare a quello di strade rotabili e di linee ferroviarie in esercizio e in progetto, a proposito delle quali risalta senza dubbio il massiccio attivismo pubblico nelle opere di infrastrutturazione.
Tra i minerali, tributato un corposo omaggio ai marmi e ai materiali da costruzione, e un accenno all’allume e allo zolfo, viene ricordato il sale marino, ma anche le «vene d’oro» e i «filoni d’argento», e poi ferro, piombo, rame... Più avanti, tornando sull’argomento, Predari dirà quasi per ogni regione italiana che non vi mancavano il ferro e altri metalli. Più comprensibilmente, la varietà di frutti e di piante utili di cui si forniscono notizie è come sempre impressionante, tenuto conto anche dei relativi prodotti (vino, olio, conserve). Si fa notare per originalità il riferimento alle piante tintorie (come il sommacco siciliano), che rifornivano i mercati esteri, e più ancora l’attenzione rivolta al tabacco – che in effetti costituiva e costituì a lungo una produzione importante per l’Italia centro-meridionale – e al cotone, invece ormai del tutto secondario in anni in cui le importazioni dall’India e dagli Stati Uniti meridionali avevano praticamente annullato la convenienza della coltura. Malgrado tutta questa abbondanza, però, e con cifre alla mano, l’autore trovava che l’insieme delle produzioni cerealicole e di quelle di analogo impiego alimentare (castagne, legumi secchi, patate) non bastava a soddisfare la domanda interna, e il relativo approvvigionamento all’estero doveva essere bilanciato con l’esportazione di altri prodotti agroalimentari, in primo luogo olio, canapa e legname. Una tabella chiarisce che l’importazione di cereali e farinacei aveva da sola rappresentato, nel 1859, un ottavo, in valore, delle importazioni italiane.
Singolarissimo è il dettaglio delle notizie che, passando all’allevamento, vengono fornite a proposito di cavalli, asini e muli (specificando che questi ultimi si rivelavano insostituibili in Sardegna e in Sicilia, in mancanza di strade), trattati in modo più approfondito dei bovini e degli ovini; mentre della seta, malgrado l’epidemia di pebrina che a partire dal 1855 falcidiò gli allevamenti fino a decretarne la sostanziale scomparsa nel giro di pochi decenni, Predari afferma che la produzione italiana superava da sola l’insieme della produzione del resto d’Europa. In effetti, la malattia si era propagata dapprima in Francia, fino a pochi anni addietro principale produttrice europea di seta, poi in Spagna e in altri paesi, e solo dopo e più lentamente anche in Italia; per qualche anno, quindi, la produzione italiana rimase la sola di qualche consistenza in Europa, finché non divenne necessario anche per gli italiani andare a rifornirsi di «seme-bachi» nel Vicino Oriente, poi in Asia centrale e infine in Cina e Giappone: fenomeno che negli anni in cui Predari compila il suo dizionario era già molto sviluppato, ma del quale non fa parola. Come l’allevamento del baco da seta era polverizzato in migliaia di piccoli impianti domestici, vitali per l’economia contadina di molte regioni italiane, così accadeva ancora per la tessitura di ogni genere: e Predari, pur ricordando alcuni grandi impianti industriali, continua a citare le decine di migliaia di telai artigianali addetti al lino, alla canapa, alla lana.
Con la metalmeccanica (ricordata non solo a Genova, in Piemonte e in Lombardia, ma anche a Napoli e in Toscana) si passa poi all’industria moderna, capitalistica. L’autore in realtà fa solo un rapidissimo cenno, che sembra avere il semplice scopo di segnalare come anche in Italia avessero preso piede le modalità più moderne di produzione. In questo senso, ricordare la raffinazione dello zucchero, la concia delle pelli, la produzione di carta e la chimica di base (di nuovo – e non accadrà a lungo negli anni seguenti all’Unità – trova qui modo di ricordare Napoli fra le città sedi di industrie moderne) sembra avere più che altro il valore di puro esempio. Ma, in tutto questo, le esportazioni continuavano a essere dominate dai prodotti agroalimentari, comprendendo tra questi la seta che, da sola, copriva in valore circa un terzo delle vendite all’estero. Di grande importanza è la considerazione che conclude l’illustrazione dell’interscambio commerciale: «l’Italia, anche divisa, anche bistrattata come è stata fin qui viene quarta in Europa per ciò che spetta all’importanza commerciale, cioè immediatamente dopo l’Inghilterra, la Francia e la Germania dello Zollwerein [sic], e prima dell’Austria, della Spagna e della Russia». A ben vedere, è più o meno la posizione relativa che l’economia italiana occupa tuttora, e che ha occupato dal Basso medioevo in avanti, sia pure tra molte oscillazioni contingenti.
L’interscambio estero, per quanto non possa essere considerato una misura diretta della ricchezza di una regione, fornisce certamente un’indicazione molto significativa che non può essere disgiunta dalla reale ricchezza, consente di oggettivare il peso economico complessivo, la capacità di spesa e insieme gli introiti; se segnala delle insufficienze produttive, mostra anche che quelle insufficienze possono essere pagate. Eppure è questo un argomento che molto di rado si trova messo in evidenza, in quegli anni e dopo. La schiera degli entusiasti fa l’elogio delle ricchezze dell’Italia sulla base di considerazioni tradizionali, come si è ricordato, ma argomenta in maniera inconsistente e poco convincente; i detrattori enfatizzano i molti elementi di debolezza strutturale, i ritardi, il sottosviluppo di certe regioni, fornendo l’immagine di un paese sostanzialmente povero e intrappolato da troppe condizioni negative; gli uni danno un ritratto pregiudizialmente entusiastico, gli altri pregiudizialmente scettico. Che sia la seconda posizione ad avere prevalso, fino a oggi, in credibilità, che sia quella che meglio rappresenta l’insoddisfazione derivante dalla percezione che gli italiani stessi hanno dell’economia e più in generale delle «prestazioni» del paese, sembra comunque vero e può essere oggetto di riflessioni interessanti, che però non possono togliere molto – allora come oggi – all’evidenza delle cifre. Tanto più che è possibile indicare un margine di miglioramento, come fa Predari, il quale sottolinea come la crescente integrazione della rete dei trasporti, lo sviluppo ulteriore della navigazione a vapore e l’eliminazione delle barriere doganali interne avrebbero consentito, in un futuro anche prossimo, un incremento degli scambi e delle produzioni.
Il lungo lemma Italia steso dal Predari prosegue con informazioni sull’istruzione, sul sistema scolastico e sugli istituti culturali, abbondanti notizie sull’articolazione della lingua italiana in dialetti e parlate regionali, con lunghi richiami storico-letterari e con doviziosi elenchi di artisti e scienziati, incaricati di illustrare il «progresso sociale e civile» del paese, per concludersi con uno schizzo di storia politica.
Se lo schema di questo Dizionario non è esattamente conforme a quello seguito in altre opere dello stesso genere, l’insieme degli argomenti trattati lo è a tutti gli effetti. In questa e in tutte le opere simili, sarebbe in ogni caso illusorio ricercare la completezza e l’oggettività; come si è cercato di argomentare sopra, non è tanto nel trattare certi temi o altri che i discorsi geografici si differenziano, quanto nel modo in cui sono affrontati i vari temi, spesso risolti in maniera differente da opere differenti. È l’impianto retorico a dettare il risultato della comunicazione, e quindi l’intenzione o la propensione dell’autore a generare, anche inconsapevolmente, un discorso più o meno persuasivo e più o meno orientato. Di qui l’ovvia – ai nostri occhi – necessità di interpretare questi discorsi e di ricollocarli nel contesto in cui furono elaborati, e le riserve con cui quasi inevitabilmente dobbiamo accogliere anche le informazioni apparentemente banali che vengono fornite.
Sta di fatto, comunque, che i molti dizionari geografici, come le numerose altre opere, più organiche, intese a mostrare lo stato dell’Italia, ebbero un successo editoriale grandissimo nel corso dell’Ottocento e, di conseguenza, contribuirono in maniera rilevante a modellare la percezione che gli italiani venivano maturando a proposito del proprio paese e della sua collocazione. È il caso anche di sottolineare che il modo in cui la descrizione geografica viene fornita da un testo aveva la capacità di raggiungere una platea certamente più numerosa (sebbene sempre limitata dalla scarsa diffusione dell’alfabetizzazione) di quanto non potessero fare rappresentazioni di altra natura. Nel caso specifico del discorso geografico, la cartografia: non può coinvolgere certamente neppure oggi un pubblico analogo a quello della parola scritta, dato che presuppone una tecnica di lettura specificamente educata. Va aggiunto che la rappresentazione cartografica implica anche una serie di proprietà e di retoriche non immediate, che, pur configurando un discorso alla stessa stregua di quello verbale, lo svolgono in maniera meno scoperta. Questa caratteristica rende la cartografia uno strumento di comunicazione molto potente e persuasivo e, anche al di là delle eventuali intenzioni dell’autore, in grado di veicolare una pluralità di significati altri rispetto alla pura e semplice collocazione di oggetti o fenomeni sulla superficie della Terra, come ormai è stato messo in luce da un trentennio almeno di ricerche. Considerazioni che non tolgono, e anzi aggiungono, importanza al ruolo che la cartografia svolge, non tanto e non solo nel rappresentare adeguatamente una regione, quanto nell’orientare la percezione che il lettore ha di quella regione.
Stando ai dati di fatto, appare sostanzialmente scorretto sostenere che, alla vigilia dell’unificazione, il territorio che poi sarebbe divenuto italiano mancasse di una dotazione cartografica o che questa fosse di cattiva qualità. La cartografia disponibile, tuttavia, risultava difforme da Stato a Stato, in parte per il grado di aggiornamento, ma soprattutto per il dettaglio, per la scala alla quale erano state realizzate le carte di base. Nell’insieme, spicca in negativo la povertà cartografica delle grandi isole, e in positivo la dotazione piemontese, decisamente più accurata e quindi più efficace rispetto a quelle degli altri Stati. Non è inutile, poi, ricordare che il sistema metrico decimale non era stato ancora adottato universalmente; nella tradizione settecentesca le scale di riduzione si basavano, caso per caso, su unità di misura differenti che davano luogo a risultati numerici malamente confrontabili e solo approssimativamente riconducibili gli uni agli altri.
Per quanto riguarda le carte che coprivano l’intera Italia, quella in 15 fogli al 600.000 di Zuccagni-Orlandini di cui si è detto non poteva certo considerarsi adeguata, perché in scala troppo piccola e perché «derivata», come si dice, da altre carte precedenti. Così pure quella edita da Civelli a Milano in 28 fogli, all’inusuale scala di 1:555.555, e altre carte derivate che si andavano realizzando in quegli anni. Rimaneva la Carte du théâtre des campagnes de Bonaparte en Italie, in scala 1:256.000, in 54 fogli cartografici, realizzata tra 1797 e 1802 da Louis-Albert-Guislain Bacler d’Albe, solo in parte, però, in base a rilevamenti diretti. Responsabile della dotazione cartografica di tutte le campagne di Napoleone e strettissimo suo collaboratore, vero e proprio rifondatore della cartografia militare francese, principale autore delle iniziative di «normalizzazione» (standardizzazione) della produzione e della resa grafica delle carte topografiche, Bacler d’Albe aveva assunto nel 1797 la direzione del Bureau Topographique istituito l’anno prima a Milano al seguito del corpo di spedizione francese. Qui aveva anche avviato i lavori per la realizzazione di una carta, che sarebbe stata portata a termine solo molti anni dopo, alla scala di 1:86.400, adottando cioè la stessa scala della carta ufficiale di Francia nota come «carta Cassini», avviata nel 1750 e conclusa nel 1811.
Nei primi decenni dell’Ottocento, ma in qualche caso già prima degli anni napoleonici, tutti gli Stati preunitari italiani avevano realizzato carte geometricamente attendibili, basate su regolari operazioni di triangolazione e modernamente concepite sotto il profilo grafico, dell’uniformazione dei simboli, delle tecniche di stampa, e quindi per qualità almeno comparabili con la carta Cassini. L’iniziativa più precoce era stata del Regno delle Due Sicilie; quella più avanzata, del Regno di Sardegna; per gli altri Stati la Restaurazione vide la conferma e la generalizzazione delle soluzioni tecniche proposte dai francesi.
Alla vigilia dell’unificazione, il Regno di Sardegna aveva una carta omogenea pubblicata in scala 1:50.000 per gli Stati di terraferma, rilevata addirittura alla scala di 1:10.000. La Carta topografica degli Stati di terraferma di S.M. il Re di Sardegna fu pubblicata tra 1816 e 1830, e nel 1851 se ne decise un rinnovamento generale, che diede luogo a una carta praticamente diversa (91 fogli editi tra 1852 e 1871). Per la Sardegna c’era invece solo la carta rilevata da Alberto Ferrero La Marmora, pubblicata al 250.000 nel 1845. La tradizione di una cartografia di Stato (e militare) risaliva almeno alla formazione del Corpo degli ingegneri topografi (1738), da cui era sorto un Ufficio topografico, sciolto nel 1797 e ricostituito dopo la Restaurazione, per poi dare vita, qualche anno dopo l’unificazione italiana, all’Istituto topografico (poi geografico) militare tuttora esistente, che avrebbe assorbito tutte le funzioni topo-cartografiche dello Stato italiano.
Lombardo-Veneto, Ducati, Toscana e Stato pontificio erano dotati di carte formalmente distinte, però omogenee per costruzione e congiunte fra loro, tutte in scala 1:86.400. L’opera era stata portata a termine dalle autorità austro-ungariche tra 1826 e 1851, ma sulla base di lavori di rilevamento topografico e di restituzione cartografica iniziati in età napoleonica, il che spiega l’adozione della stessa scala della carta Cassini. Il Bureau topographique milanese di Bacler d’Albe, diventato sul modello francese Deposito della guerra della Repubblica cisalpina (1801), come si è anticipato aveva iniziato a lavorare in funzione di una carta d’Italia alla stessa scala di quella ufficiale francese. Trasformato dagli austriaci in Istituto geografico militare dell’imperiale e regio stato maggiore generale (1816), l’ente aveva provveduto nel 1833 e poi di nuovo nel 1856 a pubblicare i 42 fogli della Carta topografica del Regno Lombardo-Veneto, appunto alla scala di 1:86.400. A partire dal 1826, lo stesso Istituto aveva poi assunto la cura della cartografia, alla stessa scala, dei Ducati, del Granducato di Toscana e dello Stato della Chiesa. Frattanto, nel 1840, l’Istituto milanese era stato trasferito a Vienna e fuso con l’imperiale e regio Istituto geografico militare. Il meridiano iniziale della carta «franco-austriaca» era stato quello di Milano, e al meridiano di Milano fecero riferimento tutte le carte degli Stati italiani prodotte dall’Istituto austriaco (e realizzate da personale per lo più italiano, sotto la direzione di Antonio Campana, di origine romana ma formato a Napoli, che poi andò a dirigere anche l’Istituto viennese). Avevano organizzazioni e produzioni cartografiche proprie, sia pure meno sviluppate, anche il Ducato di Modena (con il suo Ufficio topografico estense) e il Granducato di Toscana (con l’Uffizio topografico militare), la cui cartografia – dopo la Restaurazione – fu assunta di fatto dall’organizzazione austriaca. Vale la pena ricordare che la Toscana aveva dal 1830 una propria carta, pubblicata in scala 1:200.000, realizzata da Giovanni Inghirami e universalmente considerata con grande attenzione: al di là della scala in cui furono stampati i quattro fogli che la componevano, infatti, questa carta aveva la caratteristica di derivare direttamente da un rilievo effettuato a grandissima scala nel corso delle operazioni, pure guidate da Inghirami, per la realizzazione del catasto particellare.
Il Regno delle Due Sicilie aveva una carta un po’ più datata (stampata tra 1788 e 1812, in 32 fogli, poi aggiornata tra 1821 e 1825) e in scala di circa 1:114.000 – a parte la Sicilia, la cui carta migliore era in scala 1:260.000 e risaliva al 1826 – come conseguenza paradossale dell’avere anticipato i tempi rispetto agli altri Stati italiani. Questa carta, come anche l’Atlante marittimo delle Due Sicilie (1792) e altre opere, fu infatti realizzata da una Commissione della carta geografica del Regno istituita nel 1781, che di fatto era un istituto geo-topografico di Stato (tra i primi enti del genere a essere istituiti in Europa), che i contemporanei chiamavano correntemente Gabinetto topografico e che nel 1795 assunse il nome di Officina topografica. Lo diresse per decenni Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, padovano, specializzato in Francia. La splendida carta del Regno fu realizzata utilizzando tecniche che proprio in quegli anni venivano superate da una serie di innovazioni: «In tutti questi lavori furono adoperati gli antichi metodi geodetici e di rilievo usati innanzi della celebre misura dell’arco di meridiano in Francia [misura effettuata tra 1792 e 1799]; per la qual cosa, quantunque il regno di Napoli abbia posseduto una Carta prima di molti altri Stati di Europa, un tal lavoro lodato e pregevole nell’epoca in cui fu intrapreso, non soddisfa ora più ai bisogni della civiltà moderna» (Visconti 1844, p. 20).
Nel 1806 l’Officina venne ribattezzata Burò topografico, quindi passò alle dipendenze del ministero della Guerra (prima era una struttura civile). Nel 1814, morto Rizzi Zannoni, la direzione era stata affidata a Ferdinando Visconti, palermitano formato a Napoli e Milano, fino ad allora vicedirettore del Deposito della guerra di Milano. Il Burò topografico venne riorganizzato nel Deposito generale della guerra (sul modello parigino e poi milanese), dal quale si separò di nuovo per dare vita al Reale officio topografico (1817), con l’incarico di realizzare una nuova carta topografica in scala 1:80.000, di cui venne pubblicata solo una piccola parte. Il Reale officio topografico napoletano, cui nel 1807 si era affiancato un analogo, ma poco vitale, Officio siciliano a Palermo, concluse la sua attività nel 1879.
Le vicende della cartografia preunitaria si prestano ad alcune considerazioni di carattere generale. La prima riguarda l’improvvisa accelerazione scientifica, tecnica e organizzativa che contrassegnò, anche in campo topo-cartografico, la prima metà dell’Ottocento. Si pensi alla carta di Rizzi Zannoni: pochi anni erano bastati a rendere obsoleta una realizzazione che aveva avuto, al suo avvio, tutti i crismi della massima affidabilità; ed è palese, nelle parole di Visconti, la consapevolezza di un vero e proprio cambiamento epocale intervenuto nel frattempo, ovviamente non solo in virtù delle migliori misure geodetiche realizzate, con il passaggio a una «civiltà moderna» che aveva bisogni ben differenti da quelli di quaranta o cinquant’anni prima. In qualche misura, anche le carte «austriache» risentivano di un problema analogo, ma vennero realizzate secondo procedure più affidabili e ottennero un apprezzamento molto maggiore.
Una seconda considerazione mira a mettere in evidenza l’istituzionalizzazione delle attività cartografiche: è soprattutto nel primo Ottocento che vengono delineandosi precisamente le funzioni e le modalità operative delle organizzazioni (quasi tutte militari) che si occupano della topografia in Italia. Già nel Settecento, più eccezionalmente nel Seicento, si erano sviluppate forme di specializzazione topo-cartografica con la formazione di uffici, corpi o squadre di tecnici; ma è chiaramente al passaggio tra XVIII e XIX secolo che si realizza una strutturazione con pretese di stabilità e di organicità. I frequenti cambiamenti di denominazione, di assetto, di inquadramento amministrativo rendono peraltro chiaro che si trattava ancora di una fase sperimentale. Non sembra affatto inutile seguire anche nel dettaglio queste evoluzioni, che chiariscono bene il grado di importanza assegnato (tramite l’entità dei finanziamenti previsti o del personale inquadrato) alle attività topo-cartografiche; così come chiariscono le intenzioni prevalenti nel definire le finalità di quelle attività (non solo con il prevederne per legge i contorni, ma anche con il far dipendere le operazioni dall’una o dall’altra branca dell’amministrazione statale). Al termine di questa fase, attorno alla metà del XIX secolo, in Italia e altrove gli enti preposti alla produzione cartografica ufficiale saranno tutti enti militari, spesso direttamente dipendenti dagli stati maggiori o dai ministri, a sottolineare la rilevanza strategica – non solo in campo militare – del rilevamento e della produzione di documentazione topografica.
Ancora una considerazione viene sollecitata dalle biografie dei cartografi e degli operatori (almeno i principali, quelli su cui si hanno notizie), che spesso mostrano una mobilità geografica insospettata, proseguendo in questo una tradizione molto antica, destinata a esaurirsi proprio nel corso dell’Ottocento, con la progressiva militarizzazione della topografia. Che fossero artigiani specializzati (come era stato dal tardo medioevo alla piena età moderna), tecnici con elevata formazione scientifica o scienziati portati all’applicazione (come sarà soprattutto nel Settecento), i cartografi hanno sempre conosciuto spostamenti frequenti e relativamente facili da una corte a un’altra, da un paese a un altro. Così come hanno sempre dato vita a una vera e propria rete, in cui la competizione cedeva più spesso alla cooperazione: il fenomeno è ancora ben evidente nel primo Ottocento, malgrado l’aggravante dei frequenti cambi di regime e del vivace antagonismo tra posizioni politiche. Al di là della turbolenza del periodo, insomma, sembra prevalere l’apprezzamento della competenza tecnico-scientifica dei cartografi, il cui lavoro nel tempo è diventato essenziale.
Un paio di mesi prima della proclamazione del Regno d’Italia, nel gennaio 1861, nell’ambito dei provvedimenti di riorganizzazione delle forze armate resi necessari dall’unificazione, il governo sabaudo aveva ricollocato il personale e le funzioni dell’Ufficio topografico in uno specifico Ufficio tecnico, creato nell’ambito dell’Ufficio superiore del Corpo di stato maggiore dell’esercito. Nell’Ufficio tecnico erano stati assorbiti anche gli uffici topografici di Modena e della Toscana, ma non quello napoletano, troppo sviluppato, noto ed efficiente per essere liquidato per decreto. L’Officio di Napoli venne quindi per il momento conservato come sezione separata dell’Ufficio superiore torinese, vale a dire allo stesso livello dell’Ufficio tecnico che aveva ereditato le funzioni topografiche per il Centro-Nord; ma la branca napoletana non venne più rinnovata nel personale, così che finì per estinguersi gradualmente. Come è stato osservato, questa soluzione non sembra affatto aver avuto l’obiettivo di riordinare efficacemente il delicato settore topo-cartografico (che avrebbe dovuto occuparsi, all’epoca, anche delle operazioni catastali), ma piuttosto quello di perseguire «una semplificazione estrema [...] accentrando tutte le competenze cartografiche nazionali» e ispirandosi alle «chiare esigenze di carattere polemologico [...] della difesa e del controllo del territorio» (Cantile 2007, p. 39).
La prima operazione topo-cartografica che venne assegnata, nel 1862, al nuovo ente riorganizzato fu l’allestimento della Carta topografica delle provincie meridionali, scala 1:50.000, così da equiparare in qualche modo la dotazione cartografica disponibile per le varie parti del paese. La nuova carta avrebbe utilizzato ed esteso i lavori già avviati dal 1835 in poi dall’Officio topografico napoletano. Questi avevano previsto delle levate di campagna al 20.000, da cui ricavare la carta in scala 1:80.000, con l’impiego (all’avanguardia all’epoca del progetto napoletano) delle curve di livello per rappresentare l’altimetria. La parte già realizzata dall’Officio preunitario copriva circa il 15% del territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie. Le operazioni postunitarie, prima geodetiche, poi topografiche, si conclusero nel 1876 con la pubblicazione dell’ultimo dei 174 fogli della carta.
Nel frattempo, però, nel 1875 venne approvata l’estensione della carta al 50.000 anche al resto del paese che ne era ancora privo, con l’eccezione delle aree di pianura e delle grandi città e relativi dintorni, per le quali si pubblicarono delle «tavolette» in scala doppia, 1:25.000. Nella pratica, il 25.000 venne realizzato solamente nell’Italia settentrionale, che per i territori già appartenenti al Regno di Sardegna era già rappresentata al 50.000 (per una buona parte si trattò in sostanza di un aggiornamento), in qualche tratto della Sardegna e nell’area circostante Roma, negli stessi anni in cui si discuteva sull’opportunità di presidiare la capitale con un sistema di forti. Anche in queste scelte sembra di poter ravvisare un interesse prevalentemente militare, come nella maggior parte delle operazioni condotte dall’Ufficio.
Quella dell’inquadramento geodetico fu un’altra delle prime preoccupazioni del nuovo ente cartografico italiano. La rete geodetica di primo livello era stata, per la verità, già da tempo estesa a tutta la penisola, unendo fra loro le misurazioni effettuate nei vari Stati; quasi interamente sviluppata era anche la rete di secondo livello. Ma il continuo miglioramento della strumentazione disponibile rendeva insoddisfacenti i risultati ottenuti anche pochi decenni prima; più ancora, erano le esigenze dell’esercito di assoluta precisione geodetica e geometrica (si pensi, tipicamente, all’impiego dell’artiglieria) a prevalere su tutte le altre. Se, da un lato, è chiaro che la precisione delle misure geodetiche, con il loro costante aggiornamento, è un dato essenziale alla realizzazione di una cartografia affidabile, dall’altro è però altrettanto chiaro che la perfezione metrica era una vera necessità solo per le operazioni belliche. Si disse (e si dice) che l’assoluta precisione servisse anche a scopi civili (lavori pubblici di vario genere): ma è del tutto evidente che le operazioni di trasformazione del territorio, che si tratti di bonificare una palude o di costruire una galleria, possono fruire utilmente di una cartografia in scala così modesta come quella topografica solamente allo stadio di progettazione di larga massima; a livello operativo si impiegano, invece, scale grandissime (1:2000, 1:1000 o anche più elevate). Il 50.000 o anche il successivo 25.000 avevano utilità, insomma, essenzialmente per il movimento delle truppe sul terreno e per il tiro di artiglieria. A ogni buon conto, molte risorse e molto tempo furono impiegati per rivedere e infittire la rete geodetica, contemporaneamente alla realizzazione della Carta topografica delle provincie meridionali.
L’insieme dei lavori in essere e in progetto rese chiaro che andava potenziata anche l’organizzazione materiale dell’ente cartografico. Nel 1872, quindi, l’Ufficio tecnico venne scorporato dall’Ufficio superiore e, insediato a Firenze dove tuttora si trova, venne costituito in Istituto topografico militare, che dieci anni dopo avrebbe mutato la denominazione in quella attuale di Istituto geografico militare (Igm), senza che se ne modificassero nella sostanza il funzionamento e i compiti. Il nuovo Istituto dipendeva direttamente dal ministro, sia pure tramite lo stato maggiore, e aveva un’organizzazione propria e del personale in larga misura civile. Malgrado la relativa libertà di azione dell’Istituto, la possibilità di interagire in maniera autonoma con le altre amministrazioni dello Stato e l’attribuzione di compiti anche in ambito civile, l’inquadramento gerarchico confermava appieno un’impostazione strettamente rispondente alle esigenze di natura militare. Anche le ricorrenti tendenze a secretare i lavori topografici più recenti – o quanto meno a produrre carte «con i forti», ben aggiornate, e altre «senza forti» destinate alla circolazione esterna ai corpi militari – o a limitarne la distribuzione in Italia e all’estero vanno chiaramente nella stessa direzione.
Nello stesso 1872 veniva istituito anche il Regio ufficio (poi Istituto) idrografico della marina con il compito di produrre la cartografia nautica e quanto occorreva alla navigazione e alla sicurezza dei mari italiani. Importantissima sotto il profilo pratico e anche sotto quello militare, l’opera dell’Istituto idrografico non ha potuto tuttavia incidere in maniera significativa sull’evoluzione di una rappresentazione del territorio italiano.
I lavori per l’allestimento della carta al 50.000/25.000 assorbirono di fatto le energie dell’Istituto geografico militare per tutto il resto del secolo: solamente nel 1900, terminato il rilevamento in Sardegna, la cartografia italiana di base poteva essere considerata compiuta (661 elementi al 50.000, 1005 al 25.000): evidentemente, però, su due scale differenti. Solo qualche anno più tardi, nel 1921, con il completamento della Gran Carta d’Italia al 100.000, si sarebbe avuta una copertura cartografica omogenea per tutto il paese a una scala apprezzabile. La carta al 100.000, derivata dalle levate topografiche utilizzate per produrre le carte al 50.000 e al 25.000, era entrata in produzione nel 1879: aveva richiesto cioè più di quarant’anni. Nell’attesa, tra 1883 e 1889 era stata pubblicata in 35 fogli la Carta corografica del Regno d’Italia e delle regioni adiacenti, che però aveva una scala di 1:500.000. In aggiunta, ovviamente, l’Istituto curava anche un gran numero di altre carte, strettamente locali, motivate da esigenze specifiche, senza peraltro conoscere un incremento significativo in mezzi e in personale.
Le difficoltà e le lentezze della produzione cartografica ufficiale ebbero riflessi anche in altri ambiti. Uno dei quali, particolarmente vivace fin da prima dell’unificazione, era quello degli studi geologici. Ma anche in questo caso, malgrado la forte presenza di iniziative da parte di singoli studiosi, la produzione cartografica postunitaria venne di fatto assegnata a strutture governative, che peraltro si basavano sulla cartografia Igm e quindi dipendevano anche dal suo ritmo di pubblicazione. La situazione di incompletezza e di incertezza – sempre ufficialmente mascherata dalle grandi (e meritatissime) lodi per la qualità del lavoro condotto dall’ente cartografico militare – portò non solo i geologi a manifestare la propria insoddisfazione. Proprio sul finire del XIX secolo un certo numero di geografi mise in evidenza non solo la lentezza della realizzazione e le restrizioni alla circolazione della cartografia ufficiale, ma anche difetti ed errori, ad esempio dal punto di vista della trascrizione della toponomastica. Questa veniva registrata, in massima parte, direttamente dai topografi impegnati nei lavori di campagna, i quali si rivolgevano per le informazioni necessarie agli abitanti del luogo: in una situazione in cui l’alfabetizzazione era ai suoi inizi, quanto meno nelle aree rurali, e in cui la maggior parte dei topografi proveniva da regioni distanti, la difficoltà di comunicazione linguistica e di reciproca comprensione produsse una quantità di errori che finirono nella cartografia ufficiale. Una commissione ad hoc, incaricata (ormai nel pieno del Novecento) della revisione della toponomastica nella carta al 100.000, individuò e corresse ben il 20% dei nomi riportati. Altre proteste e richieste (certamente piuttosto elitarie, all’epoca) venivano dai primi turisti: alpinisti, escursionisti, ciclisti e ben presto anche automobilisti, avrebbero utilmente impiegato una cartografia affidabile e dettagliata, che troppo spesso tardava ad arrivare o che aveva una diffusione più o meno limitata.
Sempre sul finire del secolo, riprese a svilupparsi – in qualche misura proprio a compensare i problemi della cartografia ufficiale – una produzione cartografica privata di qualità. Se si eccettua qualche editore librario (Agnelli, Civelli, F. Vallardi e soprattutto A. Vallardi, poi Paravia, Loescher e pochi altri) che già in precedenza si era dedicato anche alla produzione di carte e atlanti, per lo più a uso scolastico, una produzione cartografica relativamente abbondante e apprezzabile si cominciò a realizzare attorno alla Società geografica italiana, poi a qualche istituto privato specializzato di buon livello (Istituto geografico Cora, Istituto cartografico italiano), poi ad associazioni come il Club alpino italiano e più tardi il Touring club italiano. Ma per una vera fioritura di questa produzione, che avrebbe dato frutti rilevantissimi, si doveva aspettare il nuovo secolo: proprio nel 1900, Giovanni De Agostini avrebbe fondato l’Istituto che ne porta tuttora il nome, e nel 1906 il Touring club italiano avrebbe avviato la prima vera carta stradale turistica italiana – modello forse insuperato – e con quella la propria successiva produzione cartografica.
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