La regionalità nella lessicografia italiana
Dall’Ottocento in poi il dizionario monolingue della lingua nazionale in Europa ha rivestito, almeno agli occhi dei cittadini non linguisti di professione, il ruolo di depositario della norma. Si sono individuati dizionari più autorevoli di altri perché frutto del lavoro di accademie create a tale scopo o del lavoro di un lessicografo prestigioso. In un’Italia politicamente frazionata si era anzi individuato nella lingua lo strumento di unità almeno intellettuale e nel Vocabolario degli accademici della Crusca (1612) un possibile ritratto di tale lingua unificante. Tre secoli di dibattiti intorno alle edizioni del Vocabolario degli accademici della Crusca hanno delineato più chiaramente che altrove in Europa il ruolo di guida normativa che alcuni volevano e vogliono attribuire all’oggetto ‘vocabolario della lingua nazionale’ e che altri invece negano in nome di un vocabolario ‘anagrafe dell’uso’.
Nella seconda metà dell’Ottocento il Vocabolario degli accademici della Crusca non riveste più il ruolo di strumento lessicografico catalizzatore di attenzioni e polemiche; esso viene sostituito da opere nate con intenti anche enciclopedici, quali il Vocabolario universale italiano (1829-1840) della società Tramater di Napoli o proposte esplicitamente come modello di dizionario dell’Italia unita, quali il Tommaseo-Bellini (TB) (1861[1865]-1879) o come il dizionario ispirato da Manzoni, il Giorgini-Broglio, avviato nel 1870 e terminato nel 1897. Quest’ultimo avrebbe potuto innovare in ambito scolastico, ma non uscì al momento giusto e nel frattempo furono i dizionari di Pietro Fanfani e di Policarpo Petrocchi a occupare il mercato come depositari di una contraddittoria norma in fieri. Il Vocabolario dell’uso toscano di Pietro Fanfani fu pubblicato a Firenze nel 1863 da Barbèra, un editore molto attivo nella scolastica, che lo ripubblicò più volte; Fanfani aveva seguito l’indirizzo manzoniano almeno nel titolo dopo che nel suo primo Vocabolario della lingua italiana (1855) aveva invece preferito sottolineare il concetto di lingua italiana. Nel suo terzo vocabolario, in collaborazione con Giuseppe Rigutini, scelse ancor più decisamente di aderire al programma manzoniano, intitolandolo Dizionario della lingua parlata (1875). Il novo dizionario universale della lingua italiana (1887-1891) di Petrocchi fu pubblicato a dispense fra il 1884 e il 1890 a Milano dalla casa editrice dei fratelli Trèves e ristampato più volte successivamente, in due volumi, fino al 1931, risultando il dizionario più venduto in quel lasso di tempo.
Intorno all’inizio della Prima guerra mondiale si affacciano sul mercato il Vocabolario della lingua italiana (1916) di Giulio Cappuccini con lemmi e varianti dell’uso dei non toscani, e il Vocabolario della lingua italiana (1917, 1922) di Nicola Zingarelli che accoglie con grande larghezza la terminologia scientifica e tecnica. In presenza di una capitale industriale, Milano, e di una capitale politica, Roma, cambia nei dizionari l’atteggiamento nei confronti del fiorentino moderno, non più visto come varietà di prestigio ma come una varietà fra le altre, soprattutto per quelle parole non rese nobili da un testo letterario. Nel 1939 viene stampato il Novissimo dizionario della lingua italiana di Fernando Palazzi, opera normativa con inserti onomasiologici; prosegue la fortuna di opere quali il Dizionario enciclopedico italiano di Giovanni Battista Melzi, apparso per la prima volta a Parigi nel 1881 presso l’editore Garnier. Pubblicato in Italia prima a Napoli nel 1884, dal 1890 venne stampato a Milano da Vallardi, con il titolo Il novissimo Melzi e in due volumi, uno enciclopedico e l’altro linguistico, arrivando attraverso congrui aggiornamenti, soprattutto del volume enciclopedico, fino al periodo di tempo che ci interessa.
Bruno Migliorini, tra le due guerre, ideava con Umberto Bosco e Mario Niccoli l’impianto delle opere lessicografico-enciclopediche Treccani e si occupava della parte lessicale del Dizionario enciclopedico italiano e del Lessico universale italiano. Fin dal 1945 Migliorini si dedicava anche alla revisione per la casa editrice Paravia del Vocabolario della lingua italiana di Giulio Cappuccini che vedrà molte successive edizioni. Nel 1971 compare sul mercato il Vocabolario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli per i Tipi della casa editrice fiorentina Le Monnier. Per l’Istituto della Enciclopedia Italiana, a partire dal 1986 fino al 1994, Aldo Duro diresse la pubblicazione in 5 volumi, più un volumetto di Addenda (1997), del Vocabolario della lingua italiana (VOLIT), opera che, introducendo molti esempi tratti dalla stampa, si apriva a un uso vivo, ma sorvegliato, della lingua. A dispetto delle dichiarazioni rese più o meno in buona fede nelle introduzioni, a dispetto della volontà di seguire a fine Ottocento il dettato manzoniano, tutte queste opere, comprese le edizioni che apparvero nel primo ventennio del secondo dopoguerra, sono accomunate dalla caratteristica di descrivere un italiano fondamentalmente scritto e di conseguenza mostrano una scarsa apertura nei confronti dell’italiano parlato e della sua intrinseca regionalità. Anche i linguisti sensibili alle varietà linguistiche e ai dialetti, come Migliorini che aveva curato l’edizione postuma del Vocabolario romanesco (1945) di Filippo Chiappini, quando fanno un dizionario di italiano accolgono ben poco oltre ai toscanismi.
Nei paragrafi che seguono vedremo di esemplificare come nell’arco di tempo che va dal 1945 al primo decennio del 21° sec. i notevoli cambiamenti sociali siano gradualmente rispecchiati nel modo in cui i dizionari registrano il lessico. Esamineremo le marche d’uso diatopico in alcuni dizionari emblematici, come spia di giudizio di regionalità linguistica. Ne confronteremo la quantità e qualità, la frequenza del loro apparire nella glossa di una parola. Faremo alcune brevi considerazioni sugli ambiti semantici delle parole regionalmente marcate che, se non chiamate in causa da scrittori, restano prevalentemente quelle dell’enogastronomia e del modo di indicare lavorazioni agricole e artigianali e rapporti nell’ambito familiare. Osserviamo che questi oltre sessanta anni si possono all’incirca dividere, per la disamina che ci compete, in due periodi. Un primo trentennio che vede uno sforzo scolastico verso l’unificazione, con negazione dei dialetti e collaterale invito alla non trasmissione dei dialetti ai giovani in famiglia. Tale invito è favorito da una maggiore mobilità della popolazione e soprattutto dalla diffusione della televisione dei canali nazionali che, portando l’italiano anche a chi non leggeva o leggeva poco, diffondono un’immagine negativa – comica, nella migliore delle ipotesi – del parlante regionalmente marcato e ancor più del dialettofono. Il secondo periodo si potrebbe far iniziare con la pubblicazione nel 1975 da parte del GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), nato all’interno della SLI (Società di Linguistica Italiana), delle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica. Già prima si era assistito a una rivalutazione da parte dei linguisti dei dialetti e delle altre lingue nella società italiana, con la pubblicazione nel 1963 della Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro; le Dieci tesi hanno contribuito a diffondere nella scuola tale rivalutazione, che ha ricevuto una spinta non prevista dalla liberalizzazione dei canali radiotelevisivi e un impulso prevedibile dall’attuazione delle autonomie regionali.
Le regioni nei dizionari sono rappresentate da annotazioni per grandi zone: settentrionale, centrale e meridionale. Non mancano poi toscano e fiorentino, piemontese, lombardo, milanese, veneto, romanesco, napoletano, siciliano. Il toscano ha un ruolo privilegiato per ragioni diacroniche, per il resto sono macroregioni o le regioni degli Stati preunitari, più avanti ne parleremo analiticamente, ma va anche detto che, in particolare nei primi trent’anni del secondo dopoguerra, la registrazione di voci regionali è davvero legata alla loro letterarietà e in misura minore, ma non trascurabile, alla provenienza dei lessicografi che redigono i dizionari e le loro revisioni. Forte è poi in ambito lessicografico l’emulazione: una volta che un lessicografo registra un regionalismo, quasi tutti gli altri lo introducono nel loro lemmario. Oggi le redazioni non sono più redazioni fisse all’interno della casa editrice, ma sono costituite da esperti sparsi in tutta Italia che comunicano con il direttore dell’opera da lontano o ancora meglio tramite una piattaforma su cui ognuno introduce il suo pezzo di informazione. Il passaggio dalla redazione in casa, come sono state quelle delle grandi imprese (si pensi alla redazione della UTET per il Battaglia o a quella dell’Istituto della Enciclopedia Treccani) alla redazione con un numero ridotto di ‘lessicografi coordinatori’ dipendenti a tempo pieno dalla casa editrice è collegato all’avvento della stampa digitale, alla necessità più frequente di un tempo di aggiornamenti fatti da esperti, alla fruizione del dizionario come banca dati sia per altre opere interne alla casa editrice, sia per utenti che accedono al dizionario in formato digitale: questo sviluppo ben si segue, nelle sue motivazioni commerciali e finanziarie, nelle storie che la Zanichelli, casa editrice di dizionari fra le più note e attive in Italia nel periodo oggetto d’esame, ha pubblicato sulle proprie vicende (cfr. Enriques 2008).
La regione in cui risiede la casa editrice del dizionario influenzava poco il numero e il tipo dei regionalismi nel periodo del primo trentennio a causa dell’atteggiamento normativo; avrebbe potuto aver maggior peso negli anni Novanta, quando le porte del lemmario si sono aperte a varietà regionali: c’è chi spiega così i ben 192 piemontesismi del Grande dizionario italiano dell’uso (d’ora in poi GRADIT) e i 57 del De Mauro 2000, entrambi pubblicati a Torino, rispetto ai numeri ben più contenuti dei dizionari coevi e anche recenti (piemontese in tutto il testo dello Zingarelli 2013 appare 72 volte). All’inizio del 21° sec., la regione in cui risiede la casa editrice riveste sempre meno importanza. Un bell’esempio è la presenza della parola martinitt nei dizionari nazionali. La voce «martinitt s.m. pl. lomb. I giovani dell’Orfanotrofio maschile» e la voce «stelline […] Nome delle Orfane del Luogo Pio della Stella (Milano)» sono registrate da Il novissimo Melzi, parte linguistica, in un’edizione del 1959: la casa editrice Vallardi aveva e ha sede a Milano e il dizionario era curato da una redazione milanese. L’ottava edizione del Vocabolario Zingarelli, stampato dalla bolognese Zanichelli e diretto da Giovanni Balducci, negli stessi anni registra sotto la voce italianizzata martinetto l’accezione «pl. Orfani dell’orfanotrofio, già ospizio nel convento di San Martino, in Milano» e non registra stellina o stelline nel significato sopra menzionato. Il Devoto-Oli scolastico nel 1971, pubblicato dalla fiorentina Le Monnier, ha il lemma martinitt e lo dichiara indeclinabile, ma non lo qualifica con un’abbreviazione come lomb.; ha pure l’accezione stellina «[…] 3. al pl. relativa al significato “bambine dell’orfanotrofio”». Nella decima (1970) e undicesima (1983) edizione dello Zingarelli diretta da Miro Dogliotti, Luigi Rosiello e Paolo Valesio, non compaiono le accezioni che ci interessano né sotto martinetto, né sotto stellina. Il lemma martinitt appare nel VOLIT (volume del 1989) e apparirà per la prima volta nella dodicesima edizione dello Zingarelli cioè nel 1993. È assente dal pur milanese Garzanti del 2006, diretto dal non milanese Giuseppe Patota, e dal Sabatini-Coletti 2008.
Una parte dei regionalismi deve la registrazione nei dizionari al fatto di esser stata usata da uno scrittore nelle sue opere. Il regionale settentrionale usmare è entrato nel GRADIT, ma non nel De Mauro 2000. Nello Zingarelli 2004 non c’era, ma adesso c’è, addirittura accompagnato da un esempio di Gadda che potrebbe spiegarne la registrazione, oltre al già citato spirito di emulazione lessicografica. A volte il regionalismo non è censito come tale dal lessicografo, e usi illustri sembrano voler testimoniare della panitalianità del suo uso. Si veda nello Zingarelli 2013
scialarsi v. rifl. ● (raro) divertirsi, spassarsi: laggiù la gente passa il tempo a scialarsi tutto il giorno (G. Verga) | anche nella forma scialarsela (con il pron. la indeterm.), darsi alla bella vita, spassarsela: intanto se la scialava meglio di un principe (L. Capuana).
De Mauro nel GRADIT non registra scialarsi, dà scialarsela addirittura come CO, comune. Si veda oltre quanto oculatamente i lessicografi dovranno agire con i sicilianismi di Camilleri, oggi diffusi perché molto aiutati dal successo delle trasposizioni televisive delle sue opere. Le informazioni di cui il lessicografo dispone a proposito dei termini dialettali-regionali sono spesso lacunose ed è più difficile, dato il loro uso non frequente nello scritto, avere fondate notizie sulla loro diffusione e comprensione fra i parlanti italiani. Si può essere più sicuri quando si tratta di nomi di prodotti pubblicizzati e venduti in tutto il Paese come il panettone; i media e la rete stanno diffondendo regionalismi prima confinati ad aree ristrette, ma al momento della registrazione in un dizionario le voci relative sono sempre problematiche, a volte addirittura a partire dalla grafia del lemma, poi per l’attribuzione di parte del discorso, genere e numero, e infine soprattutto per la scelta delle etichette da mettere per guidare l’utente. Non sempre, anzi quasi mai, abbiamo seri studi sociolinguistici per appurare l’estensione di un regionalismo almeno in ricezione, e anche se li avessimo la lingua italiana è in continuo movimento. Questo spiega perché la maggior parte dei lessicografi cercano di evitare le etichette d’uso e recuperano l’informazione sul luogo di partenza del regionalismo attraverso la definizione e l’etimologia. Usando la versione elettronica dello Zingarelli 2013 si constata che mentre l’etichetta di ‘limite d’uso’ region. (ale) è usata dieci volte, rigorosamente senza specificare in quali regioni, e dial. (ettale/ettalismo) ben quattro, venez. (iano) nel campo etimologia produce 52 risultati, da baicolo, a bautta, a peocio, a molleca, a pulica, a squero. Cercato in tutto il dizionario, veneziano produce solo tre risultati in più: batocio, ruga (anche napol.) e straccaganasce, le cui voci presentano venez. non nell’etimologia, ma prima della definizione, dove appunto indica il limite d’uso.
Fra le difficoltà del lessicografo nei confronti dei regionalismi, oggi che i dizionari monolingui danno la prima datazione di una parola, c’è anche il problema di stabilire quando è stata scritta ‘la prima volta’, perché le attestazioni più antiche sono spesso sotto forme grafiche adattate e quindi non è propriamente la stessa parola a lemma che l’uso moderno tende a non adattare (si veda la vicenda di martinetto, martinitt), o perché si tratta dell’attestazione di una voce dialettale che è all’origine della voce regionale italiana. Si aggiunga che a volte il passaggio da dialetto a varietà regionale d’italiano comporta cambiamenti di senso, quindi anche se è la stessa parola dal punto di vista grafico, non lo è dal punto di vista del significato. Un caso di questo tipo è la prima attestazione di parrozzo, ‘dolce pescarese’. Segnalato da Alfredo Panzini nell’edizione del 1931 del Dizionario moderno, nella voce del Dizionario Sabatini Coletti (2003) presenta come prima attestazione «anno 1926».
parrozzo [par-ròz-zo] s.m.1 region. Pane o focaccia di farina di mais, tipici dell’Abruzzo 2 Denominazione commerciale, che costituisce marchio registrato, di un dolce tipico di Pescara, una sorta di panettone con copertura di cioccolata; anno 1926.
Lo Zingarelli 2013 dà il solo significato del marchio registrato:
Parrozzo® / par'rɔttso/ [abruzzese parròzzë, d’incerta etim. (forse pane rozzo) ☼ av. 1935] s. m. ● dolce tipico abruzzese, a forma di alta focaccia, impastato con farina, uova, mandorle e zucchero, ricoperto di cioccolata”.
Il GRADIT lo attesta al 19° sec. e lo qualifica come termine specifico della gastronomia, con un significato obsoleto, il pane di mais, e un secondo relativo al dolce. Da che deriva l’etimologia incerta del Sabatini-Coletti e la datazione ante 1926, anziché ante 1935 (si noti che D’Annunzio morì nel 1938)? In realtà il primo significato è già attestato in un documento del 1875, da qui la datazione del GRADIT, ma certo è più antico; il secondo significato è invece riconducibile alle poesie che D’Annunzio scrisse per il pasticciere pescarese Luigi D’Amico, il quale brevettò il nome del dolce. Due studiosi, Fabio Marri e Francesco Sabatini, si sono occupati di parrozzo e ne hanno scritto su «Lingua nostra» (rispettivamente nel 1978 e nel 1980), segnalando il primo la diversità semantica fra il pane tradizionale abruzzese e il dolce, correggendo il secondo la pronuncia e dubitando della derivazione etimologica da pane e rozzo. La sensibilità dei dizionari italiani per la questione dei cosiddetti prestiti interni, cioè dai dialetti all’italiano, è aumentata, certo meno di quella nei confronti dei vistosi prestiti da lingue straniere; ci sono volumi che ricercano i dialettalismi addirittura nei dizionari bilingui (cfr. Ferrara 2013). Poiché è più facile pubblicare studi lessicologici in rete, abbiamo a disposizione più studi nuovi; studi del passato, pubblicati da editori provinciali e poco diffusi in forma cartacea, vengono digitalizzati e resi disponibili in rete. Sarà per i lessicografi del futuro più agevole accedere a studi che permettano di scrivere con precisione le complesse voci di un più vasto numero di regionalismi. Va tuttavia chiarito che l’identificazione delle varietà con le regioni come unità amministrative non è un problema di pertinenza del dizionario generale, il cui compito è, se mai, diffondere i risultati assodati dalla ricerca sociolinguistica e riassumerli con un’annotazione abbreviata, al limite con due dello stesso tipo: a questo proposito si nota che le voci con combinazione di etichette ‘centrale e settentrionale’ (74 centrosettentrionale nel De Mauro 2000) sono in tutti i dizionari italiani recenti sempre in numero minore rispetto a quelle con ‘centrale e meridionale’ (173 centromeridionale nel De Mauro 2000). Non è strettamente un problema del lessicografo stabilire quanti tratti specifici ci vogliano per attribuire l’etichetta giusta di varietà regionale, mentre la rilevanza sociolinguistica di questi tratti è un problema che il lessicografo deve affrontare come in tanti altri casi di attribuzione di varietà diastratica. Le redazioni lessicografiche che più di altre hanno cercato di affrontare la questione sono quelle dirette da De Mauro, perciò dedicheremo più attenzione alla trattazione dei regionalismi come si presenta nel De Mauro 2000 e, talvolta, nel GRADIT. Riteniamo infatti non solo che il dizionario in un volume permetta confronti più equilibrati con gli altri dizionari monolingui sul mercato, ma anche che i regionalismi presenti nel solo GRADIT, e assenti dal De Mauro, siano stati in qualche modo giudicati meno rilevanti dalla redazione. Gli altri dizionari, come vedremo più avanti, hanno adombrato la rilevanza sociolinguistica attraverso l’annotazione pop. (popolare) o fam. (familiare) affiancate talvolta a region. (regionale) o dial. (dialettale).
Ci proponiamo di illustrare la regionalità/dialettalità della lingua italiana, determinata prevalentemente dall’interferenza con i sottostanti dialetti, quale appare attraverso il filtro dei dizionari generali, tenendo anche presente che la regionalità può dipendere da forme locali non imputabili al dialetto, ovvero da neoformazioni. Prenderemo a tal fine le mosse dal Dizionario della lingua italiana di De Mauro (2000), il cui CD-ROM consente di evidenziare una triplice stratificazione di voci di origine dialettale (dialettalismi etimologici):
a) dialettalismi presenti nelle cinque macroaree dell’italiano regionale – circa 900 (895) –, ovvero macroregionalismi a livello sincronico circolanti in tali macroaree: I) settentrionali, I-II) centrosettentrionali, II) centrali, II-III) centromeridionali e III) meridionali;
b) dialettalismi presenti nelle 27 microaree dell’italiano regionale, circa 2700 (2694), ma di cui l’80% (2137) sono toscanismi. Si tratta in particolare, di microregionalismi indicati con 18 microetichette regionali e nove microetichette cittadine a livello sincronico: I) di area settentrionale: piem., lig. (e genov.), lomb. (e milan.), trent., ven.[eto] (e venez. e triest.), emil., romagn., friul., II) di area centrale: tosc. (e fior., pis., sen.), march., umbro, laz. (e roman.), III) di area meridionale: abruzz., camp. (e napol.), pugl., calabr., sicil., IV) di area sarda; c) dialettalismi etimologici, risalenti ai vari dialetti italiani: I) settentrionali: piem., torin., trent., valdostano, triest., venez., ven., lomb., milanese, bolognese, bresciano, ferrarese, modenese, genov., lig., romagnolo, ladino, friul., romancio, II) centrali: livornese, lucchese, pisano, senese, tosc., laz., romanesco, III) meriodionali: abruz., napol., pugl., calabr., sicil., e IV) sardo, – ma ormai diventati panitaliani, e quindi non più percepiti a livello sincronico come regionalismi, insomma ex regionalismi, – circa 400.
L’esemplificazione qui proposta, a fronte dei circa 4000 dialettalismi censiti soprattutto nel De Mauro, è molto contenuta per esigenze di spazio. Ma l’esemplificazione pur drasticamente ridotta delle voci qui analizzate è stata per contro arricchita da citazioni letterarie, tratte dal Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento (2007), a cura di De Mauro, costitutito da 100 testi di romanzi del premio Strega, pubblicati nel sessantennio 1947-2006, ricco di ben 94.000 (e passa) lemmi (cfr. De Mauro 2014, pp. 127-32). La presenza di tali citazioni ha invero una duplice finalità: da un lato mira a rendere più amichevole per lettori e lettrici non specialisti/e la lettura di un capitolo sulle parole, di lessicologia/lessicografia, e quindi di grammatica, inserendo i freddi lemmi lessicografici in contesti di usi reali, letterari, di prestigio; dall’altro, sul versante più scientifico, essa garantisce la bontà dei dati lessicografici e documenta una certa frequenza d’uso delle voci regionali. Dalla ‘lingua astratta’ (lessicografica) il lettore (linguista e no) è in tal modo collegato con l‘uso concreto di parlanti reali, colti, con la ‘lingua reale’; dalla lingua ‘reale’ il lettore potrà, con un percorso opposto, risalire alla lingua ‘astratta’, trattata dai dizionari. Se tra i molteplici fattori che garantiscono la comprensione delle parole di un testo è da tener presente il contesto linguistico ed extralinguistico, il lettore potrà altresì valutare la strategia messa in campo dagli scrittori per garantire la comprensione di voci presuntivamente non comuni, locali. Come dire, il lettore si basa sempre su un contesto, solo in ultima istanza ricorrendo a un buon dizionario (o sempre più spesso a una consultazione telematica) ai fini di una comprensione non approssimativa o non superficiale.
Va ancora detto che vari regionalismi non sono segnalati nel De Mauro e negli altri dizionari o perché non percepiti come tali dai lessicografi o perché semplicemente sfuggiti o perché la ricerca storico-etimologica al riguardo è ancora carente. È poi da tener presente che l’identificazione delle ‘neoformazioni’ regionali non è affatto agevole, sia per l’arretratezza della ricerca scientifica al riguardo, sia perché i dizionari spesso non indicano l’etimo dialettale prossimo, optando per l’etimo remoto (cioè per l’etimo dell’etimo dialettale), sia anche perché spesso non indicano alcun etimo, implicitamente rinviando così a un presunto trasparente etimo sincronico. Quanto ai diversi livelli di regionalità: fonologica, morfologica, sintattica e soprattutto lessicale, quest’ultima è decisamente quella più rilevante, in quanto regionalità segnica (relativa cioè a forma e significato), regionalità semantica (relativa al solo significato), regionalità fonomorfologica (riguardante solo la forma fonologica e/o morfologica di singole parole). Tralasciamo comunque di segnalare i regionalismi sinonimi o ‘geosinonimi’ (per es. la nozione di ‘marinare la scuola’ è lessicalizzata diversamente nei vari tipi di italiano regionale: fare càlia, caliarsela in Sicilia, far forca in Toscana, fare schissa in Piemonte, ecc.; cfr. la relativa cartina in Grassi, Sobrero,Telmon 2003, p. 158 o in Telmon 1993, p. 139). Sorvoliamo inoltre sugli ‘omoregionalismi’, ovvero regionalismi omonimi (o ‘geo-omonimi’) cioè voci di egual significante ma con significati diversi nelle varie regioni, per es. (cfr. De Mauro 2000):
3làmia s.f. 1. tosc., cagnesca 2. sicil., rana pescatrice 3. lig., bandiera rossa, sec. 15°, oppure lacèrto s.m. 4. lig., merid., controgirello 5. sett., scombro | lanzardo 6. napol., riparazione delle crepe di un muro (av. 1313).
La regionalità delle parole riguarda soprattutto i nomi rispetto alle altre classi di parole, lessicali variabili (agg., verbi) e grammaticali o lessicali per lo più invariabili (art., pron., avv., prep., cong., esclam., allocutivi, suffissi). Ogni sistema linguistico per rispondere agli infiniti bisogni espressivo-comunicativo-cognitivi di una comunità di parlanti, in virtù della proprietà semiotica specifica dei linguaggi verbali (la cosiddetta onnipotenza semantica), arricchisce il proprio patrimonio lessicale ereditario di nuovi elementi (‘neologismi’), facendo ricorso o (1) a risorse interne (neoformazioni, semantiche e segniche) o (2) a prestiti (‘doni’) da altri idiomi, (2a) stranieri o (2b) interni quali sono i dialetti presenti all’interno del repertorio verbale di una comunità di parlanti. I neologismi quindi (o interni o stranieri) non possono essere aprioristicamente ritenuti usi ‘errati’ della lingua. Lungi da ogni posizione aprioristica e puristica, di vetero o neopurismo, il parlante valuterà l’opportunità di far ricorso o no ai neologismi dialettali (o agli esotismi/forestierismi) garentendo la mutua comprensione del proprio testo, scartando gli usi marcatamente popolari in quanto discriminanti socialmente e dotati di scarso o nessun prestigio (cfr. Sgroi 2010, pp. XIII-XIV, 26-27). Suggeriamo nel contempo al lettore attento, critico e non puramente passivo, di verificare e ricercare lui sulla nostra falsariga la dialettalità e regionalità in altri dizionari, a cominciare da quello che ha sottomano. Per ragioni di spazio abbiamo eliminato i dati analitici relativi agli etimi diacronici, peraltro presenti in modo molto difforme da un dizionario all’altro, e con differenze notevoli anche nella ripartizione dei tre tipi di dialettalismi regionali (micro, macro e panitaliani), qui distinti sulla scia del De Mauro (2000). Anche la loro ripartizione cronologica per secoli è stata sacrificata per ragioni di spazio. Ma il saggio di Marcello Aprile (2012), che anticipa un Dizionario dei regionalismi d’Italia (DRI) del Novecento, colmando un vuoto che invece non c’è per la lingua francese (cfr. Rézeau 2001), abbozza un’interessante analisi al riguardo. Abbiamo anche dovuto omettere un’analisi per campi semantici, per settori dei dialettalismi. In Aprile 2005 (nel capitolo 7) il lettore troverà un’interessante analisi tematica degli ex regionalismi (gastronomia, arti e mestieri, cultura materiale, vita marinara e militare, burocrazia, territorio, fenomeni atmosferici). Così pure in Zolli 1986, pp. 10-14 e passim, e in Avolio 1994, pp. 577-89. Infine nel paragrafo finale si comparano alcuni lessemi in sette diffusi dizionari della lingua italiana (De Mauro, Zingarelli, Devoto-Oli, Sabatini-Coletti, Treccani, Garzanti, Gabrielli) allo scopo di evidenziare il loro diverso trattamento della regionalità/dialettalità.
Che la lingua di una comunità, magari di milioni di parlanti nativi come l’italiano, si caratterizzi come una realtà perfettamente omogenea, ‘uguale’ e indifferenziata per tutti i parlanti, anche colti, di tutte le regioni di un Paese, in tutte le sue occasioni d’uso, è un’idea forse che poteva essere vigente nella scuola e nella società di cinquant’anni fa: non lo è certamente più oggi, né nella scuola né nella società. È invece una realtà quasi ovvia che la lingua nazionale, pur mantenendo una sua identità, riconosciuta da tutti i suoi parlanti, garanzia della loro mutua comprensione, presenti una differenziazione geografica ovvero locale (o diatopica) che permette di identificare come italiano di questa o quella regione quasi ogni italiano nel momento in cui proferisce parola, soprattutto a livello di intonazione, di particolari suoni, di singole scelte lessicali o, in maniera meno accentuata, a livello di opzioni morfologiche e sintattiche. La lingua nazionale, soprattutto parlata, è ‘naturalmente’ caratterizzata da tratti regionali, dovuti per lo più a interferenze con i sottostanti dialetti variamente affioranti, ma a volte anche da tratti locali imputabili ad autonomi processi di neoformazione, senza che per questo si arrivi a caratterizzare l’italiano regionale come una ‘interlingua’, tipica invece degli apprendenti un idioma straniero e nazionale di altri stati e comunità, quindi non nativo, spesso tipologicamente e genealogicamente lontano. Le caratteristiche dell’‘interlingua’ sembrerebbo piuttosto da attribuire all’italiano ‘popolare’, nella misura in cui la sua grammatica appare notevolmente semplificata rispetto a quella degli italiani regionali (o dell’italiano neostandard). Italiano ‘popolare’ come interlingua anche in considerazione del suo status non riconosciuto di ‘norma’ e quindi puristicamente etichettato anche come ‘lingua selvaggia’ o paradossalmente, più di recente, come ‘italiano pidocchiale’. Il che consente di distinguere, se non gli italiani delle singole regioni italiane, un italiano differenziato per grandi aree geografiche, pur sempre suscettibile di ulteriori differenziazioni locali. Abbiamo così l’italiano settentrionale, l’italiano centrale (con il toscano), l’italiano meridionale (con il romanesco), l’italiano insulare (della Sardegna e della Sicilia); o gli «italiani regionali toscano e romano» (Telmon 2009, pp. 114-15), gli «italiani regionali settentrionali» (pp. 116-17), gli «italiani regionali centro-meridionali» (pp. 117-18) e gli «italiani regionali insulari» (pp. 118-20). O, con De Mauro 2000, l’italiano settentrionale, centrale, meridionale, accorpabili anche come centrosettentrionale e centromeridionale.
Se l’etichetta per lo più utilizzata è italiani regionali (e, meno, anche locali), a sottolineare le differenze geografiche tra una varietà e l’altra della lingua nazionale, l’etichetta al singolare collettivo italiano regionale accentua più l’aspetto unitario dell’italiano, che presenta differenze regionali. A metà strada, per così dire, tra la varietà e l’unitarietà idiomatica è l’etichetta varietà regionali dell’italiano. Invece, la dizione dialetti italiani (secondari) per indicare le varietà locali dell’italiano sembra da scartare per una motivazione storica e a scanso di equivoci teorici, poiché tradizionalmente l’etichetta dialetti italiani (primari), con valore geografico e quindi riferita ai ‘dialetti parlati in Italia’, è adoperata per indicare gli idiomi sviluppatisi dal latino ‘volgare’ parlato in Italia (il siciliano, il calabrese, il pugliese, il salentino, il napoletano, il toscano, ecc., con una loro precisa fisionomia grammaticale, autonomia e distanza interidiomatica). Usare l’etichetta terminologica dialetti italiani (secondari) per le varietà locali dell’italiano porrebbe sullo stesso piano sincronico i dialetti diversi per differenziazione storica dalla comune base latina (il siciliano, il calabrese, il pugliese, ecc.) e le differenziazioni geografiche della lingua toscana-italiana. Tale uso sarebbe un calco sull’inglese dialect, con riferimento ai ‘dialetti inglesi’, che sono, quelli sì, variazioni geografiche dell’inglese e dell’angloamericano. A rigore occorrerebbe contrapporre allora gli storici ‘dialetti italiani’ primari ai ‘nuovi dialetti italiani’, come tende a fare Tullio Telmon (2009, p. 114) o ai ‘neodialetti italiani’, cioè dell’italiano. Certamente un’ulteriore etichetta, quale dialetti dell’italiano, sarebbe senza ambiguità rispetto al polisemico dialetti italiani (i primari parlati in Italia e i secondari dell’italiano). Ma i ‘dialetti dell’italiano’ sottolineerebbe eccessivamente le differenze tra le varietà regionali della lingua nazionale, al limite forse della loro mutua comprensione.
Un dizionario in quanto foto degli usi soprattutto lessicali, e poi ortografici, fonologici, morfologici e in parte sintattici della lingua di una comunità di parlanti registra anche la regionalità della lingua nazionale. Ma la foto della componente regionale soprattutto lessicale, e secondariamente fonologica e ortografica, morfologica e sintattica, è inevitabilmente molto ‘sbiadita’, per ragioni diverse. Innanzitutto, un dizionario per ragioni ‘ideologiche’, se non puristiche o neopuristiche, tende a privilegiare ciò che è comune in una comunità, piuttosto che ciò che è specifico di questa o quella varietà locale della lingua nazionale. Inoltre un dizionario è sempre un pallido riflesso della competenza di una lingua di milioni di parlanti, in quanto registra un numero più o meno ampio di parole in funzione anche del numero di pagine a disposizione per questo o quel pubblico. Sappiamo che, se i dizionari monovolume – diffusi soprattutto in ambito scolastico – non superano i 130.000 lemmi (cfr. De Mauro 2000, Zingarelli 2013), le opere in più volumi come il Grande dizionario italiano dell’uso, GRADIT, (6 voll., 20072) giunge a circa 270.000 e il Grande dizionario [storico] della lingua italiana di Battaglia-Bàrberi Squarotti con le due appendici a cura di Edoardo Sanguineti e l’Indice degli autori, per un totale di 24 voll. non va oltre i 180.000 lemmi (a fronte dei 600.000 lemmi dell’Oxford English dictionary (OED). Che sono sempre una goccia rispetto alla ricchezza lessicale della lingua (cfr. De Mauro 2014, p. 113) di circa 60 milioni di utenti (attuali).
Le ragioni della presenza di tratti dialettali nella lingua nazionale, quale risultato del contatto interlinguistico, ovvero del ‘prestito interno’, sono diverse: dal bisogno di disporre di termini che presentano già lessicalizzati concetti invece espressi con giri di parole o sintagmi nella lingua nazionale (logicisticamente e neopuristicamente si tratta dei cosiddetti prestiti di necessità o «regionalismi obbligati» (Telmon 2009, p. 103), oppure di termini che presentano connotazioni locali, di particolare espressività, inesistenti nella lingua nazionale (in ottica neopuristica ‘prestiti di lusso’, cioè non giustificati). Ma per dirla con Mario Alinei, i dialettalismi al pari dei prestiti derivanti da lingue di prestigio, sono ‘doni’ (segnici e semantici) che arricchiscono le lingue riceventi. Rifiutarli per principio significherebbe assumere un comportamento da ‘maleducati’. ‘A caval donato non si guarda in bocca’, ferma restando la libertà del parlante di usarli o non usarli a sua discrezione (cfr. Sgroi 2010, pp. XIII-XIV). Normativamente – va subito detto –, tutti i regionalismi non possono essere considerati, com’era un tempo in un’ottica neopuristica, usi ‘errati’ della lingua nazionale, a causa delle loro radici dialettali (godendo il dialetto tradizionalmente di pessima fama dal Cinquecento a oggi). Per il solo fatto di essere registrati dai lessicografi i dialettalismi, i micro e macroregionalismi, sono stati, per così dire, sdoganati, ovvero sono riconosciuti come esistenti e approvati, rientrando così nella norma alla pari degli altri usi non regionali. In termini più generali, un uso linguistico, a base regionale o meno, può essere considerato legittimamente ‘errato’ quando in un determinato contesto (quindi in dipendenza dagli interlocutori e dai fini che si vogliono conseguire) la comunicazione non passa in tutto o in parte, o viene equivocata. Oppure quando, pur essendo un testo pienamente comprensibile, assume forme tipiche della varietà diastraticamente marcata delle classi subalterne, l’italiano popolare (cfr. Sgroi 2010, pp. 26-27).
Il dizionario tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio Un dizionario è costituito (i) da un elenco di parole in ordine alfabetico – il cosiddetto lemmario (o nomenclatura) o linguaggio-oggetto dell’analisi –, e (ii) da un cosiddetto metalinguaggio, cioè da tutte le altre parole presenti nel dizionario, che servono a spiegare le parole del lemmario: a) riguardo al significato o ai diversi significati (o accezioni) mediante le definizioni, magari numerate, gli esempi, i sinonimi e contrari; b) riguardo all’origine o etimologia, vicina e lontana, interna alla stessa lingua (etimologia sincronica) o risalente a un’altra lingua (etimologia diacronica); c) riguardo alla loro morfologia mediante l’indicazione delle varie parti del discorso, per lo più abbreviate (s.m. = ‘sostantivo maschile’, v. = ‘verbo’, pr. = ‘pronome’, ecc.), la flessione nominale (sing./pl.) e verbale (coniugazione regolare e irregolare); d) riguardo alla loro pronuncia e ortografia mediante segni diacritici o divisione in sillabe. Altre informazioni – sotto forma di abbreviazioni per lo più riprese e sciolte nelle pagine introduttive – possono riguardare la variazione temporale (voce antica, neologismo, arcaica, rara, disusata, ecc.), i registri (formale e informale, familiare, aulico, colloquiale, comune, enfatico, eufemistico, volgare, spregiativo, scherzoso, iperbolico, ironico, gergale, ecc.), i linguaggi e lessici speciali (termine dell’anatomia, agricultura, chimica, fisica, matematica, ecc.) e la variazione geografica. Senza peraltro escludere la presenza di immagini, disegni, illustrazioni varie, quali linguaggi non verbali, a ulteriore rincalzo delle definizioni per chiarire significati e accezioni soprattutto per il lessico concreto con rinvio a referenti visibili.
Nell’ambito della lessicografia italiana i dizionari di De Mauro si caratterizzano, rispetto a tutti gli altri dizionari, per la presenza di 11 marche d’uso, mediante cui sono classificati, in funzione dei livelli culturali dei parlanti nativi, non solo i 130.000 lemmi del dizionario scolastico (cfr. De Mauro 2000) ma anche i loro significati e così i circa 270.000 lemmi del GRADIT (seconda edizione del 2007) con i loro significati (cfr. De Mauro 2005). Lo ‘zoccolo duro’ del De Mauro 2000 è costituito dal Vocabolario di base (Vdb) di circa 7000 lemmi, noto a chiunque abbia frequentato la scuola dell’obbligo, elementare e media, per complessivi otto anni di istruzione (cfr. De Mauro 2014, pp. 151-53, 158-60). Esso è presente nella misura del 97% circa delle parole in qualunque discorso scritto o parlato ed è formato da tre sottoinsiemi: (i) il vocabolario Fondamentale (FO), circa 2000 voci di altissima frequenza, che coprono il 92/94% di un testo parlato o scritto; (ii) il vocabolario di Alto uso (AU), circa 2700 voci, un po’ meno frequenti, con ‘copertura’ del 5/6% di un qualsiasi testo; (iii) il vocabolario di Alta Disponibilità (AD) di circa 2000 lemmi, in sé non frequenti, ma ben presenti nella mente di ogni parlante e suscettibili di essere all’occorrenza prontamente richiamati. La fascia del vocabolario Comune (CO) (in senso tecnico) è invece costituita da circa 40.000 lemmi, noti a chi è in possesso almeno di un diploma di scuola media superiore (e quindi anche a chi è laureato); si tratta di voci mediamente colte. Il settore più ampio del lessico è invece costituito dai termini Tecnico-specialistici (TS) – circa 54.000 – la cui conoscenza dipende per lo più dalla familiarità con i diversi settori della cultura (qui ne sono identificati oltre 200: abbigliamento, aeronautica, agricoltura ..., macelleria, marina, matematica, ... vetraria, viabilità, zootecnologia, ecc.). Il resto del lessico riguarda voci Obsolete (OB), circa 15.000 (vitali fino al Settecento) e voci di Basso uso (BU), circa 20.000. C’è poi il pacchetto delle voci Letterarie (LE), un po’ più di 7000, e quello degli Esotismi (ES), cioè dei forestierismi (o esotismi), scopertamente tali già nella grafia, circa 4000. Gli esotismi sono cioè le parole straniere percepite come tali in sincronia dal parlante comune, mentre i calchi o i prestiti (alineianamente, e non puristicamente, i ‘doni’) ormai adattati (non ‘stranieri’ in superficie) sono identificati solo nella sezione etimologica. Da segnalare ancora, particolarmente rilevante per l’ottica qui adottata, il pacchetto di voci Regionali (RE), di diffusione cioè locale, non panitaliana, non sempre di origine dialettale, circa 3800, e voci Dialettali (DI), meno di 200 (ancora più locali). Segue in forma più schematica e immediata la strutturazione del lessico italiano proposta nel De Mauro 2000 (un totale di 149.208 diverse accezioni relative a 129.432 lemmi, 11 marche d’uso attribuite in funzione dei livelli culturali dei parlanti):
FO (Fondamentale): 2071 lemmi;
AU (Alto uso): 2663 lemmi;
AD (Alta disponibilità): 1978 lemmi;
(FO, AU, AD costituiscono il vocabolario di base di 6712 voci)
CO (Comune): 39.707 lemmi;
TS (Tecnico-specialistico): 53.602 lemmi (marche ulteriormente articolate mediante oltre 200 sottoetichette, per es. med., chim., biol. ecc.);
LE (Letterario): 7325 lemmi;
RE (Regionale): 3727 lemmi;
DI (Dialettale): 171 lemmi;
ES (Esotismo): 3762 lemmi;
BU (Basso uso): 19.323 lemmi;
OB (Obsoleto): 14.879 lemmi.
Si noti che nel dizionario maggiore GRADIT (1999) le voci Regionali sono invece 5407 e quelle Dialettali 338.
Tra le abbreviazioni delle marche d’uso a livello sincronico del De Mauro 2000 relative alla variazione geografica dell’italiano, si trovano:
a) 2 etichette generaliste: region. (RE) (in 3727 voci) e dial. (DI) (in 171 voci), e per la variazione diastratica pop. (437 lemmi);
b) 5 macroetichette diatopiche: I) sett., I-II) centrosett., II) centr., II-III) centromerid., III) merid., riferite a circa 900 macroregionalismi;
c) 27 microetichette diatopiche, relative a 18 microaree regionali e a 9 microaree cittadine a livello sincronico, che riguardano circa 2700 microregionalismi: I) di area sett.: piem., lig. (e genov.), lomb. (e milan.) (che gode in assoluto maggior prestigio), trent., ven.[eto] (venez. e triest.), emil., romagn., friul.; II) di area centrale: tosc. (fior., pis., sen.), march., umbro, laz. (e roman.); III) di area merid.: abruzz., camp. (e napol.), pugl., calabr., sicil.; IV) di area sarda;
d) altre etichette ancora si ritrovano nella sezione Etimologia del De Mauro che consente di rilevare circa 400 voci con etimo diacronico dialettale – e ben 37 sono le etichette dialettali – ma ormai percepite per lo più come voci panitaliane, non più locali o regionali, ovvero ex regionalismi. Alle 27 etichette di cui sopra bisogna infatti aggiungerne altre dieci, che appaiono solo nell’ambito dell’“Etimologia”, e non tra le ‘marche d’uso’, così bolognese, bresciano, ferrarese, ladino, livornese, lucchese, modenese, romancio, torinese, valdostano; e) altri dialettalismi sfuggono a una ricerca con il CD-ROM perché la matrice dialettale è indirettamente indicata nella definizione o sopraffatta dall’etichetta TS (Termini tecnico-specialistici), e non già nell’intestazione di lemma (come per a, b, c) o nella sezione Etimologia (come per d). Seguono alcuni esempi:
pastièra s.f. TS gastr. torta tipica napoletana, 1935, senza etimo, ma nel GRADIT con esplicito etimo sincronico: “Der. di pasta con -iera”. Ben frequente anche nell’uso letterario, per es. in Curzio Malaparte e Domenico Rea:
C. Malaparte (toscano di Prato) 1950 La pelle: “Il pranzo incominciò. Prima vennero gli spaghetti, poi il fritto di triglie e di calamari, poi il manzo alla genovese, e da ultimo la ‘pastiera’ dolce, che è una torta napoletana di pasta all’uovo ripiena di ricotta”; D. Rea (napoletano) 1993 Ninfa plebea: “Furono serviti: ostriche su un prato di alghe, un piatto di vermicelli con le vongole, un casatiello di polpi con olive nere, aglio e prezzemolo e alla fine una fetta di pastiera e gelato di melone”;
gràno s.m. 6a. TS numism. antica moneta napoletana e siciliana;
mamma/santìssima s.m.inv. CO gerg., alto esponente della mafia siciliana o della camorra napoletana | [...], dalla loc. mamma santissima, usata come esclamazione per esprimere terrore.
Vale forse la pena di ricordare che gli usi regionali dell’italiano fuori dello Stato italiano, ovvero nella Svizzera italiana – gli elvetismi – sono registrati solo nello Zingarelli, in totale 34, stando al DVD, per lo più elvetismi semantici (28) e solo sei segnici: «registrazioni di voci e accezioni dell’italiano parlato in Svizzera» (Zingarelli 2013, p. 3), per es. patriziato «ente pubblico proprietario di beni di uso comune»; vignetta «bollo» e così via.
Per quanto riguarda il problema della regionalità qui messo a fuoco, la definizione di regionalismo e in particolare la distinzione tra RE (Regionalismo) e DI (Dialettalismo), non è invero né pacifica né univoca tra gli studiosi (cfr. per es. Prati 1954; Zolli 1986; Telmon 1993, 2009; Avolio e Telmon in Storia della lingua italiana, 1994; Grassi et al. 2003; Aprile 2005, 2012; D’Achille e Foresti in Enciclopedia dell’italiano, 2011; Ferrara 2013). Stando alle definizioni indicate nel De Mauro 2000 (p. XVII) con regionale si indicano «vocaboli, in parte, ma non necessariamente, di provenienza dialettale, usati soprattutto in una delle varietà regionali [i.e. locali] dell’italiano, specificate di seguito in forma abbreviata». Invece con dialettale «sono [...] marcati vocaboli avvertiti come dialettali e circolanti in quanto tali in testi e discorsi italiani, con indicazione abbreviata del dialetto». Se è un dato acquisito distinguere la prospettiva sincronica del funzionamento linguistico da quella storico-etimologica del divenire della lingua, è anche vero che i due punti di vista inevitabilmente si intrecciano nei diversi parlanti, anche in dipendenza della loro diversa sensibilità linguistica e metalinguistica e della loro competenza d’uso attivo e passivo della lingua. Così, se un termine quale mafia è voce etimologicamente ‘dialettale’ (di origine siciliana, e in sic. nell’accezione camorristica ‘neoformazione semantica’ o ‘neosemia’) e quindi ‘sicilianismo segnico’ cioè nella forma (significante) e nel significato panitaliano, sincronicamente sarebbe definibile difficilmente come voce ‘regionale’ o ‘locale’ in quanto si tratta di voce di diffusione panitaliana (e anzi internazionalismo o globalismo). E infatti correttamente il lemma è etichettato in De Mauro come di AD (Alta disponibilità). Analogamente camorra è napoletanismo (etimologicamente dialettalismo) ma è voce anche (diatopicamente e sincronicamente) CO (Comune) per De Mauro. O ancora ’ndrangheta è dialettalismo con etimo diacronico calabrese ma diatopicamente e sincronicamente è anche voce CO (Comune), con la differenza che la struttura fonologica e ortografica presenta un nesso iniziale consonantico /ndr/ ‹’ndr›, che segnala alla coscienza dell’italofono comune la sua matrice etimologica dialettale. Terminologicamente sembra allora opportuno distinguere tra: a) voci dialettali (‘dialettalismi’) in prospettiva storico-etimologica vs ‘neoformazioni’ regionali, forme entrambe di neologismi, b) voci regionali (‘regionalismi’, ‘localismi’), in prospettiva geografica e sincronica: ‘regionalismi’ ed ‘ex regionalismi’, passando attraverso la fase del dialettalismo che tende a perdere le sue origini dialettali, diventando tout court nazionale.
Ogni termine può quindi essere definito da due punti di vista: a) secondo l’origine storica (etimologia), b) secondo la sua diffusione geografica (diatopia) e il punto di vista sincronico del parlante. Dal punto di vista del luogo in cui sono usati (diatopia) e del tempo in cui sono usati ( sincronia), i dialettalismi possono essere ex regionalismi divenuti panitaliani, nazionali, come per es. panettone, originariamente milanese, o restare usati regionalmente ed essere regionalismi.
I regionalismi, oggetto principale del nostro interesse, possono essere diffusi in macroregioni o avere una diffusione più limitata, microregionale. Per es., sono macroregionalismi di tipo morfologico-sintattico mò avv. (centro-merid.), ué inter. (centro-merid.), solo più loc. avv. ‘soltanto, ancora’ (sett.), il cosiddetto complemento oggetto personale con prep. a (centro-merid.), paisà! [alloc.] (merid.). Sono microregionalismi morfologico-sintattici per es. te pron. sogg. ‘tu’ (‹ tosc.), a [inter.] Nando! (‹ roman.), òstrega! [inter.] (‹ veneto), punto avv. ‘niente affatto’ (‹ tosc.), il [+nome pers.] Mario, la Silvia (‹ lomb.). Sono segni a diffusione macroregionale parole come abbacchio (centr.) o camporella (sett.), mentre sono segni a diffusione microregionale pennichella (‹ roman.), trazzera (‹ sic.), sbavagliato (neoform. sic.), cadrèga s.f. «sedia» (‹ piem., lomb.). Ci sono parole che hanno un significato macroregionale diverso da quello ‘nazionale’ : per es. tornare tr. «restituire» (p.e. il libro) (sett.), tenere «avere» (p.e. famiglia) (merid.), tirètto «cassetto» (sett., merid.) e parole che hanno una forma fonica e morfologica diffusa macroregionalmente, leggermente diversa da quella nazionale, come per es. fòra «fuori» (sett., centr.), stupidata «stupidaggine’ (sett.), tassinaro «tassista» (centr.). A livello microregionale siciliano, per es., abbiamo modi di dire come essere niente immischiato con nessuno «non contare nulla» (‹ sic.), sposarsi con l’acqua dell’insalata, «vivere da concubini» (‹ sic.), pisciare fuori dall’orinale «divagare» (‹ sic.) o neoformazioni come sconoscere «ignorare’ (sconoscere la fisica). Esempi di parole con forma fonica e morfologica diffusa microregionalmente sono zozzo «sozzo» (‹ roman.), pompista «pompiere» (‹ piem.), gommàio «gommista» (‹ tosc.).
Sulla natura intrinsecamente dialettale della letteratura italiana, data la plurisecolare situazione di diglossia (toscano/italiano lingua alta, prevalentemente scritta per gli usi ufficiali vs dialetti, idiomi prevalentemente parlati) e dilalia (uso parlato dei dialetti vs usi parlati e scritti formali e ufficiali della lingua) con prestigio massimo per la lingua rispetto a quello praticamente azzerato dei dialetti (pur con qualche gradazione secondo i dialetti), è stato detto a suo tempo da Luigi Pirandello. Gli studi sulla lingua letteraria al riguardo non mancano, anche se si è lungi dall’aver raggiunto una qualche esaustività. In maniera puramente esemplificativa si può ricordare per quanto riguarda gli italografi siciliani il filone verghiano con Luigi Capuana, Federico De Roberto, Pirandello, Vitaliano Brancati, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Stefano D’Arrigo, Giuseppe Bonaviri, Gesualdo Bufalino e così via. Un caso particolarmente significativo, date le tirature altissime raggiunte dai suoi testi, è il caso Camilleri, che si è autodefinito (giustamente) «semplicemente un narratore, un contastorie [...] che gode oggi di una fortuna insperata e, prima ancora, non usuale nel nostro paese» (Come la penso. Alcune cose che ho dentro la testa, 2013, p. 105). La sua lingua più che regionalizzata è in realtà infarcita di fonosicilianismi, sintomo di ‘sicilianite acuta’, veri e propri ‘gratuitismi’, presenti in tutti i piani del racconto, non solo nei dialoghi tendenti a caratterizzare geograficamente e socialmente i personaggi, ma anche nel piano della voce narrante. Per es. abbajùr, casa abbannonata / cella abbannunata / motorino abbannunato, abbasciava il vrazzo «abbassava il braccio», abbascio «abbasso» avv., abbastava e superchiava «bastava e soverchiava», abbilinato «avvelenato», carni abbilute «carni avvilite», c’era d’abbisogno di...«c’era bisogno di...», si abbivisse «si beva», abbocato s.m. «avvocato» e così via. Di recente, questa dialettalizzazione di pura superficie, del tutto insignificante, è stata presentata da Camilleri come ricerca di ritmo, creazione di una «partitura»:
Anche nei miei romanzi scritti in vigatese parto sempre da una struttura molto solida in lingua italiana. Il lavoro dialettale è successivo, ma non si tratta di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane, quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura [!] che invece delle note adopera il suono delle parole, per arrivare a un impasto unico, dove non [???] si riconosce più il lavoro strutturale [= fonico, di puro suono] che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane [!]. È per questo che butto tutte le successive stesure del testo lasciando salva solo la definitiva. Appena il libro è edito, butto via tutto, non lascio traccia dei miei delitti. Ho una sorta di repulsione, di rigetto. [...] Cerco di rimuovere qualsiasi indizio che mi ricordi il mio delitto. Non riesco a rileggermi. E se ne sono costretto, nella maggior parte dei casi, provo un’acuta insoddisfazione per come ho scritto (A. Camilleri, T. De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, 2013, pp. 77-78).
Se la regionalità di una lingua riguarda tutti i classici livelli di analisi (ortografico, fonologico, morfologico, sintattico, lessicale), va detto che solo alcuni aspetti diatopici della lingua sono segnalati in un dizionario. Ovvero la componente fonologica e ortografica è praticamente assente. Anche se la moderna tecnologia consente di sentire la pronuncia di tutti i lemmi, il modello proposto dallo speaker è quello standard. Le pronunce regionali, per quanto percepite come corrette non trovano per lo più spazio. Così per es. si segnalano le realizzazioni del sistema eptavocalico (e non pentavocalico), cioè con /e/ ~ /ɛ/ e /o/ ~ /ɔ/, o della sordità/sonorità di /s/ ~ /z/ e /ts/ ~ /dz/ e così via. Pressoché impensabile trovare grafie regional-popolari, normativamente errate, legate alle pronunce regionali per es. in parole con /ns/ es. recenzione, con /-b-/ es. abbile, o con /-ğ-/ aggile, o anche grafie tout court popolari di /tts/ azzione (vs il canonico carrozziere) e così via. Oppure l’indicazione della gorgia toscana, o della palatalizzazione delle /s/ emiliane, o delle vocali dei pugliesi e così via.
Regionalità omessa (allocuzione inversa, fraseologia)
La regionalità è anche facilmente trascurata a livello sintattico e fraseologico. Così nel caso della cosiddetta allocuzione inversa, di ambito centromeridionale (dall’Abruzzo in giù), consistente nell’uso di lessemi di parentela, per esempio papà, mamma/mammina, nonna/nonno, zio/zia ecc. adoperati per rivolgersi in posizione di superiorità ma affettuosamente ai propri figli e nipoti, ecc., nel tipo preposizionale (romano, napoletano) stai attento, a papà!, o nel tipo siciliano Stefania, stai attenta, mammina!, ecc. Manca al riguardo ogni accenno sotto i relativi lemmi parentali dei dizionari, mono- e plurivolumi. Nel caso di pagare il pizzo «pagare la tangente» sfugge la matrice etimologica dialettale, dal sic. (pavari) pô pizzu «pagare per il pizzo» cioè per avere un posto letto (tranquillo) nelle carceri ottocentesche della Sicilia: espressione ormai diffusa a livello nazionale e quindi sincronicamente voce panitaliana. Per di più 2 pizzo «tangente», anziché lemma omonimo di 1 pizzo «punta ecc.» ([ca. 1350], «voce di orig. espressiva»), è analizzato come caso polisemico di quest’ultimo (in De Mauro: «5. CO gerg., somma estorta da organizzazioni mafiose, spec. a commercianti e imprenditori»), e presente nel Primo tesoro della lingua letteraria italiana del periodo 1947-2006 con un’unica attestazione:
E. Rea (napoletano) 2002 La dismissione: “Estorsioni affettuose, le si potrebbe definire. Il fatto è che la camorra, e D’Ausilio in particolare, giudicavano il piccolo ‘pizzo’ una specie di passatempo, di attività di contorno rispetto all’attività principale che avrebbe dovuto essere quella di portare il racket sin nel cuore della dismissione, imponendo una tangente del dieci-per-cento su tutti gli appalti”.
Ancora peggio, per così dire, va con la fraseologia dialettale (le polirematiche frasali) presentate come polirematiche non dialettali, o semplicemente assenti del tutto (per disconferma). Per es. l’espressione essere nessuno mischiato con nulla «non contare nulla», dal sic. essiri nenti ammiscatu ccu-nnuddu, è del tutto omessa, pur essendo presente nel Gattopardo:
Tomasi di Lampedusa 1959 Il Gattopardo: “Per una volta che potevo dire quello che pensavo, quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito, come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La-Manna fu Leonardo organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella...” (e si morse un dito per frenarsi) “quella smorfiosa di sua figlia!”.
O ancora: fare catenaccio, pisciare fuori dell’orinale o sposarsi con l’acqua dell’insalata, espressioni tutte ne Il bell’Antonio (1949) di Vitaliano Brancati. Che molti regionalismi sfuggano ancora alla ricerca è stato da più parti lamentato (cfr. Zolli 1986; Foresti 2011; Aprile 2005) e quindi a questo limite non si sottrae la lessicografia, che dalla ricerca storico-etimologica certamente dipende ed è condizionata.
I dialettalismi panitaliani, nazionali, stando al CD-ROM del De Mauro 2000 (rilevabili nel riquadro Etimologia derivanti da circa 40 dialetti) sono circa 400. Si tratta di voci di origine dialettale (ovvero con etimo diacronico dialettale, cioè etimologicamente dialettalismi) ma ormai (geograficamente e sincronicamente) panitaliane e quindi (diatopicamente) ex regionalismi. La dialettalità etimologica non è più tendenzialmente avvertita sincronicamente dal parlante comune. Tali voci – etimologicamente – appaiono così ripartite, secondo De Mauro:
I) di area sett.: friulano (4), ladino (1), romancio (2), trentino (3), valdostano (2), piemontese (27), torinese (2), veneto (54), veneziano (56), triestino (2), genovese (24), ligure (11), lombardo (37), milanese (30), bresciano (1), emiliano (11), romagnolo (2), bolognese (2), ferrarese (2), modenese (1);
II) di area centr.: toscano (45), lucchese (1), pisano (1), senese (1); laziale (1), romanesco (12);
III) di area merid.: abruzzese (2), napoletano (33), pugliese (3), calabrese (11), siciliano (30);
IV) di area sarda (8); (nessuna voce nel caso del livornese, marchigiano, umbro; 1488 essendo le voci di origine/etim. ‘incerta’).
Se questi sono i numeri delle voci – lessicograficamente – un tempo regionali e oggi non più tali ma, sembrerebbe, panitaliane, non c’è che da essere linguisticamente soddisfatti, in quanto la lingua nazionale tende a configurarsi come omogenea su tutto il territorio italiano e quindi come ottimale mezzo di comunicazione.
Riportiamo qui con pochissime citazioni letterarie, un elenco pur selettivo di tali voci, solo per ricordare al lettore che la loro dialettalità/regionalità passata emerge prevalentemente da un approccio metalinguistico.
foiba, naia, ribolla (dal friulano):
M. Rigoni Stern (vicentino) 1953 Il sergente della neve: “Raccontava che quando era in Albania la tormenta faceva bianco il pelo dei muli neri e il fango cambiava in neri i muli bianchi. Quelli che avevano pochi mesi di naia lo stavano ad ascoltare increduli. Era un ex conducente e odorava ancora di mulo: la sua barba era pelo di mulo, la sua forza era di mulo, la guerra la faceva come un mulo”.
ladino (dal ladino); grigione, romancio (dal romancio); barbera, brocco, brogli/accio, (cavolo) cappuccio, cicchetto, fondut/a, fontina. gian/duia, grissino, monferr/ino, mort/izza, pappard/ella fig., pelandrone, ram/azza, travet (dal piemontese):
C. Pavese (cuneese) 1950 La bella estate: “Adesso che ci seppero nel bar, Febo, la Nene e quel Pegi, che giocavano e perdevano con insolenza, ricomparvero piú volte a bere cicchetti su cicchetti. Finì che la Nene e il ragazzo Pegi si litigarono mezzo ubriachi, tanto che il vecchio pittore e Momina s’intromisero perché ripartissimo”.
C. Levi (torinese) 1951 L‘orologio: “E in mezzo a quella turba, ci sono pure dei Monssú Travet esemplari, tutti virtú, amore del lavoro, spirito di sacrificio, attaccamento alla famiglia, sublimi e nascosti eroismi, devozione al dovere, umiltà cristiana, servi fedeli dello stato, sacerdoti del bene pubblico”.
marachèlla, prosécco, scalogna (dal triestino):
C. Magris (triestino) 1997 Microcosmi: “Il direttore, il signor Gino, e i camerieri, che arrivano al tavolo con un bicchiere dopo l’altro - talora assumendo l’iniziativa di offrire, ma non a tutti, tartine di salmone con un prosecco speciale”.
bugigattolo, cagnara, fusoliera, ghetto, gnocchi (alim.), imbranato, madrigale, maraschino, mogio, naia, pantalone (maschera), pettegolo, scambi, traghettare (dal veneto):
G. Arpino (istriano, di Pola) 1964 L‘omba delle colline: “Non avete visto che gli tremavano le gambe? Tutta scena: davanti aveva solo due soldati imbranati... si vedrà col mitra chi ha del fegato, lo si vedrà contro i partigiani...”.
appalto, arsenale, burrasca, calmiere, carena, ciao, doge, ghetto, giocattolo, gondola, palombaro, pantalone (maschera), pontile, proto, (in) quarantena, razza (itt.), regata, scandaglio, scansìa, scontrino, scovolo, serramanico, traghetto (dal veneziano):
P. Levi (torinese) 1963 La tregua: “Conoscevo bene Marcello: veniva da Cannaregio, l’antichissimo ghetto di Venezia, era stato a Fossoli con me, e aveva passato il Brennero nel vagone attiguo al mio”.
abbaino, acciuga, la boa, cambusa, il cavo, ciurma, doge, piovasco, scandaglio, scirocco, topica (dal genovese):
R. Brignetti (toscano dell’Isola del Giglio) 1971 La spiaggia d’oro: “La nave non rollava più e non pendeva. E un bel cestino di frutta, perché lei ne aveva preso nella cambusa di tutte le specie; e dolci”.
monegasco, rivierasco, scoglio (dal ligure); paciùgo (s.m. 2. CO gelato pasticciato con frutta, panna e sciroppo tipico della Liguria);
bres/aola, brughiera, capriata, casamatta, fedina, grappa, mascarpone, menabò, monatto, monferr/ino, pirla (2. ‘sciocco’), portin/eria, robiola, sbruffare, scart/offia, scocca, serramanico, topica (dal lombardo):
G. Testori (Novate Milanese ) 1959 Il ponte della Ghisolfa: “Da una parte, se ne stava fermo sulla porta un po’ inebetito dal sonno, non tanto però da non poter seguire il corso della discussione e gli gridò: ‘Tu, pirletta, portami una coca’”.
B. Fenoglio (piemontese) 1955 La malora: “Dopo d’aver ben guardato, si fermarono a far merenda, la mezzadra gli portò pane e vino e quattro robiole una sopra l’altra, e loro le intaccarono tutte per trovare la piú saporita ma poi finirono per piluccare a tutt’e quattro”.
calmiere, capriata, caseggiato, cotechino, farfugliare, fifa, fittavolo, fustella, gibigiana, impaperarsi, loggione, ossobuco, panettone, risotto, stracchino, tavolo, teppa (dal milanese); (cavolo) cappuccio, casa/matta, cotechino, culatello, ocarina (dall’emiliano):
G. Testori 1959 Il ponte della Ghisolfa: “cinque o sei fette di soppressa, quando andava bene un cotechino o una costoletta, due o tre cetrioli, un po’ di gruviera...”.
S. Vassalli (genovese) 1990 La chimera: “Una pagnotta ben cotta - disse Antonia - con dentro tre o quattro belle fette di salame, o di stracchino, vale piú di tutte le ostie della terra”.
Dall’area centrale
baldacchino, capocchia, capocchio, grembiule, marmocchio, scarabocchio, il sor marchese, la sora marchesa, trangugiare, zanni (dal toscano):
E. Siciliano (romano) 1998 I bei momenti: “Quindi, serissimo, intrecciava il filo della viola a quel suono sommesso per interrompersi di scatto e piombare a terra tenendo in alto strumento e archetto quasi fosse uno zanni”.
mascalzone (dal lucchese); (bere a ) garganèlla (dal pisano); frocio, gattaro, iella, inghippo, maritozzo, pacioccone, il pappa, scanzonato, sciuscià, stranire, supplì (dal romanesco):
G. Montesano (napoletano) 1999 Nel corpo di Napoli: “Plebe siete e plebe rimarrete, e froci! Ricchione, ricchione...”.
Dall’area meridionale
tratturo (dall’abruzzese); ammainare, arrapare, calzone (gastr.), camorra, cannolicchio, carosello, citrullo, fesso, gliommero, inciucio, magliaro, mozzarella, pernacchio, pezzullo, pizza, scassare, sciuscià, sfarzo, sfizio, sfottò, sfuso, sommozzatore, vongola (dal napoletano):
R. La Capria (napoletano) 1961 Ferito a morte: “Allora tra sfottò e offese vengono fuori certe discussioni che non finiscono mai, su questioni di forma e di bella figura, che ti fanno passare la mattinata in una maniera abbastanza divertente”.
tarantismo, tarantola, tratturo (dal pugliese); abbuffarsi, cannolicchio, farfugliare, giuggiolena, ’ndrangheta (dal calabrese); abbuffarsi, abento, acanino, caban, cannolo, cirneco [cernieco], favara, giuggiolena, intrallazzo, mafia, mafioso, pant/esco, picciotto, portasigari, puparo, salmoriglio, sciabica, tonnarotto (dal siciliano):
G. Bufalino (siciliano di Comiso, RG) 1988 Le menzogne della notte: “[Il barone] Si fece alla finestra, fiutò l’aria di fuori con nari larghe, spiò il cielo che nuvole in corsa solcavano, rabbrividì. Dopo un po’ s’era già ricomposto e distratto, come un cernieco che ha perso la pista”.
F. Tomizza (istriano) 1977 La miglior vita: “Alle nuove votazioni (vecchia storia) gli stessi che avevano eletto lui alzarono la mano a favore di chi per tutta la sera lo accusò di fascismo, sfruttamento e intrallazzo coi tedeschi”.
G. Tomasi di Lampedusa (palermitano) 1959 Il Gattopardo: “S. Francesco di Paola; il primogenito, l’erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e, timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari”.
Dall’area sarda
can(n)onau, nuraghe, orbace, sardegnolo:
P. Levi (torinese) 1963 La tregua: “con un paio di stivaloni sovietici, un berretto da ferroviere polacco, e giacca e pantaloni trovati non so dove, che sembravano di orbace, e forse lo erano”.
Non poche voci sembrano trovarsi tuttavia, stando alla sensibilità dei parlanti, in procinto di passare dallo stadio di regionalismo a voci panitaliane (o ex regionalismi), regionalismi cioè promovibili a voci italiane tout court, al di là dell’etichettatura dei lessicografi, o come indirettamente evidenziato dalla mancata concordanza dei lessicografi, come si vedrà più avanti.
Gli esempi che seguono, assai selettivi, sono ripartiti secondo la distribuzione geografica, macrodiatopica di De Mauro (2000) in cinque classi: settentrionale, centro-settentrionale, centrale, centro-meridionale, meridionale.
Le datazioni del De Mauro, come in tutti i dizionari generali, si riferiscono solo alla prima accezione, cioè a quella più antica. Nel caso delle altre accezioni abbiamo indicato tra parentesi le date della prima, che vale quindi come terminus a quo. Va anche detto che le datazioni sono sempre provvisorie e facilmente retrodatabili, stando all’attuale stato degli studi storico-etimologici, con ulteriori ricerche, in primo luogo facendo ricorso a Google libri (a cui quindi è inviato il lettore attento, paziente, attivo, critico).
Su 479 lessemi siglati in De Mauro, 477 RE (Regionali) e 2 DI (Dialettali) sett., 101 sono quelli che rientrano nel periodo 1901-2000. Ne scegliamo meno di una decina, esemplificando dove possibile con gli autori del premio Strega:
solo più loc. avv. soltanto, ancora: ho solo più due pagine da ripassare (cfr. Telmon 2009, p. 116).
comànda s.f. gerg., ordinazione fatta da un cliente a un cameriere: prendere le comande, 20° secolo.
camporèlla s.f. ‘praticello’:
A. Arbasino (lombardo di Voghera) 1960 L’anonimo lombardo: “Ma quel che vuol sapere, dice a un tratto scoppiando a ridere e mi guarda negli occhi, è, per paragonarlo, dice lei, a sue passate esperienze personali, come si svolge da noi la faccenda dell’andare in camporella, a limonare, o come diciamo, a fare ‘il pollaio’, se ci si va o in macchina, o altrimenti se si porta dietro la coperta, se questa è impermeabile, ecc.”.
limonàre v. intr. colloq., abbandonarsi con qualcuno a effusioni amorose, 1961:
A. Arbasino 1960 L’anonimo lombardo: “Entriamo e chiudiamo la porta, pieni ancora di riservatezza imposta, tutti e due, lei sorride e gioca, le piace staccarsi e chiacchierare dopo i primi baci, non sempre vuole spogliarsi subito, le piace troppo limonare prima, e io sto lí a coccolarla per ore, all’improvviso si tira via tutto febbrilmente, dopo pretende di spogliare me, guai se non glielo lascio fare, lei mi denuda con ordine, piega i calzoni da bambina giudiziosa, capace quando mi vede eccitato di dirmi per scherzo ‘Oggi non me la sento, rivestiti pure’”.
pisquàno s.m. ragazzo sciocco, 1963:
P. Chiara (lombardo di Luino) 1969 L’uovo al cianuro: “Mi prese a pensione per riguardo alla mia abilità nel gioco, dal biliardo alle carte, e forse col segreto proposito di farmi giocare a metà con lui in certi ambienti di Milano dove convenivano dei ‘pisquani’ pieni di denaro”.
tampinàre v. tr. [1] seguire con insistenza | [2] estens., importunare, molestare, 1961:
M.G. Mazzucco (romana) 2003 Vita: “La notte, appollaiato sul tetto del palazzo di Prince Street, mentre Vita lo tampina impaziente – avida di notizie sulla sua giornata, più movimentata di quella che ha vissuto lei – divora quelle righe, piene di parole sconcertanti sulla realtà in cui vive”.
tapparèlla s.f. persiana avvolgibile, 1935:
G. Pontiggia (lombardo di Como) 1989 La grande sera: “Entrarono in una anticamera buia, fresca. Sulla destra si intravvedeva un piccolo soggiorno con le tapparelle abbassate, che lasciavano filtrare in alto strisce di luce”.
stupidàta s.f atto o discorso da stupido, variante fonomorfologica di stupidaggine, 1960:
C. Magris (triestino) 1997 Microcosmi: “ il mio [matrimonio] si è salvato anche grazie a quella stupidata di passare, un paio di volte, tutta la notte fuori casa, così ho aperto gli occhi e ho capito”.
74 i lemmi etichettati come RE centrosett. nel De Mauro. Solo 10 quelli del periodo 1901-2000.
Ricordiamo:
tè’ inter. 1. eccoti, prendi: te’ i soldi e non seccarmi più! 2. si usa per esprimere maligna soddisfazione]: te’, così la prossima volta impari!, 1348-53.
pomiciàta s.f. scherz., l’amoreggiare pomiciando, 1970:
S. Veronesi (fiorentino) 2006 Caos Calmo: “Patrizia Pescosolido, la mia prima ragazza, delle estenuanti pomiciate con lei nella soffitta di Gianni Albonetti detto ‘Futuro’, con la luce fessa delle lampadine rosse e blu, le pareti rivestite di cartone per le uova e quel disco di Brian Eno ripetuto sul giradischi fino”.
stracciaròlo s.m. var. fono-morfologica di stracciaiolo:
P.P. Pasolini (bolognese) 1955 Ragazzi di vita: “Adesso si trattava di trovare il compratore; ma anche stavolta ci pensò Agnolo. Andarono giù per il vicolo dei Cinque, che, tranne qualche ubbriaco, era tutto deserto. Sotto le finestre dello stracciarolo, Agnolo si mise le mani a imbuto intorno alla bocca, e si mise a chiamare: ‘A Antò!’ Lo stracciarolo si affacciò, poi scese e li fece entrare in bottega, dove pesò la ghisa e gli diede 2700 lire, per i 70 chili che pesava”.
scarriolante 2. s.m. e f. centrosett., ‘manovale addetto al trasporto di materiale con la carriola, spec., tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, bracciante che, nell’ambito dei lavori per la bonifica del delta del Po, era addetto al trasporto di terra con la carriola’:
P. Volponi (marchigiano di Urbino) 1991 La strada per Roma: “Un altro passo venne da un’altra parte, piú rapido e in discesa: ‘Ahò, scarriolanti, cominciate presto’”.
tiretto s.m. RE sett., merid., cassetto:
B. Fenoglio (torinese) 1955 La malora: “C’era un odore di donna che passava sopra all’odore delle patate stese sull’ammattonato, e Tobia richiudeva in quel momento un tiretto anche se c’era una manata di lingeria presa in mezzo”.
E. Siciliano (romano) 1998 I bei momenti: “Ho conservato in un tiretto le due lettere del Signor Suocero dove dice che “Signorina Constanze ha venduto fica ‘sotto l’occhio di Dio’ nei pomeriggi di primavera”.
Le voci siglate nel De Mauro 2000 come RE centr. sono 344 + 1 DI, di cui ben 279 sono i lessemi sostantivi. Menzioniamo:
ammàzzete inter. espressione di ammirazione o di stupore, 1905:
P.P. Pasolini 1955 Ragazzi di vita: “‘Ammazzete quanto sei moscio oggi, Alvà!’ gridò un moro, coi capelli infracicati di brillantina”.
abbacchio s.m. ‘agnello da latte macellato’:
A. Moravia (romano) 1952 I racconti: “Intanto l’Albina aveva chiamato il cameriere e ordinava ciò che a Sergio, sempre molto sobrio, parve una cena gargantuesca: antipasti, pasta asciutta, abbacchio con patate al forno. Per il dolce, ella soggiunse, avrebbe deciso dopo”.
pallonàro s.m. chi racconta abitualmente fandonie, millantatore, 1958:
M. Soldati (torinese) 1954 Lettere da Capri: “‘Sei un gran pallonaro!’ (che in romanesco significa contastorie, bugiardo)”.
ṣgamàre v.tr. 1. gerg., adocchiare di nascosto | estens., scoprire qcs. di nascosto 2. gerg., cogliere sul fatto, 1959:
P.P. Pasolini 1955 Ragazzi di vita: “Il Riccetto non si lasciò impressionare per niente, sgamando subito ch’erano sparate da ubbriaco: ma lo stette ad ascoltare attentamente, dandogli spago e facendo finta di crederci, per poi aver diritto di raccontare lui pure”.
P.P. Pasolini 1959 Una vita violenta: “si guardava intorno, come un padrone che torna sui suoi posti dopo un po’ di tempo, e siccome conosce la zona a palmo a palmo, s’accorge di tutto, sgama tutto, sia quello ch’è restato uguale sia quello ch’è cambiato”.
tassinàro s.m. variante fono-morfologica di tassista, 1960:
P.P. Pasolini 1955 Ragazzi di vita: “la capoccia, aveva preso a nolo un tassì, s’era fatto portare in un posto deserto dalle parti della Grotta Rossa, e lì con la rivoltella fregata al Cappellone, aveva ammazzato il tassinaro per levargli quelle 5000 o 6000 lire che aveva in saccoccia...».
micragnóso agg., s.m. 1. che, chi è avaro, tirchio: un vecchio micragnoso 2. che, chi è povero in canna, senza una lira, 1905.
sciacquétta s.f. 1. lavapiatti, sguattera 2. estens., donna mediocre e insignificante, che si comporta in modo frivolo e leggero, 1950-57.
fòra avv., prep. sett., centr. var. fonologica di fuori.
173 sono i lessemi RE centromerid. nessun es. DI.
Le voci del sec. 1901-2000 sono 30.
mò avv. adesso, ora: mo vengo, mo basta; da mo, da un bel pezzo: è da mo che lo sappiamo | con valore enfatico, un po’: guarda mo che pretese!, fine 12° sec.:
R. La Capria (napoletano) 1961 Ferito a morte:
(i) “Ma perché, mò i giapponesi debbono essere per forza meglio di noi?”;
(ii) “Mò, se sei capace di vedere, non dico un cefalo o una spigola, ma una sarpa fetente, chiamami”.
1nòne avv. no, av. 1306, comp. di 1no e del segmento -ne con funzione paragogica:
P.P. Pasolini 1955 Ragazzi di vita: “ ‘Che è tornato vostro fijo, a sor’Adè?’ chiese. ‘None’, fece la sora Adele, che s’era stufata perchè era già la terza volta in un’ora che Marcello le veniva a chiedere di suo figlio”.
palazzinàro [A] s.m., spec. spreg., impresario edile che si è arricchito con la speculazione edilizia | [B] agg., tipico di tali impresari: protervia, volgarità palazzinara, 1978.
pastarèlla s.f. pasticcino 1959:
P.P. Pasolini (bolognese) 1959 Una vita violenta: “Dentro il bar Mancinelli, mezzo vuoto, si vedevano banchi pieni di pastarelle, e la cassiera, una baciccia roscia che leggeva tutta incatenata il Messaggero”.
recchióne s.m. volg., omosessuale, pederasta, 1918; cfr. es. di M.G. Mazzucco 2003 più avanti (baccello, p. 586).
spaparanzàrsi v.pronom.intr. sedersi o sdraiarsi comodamente, spec. in modo scomposto, 1952:
C.E. Gadda (milanese) 1953 Novelle dal ducato in fiamme: “Si sdrai, via, si allunghi: allunghi le gambe, quelle gambone interminabili... Dopo mangiato, le farà bene al pancino... Sieda, sprofondi, si spaparapanzi come le pare e piace...”.
224 risultano i lessemi RE merid. in De Mauro 2000, nessuno essendo DI; 62 rientrano nel periodo 1901-2000. Voci grammaticali:
ca cong. che, perché, poiché, av. 1250:
G. Tomasi di Lampedusa (palermitano) 1959 Il Gattopardo: “Il Re perse la pazienza: ‘Salina, Salina, tu pazzii. Responsabile sei tu, il tutore. Digli ca si guardasse ‘o cuollo. Salutamo’”.
ué inter. si usa per esprimere sorpresa, ué, che spettacolo!; ué, dico a te!, sec. 20°:
R. La Capria (napoletano) 1961 Ferito a morte, “‘Eh, a Milàn l’è un’altra roba, sveglia alle sette, doccia, e giú in fabbrica a lavorar come matti!’ ‘Statti zitto Ninì - imbecille!’ ‘Uè, Massimo, calmati eh!... Che ho detto ?’ ‘Certo, partire con questo caldo, in piena estate..’ osserva la signora De Luca. ‘Fa benissimo, fa benissimo. Bisogna rendersi indipendenti’”.
2a prep. 16. fam., pleonastico, in esclam.: beato a te, [oggetto preposiz.] senti a me (ca. 1200);
‘a + compl. oggetto personale’:
(i) D. Maraini (fiorentina) 1999 Buio:
“Mio fratello è un bugiardo.”
“Perché dovrebbe dire una cosa per l’altra?”
“Lui lo odia a papà.”
“E tu non lo odi?”
“Pure io odio mio padre, ma per i fatti miei. Non lo denuncerei mai.”.
(ii) M.T. Di Lascia (pugliese di Foggia) 1995 Passaggio in ombra: “‘Ci faranno male tutti questi dolci?’ domandava mangiandone un paio. ‘E che ne so!’ rispondeva seccata Giuppina. ‘Ma tu a chi vuoi sfruculiare? Non li mangiare e la festa è finita’”.
avvocatìcchio s.m. avvocato intrigante e cavilloso, 20° secolo:
G. Arpino (istriano di Pola) 1964 L’ombra delle colline: “‘Vedrai’ comincia: ‘Vedrai l’invidia dei tuoi amici di una volta. Loro: tutti spelacchiati, provincialotti con l’ulcera, alti due dita... Avvocaticchi grigiastri... E tu: fresco, sicuro, diventato a Roma...’”.
cazziàta s.f. violento rimprovero, 1983:
P.P. Pasolini (bolognese) 1959, Una vita violenta: “Io t’ho fatto tutta ‘sta cazziata, ‘sta romanzina, perchè me sento da volette bbene...”.
consolo s.m.3. merid., uso funerario, cibo offerto da amici e parenti alla famiglia di un morto (cfr. Telmon 2009 pp. 109-10):
C. Alvaro (calabrese di San Luca) 1951 Quasi una vita: “Poi venne il pranzo del consolo. La notte dormimmo tutti con la madre e le sorelle nella stessa stanza dove figli siamo nati”.
malafémmina s.f. [1] donna di malaffare; [2] anche come insulto:
A. Banti (fiorentina) 1948 Artemisia: “Quel giorno Agostino mi dette l’anello con un gran giuramento di sposarmi appena venivano le fedi: e che la moglie era stata una mala femmina ed era morta a Lucca di sicuro”.
minchiàta s.f. volg., sciocchezza, stupidaggine: dire, fare minchiate, 20° sec.:
V. Brancati (pachinese SR) 1949 Il bell’Antonio: “Ma vedrai ch’è tutta una minchiata!... Figurati se fosse vero?... Antonio” [dice il padre].
paisà s.m.inv. colloq., forma vocativa per compaesano, 1946:
M.G. Mazzucco (romana) 2003 Vita: “Non ci capivamo. Ciò che essi credevano italiano era un’altra lingua. Dialetti parlati nel Mezzogiorno molti anni fa. Ci avevano chiamati paisà. Fu così, camminando per ore lungo le interminabili strade di downtown che sembrano non condurre a niente, che ci ritrovammo a Little Italy”.
sfruculiàre v.tr. spec. scherz., infastidire, stuzzicare, 1950:
E. Morante (romana) 1957 L’isola di Arturo: “- Eh, che altro deve sapere! – intervenne la madre, – t’ha detto che ti fa contenta, che vi sposate in chiesa. Adesso, lascialo un poco che si riposi nella buona pace sua! perché adesso lo vai ancora sfruculiando?”.
(ii) altro es. di sfruculiare v. supra: sub 2a prep.
settimanìle s.m. mobile costituito da cassetti sovrapposti, per lo più sette, usato per riporre la biancheria, 1904.
stìdda s.f. organizzazione criminale che opera nella Sicilia occidentale, di importanza minore rispetto alla mafia e priva di rapporti con la politica e le istituzioni, 1992.
1strùscio s.m. 1. merid., a Napoli, visita del giovedì santo ai Sepolcri compiuta a piedi in via Roma e via Chiaia 2. centromerid. estens., passeggiata dei giorni festivi per le vie principali di una città spec. di provincia, 1908.
carpétta s.f. nel gergo burocratico, cartella per documenti, 1963.
imparàto s.m., scherz., che ha imparato, colto: nessuno nasce imparato.
tenere v. tr. I 3. avere: tengo famiglia.
20uscire v.tr. fare uscire: uscire il bambino.
Il corpus delle voci regional-dialettali del De Mauro è ripartibile geograficamente in 27 microaree geografiche (18 microetichette regionali e nove microetichette cittadine) – circa 2700 microregionalismi di cui l’80% (2137) toscanismi. Le 27 microetichette sono così distribuite (tra parentesi indichiamo il numero dei lessemi marcati diatopicamente):
I) di area sett.: piem. (59), lig. (27) (e genov.: 2), trent. (2), friul. (3), ven.[eto] (120) (e venez.: 3 e triest.: 1), lomb. (52) (e milan.: 20), emil. (25), romagn. (10);
II) di area centr.: tosc. (2137) (e fior.: 1, pis.: 5, sen.: 1), march. (6), umbro (2), laz. (10) (e roman.: 136);
III) di area merid.: abruzz. (5), camp. (4) (e napol.: 11), pugl. (6), calabr. (2), sicil. (48);
IV) di area sarda (7).
Per esigenze di spazio la nostra esemplificazione microdialettale, sarà limita ad alcune microregioni e a pochissimi microregionalismi, assenti per lo più nell’uso letterario dei romanzi Strega 1947-2006.
Fra i lombardismi, sono state rilevate 52 voci di area lombarda: 47 RE e 5 DI con 3 regionalismi grammaticali:
il I. art.det.m.sing. I [2] precede il nome proprio di persona: hai visto il Mario?, (1211):
F. Tomizza (istriano) 1977 La miglior vita: “L’Antonio mi scrisse di venire subito a Capodistria, il nuovo rettore doveva parlarmi. Partii allarmato dal cambiamento inatteso e dall’ostinato silenzio del parroco”.
G. Testori (lombardo di Novate Milanese) 1959 Il ponte della Gisolfa: (i) “Ancora uno come il Michele, terrone e spavaldo come lui, anche se d’altra creanza e d’altri vizi: invece del vino, l’eleganza, il gioco, le donne e chissà che altro! Per non lavorare e esser sempre lí”; (ii) “Sigillando l’argomento il Michele aveva però ribattuto: ‘Comunque il Raffaele verrà. Noi non siamo come voi che vi dimenticate l’uno dell’altro: noi al sangue crediamo’”.
1la I. art.det.f.sing. I 1 | precede un nome proprio femminile: la Silvia:
S. Vassalli (genovese) 1991 La chimera:
(i) “Anche l’altra ragazza, la Carla, era spaventatissima per ciò che era successo e badava solo a scolparsi, gridava: ‘Non è colpa mia! Io ho cercato fino all’ultimo di tenerla! (La ruera). È stata lei a farla cadere!’”
(ii) “E pazienza ancora – dicevano le comari – se la Francesca fosse andata a prendersi un maschio, i maschi crescono e lavorano nei campi; ma andare a prendere una femmina, in città, era una cosa che non stava né in cielo né in terra, che non s‘era mai udita”.
nèh [a]inter. piem., lomb. colloq., spec. in frasi interrogative, per chiedere conferma di quanto detto: neh che non ti piace il pesce?; anche in frasi affermative, con valore pleon.: te l’avevo detto, neh, che saresti stato bocciato!; [b] anche s.m.inv., av. 1533:
B. Fenoglio (piemontese di Alba) 1955 La malora: “– Non hai bisogno d’alzarti tu. Dài una voce alla servente. Mia nonna diede una voce alla servente e poi disse a mio padre: – Neh che una goccia di fernet nel caffè ti farebbe piacere? – Mio padre era solo da vino e disse di no. – Ma non lo sai che una goccia di fernet nel caffè t’arrangia lo stomaco?”.
cadrèga s.f. DI piem., lomb. sedia, 1937:
S. Berlusconi “non siamo attaccati alla cadrega” (in “Corriere della Sera” 8 nov. 2011).
B. Fenoglio (albese, piemontese) 1955 La malora: “– Voi non mi crederete, ma sono a una mira che sto pensando d’imparare a suonare il clarinetto per guadagnarmi qualcosa nelle feste. Stemmo a vederlo andarsene col cadreghino sulla spalla, e quel giorno capii che i preti giovani somigliano un po’ a noi servitori, hanno fortuna o sfortuna a seconda dei parroci che imbroccano, preciso a noi coi nostri padroni”.
Vi sono circa 20 voci di area milanese (5 RE e 15 DI):
bàmba 2. s.m. e f.inv. DI stupido, rimbambito (ca. 1684):
G. Testori (lombardo di Novate Milanese)1959 Il ponte della Ghisolfa: “‘Che scemo, quel Romeo!’ si disse. ‘Farsi cogliere con le mani nel sacco! Ma se devi rubare, ruba bene. Cosa pretendi, o bamba, che il padrone ti veda e ti dica anche grazie?’”.
baùscia s.m. e f.inv. DI [1] fanfarone, sbruffone | [2] estens., scherz., abitante di Milano (1954):
G. Testori 1959 Il ponte della Ghisolfa: “Urla, nomi, lanci d’evviva, li assalirono: delle bauscie! ‘Ecco cosa siete: delle bauscie!‘’. ‘Diglielo, Brianza, che stasera ci facciamo il boogie!’ ‘C’è lo spumante!’”.
bigiàre v.tr. marinare la scuola; anche ass.: hai bigiato anche oggi?, 1918:
L. Romano (piemontese di Cuneo) 1969 Le parole tra noi leggere: “Non che al San Ciro fossero severi per la disciplina: per esempio non mi avvertivano mai se lui bigiava la scuola”.
In area meridonale, e in particolare per il napoletano, si registrano 11 voci RE napol., nessuna DI, tutti sost. tranne un agg.:
fetenz/ìa s.f. pop., [1] sporcizia, sudiciume, insieme di cose sporche: togli queste fetenzie dalla mia camera! | [2] fig., azione sleale e ignobile: hai fatto proprio una fetenzia!, 1963:
G. Montesano (napoletano) 1999 Nel corpo di Napoli: “‘Il prete, Landrò, il prete!’ lo aggredii. ‘Che cazzo me ne fotte di Morvo e del tuo metodo! Mo’ ‘e parlà! Mo’ devi dire tutto quello che sai su quella fetenzia di prete!’”.
scarrupàto agg. [1] di casa o centro abitato, in rovina, fatiscente, diroccato | [2] estens., pop., di qcn., trasandato, malvestito, 1990:
D. Rea (napoletano) 1993 Ninfa plebea: “La cortina d’o Sorice era una farragine scarrupata di case ancor più miserabile del resto di Nofi”.
Per il piemontese si registrano 59 voci: 57 RE e 2 DI; 25 le voci del periodo 1901-2000. Tra cui:
cottoléngo s.m. 3. ster., scemo, stupido, sec. XX:
P. Levi (torinese) 1979 La chiave a stella: “Il quarto non me lo ricordo bene: era un tipo regolare, come ce n’è dappertutto, con la faccia un po’ da cottolengo”.
gèrbido s.m. terreno brullo, incolto, simile alla brughiera; [B] anche agg.: terreno gerbido, radura gerbida, 1913:
(i) s.m. P. Levi 1963 La tregua: “Rallentò davanti al campo, sterzò ed entrò sobbalzando sul gerbido che si estendeva davanti alla bizzarra facciata”.
(ii) agg. G. Arpino 1964 L’ombra delle colline: “Tornato a casa, l’uomo si sentí derubato, cominciò a guardare il campo gerbido sotto la finestra della stalla, senza piú voglia di sottostare alla necessità di zapparlo”.
3rùsco s.m. piem., lomb. fatica quotidiana, lavoro, mestiere: il rusco non mi manca, av. 1956:
P. Levi 1979 La chiave a stella: “Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di piú, e con piú clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa”.
pompista s.m.3. variante fono-morfologica di ‘pompiere’ (1942).
Per il romanesco, vi sono 136 voci: 53 RE e 83 DI, ovvero a parte i due regionalismi grammaticali (2 interiezioni); le voci del periodo 1901-2000 sono 21 RE e 30 DI.
6a inter. DI precede sostantivi, aggettivi e nomi propri per richiamare l’attenzione: a Nando!, a Giovanni; anche come rimprovero: a scemo!, 1888:
(i) P.P. Pasolini (bolognese) 1955 Ragazzi di vita: “‘Nun te la ricordi,’ gridò con voce acutissima, che non l’avrebbe fatta star zitta nemmeno Gesù Cristo, ‘a zozza, quanno che tu marito è venuto a casa e t’ha trovato co l’amico, dentro il letto davanti a li du fiji piccoli?’”.
(ii) altro es. pasoliniano 1955 A Anto! [...].
(iii) P.P. Pasolini 1959 Una vita violenta: “Il Cecio alzò una gamba, disse: ‘Attenti’, e ammollò un peto. Tutti si misero a ridere, dicendogli: ‘A zozzo, ‘ste cose se fanno davanti a le signore?’, e Tommaso approfittò di tutta quell’allegria, per spesare anche da lì”.
(iv) un es. di P. Levi appresso: sub ahò: a russacchiotti.
ahò inter. DI [1] per richiamare l’attenzione di qcn.: ahò, vieni qua! | [2] per esprimere irritazione, stupore, sorpresa e sim.: ahò, m’hai proprio stufato! ahò, ma dove vai?, 1879:
P. Levi (torinese) 1963 La tregua: “Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese fiato, e gridò: ‘Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski. Ce l’avreste una gallinella da vendere?’”.
P. Volponi (marchigiano di Urbino) 1991 La strada per Roma: “Un altro passo venne da un’altra parte, piú rapido e in discesa: – Ahò, scarriolanti, cominciate presto”.
1caciàra s.f. DI chiasso, 1931:
P.P. Pasolini (bolognese) 1955 Ragazzi di vita: “In quel momento quelli che stavano a far caciara intorno al Monnezza che sollevava i pesi, si spostarono in massa verso il trampolino”.
P.P. Pasolini 1959 Una vita violenta: “Davanti al bare era tutto pieno di motociclette rosse, con sotto il pergolato una caciara di giovani che scherzavano o litigavano”.
marchettàra s.f. DI prostituta, 1965:
P.P. Pasolini 1959 Una vita violenta: “‘Un preservativo!’ – ‘Ma vaffan[culo]!’ gli dissero intorno, alzando una fratta di cere. – Come no! gridò lo Sciacallo, ‘co’ quelle marchettare de le coche, ne fanno pochi de impicci co’ quei facchini là, che portano la robba!’”.
pennichèlla s.f. sonnellino pomeridiano, 1946:
P.P. Pasolini 1959 Una vita violenta: “Poi s’andava a fare una pennichella, e si svegliava col vomitaticcio, ingelito”.
sciroccàto [A] agg. 2. svampito 1949; [B] anche s.m.:
M.G. Mazzucco (romana) 2003 Vita: “Il ristorante era mezzo vuoto. Rocco sapeva che il mercoledì serviva Tony Viggiani, lo sciroccato cameriere sordomuto amico di Nicola”.
zozzo agg.. DI var. fonologica di sozzo:
P.P. Pasolini 1955 Ragazzi di vita: “‘A disgrazziato, che te possino ammazzatte te e quer imbriacone zozzo de tu’ padre!’. ‘Sì, e quella chiavicona de mi madre,’ ciancicò Alduccio tra i denti, mentre nudo sul letto s’infilava i mocassini”.
Sono cinque le voci DI e 43 quelle RE sicil., tutti sostantivi tranne due verbi; 15 (13 RE + 2 DI), invece, le voci del periodo 1901-2000.
voscènza s.f. in Sicilia, titolo usato nel rivolgersi a persone di riguardo, 1961:
G. Tomasi di Lampedusa (palermitano) 1959 Il Gattopardo: “‘Voscenza benedica,’ mormorarono Pastorello e Lo Nigro, i due affittuari di Ragattisi che avevano portato i carnaggi, quella parte del canone che si pagava in natura”.
carùṣo s.m. [1] ragazzo | [2] in Sicilia, garzone con salario fisso, 1892:
V. Consolo (siciliano di Sant’Agata di Militello ME) 1992 Nottetempo casa per casa: “‘Quando torni?’ chiese Grazia. ‘Devo sistemare il caruso da mia madre’”.
dammùso s.m. [1] abitazione in pietra con il tetto a volta, tipica di Pantelleria | [2] estens., catapecchia, 20° sec.:
G. Bufalino (siciliano di Comiso RG) 1998 Le menzogne della notte: “Lei aveva appena aperto le labbra ai falsi lai della parte che fu presa da doglie vere, sicché dovettero condurla a braccia nel vicino dammuso, dove cavallari e bovari alloggiavano, e qui, su una panca, aiutarla a sgravarsi”.
marranzàno s.m. sorta di scacciapensieri, tipico della Sicilia 1942:
G. Sapienza (catanese) 1967 Lettera aperta: “Lo sentivo adesso, monotono e rassicurante come il suono del marranzano. Non si pensa a niente quando qualcuno suona il marranzano: aliena – che in siciliano significava: diverte, scaccia i pensieri”.
picciòtto s.m. 1. giovanotto 2. giovane membro mafioso 3. TS stor. 1860 componente delle bande siciliane di Garibaldi:
(i) M.G. Mazzucco 2003 Vita: “Ci erano andati di mezzo quei due picciotti, Cincotta e Misiani. Nonostante tutta la sua diplomazia, non s’era potuta ricomporre la faccenda coi siciliani”.
(ii) V. Consolo 1992 Nottetempo casa per casa: “Rivide l’enorme ficus coi rami penduli, interrati e propaganti come dorsi di serpi mostruosi o tentacoli del polpo che aveva visto in filme, dov’era stato minacciato dal picciotto maffioso”.
2sciàra s.f. [1a] accumulo di detriti vulcanici [...] di una colata lavica; [1b] il terreno vulcanico, av. 1783.
G. Bufalino 1988 Le menzogne della notte: “La sciara, ai due lati della trazzera, pareva eruttata or ora da fauci di ferro, d’un qualche fossile drago che sotto le palpebre covasse, non spenta, la folgore del primo fiat”.
scasàto 3. agg. di occhio, sbarrato, spalancato:
L. Sciascia (siciliano di Racalmuto) 1961 Il giorno della civetta: “– Se permette – disse il carabiniere Sposito, per la sua immobilità divenuto come invisibile in quella stanza – se permette posso dirne qualcuna, di ingiurie che sono nomi di cose: lanterna, uno che ha gli occhi scasati come lanterne; peracotta, uno che è fradicio di non so che malattia; vircuocu, albicocca, non so perché, forse perché di faccia inespressiva; ostiadivina, perché ha la faccia tonda”.
trazzèra s.f. via, sentiero spec. per il passaggio di greggi e mandrie; tratturo, 1754:
Tomasi di Lampedusa 1959 Il Gattopardo: “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzèri, con dodici lupare nella schiena”.
sconóscere v.tr. 2. sicil., ignorare, non sapere (av. 1363), der. di conoscere con s-, neoformazione.
2ṣbavagliàto agg. ‘di cavallo, con una macchia bianca sul muso’, 1857, der. di bavaglio con s- e 1-ato, neoformazione.
I toscanismi costituiscono decisamente – per evidenti ragioni storiche – la massa schiacciante dei regionalismi (2132 RE e cinque DI) con oltre il 50% (2137 voci circa/ 4000), così distribuiti cronologicamente: due nel periodo 901-1000 (10° sec.), nessuno es. nell’11° sec., 14 nel 12° sec. (1101-1200), 159 nel Duecento, 307 nel Trecento, 120 nel Quattrocento, 196 nel Cinquecento, 137 nel Seicento, 143 nel Settecento (1701-1800), ben 506 nell’arco del 1801-1900; e infine 139 nel sec. 1901-2000. Un po’ paradossalmente, non vi è quasi nessuna attestazione letteraria dei macroregionalismi di cui abbiamo cercato un riscontro nell’uso della lingua letteraria del sessantennio 1947-2006 (bischerata, bischeratura, salsementeria, a ripicco, scampolo itt., spepera, dotta s.f., bizza ‘bigotta’, tiritombola, babbomorto, fettunta, grimo, cionco, bruschetta, pìccioli, marronsecco, cremeria, lonza). Ci limitiamo pertanto a segnalare giusto qualche esempio lessicografico:
1la II. pron.pers. di terza pers.f.sing. II 3. come soggetto, in posizione proclitica, con funzione gener. pleonastica: la va male, l’è così, la mi buttò le braccia al collo.
1le II. pron.pers. di terza pers.f.pl. II 3. come soggetto, in posizione proclitica, con valore gener. pleonastico: le son ciance.
3pùnto 1. agg., preceduto da negazione, nessuno: non ne ho punta voglia; – 2. pron.indef., solo sing., niente [affatto?]: non ho mangiato punto; – 3. avv., preceduto da negazione, affatto, per niente, niente affatto: non ci vede punto | non preceduto da negazione: «Sei arrabbiato?» «P.», fine 12° sec.-1ª metà 13° sec.
me /te pron. pers. di seconda pers. sing., usato in funzione di soggetto: me e te siamo due stupidi, te vai, poi ti raggiungo [sub te, manca sub me].
Un esempio è peraltro presente in un contesto settentrionale di un autore lombardo:
G. Testori (lombardo di Novate Milanese) 1959 Il ponte della Ghisolfa: “poi voltandosi verso il Candela e sollevando con forza la mano in modo che il braccialetto oltre che rilucere meglio potesse anche tinnire: ‘Neh, te, terrone della madonna. Cosa ve ne importa a voi chi è che me l’ha dato?’”.
A livello lessicale:
baccello s.m. 2a. ‘fava, pene, pisello, uccello’:
M.G. Mazzucco (romana) 2003 Vita: “Lo sa come finisce lo scherzo: tutti si calano le brache e mostrano il baccello. Chi ce l’ha più corto è recchione. Diamante ce l’ha più corto. Ma non è recchione, è solo più piccolo, compirà dodici anni a novembre. I ragazzi però lo sfottono comunque, e dicono che presto Celestina diventerà la gherla più carina di Mulberry”.
bischero 1. tosc., [2] pop., persona stupida, grullo 1521:
C. Malaparte (toscano di Prato)1950 La pelle: “– ‘Come ti chiami?’ – ‘Mi chiamo come mi pare’ rispose il ragazzo’. – ‘O che gli rispondi a fare, a quel muso di bischero?’ gli disse un suo compagno seduto accanto a lui’. ‘Gli rispondo per insegnargli l’educazione, a quel coso’ rispose il ragazzo, asciugandosi col dorso della mano la fronte madida di sudore”.
gommàio s.m. variante fono-morfologica di gommista‘ 1920.
Delle 120 voci venete (RE 112 e 8 DI), 27 (26 RE e una DI) rientrano nell’arco del 1901-2000. Si registra anche un regionalismo grammaticale (esclamazione):
òstrega 2. inter., esprime meraviglia, stizza, disappunto o anche energica e vivace affermazione, (1958).
3stòcco s.m. stoccafisso, sec. XX, tratto da stocca/fisso (“RE ven.” ma anche meridionale):
R. Rea (napoletano) 1993 Ninfa plebea: “A mezzogiorno la frequentavano muratori, imbianchini, falegnami, tappezzieri, cocchieri, facchini, balordi, vagabondi e mendicanti che mangiavano quasi sempre stocco o baccalà con le patate o soffritto con broccoli all’arrabbiata o alici fritte o mèvez’, milza imbottita di prezzemolo, aglio e peperoncino così forte da provocare male ai denti”.
G. Montesano (napoletano) 1999 Nel corpo di Napoli: “Zizì intanto enumerava quello che ancora c’era da mangiare, scongiurandoci di ‘lassà nu pucurillo ’e spazzio’ per i peperoni ‘imbottonati’, ‘’o piezzo ’e stocco’ in cassuola, ‘’a zuppetella ’e marruzze’, ‘’a scapece’, ‘’o ssalame sott’uoglio’, ‘’n assaggio ’e trippa’, ‘’o tortano cu’ ll’ova sode’...”.
Per dare un’idea del diverso modo con cui i dizionari segnalano la regionalità della lingua italiana, si riportano qui i risultati di un confronto effettuato su un’esemplificazione minima, costituita da 25 voci suddivise tra: a) regionalismi morfologici e sintattici; b) regionalismi suffissali; c) regionalismi lessicali segnici; d) regionalismi lessicali semantici; e) varianti regionali morfologiche. L’analisi della regionalità linguistica, filtrata da sette dizionari – De Mauro 2000, Treccani 2005, Sabatini-Coletti. 2007, Gabrielli 2008, Garzanti 2010, Devoto-Oli 2013, Zingarelli 2013 –, tra loro analoghi e raffrontabili per date di edizione e dimensioni, consente subito di rilevare che la caratterizzazione geografica non è un tratto riconosciuto in maniera pacifica nei dizionari. Infatti:
1. alcune voci mancano in questo o in quel dizionario (esempi di disconferma);
2. altre voci sono regionali per alcuni dizionari ma panitaliane per altri (ex regionalismi);
3. il carattere (diatopico) della regionalità (o dell’ex regionalità) è indicato spesso con etichette diverse (macro, microdiatopiche, di regioni o di singole città);
4. l’ identificazione dell’etimologia diacronica (dialettalismi) e sincronica (neoformazioni) è problematica perché i dizionari spesso al posto dell’etimo dialettale prossimo indicano l’etimo remoto (cioè l’etimo dell’etimo dialettale), o semplicemente non indicano alcun etimo, presupponendo un presunto trasparente etimo sincronico;
5. nel caso delle neoformazioni semantiche, l’etimo dialettale è sistematicamente omesso;
6. le datazioni di prima attestazione sono quanto mai aleatorie, provvisorie e necessitano di opportune ricerche (a cominciare dalla ricerca via Internet, con Google libri).
Per ciascuna voce, riportiamo innanzitutto i dati cumulativi dei sette dizionari, riguardo all’identificazione: a) dei regionalismi, b) degli ex regionalismi (voci panitaliane), c) dei dialettalismi, d) delle neoformazioni, e) delle disconferme, cioè delle voci ignorate.
Il costrutto con «prep. a + SN personale» (es. ho visto a Maria) è region. (con etichette diverse: merid./centro-merid./sud) per tre dizz. (DeM, Sab.-Col., Garz.), negli altri quattro prevalendo la disconferma dell’uso.
La costruzione «inter. a + SN» (es. a Nando!, a scemo!) è roman./region. per tre dizz. su sette, gli altri quattro ignorano il lemma.
Il sintagma «art. il/lo/la + Nome personale masch./femm.» (es. il Mario, la Carla, l’Antonio) è presente in cinque dizz. con la marca «lomb.» o genericamente «region.» o «region. sett.» o anche «sett. e Toscana»; l’esemplicazione con i tre allomorfi (il/l’, la) è completa in Gabr., Garz., solo il e la (in DeM, Zing.), solo la (in Sab.-Col.). L’uso è del tutto ignorato (disconferma) in due dizz. su sette.
Il suffisso -aro è diatopicamente region. (centr., merid., da Roma) per quattro dizz. (Zing., Trecc., Garz., Gabr.); panit. per tre (DeM, Dev.-Oli, Sab.-Col.). Etimologicamente «non-tosc.» per quattro (DeM, Dev.-Oli, Sab.-Col., Trecc.).
Il suffisso -icchio è regionalismo solo per due dizz. (Sab.-Col., Trecc.) su cinque, e due su sette (Garz. e Gabr.) non lo lemmatizzano neppure (disconferma); panit. (ex region.) per tre su cinque (DeM, Zing., Dev.-Oli). Altri suffissi non vengono lemmatizzati ma indicati solo nella sezione Etimologia di singoli lessemi, così -eggia tosc. (sub vangheggia), -occhio tosc. (sub marmocchio), -occo tosc. (sub anatroccolo, marzocco), -ugio tosc. (sub calderugio, matterugio), -ule tosc. (gorgozzule, grembiule).
Il s.m. camallo è regionalismo con etichette diverse per sei dizz.: (lig., sett., dial.) per quattro dizz. o nella definizione («Genova, Liguria») per due. Per uno (Dev.-Oli) è voce panit. (ex regionalismo). Dialettalismo genovese per uno (DeM), gli altri sei indicando l’etimo remoto (arabo).
La carpetta è regionalismo (merid., region.) per due dizz. (DeM, Trecc.), per gli altri cinque essendo panit. e burocr. (ex regionalismo); etimologicamente per tutti con etimo remoto (ispanismo).
Il s.f. cazziata è regionalismo sincronico (merid., region.) per cinque dizz.; per due invece è voce panitaliana (Trecc. e Garz.) con marca diafasica («volg.»). Etimologicamente è neoform. per tre (DeM, Dev.-Oli, Garz.); con etimo ibrido per 4/7 (Zing., Sab.-Col., Trecc., Gabr.).Il s.f. comanda è regionalismo settentr. per quattro dizz. (DeM, Zing., Dev.-Oli, Garz.), e per uno (Sab.-Col.) sembrerebbe panitaliano, marcato diastraticamente (gerg.); (in effetti la comanda è diffuso anche al Sud, in Sicilia, tra i camerieri, come termine tecnico più che gergale: ‘ecco la tua comanda!‘). Due su sette (Trecc., Gabr.) non lo registrano neppure (disconferma). Per tutti neoform., non dialettalismo (deverb. a suffisso zero da comandare).
Il composto malafemmina (o mala femmina) è region. con diverse etichette (merid., region., napol.) per sei dizz., per uno essendo panitaliano o ex regionalismo (Trecc.). Etimologicamente neoform. per tutti.
L’agg. micragnoso ‘tirchio’ è per tutti (7/7) region. con diverse etichette (centr., roman., region.); e neoform. (denominale suff. con -oso), implicita in uno (DeM).
Il suffissato minchiàta è region. per tutti i sette dizz. con la stessa macroetichetta (merid.) affiancata da una diafasica («volg.») e in Treccani diastratica («pop.»). Etimologicamente neoform. (denom. suff. con -ata), implicita in uno (DeM), anziché dialettalismo (dal sic. minchiata).
Il s.m. palazzinaro è region. («centromerid.») solo per un diz. (De Mauro), per gli altri sei invece panit. e «spreg.» (5/7), non connotato per uno (Dev.-Oli). Etimologicamente: dialettalismo (4/7) per Sab.-Col., Trecc., Garz., Gabr.; etimo ibrido 1/7 (Dev.-Oli); neoform. (2/7) (Zing. e implicita DeM).
Il s.f. pennichella è region. per cinque dizz. con etichette diverse (roman., centr.) e generiche (region., dial.); panit. (ex regionalismi) per 2/7 (Zing., Garz.) e con marca diafasica («fam.») in Garzanti. Etimologicamente: neoform. 1/7 (Zing.), dialettalismo 3/7 (DeM, Dev.-Oli, Sab.-Col.), dal lat. 3/7 (Trecc., Garz., Gabr.),
Il s.f. sciacquetta ‘donna insignificante, frivola’ è region. (centr., region.) per quattro dizz. e panit. (ex regionalismo) in uno (Dev.-Oli) con marca diastr. («gerg.»), in 2/7 (Trecc., Gabr.) essendo voce del tutto ignorata (disconferma). Etimologicamente: neoformaz. per tutti 5/5. Strutturalmente per 4/5 – ma erroneamente – deverbale suff. con -etta; in realtà deverbale a suffisso zero di *sciacquettare, come indicato in Zing., cioè con -ettàre suff. che forma verbi alterati in cui esprime valore diminutivo, frequentativo.
Il s.m. settimanile è region. (merid., region.) per 5/6 dizz.; per 1/6 (Zing.) è invece panit. (ex region.), per un altro (Trecc.) è inesistente (disconferma: 1/7). Etimologicamente: neoformaz. per 3/6 (DeM., Zing., Sab.-Col.), per gli altri tre derivando dal lat.
La stidda per 3/5 dizz. è sincronicamente voce «merid.» (DeM., Gabr.) e «region.» (Dev.-Oli); invece panitaliana (ex regionalismo) per 2/5 dizz. (Zing. e Trecc.); per Trecc. con marca diafasica («gerg.»); 4/5 ne indicano l’etimo diacronico («vc. sicil.»; «dal siciliano»); etimo diacronico implicito per Dev.-Oli. Per gli altri due (Sab.-Col., Garz.) è invece voce inesistente (disconferma 2/7).
Lo struscio è regionalismo segnico per tutti i sette dizz.: nell’intestazione di lemma con etichette specifiche per quattro dizz.: «merid.», «centro-merid.» (DeM), «merid., centr.» (Zing.), «merid.» (Garz.), per due con etichetta generica «region.» (Sab.-Col., Trecc.); solo nella definizione «A Napoli» per uno (Dev.-Oli), che ritorna ridondantemente anche in altri quattro. Neoformazione (deverb. a suffisso zero da strusciare) in tutti e non dialettale.
Il verbo tampinare, per tutti etimologicamente dialettalismo, è regionalismo («region., sett.») per 5/7 e panit. (ex regionalismo) per gli altri due (Trecc., Garz.). Per tutti etimologicamente dialettalismo (milan.).
La tapparella è regionalismo segnico in sincronia nell’intestazione di lemma solo per due testi e con diverse etichette: specifica «sett.» senza etimo (DeM) e generica «region.» (Trecc.); gli altri tre optano per una marca diafasica: «fam.» (Dev.-Oli) o per nessuna (Garz., Gabr.); solo 2/7 segnalano la dialettalità etimologica nella sez. dell’Etimologia: «vc. milan.» (Zing., Sab.-Col.); per gli altri cinque trattandosi di neoformaz. deverbale tappa/rella (anziché denominale: tapp/arella).
Il s.f. trazzera è region. per tutti i sette dizz. («sicil.», «in Sicilia», region.). Etimologicamente dialettalismo per 4/7 dizz. (DeM, Zing., Sab.-Col., Garz.), francesismo per 3/7 (Dev.-Oli, Trecc., Gabr.).
Il verbo pomici/are è regionalismo semantico per tre dizz. su sette, con diversa marca diatopica nell’intestazione di lemma: «centrosett.» (DeM.) e «roman.» (Zing. e Garz.), ma voce panitaliana (ex regionalismo) per gli altri testi (4/7), che optano invece per diverse marche: «pop.» (Devoto-Oli, Sab.-Col. e Gabr.) e «fam.» (Garz.).
Il region. semantico sconoscere ‘ignorare, non conoscere’ è presente solo in due dizz. (DeM e Dev.-Oli) in quanto «sicil.» e «region.», e disconfermato negli altri 5/7. Neoformazione regionale.
Il region. semantico tornare tr. ‘restituire’ è region. sett. (ma vitale anche in Sicilia) in 3/6 dizz. (DeM. Zing., Dev.-Oli), e invece panit. in 3/6 con marche diafasiche: «non com» (Sab.-Col.), «lett.» (Trecc., Gabr.), mentre è ignorato (disconferma) in 1/7 (Garz.). Neoformazione regionale.
Il s.f. stupidata è voce «sett.» nell’intestazione di lemma solo per due dizz. (DeM. e Zing.: senza etimo) su sette, gli altri cinque (Dev.-Oli, Sab.-Col., Trecc., Garz., Gabr.) presentano la voce come panitaliana (ex regionalismo), e all’indicazione diatopica due di essi (Trecc., Gabr.) sostituiscono una marca diafasica («fam.»). Neoformaz. (denom. suff. con -ata) non dialettalismo.
Comparativamente, il maggior numero di regionalismi è individuato in primo luogo in De Mauro al 92,0% (23/25 regionalismi), seguito (II) da Zing. e Sab.-Col. al 68,0% (entrambi con 17/25 regionalismi); al III posto si collocano Dev.-Oli, Garzanti, Gabrielli col 52% (tutti e tre con 13/25 regionalismi), e in chiusura, al IV posto, Treccani con il 44% (11/25 region.). Ci fermiamo qui, per esigenze di spazio. Ma il lettore è stato sufficientemente allertato perché possa continuare da solo, attivamente, nel rilevare i dati forniti dalla lessicografia sulla regionalità del lessico italiano e la sua derivazione diacronica, e poterli criticamente confrontare e verificare alla luce della propria competenza di italofono nativo.
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