La recidiva obbligatoria al vaglio della Corte costituzionale
Il presente scritto tratta dell’istituto della recidiva, con particolare riferimento all’ipotesi di recidiva obbligatoria prevista dall’art. 99, quinto comma, c.p., come modificato dall’art. 4 della l. n. 251/2005. Vengono analizzate le principali modifiche recate all’istituto in esame con la novella del 2005, nella lettura progressivamente offerta, al proposito, dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Nell’ambito del complesso dibattito sulla fisionomia dell’istituto sono maturati dubbi sempre più consistenti circa la relativa compatibilità costituzionale, da ultimo recepiti dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 185 del 2015, dichiarativa della parziale illegittimità del quinto comma dell’art. 99 c.p. e volta a reintrodurre, in sostanza, un regime pienamente discrezionale di applicazione della circostanza.
La disciplina della recidiva – già riformata con il d.l. 11.4.1974, n. 99, convertito nella l. 7.6 1974, n. 220 – è stata profondamente modificata dalla l. 5.12.2005, n. 251, la quale, oltre a sostituire, con l’art. 4, il previgente testo dell’art. 99, «si è proiettata a raggiera, con vasto impatto sistematico, su una pluralità di disposizioni dell’ordinamento penale, contribuendo a tal punto a inasprire il complessivo regime sanzionatorio dell’istituto da delineare, per i soggetti recidivi, un vero e proprio regime penale differenziato1.
Riscrivendo l’art. 99 c.p. il legislatore ha introdotto alcune importanti innovazioni rispetto alla precedente formulazione della norma: il mutamento dell’ambito di applicazione della recidiva, ora limitato ai soli delitti non colposi; il generalizzato inasprimento degli aumenti di pena; la reintroduzione di un’ipotesi di recidiva obbligatoria, prevista dal quinto comma dell’art. 99 c.p.
Sin dall’entrata in vigore della l n. 251/2005, la dottrina – pur manifestando dubbi in ordine alla natura facoltativa o obbligatoria della recidiva pluriaggravata e reiterata (commi terzo e quarto dell’art. 99 c.p.) – aveva pacificamente ritenuto che la fattispecie contemplata dal quinto comma configurasse un’ipotesi di recidiva obbligatoria, nel senso che il giudice non potesse discrezionalmente decidere se riconoscere la recidiva ed applicare l’aumento di pena, che doveva considerarsi, in questo caso, obbligatorio2. Il giudice, insomma, doveva limitarsi ad un riscontro formale dell’esistenza dei presupposti richiesti dal comma quinto dell’art. 99, senza dover e poter accertare se il nuovo reato commesso fosse sintomatico di una più intensa colpevolezza e di una maggiore capacità a delinquere.
L’interpretazione che individuava, nel quinto comma dell’art. 99 c.p., un’ipotesi di recidiva obbligatoria era stata fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale, prima, e poi da quella di legittimità.
1.1 La recidiva nella giurisprudenza costituzionale
Successivamente all’entrata in vigore della l. n. 251/2005, la Corte costituzionale, investita di numerose questioni di legittimità, concernenti essenzialmente il quarto comma dell’art. 99 c.p., ha prospettato una ricostruzione delle varie figure di recidiva definite dalla novella, giungendo su quella base alla declaratoria di inammissibilità delle questioni medesime3.
Inaugurando questo orientamento, la sentenza n. 192 del 14.6.2007 ha ritenuto che la novella del 2005 abbia lasciato «inalterato il potere discrezionale del giudice di applicare o meno l’aumento» di pena connesso alla recidiva, anche se reiterata o pluriaggravata. Il giudice, pertanto, applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva solamente qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 c.p. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
Nel motivare in ordine alla natura facoltativa della recidiva reiterata, la Corte ha precisato che «la soluzione interpretativa in parola risulterebbe avvalorata – ad avviso dei suoi fautori – soprattutto dal rilievo che l’unica previsione espressa di obbligatorietà della recidiva, presente nell’art. 99 c.p., è quella racchiusa nell’attuale quinto comma», dopo la regolamentazione di tutte le forme di recidiva. Da tale previsione si desumerebbe, ad avviso della Corte, che, al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate, il legislatore abbia inteso mantenere il carattere della facoltatività e «la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale».
La successiva sentenza n. 183 del 10.6.2011 ha, poi, espressamente ammesso la natura obbligatoria della recidiva prevista dal quinto comma dell’art. 99 c.p., a fronte della facoltatività degli altri casi disciplinati dalla disposizione codicistica, ritenendo che la norma in esame avesse introdotto un automatismo basato su una presunzione, con conseguente preclusione dell’accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore capacità a delinquere del reo.
1.2 Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità
L’indirizzo prospettato dalla Corte costituzionale è stato poi pienamente accolto dalla giurisprudenza di legittimità, che ha riconosciuto la natura facoltativa della recidiva, anche reiterata, con l’eccezione rappresentata dal quinto comma dell’art. 99 c.p. (Cass., S.U., 27.5.2010, n. 35738)4.
Le Sezioni Unite, nel sottolineare «la necessità di una lettura omogenea dei primi quattro commi dell’art. 99 c.p.», nel senso della natura facoltativa della recidiva, hanno osservato come tale natura sia «confermata dalla constatazione che ove il legislatore ha inteso elidere gli spazi di discrezionalità giudiziale a favore di un vero e proprio ritorno all’inderogabilità della recidiva, ha reso palese la sua intenzione prevedendo al quinto comma un regime vincolato per una serie di delitti, evidentemente valutati di particolare gravità, in relazione ai quali l’aumento della pena per la recidiva è espressamente definito “obbligatorio”».
Al di fuori di quest’ultima fattispecie, «è comunque compito del giudice, quando la contestazione concerna una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 c.p. e quindi anche nei casi di recidiva reiterata (rimane esclusa, come premesso, l’ipotesi “obbligatoria” del quinto comma), quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto, secondo quanto precisato dalla indicata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali».
Solamente qualora la verifica effettuata dal giudice si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una «più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo», la recidiva opererà necessariamente e determinerà tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi, come, nell’ipotesi di recidiva reiterata, l’aumento della pena base nella misura fissa indicata dal quarto comma dell’art. 99 c.p., il divieto imposto dall’art. 69, quarto comma, c.p., di prevalenza delle circostanze attenuanti nel giudizio di bilanciamento fra gli elementi accidentali eterogenei eventualmente presenti, il limite minimo di aumento per la continuazione stabilito dall’art. 81, comma quarto, c.p., l’inibizione dell’accesso al cd. “patteggiamento allargato” di cui all’art. 444, co. 1 bis, c.p.p. Se, invece, la verifica si conclude nel senso della non significanza della ricaduta nel reato, rimarranno esclusi sia l’aumento della pena base sia tutti gli ulteriori effetti commisurativi connessi all’aggravante.
Le Sezioni Unite, chiamate successivamente a pronunciarsi su profili diversi della disciplina della recidiva, hanno più volte ribadito l’indirizzo accolto dalla sentenza n. 35738/10 (Cass., S.U., 24.2.2011, n. 20798 e Cass., S.U., 27.10.2011, n. 5859).
Si poteva insomma ritenere, in esito ad un complesso processo di interpretazione (orientata anche alla luce dei principi costituzionali), che la recidiva fosse una circostanza del reato normalmente facoltativa, con la sola eccezione dell’ipotesi prevista dal quinto comma dell’art. 99 c.p., e che la scelta di non applicarla comportasse l’esclusione di tutte le relative conseguenze sanzionatorie, ossia dell’aumento della pena principale e degli effetti indiretti e collaterali. Peraltro, anche la recidiva obbligatoria poteva essere neutralizzata, in termini di incremento della pena, nell’ipotesi di concorso con le circostanze attenuanti ritenute equivalenti o prevalenti ovvero con una o più circostanze aggravanti ad effetto speciale più gravi di essa.
1.3 Sull’effettiva portata dei casi di recidiva obbligatoria
Anche l’identificazione dei presupposti in base ai quali il giudice doveva fare applicazione del quinto comma dell’art. 99 c.p. ha richiesto una lunga elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.
In primo luogo, si è posto il problema di stabilire se, nel catalogo di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., dovesse rientrare il solo reato oggetto della precedente condanna o il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo, oppure indifferentemente l’uno o l’altro, ovvero ed infine entrambi i delitti.
Le Sezioni Unite della Cassazione avevano condiviso l’indirizzo esegetico – espresso dalla prevalente dottrina – secondo cui «la fattispecie di cui all’art. 99, comma quinto, cod. pen. è applicabile nei confronti del soggetto, già recidivo per un qualunque reato, che commetta un delitto riconducibile al catalogo di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen., a nulla rilevando che vi rientri anche il delitto per cui vi è stata precedente condanna»5.
Ad avviso delle Sezioni Unite, l’interpretazione sistematica del quinto comma alla luce di quelli precedenti, che fondano la sussistenza della recidiva sulla commissione di un “nuovo” o di “altro” delitto (cfr. in particolare commi primo, secondo e quarto), rendeva evidente che il legislatore ha voluto attribuire rilievo alla circostanza che il nuovo delitto sia ricompreso nell’elenco di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p. Tale lettura sarebbe stata confortata, inoltre, dal rinvio contenuto nell’art. 99, comma quinto, c.p, ai «casi indicati al secondo comma», contenente a sua volta l’espresso riferimento alla commissione di un «nuovo delitto non colposo» (cfr. nn. 1, 2, 3 dell’art. 99, comma secondo, c.p.). Infine, l’applicabilità della previsione contenuta nel quinto comma dell’art. 99 c.p. solo qualora il nuovo reato sia riconducibile all’elenco dell’art. 407, co. 2, lett. a) c.p.p. era apparsa meglio coerente nella prospettiva del giudizio di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità correlati alla qualità del nuovo delitto posto in essere.
Il secondo problema interpretativo, che si era posto in tema di recidiva obbligatoria, è stato stabilire se la previsione contenuta nel quinto comma dell’art. 99 c.p. affiancasse, alle diverse forme di recidiva facoltativa disciplinate dai primi quattro commi, altrettante forme di recidiva obbligatoria, ovvero se si applicasse alla sola recidiva reiterata.
Le Sezioni Unite, nella sentenza n. 20798 del 2011, avevano rilevato come ciascuna forma di recidiva facoltativa descritta dall’art. 99 c.p. si trasformasse in obbligatoria, qualora il nuovo reato commesso rientrasse nell’elenco di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p. Si era, infatti, osservato che «la funzione del quinto comma è quella di prefigurare, in rapporto a ciascuna delle forme di recidiva facoltativa in precedenza disciplinate, altrettante ipotesi di recidiva obbligatoria»6.
Un ultimo problema posto dalla disciplina dettata dal quinto comma dell’art. 99 c.p. riguardava il carattere recettizio o non recettizio del rinvio all’art. 407, co. 2, lett. a), del codice di rito.
Secondo un primo orientamento, il riferimento al catalogo dei reati elencati nella norma processuale doveva ritenersi cristallizzato al momento dell’entrata in vigore dell’art. 99, comma quinto, c.p., come modificato dall’art. 4 della l. n. 251/2005, con la conseguenza che ogni ampliamento di quel catalogo sarebbe stato ininfluente rispetto alla disciplina della recidiva obbligatoria7.
Ad avviso di altro e maggiormente condivisibile orientamento, invece, il rinvio contenuto nel quinto comma dell’art. 99 c.p. doveva considerarsi mobile, nel senso che il regime della recidiva obbligatoria si applicherebbe a tutti i reati via via inseriti dal legislatore nell’elenco di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.
Questa disposizione, infatti, ha la funzione di sottoporre una categoria di reati di particolare allarme sociale a uno statuto speciale e differenziato, con ricadute di natura tanto sostanziale, quanto processuale. È ragionevole, pertanto, ritenere che il legislatore, nel momento in cui introduce un nuovo reato nella suddetta categoria, intenda assoggettarlo proprio a quello speciale regime dei reati inclusi nel medesimo catalogo8.
Fin dai primi commenti dottrinali, erano state manifestate perplessità circa la legittimità costituzionale dell’ipotesi di recidiva obbligatoria prevista dal quinto comma dell’art. 99 c.p.
Si era sottolineata, in primo luogo, l’irragionevolezza dell’automatismo sanzionatorio sotteso alla previsione dell’obbligatorietà dell’aumento di pena, nel caso in cui il nuovo reato sia incluso nell’elenco di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., in quanto il giudizio presuntivo di pericolosità sociale ad esso sotteso sarebbe stato di dubbio fondamento empirico. Erano poi state manifestate perplessità sulla scelta legislativa di rinviare, al fine di delimitare l’ambito di applicazione del quinto comma dell’art. 99, al catalogo dell’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., che contiene un elenco di reati, assai ampio, selezionati allo scopo di fissare più lunghi termini di durata delle indagini preliminari, e non necessariamente secondo un criterio di gravità.
La Suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 6950 del 9.2.2011aveva però rilevato come «la più severa disciplina della recidiva reiterata nel caso di realizzazione di un delitto di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a, non appa[risse] irragionevole in quanto limitata a fattispecie specifiche, caratterizzate da notevole allarme sociale, indice del perdurare della capacità a delinquere del reo e tale trattamento sanzionatorio “aggravato” è il risultato di una scelta legislativa non in contrasto con i principi costituzionali, essendo finalizzata a punire più severamente, sia pure comprimendo gli spazi di discrezionalità del giudice, chi abbia continuato a commettere reati nonostante le precedenti condanne che, evidentemente, non hanno avuto un’efficacia dissuasiva ed appare, quindi, giustificato il diverso trattamento, ai fini della pena, nei confronti di chi continui a commettere reati, senza che possa ravvisarsi alcuna disparità di trattamento rispetto al complice correo nel medesimo delitto. Stante la nozione di individualizzazione della risposta sanzionatoria, fondata su specifici elementi sintomatici della personalità del soggetto, la citata disciplina non è in contrasto neppure con il principio della funzione educativa della pena, di cui all’art. 27 Cost., comma 3».
Successivamente, con l’ordinanza del 10.9.2014, n. 227, la stessa Corte di cassazione ha invece sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, c.p., laddove introduceva un’ipotesi di recidiva obbligatoria, qualora il nuovo episodio delittuoso rientrasse nel catalogo dei reati di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., denunciando la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della manifesta irragionevolezza e della disparità di trattamento, nonché del principio di proporzionalità della pena riconducibile all’art. 27, comma terzo, Cost.
2.1 La sentenza n. 185 del 2015 della Corte costituzionale
La questione indicata da ultimo è stata accolta dalla Corte costituzionale con la sentenza 8.7.2015, n. 185, che ha dichiarato il quinto comma dell’art. 99 c.p. illegittimo limitatamente alle parole «è obbligatorio e,», così da preservare l’intero meccanismo di aggravamento dell’apparato sanzionatorio, subordinandone però l’attivazione al controllo giurisdizionale sull’effettiva rilevanza dei precedenti nell’economia del nuovo fatto criminoso.
La Corte – dopo aver richiamato gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in tema di recidiva – ha ricordato come «nel caso della recidiva prevista dall’art. 99, quinto comma, cod. pen. … l’aumento della pena consegue automaticamente al mero riscontro formale della precedente condanna e dell’essere il nuovo reato compreso nell’elenco dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., senza che il giudice sia tenuto ad accertare in concreto se, in rapporto ai precedenti, il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo», rilevando che «la norma censurata introduce un vero e proprio automatismo sanzionatorio, basato sul titolo del nuovo reato, e più precisamente sulla sua appartenenza al catalogo dell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.».
Ad avviso della Corte costituzionale, il rigido automatismo sanzionatorio – collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso – «è del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo».
Ciò ancor più considerando che l’obbligatorietà della recidiva «impone l’aumento della pena anche nell’ipotesi in cui esiste un solo precedente, lontano nel tempo, di poca gravità e assolutamente privo di significato ai fini della recidiva».
L’irragionevolezza della norma impugnata – prosegue la sentenza – «è ancor più manifesta se si considera che l’elenco dei delitti che comportano l’obbligatorietà, contenuto nell’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., concerne reati eterogenei, collegati dal legislatore solo in funzione di esigenze processuali e in particolare del termine di durata massima delle indagini preliminari, e quindi inidonei ad esprimere un comune dato significativo ai fini dell’applicazione della recidiva».
Ad avviso dei Giudici delle leggi, inoltre, l’automatismo sanzionatorio introdotto dal quinto comma dell’art. 99 c.p. non poteva giustificarsi neppure ritenendo che esso si fondasse su una presunzione assoluta di più accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosità del reo, che «sarebbe giustificata [nel caso di specie] unicamente dall’appartenenza del nuovo episodio delittuoso al catalogo dei reati indicati dall’art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., ma non potrebbe trovare fondamento in un dato di esperienza generalizzato». Ciò perché «un dato del genere … non esiste, posto che per le ragioni indicate ben possono ipotizzarsi accadimenti reali contrari alla generalizzazione presunta».
Peraltro, la previsione di un obbligatorio aumento di pena legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun «accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – “sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo”» (C. cost., 7.6.2011, n. 183), viola anche l’art. 27, terzo comma, Cost., che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra”» (C. cost., 5.11.2012, n. 251). Infatti, «la preclusione dell’accertamento della sussistenza nel caso concreto delle condizioni che dovrebbero legittimare l’applicazione della recidiva può rendere la pena palesemente sproporzionata, e dunque avvertita come ingiusta dal condannato, vanificandone la finalità rieducativa prevista appunto dall’art. 27, terzo comma, Cost.».
Insomma, con la sentenza del 2015, un ulteriore tassello della l. n. 251/2005 è stato smantellato e, soprattutto, è stata eliminata una disposizione che introduceva un vero e proprio automatismo sanzionatorio fondato su una presunzione assoluta di maggiore colpevolezza e capacità a delinquere del reo, costruita esclusivamente in riferimento al titolo del nuovo reato commesso. In tal modo, si è ripristinata una situazione coerente con le naturali caratteristiche dell’istituto della recidiva.
Da un lato, la cd. “perpetuità”, ossia la mancata previsione di un limite cronologico tra la precedente sentenza di condanna e la commissione del nuovo episodio delittuoso ai fini del rilievo della ricaduta nel reato e della produzione dei relativi effetti sul trattamento sanzionatorio. La considerazione che la precedente sentenza definitiva di condanna – cui è subordinata l’applicazione della recidiva – possa riguardare un fatto di reato commesso in epoca risalente, infatti, rende agevole la formulazione di ipotesi contrarie alla presunzione su cui si fondava l’art. 99, quinto comma, c.p., rendendo non improbabile che il nuovo episodio criminoso non sia espressione di una attuale e più intensa capacità a delinquere del reo.
Dall’altro la cd. “genericità” della recidiva, che può ben essere contestata qualunque sia stato il titolo di reato per il quale è intervenuta la precedente sentenza di condanna, purché si tratti (a seguito della novella del 2005) di un delitto non colposo. La circostanza che la condanna pregressa possa aver riguardato un qualsiasi delitto non colposo, e quindi anche un delitto di non rilevante gravità e disomogeneo rispetto al successivo episodio criminoso, implica, ancor più, che la ricaduta nel reato, in mancanza di una valutazione concreta e individuale, possa essere priva di significatività sul piano della personalità del reo e della riprovevolezza del nuovo fatto di reato.
All’indomani della sentenza n. 185, la Corte costituzionale è stata nuovamente investita di una questione relativa alla disciplina della recidiva come modificata dalla l. n. 251/2005.
Il dubbio di costituzionalità, questa volta, ha riguardato l’art. 81, quarto comma, c.p., nella parte in cui – limitando il potere discrezionale del giudice – prevede che l’aumento di pena non possa essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, «se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma».
La norma censurata ha posto un problema interpretativo inerente al suo ambito di applicazione: secondo un primo orientamento, infatti, essa trova applicazione qualora i reati in concorso formale o in continuazione siano stati commessi da soggetti, ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata prima della commissione dei reati stessi. Secondo un’altra lettura, invece, il comma quarto dell’art. 81 c.p. si applica anche qualora la recidiva reiterata sia stata contestata e ritenuta, per la prima volta, con riferimento ad uno dei reati in concorso formale o in continuazione, del cui trattamento sanzionatorio si tratta.
Con la sentenza del 26.11.2015, n. 241, la Corte costituzionale è pervenuta alla declaratoria di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, rimproverando al giudice a quo di non aver chiarito «se [nel caso di specie] la recidiva reiterata era stata applicata con una precedente sentenza, anteriore alla commissione dei reati per i quali si procede, o se l’applicazione sarebbe avvenuta per la prima volta nel giudizio a quo». Questo chiarimento da parte del Tribunale rimettente era necessario, «perchè secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., sez. I, 26.3.2013, n. 18773; sez. III, 28.9.2011, n. 431/2012; sez. I, 1°.7.2010, n. 31735; sez. I, 2.7.2009, n. 32625), è solo nel primo caso che trova applicazione l’art. 81, quarto comma, cod. pen.»9.
Ne consegue, ad avviso della sentenza n. 241/2015, che «la questione sul momento di applicazione della recidiva reiterata non può essere elusa, sicchè il Tribunale rimettente avrebbe dovuto precisare se nel caso in questione l’applicazione era avvenuta con una precedente sentenza anteriore alla commissione dei reati per i quali si procede. Ove ciò non fosse avvenuto e tuttavia avesse ritenuto ugualmente applicabile la norma impugnata, dovendo egli stesso applicare la recidiva reiterata, il Tribunale avrebbe avuto l’onere di dare una plausibile spiegazione della sua diversa interpretazione di tale norma».
1 Caruso, G., Recidiva, in Dig. pen., Aggiornamento, IV, Torino, 2008, 1038.
2 Ambrosetti, E.M., Recidiva e discrezionalità giudiziale: nuove prospettive e vecchi scenari, in AA.VV., Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 685; Bisori, L., Nuova recidiva e ricadute applicative, in Giunta, F., a cura di, Le innovazioni al sistema penale: apportate dalla L. 5 dicembre 2005 n. 251, Milano, 2006, 39; Caruso, G., Recidiva, cit., 1044; De Matteis, L., Art. 99, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di G. Lattanzi, E. Lupo, Milano, 2010, 105; Gatta, G.L., Art. 99, in Dolcini, E. Marinucci, G., a cura di, Codice penale commentato, Milano, 2011, 1455; Muscatiello, V.B., La recidiva, Torino, 2008, 127; Romano, M. Grasso, G., Art. 99, in Commentario sistematico al codice penale, Milano, 2012, 102; Dolcini, E., La recidiva riformata. Ancora più selettivo il carcere in Italia, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 8; Morgante, G., Art. 99, in Codice penale, Milano, 2014, 660; Canestrari, S.Cornacchia, L. De Simone, G., Manuale di diritto penale, pt. gen., Bologna, 2007, 794; Fiandaca, G. Musco, E., Diritto penale, pt. gen., Bologna, 2009, 457; Fiore, C. Fiore, S., Diritto penale, Torino, 2008, 457; Manna, A., Corso di diritto penale, pt. gen., Padova, 2012, 333; Marinucci, G. Dolcini, E., Manuale di diritto penale, pt. gen., Milano, 2009, 506; Pulitanò, D., Diritto penale, pt. gen., Torino, 2009, 443.
3 Per una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale in tema di recidiva: Leo, G., La recidiva nella prospettiva costituzionale, in Il Libro dell’anno del Diritto 2012, Roma, 2012.
4 Sul punto, Gatta, G.L., La recidiva nella recente giurisprudenza di legittimità, in Il libro dell’anno del Diritto 2012, Roma, 2012.
5 Cass., S.U., 27.5.2010, n. 35738. Nello stesso senso, in dottrina: Ambrosetti, E.M., Recidiva e discrezionalità giudiziale, cit., 687; Bertolino, M., La capacità criminale: la recidiva, in Trattato di diritto penale, I, Milano, 2009,1, 58; Gatta, G.L., Art. 99, cit., 1459.
6 In tal senso anche: Ambrosetti, E.M., Recidiva e discrezionalità giudiziale: nuove prospettive e vecchi scenari, cit., 869; Bartoli, R., Lettura funzionale e costituzionale della recidiva e problemi di razionalità del sistema, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1700; Bertolino, M., La capacità criminale: la recidiva, cit., 170; Gatta, G.L., Art. 99, cit., 1459; Padovani, T., Diritto penale, pt. gen., Milano, 2012, 267; Melchionda, A., Le modifiche in materia di circostanze, in AA.VV., Le innovazioni al sistema penale apportate dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, Milano, 2006, 189; Romano, M.Grosso, G., Art. 99, cit., 103; Dolcini, E., La recidiva riformata. Ancora più selettivo il carcere in Italia, cit., 10.
7 In questo senso, Mambriani, A., La nuova disciplina della recidiva e della prescrizione: contraddizioni sistematiche e problemi applicativi, in Giur. mer., 2006, 842.
8 Gatta, G.L., Art. 99, cit., 1457.
9 La Corte costituzionale, con l’ord. 6.6.2008, n. 193 aveva ritenuto che «presupposto interpretativo di riferire la norma impugnata – ad onta dell’indicazione, apparentemente contraria, ricavabile dalla consecutio temporum delle voci verbali impiegate («reati ... commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma») – al caso in cui l’imputato venga dichiarato recidivo reiterato in rapporto agli stessi reati uniti dal vincolo della continuazione, del cui trattamento sanzionatorio si discute; e non, invece, al caso in cui l’imputato sia stato ritenuto recidivo reiterato con una precedente sentenza definitiva» era «in sè non implausibile».