La religione e la politica
Il governo dell’Impero tra pagani e cristiani fra III e VI secolo
La conversione di Costantino fu un fatto epocale, ma al momento solo pochi cristiani intransigenti pensarono che da questo si dovessero trarre conseguenze immediate e definitive. Il mondo romano era abituato a imperatori che si sceglievano un dio cui affidare le sorti proprie e, quindi, dell’Impero. Lo avevano fatto Aureliano e, pochi anni prima di Costantino, Diocleziano e Massimiano. La profonda trasformazione che la vittoria del cristianesimo produsse si coglie meglio se osservata nel lungo periodo. Lo stesso cristianesimo si trasformò, a contatto con il potere. Il ritmo e lo stile del mutamento non furono gli stessi per le classi dirigenti e per il popolo, per le donne e per gli uomini, ma variarono da regione a regione, da Oriente a Occidente. Cambiò infine il rapporto tra istituzioni e religione, e tra il governo e gli individui, in un ambito straordinariamente importante: la fede e la libertà di professarla, la tolleranza o repressione da parte del potere politico, l’ortodossia e chi la decide e impone, la definizione e conseguente punizione dell’eresia. Il mutamento della mentalità fu profondo, ma non privo di ambiguità e contraddizioni.
Nell’arco di oltre due secoli si dispiegò una vicenda che conobbe fasi di dialogo, di confronto e di scontro tra mondi e mentalità che alla lunga si rivelarono incompatibili. Infine, il potere politico impose una fede sulla quale non era più possibile alcun compromesso: un problema con il quale oggi bisogna misurarsi1. Di questo processo si intende qui analizzare l’aspetto che riguarda le élite di governo, lasciando da parte la questione della diffusione della nuova religione tra le masse e come ciò influenzò la società tardoantica.
Diocleziano e Costantino considerarono la politica religiosa un aspetto essenziale della propria azione di governo; le loro scelte furono radicalmente differenti, e nell’arco di pochi anni l’Impero dovette misurarsi con un governante che aveva adottato una nuova religione, perseguitata fino a poco tempo prima. Questa religione era l’unica che ne escludeva ogni altra; soprattutto, essa non consentiva che gli abitanti dell’Impero partecipassero ai culti pubblici, i riti tradizionali della religione capitolina – praticati per secoli senza alcun conflitto tra fede personale e adesione collettiva, in quanto comunità di cittadini e sudditi –, in particolare il culto imperiale.
Nella mentalità romana prevalente, l’aspetto privato della religione era irrilevante: la fede individuale non era mai stata messa in discussione dall’autorità, se non quando fosse diventata un problema d’ordine sociale. La decisione di Costantino poneva dunque problemi enormi nell’attività di governo, in quanto questa si fondava sull’osservanza di riti il cui valore politico era accettato senza discussione, qualunque fosse la fede, o la mancanza di fede, dei singoli. Tuttavia, perché il cristianesimo potesse dispiegare i suoi effetti nel rapporto tra politica e religione occorse almeno un secolo: un tempo non lunghissimo, se si pensa alle condizioni politiche e sociali nelle quali la conversione dell’imperatore ebbe luogo, ma sorprendentemente lento se si considera la carica rivoluzionaria che essa portava con sé.
Le ragioni di questa situazione sono molteplici e riguardano, in generale, la struttura politica e sociale dell’Impero tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, il radicamento dei culti come fattore di identità forte dei ceti dirigenti e di coesione e creazione di consenso tra i ceti non elitari, la presenza di una mentalità religiosa che limitava il conflitto in materia di fede. Con questo complesso di fattori Costantino e i suoi successori dovettero fare i conti, con maggiore o minore consapevolezza della irriducibilità della loro fede cristiana alla politica religiosa tradizionale dell’Impero.
La scelta di fede di Costantino non ebbe conseguenze apprezzabili sull’organizzazione del governo imperiale, e sulle élite che vi presiedevano. Al contrario, tra Diocleziano e Costantino si realizzò, in sostanziale continuità, un profondo riordinamento delle istituzioni. Gli aspetti più significativi furono: la creazione di un apparato di funzionari palatini, che risiedevano presso le corti imperiali, quindi lontano da Roma; la sempre più marcata distinzione tra comandi militari e funzioni civili; il mantenimento di funzioni tradizionali tipiche di un cursus senatorio e la progressiva affermazione della prassi di legare lo status alla funzione – alle varie cariche, infatti, nel corso del IV secolo corrispose l’ammissione all’ordine senatorio, con la concessione del clarissimato, in seguito distinto in vari gradi: clarissimus, spectabilis, illustris. In tal modo, si ebbe un ordine senatorio formato da gruppi diversissimi, che non coincise con la composizione effettiva dell’assemblea. In Occidente, il numero dei membri dell’ordine fu portato, forse già con Costantino o poco dopo, a duemila. Con la fondazione di Costantinopoli si formò un Senato orientale, di prestigio minore, che raggiunse lo stesso numero di membri alla fine del regno di Costanzo. I nuovi membri vennero dal vecchio ordine equestre e dalle aristocrazie municipali. Un’aristocrazia di funzionari si affiancò dunque a quella di nascita, formata dalle vecchie famiglie senatorie sopravvissute alla crisi del III secolo e da quanti ricoprivano le cariche del cursus tradizionale, innovato e precisato da Diocleziano e Costantino. Il cursus comprese, dalla fine del III secolo, le magistrature tradizionali, alcuni governi provinciali, la prefettura urbana e, dopo la riforma costantiniana, la prefettura del pretorio. Tra i governi provinciali, la novità di maggior rilievo fu la creazione delle province italiche, attuata da Diocleziano. Questa riforma creò le premesse per la formazione di un cursus le cui cariche erano relative soprattutto all’amministrazione di Italia, Africa e quindi Roma. Già con Diocleziano alcuni senatori di vecchia aristocrazia furono chiamati a queste funzioni, mentre alcuni novi homines venivano cooptati, sia da Diocleziano sia dal suo successore Costantino.
Nel passaggio tra Diocleziano e Costantino vi fu dunque una sostanziale continuità nella formazione dell’élite senatoria romana: Diocleziano affidò vari governi delle nuove province italiche a senatori, alcuni di antica nobiltà, e Costantino utilizzò uomini già attivi con Diocleziano e Massenzio per il cursus senatorio che si stava formando e per il governo di Roma. In questo senso, la continuità fu la cifra dominante. Il ridimensionamento dell’ordine equestre produsse un ampio ordine senatorio, composito, nel quale non vi era un senso di appartenenza forte se non per quanto riguardava i membri del Senato di Roma; questi si rafforzarono progressivamente come gruppo per il quale l’identità e la conservazione del proprio ruolo, dei rapporti sociali privilegiati, dello stile di vita furono prevalenti rispetto a ogni differenza di fede religiosa2. I senatori residenti a Roma, con vasti interessi in Italia e in alcune province occidentali, tra cui in primo luogo l’Africa, partecipavano all’assemblea, e formarono un nucleo molto caratterizzato. Di conseguenza, le stesse élite municipali ebbero contatti con Roma e con il gruppo dei senatori, attraverso i rapporti di clientela, mediati dai governi provinciali esercitati dagli aristocratici romani, ma rimanevano nelle loro sedi, come honorati, domi nobiles del tardo Impero. E gli stessi senatori che non avevano stabile residenza a Roma finirono per essere autorizzati ad abitare in provincia, almeno dal 3833. Questa nuova e articolata struttura istituzionale fu essenziale nel determinare i rapporti tra religione e politica.
L’adozione del Dio dei cristiani pose a Costantino un problema sul piano del governo. Tuttavia la presenza di una forte aristocrazia tradizionalista, la necessità di rafforzare la stabilità del sistema istituzionale da poco creato e in generale la difficoltà di mutare la secolare funzione pubblica dei culti e dei riti pagani fecero sì che la personale scelta religiosa dell’imperatore non si traducesse immediatamente in una nuova politica. Il fatto che si conosca principalmente il punto di vista cristiano sulla conversione di Costantino, e che tale punto di vista sia stato espresso, da Lattanzio ed Eusebio, con grande veemenza polemica e nella prospettiva dell’inevitabile vittoria cristiana, ha prodotto spesso una distorsione ottica nel valutare l’azione concreta di governo nella politica religiosa.
In realtà, per tutto il IV secolo l’appartenenza religiosa fu marginale nel formare le élite di governo e nel determinare i rapporti tra gli imperatori cristiani e i gruppi legati alle tradizionali pratiche di culto, come, in misura consistente, l’aristocrazia romana e le aristocrazie provinciali responsabili del culto imperiale4.
Dalla lettera di Costantino e Licinio del 313 che sanciva la libertà di religione alle leggi di Teodosio che infine proibirono i culti pagani, in circa ottant’anni i momenti di aperto dissenso religioso tra aristocrazie pagane e imperatore furono pochissimi e non particolarmente traumatici. Eppure, nel corso dello stesso periodo, molti aristocratici divennero cristiani, mentre altri, di grande autorevolezza, rimasero pagani. Entrambi i gruppi esercitarono le stesse funzioni di governo, ma la differenza di religione non definì in modo apprezzabile i rapporti politici e sociali, né l’operare concreto nelle magistrature.
Le politiche dei vari imperatori variarono anche in modo consistente, ma i rapporti con l’aristocrazia senatoria non rifletterono le scelte in materia di religione in modo conseguente. Costantino dovette affrontare il problema di essere cristiano in un mondo largamente pagano, che riteneva la personale scelta di un solo dio da parte di un imperatore non in conflitto con i culti tradizionali. Egli dovette inoltre emanare un provvedimento contro i sacrifici cruenti e probabilmente si astenne dal prendere parte a riti che non condivideva. Tuttavia l’imperatore affrontava problemi nuovi che avevano bisogno di tempo per trovare una soluzione univoca. La sua fu una politica oscillante, alla costante ricerca di un equilibrio con un mondo che credeva nelle tradizioni romane, praticava il culto dell’imperatore e, attraverso questi riti, affermava la sua lealtà; Costantino aveva bisogno di questi gruppi per governare.
I suoi interventi legislativi, oltre alla proibizione dei sacrifici cui fa riferimento la legge del figlio Costanzo nel 341, di cui non si conosce nulla e che comunque ebbe scarsa efficacia, riguardarono ambiti tradizionali come il divieto dell’aruspicina praticata in privato e la condanna delle pratiche magiche attuate a danno di qualcuno5.
Appare, già col primo imperatore cristiano, un aspetto che divenne tipico anche degli imperatori successivi: l’uso di un linguaggio dispregiativo e durissimo nei confronti delle pratiche pagane nei testi legislativi, di contro alla sostanziale inefficacia dei provvedimenti che dipese sia dal carattere occasionale e limitato delle norme, emanate in risposta a specifiche situazioni, sia dalla loro blanda applicazione per le più varie ragioni6.
In realtà molte delle energie di Costantino furono rivolte a governare il mondo cristiano, percorso da conflitti durissimi, sia in Africa, per lo scisma donatista, sia per la diffusione dell’arianesimo. A differenza della questione dei culti pagani, si trattava di problemi dottrinali e di controllo delle chiese e dei fedeli, che comportavano scelte in materia di fede e di giurisdizione: un insieme di problemi di enorme complessità, e del tutto nuovi dal punto di vista del governo imperiale, che rappresentarono, questi sì, l’esigenza di adattare le tradizionali pratiche di governo in materia di religione a una nuova mentalità e a nuove sfide, politiche e culturali.
Il figlio di Costantino, Costanzo II, ribadì le linee essenziali della legislazione paterna: a lui risale la prima costituzione nota sulla repressione dei sacrifici, con la formula Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Negli anni successivi i provvedimenti si intensificarono, la proibizione dei sacrifici fu reiterata e fu proibito l’ingresso ai templi; tuttavia, nel 342 un rescritto vietava la distruzione dei templi fuori delle mura, e si preoccupava di far svolgere i giochi che piacevano al popolo. Inoltre, nel 353 erano vietati ancora una volta i sacrifici notturni, che erano stati autorizzati da Magnenzio: un segno chiaro della persistenza almeno dei riti diurni.
Lo stesso Costanzo, d’altra parte, attuò una politica moderata nei confronti dell’aristocrazia pagana, che gratificò ampiamente durante la sua visita a Roma. La stessa rimozione dell’altare della Vittoria ebbe una risonanza negativa solo decenni dopo. Nei confronti dei pagani, dunque, il figlio di Costantino sembra aver continuato, al di là degli eccessi retorici che predicavano l’abolizione dei falsi idoli, la politica paterna, sostanzialmente attenta a non rompere con l’aristocrazia pagana; a questa continuò ad affidare importanti funzioni di governo, condannando aspetti dei culti pagani meno accettabili; una parte di queste leggi, sulla magia e la divinazione, era rivolta, sembra, a controllare nemici anche in ambito aristocratico, ma esse non ebbero conseguenze drammatiche nell’immediato7. Un pagano che considerava il conflitto religioso una sciagura, l’aristotelico Temistio, poté collaborare con l’imperatore in funzioni delicatissime, come la cooptazione di un gran numero di membri nel Senato di Costantinopoli. Tuttavia Costanzo, da ariano convinto, intervenne duramente nelle questioni dottrinarie e disciplinari del cristianesimo; questa politica, su cui si tornerà, rappresenta il fatto nuovo, e alla fine decisivo, per definire la nuova mentalità e la nuova atmosfera religiose nelle quali maturarono i rapporti tra fede e potere politico.
Un fatto significativo per comprendere la complessità delle relazioni con l’aristocrazia romana fu l’atteggiamento del Senato quando Giuliano ne cercò l’adesione con una lettera, dopo la sua acclamazione all’Impero. I senatori rifiutarono di appoggiare quella che consideravano un’usurpazione contro l’imperatore legittimo. L’apostasia di Giuliano era allora già chiara, nonostante qualche prudenza tattica, ma l’opzione religiosa non ebbe alcun rilievo nelle scelte dell’aristocrazia senatoria; questa allora, ancora largamente pagana, aveva sperimentato due generazioni di imperatori cristiani, aveva assistito ai provvedimenti contro alcuni riti, aveva fra i suoi membri molti autorevoli convertiti, ma il fattore religioso fu del tutto ininfluente nelle sue scelte fondamentali, basate sul lealismo e la paura di una guerra civile8.
Del resto, sappiamo che la politica religiosa di Giuliano creò problemi nei rapporti tra pagani e cristiani, più che favorire i primi. La sua esclusione dei professori cristiani dall’insegnamento dei classici fu disapprovata da un pagano come Ammiano Marcellino, ma anche da un cristiano colto come Gregorio di Nazianzo; si trattava di un patrimonio che i ceti elevati consideravano comune, un terreno d’incontro privilegiato al riparo dagli integralismi religiosi presenti in vari settori della società9.
Il governo dell’Apostata aveva creato situazioni difficili. Dopo il breve regno di Gioviano, che dovette svolgersi, per quanto sappiamo, all’insegna della moderazione, Valentiniano affermò il principio della libertà religiosa, sul cui valore più generale torneremo. Nel 371, infatti, in una costituzione indirizzata al Senato, Valentiniano riaffermava la liceità dell’aruspicina, purché non fosse esercitata in danno delle persone, e la distingueva dalle pratiche magiche, dai maleficia. Egli richiamava, a motivazione di questa disposizione, alcuni principi generali:
Haruspicinam ego nullum cum maleficiorum causis habere consortium iudico neque ipsam aut aliquam praeterea concessam a maioribus religionem genus esse arbitror criminis. Testes sunt leges a me in exordio imperii mei datae, quibus unicuique, quod animo inbibisset, colendi libera facultas est10.
Tuttavia Valentiniano attuò una feroce politica antisenatoria, autorizzando condanne a morte; non ricorse, per questo, a motivazioni religiose, ma utilizzò la tradizionale accusa di magia.
Valentiniano morì nel 375, e suo fratello Valente nel 378. Questi aveva dovuto affrontare una serie di problemi, per l’endemica conflittualità dottrinaria delle Chiese orientali, e finì per bandire il clero di persuasione nicena. Tuttavia, la politica verso i culti pagani fu improntata al principio della non ingerenza: si conoscono una serie di rescritti relativi alla restituzione alle chiese dei beni confiscati da Giuliano, la reiterata proibizione dei riti notturni, ma anche la proibizione ai preti di frequentare le case di vedove e orfani: un provvedimento, quest’ultimo, che richiama una pesante accusa al vescovo di Roma, Damaso, che avrebbe brigato per ottenere lasciti dalle vedove11. Le vicende della Chiesa, anche per la presenza di un grande vescovo come Damaso, furono un aspetto centrale del governo dei Valentiniani. Damaso fu protagonista di durissimi scontri, che provocarono numerose vittime, con Ursino e i suoi per l’elezione papale. Per la prima volta questo tipo di vicende coinvolse, come protagonisti, gli aristocratici romani. Fu una storia lunga e tormentata, che mise alla prova magistrati pagani e cristiani, divise il mondo cristiano e richiese l’intervento di Valentiniano e Graziano in diverse circostanze. L’elezione di Damaso fu sanzionata da un grande pagano, Vettio Agorio Pretestato, che da prefetto urbano, nel 367/368, espulse gli ursiniani. Era un provvedimento di ordine pubblico, che Valentiniano condivise, ma che indirettamente interveniva in questioni interne alla Chiesa. Le vicende della Chiesa, con il progredire della sua importanza e del suo radicamento sociale, erano ormai un problema di politiche pubbliche12.
Il regno di Graziano, negli anni in cui questi governò, di fatto, da solo l’Occidente, dal 375 al 383, rappresentò un momento tormentato e assai significativo nei rapporti tra pagani e cristiani, e quindi nella definizione di una politica religiosa. La vicenda dell’altare della Vittoria, la rinuncia al titolo di pontefice massimo, secondo modalità non chiare e comunque non traumatiche, e le limitazioni imposte ai sacerdozi e culti tradizionali, e in particolare al culto delle Vestali, hanno creato intorno a questo imperatore una storiografia che ne ha fatto l’autore della decisiva svolta antipagana.
L’addensarsi di queste vicende negli anni di Graziano, insieme con la presenza molto attiva di aristocratici autorevoli rimasti pagani come Pretestato e Simmaco, la contestuale azione di vescovi di forte personalità, come il già ricordato Damaso e come Ambrogio a Milano, ha certamente contribuito a definire in modo più deciso i rapporti tra pagani e cristiani, e le conseguenti politiche religiose. A questa visione ha contribuito la produzione letteraria, particolarmente ampia e significativa per questi anni, frutto dell’attività di uomini dello spessore di Simmaco, Ambrogio, Girolamo. Tuttavia l’idea di una svolta risolutiva e traumatica riflette più o meno consapevolmente una visione che era egemone fino a pochi decenni fa e non del tutto abbandonata, nonostante gli studi più recenti tendano a ridimensionare quelle vicende. L’idea di un conflitto inevitabile, sempre latente ed esploso, infine, per una volontà di resistenza pagana fa parte di una visione che mutua la sua ragion d’essere dalle esperienze religiose moderne, dall’idea della irriducibilità della fede a categorie, come il politeismo o il culto imperiale, che erano, tuttavia, l’humus nel quale erano maturate le esperienze dei romani colti: esperienze che permeavano anche il modo di essere, e di vivere la loro fede individuale, di molti cristiani13.
In realtà nessuno dei provvedimenti attribuiti a Graziano fu tale da liquidare il paganesimo. Essi si collocavano nel solco di una politica di progressivo ridimensionamento, di riduzione dei privilegi dei sacerdozi tradizionali, di allontanamento della figura dell’imperatore da una connotazione pagana. Nondimeno i sacerdozi continuarono a esistere, privati – come nel caso delle Vestali – del diritto di ricevere ulteriormente legati, analogamente continuarono a esistere aristocratici che rivestivano cariche sacerdotali, e i templi erano tutelati contro la spoliazione, come in precedenza, per il loro valore artistico.
La questione dell’altare della Vittoria, d’altronde, mostra come il terreno di scontro tra pagani e cristiani rimanesse in definitiva in un ambito limitato, e non coinvolgesse il problema di fondo dell’osservanza della vera religione, della supremazia del cristianesimo e quindi della condanna del paganesimo in quanto tale. Le due lettere di Ambrogio e la relatio di Simmaco sono rivelatrici: Simmaco scrisse la frase divenuta famosa «uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum»14. Si trattava di una posizione che aveva una sua lunga storia e che riguardava il più generale problema della tolleranza e della libertà di culto, su cui si tornerà. Ambrogio, da parte sua, difese il diritto dei senatori cristiani di non essere contaminati dai riti pagani mentre esercitavano le loro funzioni. Il vescovo dovette comunque contestare l’esistenza di una maggioranza pagana in Senato, e lamentò la passività dei senatori cristiani; quindi scese sul terreno di Simmaco, osservando che le monache cristiane non ricevevano sussidi pubblici per le loro funzioni. Appare anche chiaro, dalle due lettere, che Ambrogio non si sentiva del tutto sicuro della posizione della corte, poiché era stato tenuto all’oscuro della relatio, almeno in un primo momento15.
Dall’insieme della vicenda emerge, sostanzialmente, la natura della disputa, circoscritta alla questione del contributo pubblico ai sacerdozi e ai culti tradizionali. La rimozione di un simbolo da una sede prestigiosa come la curia aveva certamente un significato importante, era un altro passo nella direzione della costruzione di un Impero cristiano attraverso la rimozione dei simboli pagani nelle cerimonie pubbliche. Tuttavia non si trattava di una guerra di religione: non era in discussione la fede, ma il valore dei culti pagani per il corretto funzionamento delle istituzioni: un concetto fondamentale, che non escludeva, dal punto di vista dei pagani, alcuna forma di religiosità personale.
Graziano certamente compì dei passi importanti verso il ridimensionamento di quei culti, ne accelerò il dissolvimento, ma non decretò la fine del paganesimo.
Come Costantino, e soprattutto Costanzo, questo imperatore cristiano attuò una politica religiosa molto più incisiva e innovativa nell’ambito della sua fede, con particolare impegno nella soppressione dei movimenti ereticali, come si vedrà oltre. Dunque, ancora con Graziano le politiche religiose seguivano una linea consolidata. Gli interventi più incisivi erano rivolti ai cristiani: man mano che la Chiesa come istituzione diveniva importante, ricca e radicata nella società, il problema dell’ortodossia assumeva un rilievo sempre maggiore.
Senza il ruolo assunto dalla Chiesa, le norme contro i culti pagani e la proibizione del paganesimo non avrebbero avuto l’efficacia che invece ebbero, infine, con Teodosio. Questa fu l’enorme differenza fra le decisioni di precedenti imperatori e gli interventi di quest’ultimo, alle prese in Oriente con i movimenti ereticali e in Occidente con un’aristocrazia che, pagana o cristiana, era ancora essenziale per governare, soprattutto da lontano: un’aristocrazia che, tuttavia, aveva ormai da misurarsi con una Chiesa matura, e con figure capaci di fare politica, come Damaso a Roma e Ambrogio a Milano.
Arrivato a Tessalonica subito dopo la sua investitura, nel 380 Teodosio dovette preparare il suo ingresso a Costantinopoli, e lo fece con una legge che affermava l’ortodossia nicena. La formula contenuta nella legge è molto elementare e, in definitiva, l’ortodossia era garantita, in termini empirici, dalla comunione con Damaso vescovo di Roma in Occidente e Pietro vescovo di Alessandria in Oriente16. L’obiettivo immediato di Teodosio sembra essere stato quello di sostituire il patriarca di Costantinopoli, e quindi la legge non era destinata ad avere un valore generale, tantomeno a essere applicata in Occidente. Tuttavia essa era il primo di una serie di provvedimenti, inizialmente sulla definizione delle eresie e infine sulla soppressione dei culti pagani in quanto tali. I tempi erano ormai maturi per una politica religiosa più incisiva, sia sul piano dell’affermazione dell’ortodossia cattolica sia relativamente ai culti pagani. I provvedimenti legislativi non erano stati del tutto risolutivi, ma un insieme di fattori diversi portava nella direzione di un ridimensionamento definitivo della presenza dei culti tradizionali nella vita pubblica dell’Impero. Teodosio era un cattolico convinto, ed ebbe il problema di adeguare la sua azione politica alle proprie convinzioni e alle pressioni che gli venivano dalla Chiesa. Tutto ciò non faceva venir meno l’esigenza primaria di governare un Impero enorme, percorso da tensioni costanti, di cui la questione religiosa, e in particolare quella dei culti pagani, era un aspetto rilevante, ma non certo il più preoccupante. Come si vedrà, il controllo delle eresie, soprattutto tra il 387 e il 391, divenne prevalente nella legislazione in materia di religione. Le leggi antipagane erano indirizzate ai magistrati, per lo più pagani, che Teodosio aveva nominato durante il suo soggiorno in Occidente, dopo la sua guerra vittoriosa contro Massimo. Allora l’imperatore aveva cercato il consenso dell’aristocrazia senatoria, perdonando tra l’altro l’autorevole pagano Simmaco, che si era schierato con l’usurpatore. Tuttavia il tradizionale rispetto per il Senato non comportava più, per Teodosio, l’accettazione della pratica dei culti pagani come manifestazione della vita pubblica. Il lealismo degli aristocratici non era in discussione per l’imperatore, ma la pressione di alcuni eventi e di altre forze ora preponderanti, in quanto rispondenti alla visione religiosa e ai convincimenti dello stesso Teodosio, produssero una svolta decisiva. Nel 391 lo stesso prefetto della città, Ceionio Albino, membro di una grande famiglia rimasta largamente pagana, ricevette la legge che proibiva i culti pagani nel modo più esteso, prevedendo pene commisurate allo status dei colpevoli; era una legge assai più rigorosa e ampia delle precedenti, prevedendo in sostanza l’abolizione dei culti pagani nel loro insieme17. La genesi immediata di un provvedimento così radicale è probabilmente da ricercarsi nello scontro tra Teodosio e Ambrogio, che aveva scomunicato l’imperatore pochi mesi prima per il massacro di Tessalonica, e nella pressione di autorevoli cristiani. Subito dopo, il provvedimento fu ribadito in una specifica disposizione inviata al prefetto augustalis e al comes egiziani, che avevano denunciato disordini tra cristiani e pagani. Conseguenza di tale legge fu, molto probabilmente, la distruzione del Serapeo, voluta dal vescovo di Alessandria: un atto carico di un grande valore simbolico, data l’immensa popolarità e il prestigio del tempio. Nel 392 la legge fu comunicata al prefetto del pretorio in Oriente, con un’ampia motivazione18.
Questa accelerazione della politica religiosa antipagana si sviluppò in un momento delicatissimo: Teodosio era tornato in Oriente, e aveva affidato il governo dell’Occidente a un generale, Arbogaste, mentre l’ultimo esponente della dinastia dei Valentiniani, Valentiniano II, non aveva le qualità per governare. Il generale, forse responsabile della morte violenta dell’imperatore, di fronte alle resistenze di Teodosio, che non volle riconoscergli il ruolo cui aspirava, chiamò a regnare un professore, Eugenio. La concomitanza della legislazione antipagana e l’appoggio dato all’usurpatore da esponenti pagani del peso di Nicomaco Flaviano, mentre molti aristocratici si tenevano a distanza, hanno creato le premesse per costruire la tesi di una connotazione marcatamente religiosa dell’usurpazione, nel senso di un estremo tentativo dei senatori di resistere alla politica di Teodosio. In effetti, Nicomaco Flaviano fu presente alla battaglia del Frigido, nel settembre 394, e si suicidò subito dopo. Ambrogio, allontanatosi prudentemente da Milano per non avere contatti compromettenti con l’usurpatore, in seguito pubblicò una lettera scritta allo stesso Eugenio e ritornò in varie occasioni sulla vicenda. Egli, in modo peraltro oscuro, alluse a provvedimenti di Eugenio favorevoli ai pagani, cui avrebbe dato fondi utilizzati da questi per i loro culti; con Teodosio, accentuò quindi il carattere empio dell’usurpatore e dei suoi seguaci, dando alla loro vittoria una connotazione religiosa, probabilmente anche per giustificare la propria passività nella vicenda. L’episodio del Frigido divenne quindi, in alcune fonti, una battaglia tra pagani e cristiani, vinta dal Dio dei cristiani o dall’imperatore cristiano, secondo le scelte letterarie degli autori. Questi fecero intervenire i presagi di Nicomaco e le preghiere di Teodosio, il miracolo del vento che propiziò la vittoria di quest’ultimo, l’abbattimento delle statue di Giove sulle Alpi.
La storiografia più recente ha ridimensionato anche drasticamente le motivazioni religiose dell’usurpazione e dell’adesione di alcuni aristocratici pagani19. Tuttavia si possono fare alcune considerazioni: anche se le ricostruzioni degli antichi che parlano di conflitto fra pagani e cristiani sono, sostanzialmente, frutto di interpretazioni ideologiche risalenti in larga parte ad Ambrogio, è rilevante il fatto che una tale interpretazione potesse essere proposta. Essa aveva senso solo in un’atmosfera nella quale alcuni ambienti erano sensibili alle problematiche religiose. L’interpretazione degli eventi fondata su una reazione pagana in quanto tale è troppo riduttiva e va ricondotta all’idea, da ridimensionare fortemente, del conflitto come cifra fondamentale del rapporto tra pagani e cristiani. Molti altri elementi sono entrati in gioco, legati a motivazioni e comportamenti consolidati: Teodosio, nell’emanare le leggi che proibivano il paganesimo, anche se motivato da ragioni contingenti, traeva le ultime conseguenze da una serie di successivi interventi legislativi, mai decisivi e non del tutto attuati in concreto, ma tali da ridurre progressivamente la capacità dei pagani di mantenere i loro culti e soprattutto di dare ad essi un valore più ampio e condiviso da gruppi sociali fuori della cerchia aristocratica. Teodosio, a differenza dei suoi predecessori, aveva dalla sua una vicenda ormai lunga, una Chiesa forte capace di rappresentare una propria visione del ruolo dell’imperatore, una volontà personale di affermare la sua ortodossia. Gli aristocratici pagani intendevano, secondo le logiche del loro gruppo, continuare a esercitare un ruolo, nelle forme che praticavano da sempre: ci si poteva compromettere con un usurpatore, sia pure riconosciuto, e non perdere la fiducia di un imperatore, come era successo a Simmaco, o schierarsi dalla parte perdente. Teodosio aveva vinto Massimo, dopo averlo riconosciuto per vari anni; Eugenio non ebbe mai il riconoscimento imperiale. La visione del mondo, la mentalità di pagani e cristiani non si può ridurre a una semplificazione eccessiva: Teodosio non combatté una guerra contro l’aristocrazia pagana e i culti empi di Roma, anche se in alcuni ambienti questo di certo piacque pensarlo, con vantaggio anche dell’imperatore. Gli uomini come Nicomaco non potevano aver apprezzato le leggi contro il paganesimo, così decise e inequivocabili, e dovevano essere preoccupati, e stupiti, del rapporto che a Milano videro instaurarsi tra un vescovo e un imperatore, costretto a sottomettersi a una volontà superiore che nasceva dalla fede e che da questa mutuava la sua forza. Le concessioni che Eugenio, del resto un cristiano, poteva fare a vantaggio dei culti pagani non erano tali da far ritenere che la situazione potesse capovolgersi a loro vantaggio. Nondimeno, nello schierarsi contro Teodosio da parte di alcuni pagani aristocratici si può rinvenire una motivazione di carattere religioso: di difesa non di una fede contro un’altra, ma di un modo di intendere l’autorità imperiale, fonte insostituibile dello stesso potere aristocratico, che ne era legittimato e a sua volta la legittimava, mantenendo un rapporto di lealtà e di adesione all’Impero; tale concezione dell’autorità era palesemente compromessa dal rapporto con la Chiesa cristiana.
La vicenda del passaggio a un Impero formalmente cristiano si stava ormai compiendo: i figli di Teodosio emanarono ulteriori leggi di conferma di quelle paterne; la proibizione dei culti pagani fu reiterata ancora fino al 423, in varie circostanze e non sempre con coerenza, in quanto alcune leggi prescrivevano la distruzione dei templi rurali, altre salvaguardavano i templi stessi e le statue, considerate opere d’arte e abbellimenti delle città. I sacerdoti del culto provinciale in Africa venivano indotti a rinunciare alle celebrazioni, nel 415, a Cartagine, e si richiamava una legge di Graziano sulla confisca dei beni dei templi a vantaggio del fisco imperiale; venivano, tuttavia, autorizzati i giochi e infine una legge puniva la violenza contro i pagani che non provocavano disordini20.
Quest’insieme di provvedimenti mostra il carattere disomogeneo, ancora dettato da contingenze, delle decisioni imperiali anche dopo l’emanazione di norme che in modo ormai drastico proibivano ogni forma di culto pagano. Mostra altresì come varie forme di paganesimo continuassero a esistere ed essere praticate anche pubblicamente, come sembra documentare la legge del 415 sul culto provinciale a Cartagine. Certamente esistevano ancora aristocratici pagani nello stesso periodo, come il celebre zio di Melania la Giovane, quel Rufio Antonio Agripnio Volusiano, un membro dei Ceionii, che avrebbe detto alla nipote, a Costantinopoli, di temere che l’imperatore gli chiedesse di convertirsi21. Probabilmente rimasero in vita alcuni sacerdozi, per qualche decennio, e rimasero sacche di paganesimo in diversi gruppi sociali, specie nelle campagne. Tutto ciò ha dato luogo a una discussione sulla persistenza del paganesimo stesso. Ancora alla fine del V secolo papa Gelasio rimproverò ad alcuni senatori di tenere in vita, in forme non ortodosse, il rito dei Lupercalia. Siamo qui, tuttavia, in un mondo del tutto diverso: come diverso è il mondo nel quale un Volusiano professava la sua adesione al paganesimo, o meglio la sua indisponibilità a convertirsi alla fede ormai divenuta religione pubblica.
In realtà il problema della persistenza del paganesimo è secondario rispetto a quello delle modalità e delle conseguenze della cristianizzazione dell’Impero nel rapporto tra politica e religione. Essere pagani o cristiani e governare al tempo di Costantino era cosa assai diversa dall’esserlo al tempo di Teodosio. Nella definizione dei rapporti tra pagani e cristiani nel IV secolo occorre riflettere, innanzitutto, sulla profonda differenza di approccio dei due gruppi alla religione; e in particolare sul valore che la religione aveva nel rapporto con le istituzioni politiche, col funzionamento stesso dell’Impero. In questo ambito, vi era un’asimmetria profonda tra pagani e cristiani. I pagani, che costituivano i ceti dirigenti, consideravano i culti e i riti tradizionali come parte integrante dell’identità dell’Impero, della costruzione di una mentalità collettiva fondata su valori tramandati da secoli. Le cerimonie sacre erano un compito e un privilegio dei ceti dirigenti investiti di cariche pubbliche, in primo luogo i senatori romani, e quindi i magistrati locali. Il politeismo, aspetto essenziale della religione definita capitolina, in realtà un complesso di riti e culti praticati in tutto l’Impero, lasciava per definizione spazio alla diversità dei culti; soprattutto, non interferiva nelle scelte individuali legate a una specifica fede, che chiunque poteva professare. Le tendenze monoteiste avevano largo spazio e ogni imperatore, da secoli, aveva mostrato una particolare predilezione, più o meno marcata, per una speciale divinità. Quando i caratteri di queste divinità entravano in conflitto con la tradizione, e minacciavano di modificare il rapporto tra cittadini e imperatore, l’equilibrio si spezzava22.
I sacerdozi erano parte integrante delle funzioni magistratuali e l’identità tra sfera della politica e sfera religiosa era connaturata al sistema di governo. Questa visione del rapporto fra religione e funzionamento dell’Impero come istituzione politica influenzò le élite pagane nella loro percezione del significato della conversione di Costantino, e nell’attività sua e dei suoi successori. Gli imperatori cristiani, dunque, non dovevano misurarsi con una fede contrapposta sul piano dottrinario alla loro; dovevano fare i conti con un apparato di governo, di cui i riti erano un aspetto essenziale e si identificavano con l’Impero come istituzione e come comunità di cittadini. Non vi era una Chiesa pagana, vi erano uomini ricchissimi, e spesso colti, che svolgevano le funzioni sacerdotali come parte dei loro compiti di governo; compiti fondamentali per gli imperatori, qualunque fosse la loro specifica fede. Ciò rendeva uno scontro aperto non solo difficile ma inessenziale, non urgente. Infatti, gli stessi pagani erano propensi, per mentalità, ad accettare la nuova divinità scelta dall’imperatore. Non si trattava solo di un necessario compromesso politico fra élite che volevano mantenere i loro privilegi e imperatori che non potevano fare a meno di un ceto così potente. Il profondo mutamento che il cristianesimo rappresentava, l’antitesi del modo in cui la religione era innervata nelle istituzioni, non poteva dispiegare i suoi effetti se non nel lungo periodo e a seguito di una serie di altri fattori; il mutamento era di mentalità, nell’abitudine a richiamarsi alla tradizione, e in questa tradizione vi era ampio spazio per ogni novità che fosse capace di inserirsi senza sovvertire l’ordinato funzionamento delle istituzioni politiche e delle gerarchie sociali.
Se la cultura politica e religiosa dei pagani limitava il potenziale conflitto, si deve anche pensare che quanti nelle élite si convertivano potevano condividere una visione dell’Impero e del proprio ruolo di governo che includeva la nuova religione in modo non antagonista. La fede individuale dell’aristocratico cristiano non gli impediva di mantenere rapporti privilegiati con il suo gruppo, di esercitare le funzioni pubbliche, di condividere le cerimonie da cui l’Impero traeva legittimità. Fra queste il culto imperiale, massima manifestazione della lealtà e segno di appartenenza a un mondo nel quale gli aristocratici si consideravano indispensabili e naturalmente superiori.
Non tutti gli aristocratici si convertivano allo stesso modo, sentivano la loro fede cristiana con lo stesso spirito, e non tutti gli imperatori avevano la stessa intensità religiosa e la stessa visione dei loro compiti di governo. L’imperatore rendeva il cristianesimo una religione lecita, ma non poteva in poco tempo eliminare, o fagocitare, tutto ciò che per i pagani rispettabili era parte della loro condizione sociale e politica esclusiva. In questo senso, non vi è differenza di mentalità tra un Petronio Probo che, da cristiano, si vantava di aver raggiunto il vertice della gerarchia divina, e Pretestato, che disse a Damaso che si sarebbe fatto cristiano se quello lo avesse fatto diventare vescovo. Pertanto vi fu, per tutto il IV secolo, un’ampia gamma di comportamenti, che sono contraddittori e incerti solo se assumiamo il punto di vista, che è nostro a posteriori, dell’impossibilità di assimilazione del cristianesimo alla concezione pagana della religione in rapporto alle istituzioni, prima ancora della sua irriducibile diversità sul piano della fede.
Del resto, la religione cristiana aveva caratteristiche che rendevano il confronto con il paganesimo qualcosa di totalmente diverso rispetto alle altre religioni presenti nell’Impero. La formulazione, sempre più stringente e sofferta, di una dottrina ortodossa era sorretta da un’istituzione secolare, la Chiesa, con una struttura gerarchica capace di un’azione di governo dei fedeli assai efficace. Solo se si inserisce la Chiesa nell’analisi del significato politico del cristianesimo si possono comprendere meglio sia i comportamenti dei singoli imperatori sia gli sviluppi verso una concezione del rapporto tra religione e Impero in grado di surrogare, e infine sostituire, la visione pagana. Infatti la presenza di un’istituzione capace di politiche indipendenti rese possibile l’affermazione del principio dell’unicità della religione cristiana e della dipendenza del potere secolare dalla volontà divina, espressa e garantita attraverso la Chiesa. I pagani identificavano i sacerdozi con le funzioni pubbliche; i cristiani avevano un clero professionale, che sanciva la separazione della sfera religiosa da quella secolare, creando così una dialettica tra istituzioni laiche e religiose. L’imperatore governava un Impero che una parte dei suoi cittadini, e una potente istituzione, non consideravano più come identificabile con i culti e i riti tradizionali. Non poteva essere un percorso semplice e univoco, né privo di contrasti e di momenti di confronto e dialogo.
Non stupisce, dunque, che gli imperatori cristiani, da Costantino in poi, abbiano seguito politiche a volte contraddittorie, e non abbiano tagliato di netto i nodi che la loro nuova religione poneva. Diventare cristiano era possibile sul piano personale, comportarsi da imperatore cristiano era qualcosa che andava sperimentato e, in definitiva, appreso sul campo, nella pratica del governo.
Nel proibire i culti pagani, la legislazione imperiale agiva, per così dire, per sottrazione: proibiva i sacrifici notturni, le manifestazioni che potevano essere assimilate a pratiche magiche e malefici, i sacrifici cruenti, infine sottraeva risorse finanziarie ai sacerdozi; alcuni imperatori, a cominciare da Costantino, sceglievano un profilo più visibile e rifiutavano platealmente di partecipare a riti pagani; tuttavia mantenevano il titolo di pontefice massimo, continuavano ad autorizzare il culto imperiale – anche se con le cautele che si vedono, ad esempio, nel rescritto di Spello – e in generale nella loro azione antipagana rispondevano a esigenze e situazioni contingenti23. Il ricorso a un linguaggio aggressivo, con termini dispregiativi verso i culti pagani (insania, superstitio), mascherava, con la retorica, la sostanziale inefficacia di gran parte della legislazione per tutto il IV secolo. Tale inefficacia è stata motivata con ragioni varie: la difficoltà oggettiva di applicazione di rescritti imperiali da parte di un’amministrazione poco efficiente; la scarsa volontà di molti funzionari locali; la natura dei rescritti, semplici risposte a petizioni locali, e quindi rivolte a risolvere specifiche situazioni. Tutte queste ragioni, e altre, hanno una loro validità e non si escludono a vicenda. Tuttavia esse sono il risultato, non la causa, della difficoltà di affrontare il paganesimo come religione: per sopprimere il paganesimo si dovevano sopprimere i culti e i riti connessi, non combattere una fede con la conversione a un’altra, vera fede. E combattere i culti significava sottrarre progressivamente alle funzioni pubbliche ciò che anche nell’opinione non cristiana poteva sembrare non essenziale, e a volte negativo, come i sacrifici notturni, l’aruspicina praticata in privato, i sacrifici cruenti. Era più difficile, anzi, inizialmente fu impossibile, decretare la fine non di una religione, ma di un ordine istituzionale nel quale l’Impero si legittimava. La denuncia della falsità degli dei pagani, in questo senso, appariva come un pronunciamento di principio, cui non poteva facilmente far seguito ciò che sarebbe stato naturale, la soppressione di tutto ciò che a questi dei si riferiva, in pratica l’impalcatura stessa dell’istituzione imperiale. L’imperatore poteva essere cristiano, l’Impero poteva diventarlo solo col tempo e mediante una progressiva trasformazione del rapporto tra la sfera del sacro e la politica.
Le élite di governo pagane potevano convivere con un imperatore che aveva un suo personale dio, ma si opponevano all’idea che l’Impero potesse fare a meno dei suoi culti e dei suoi riti. Non era una guerra di religione, ma la difesa di un sistema di valori che comprendeva l’espletamento di una serie di riti da parte dell’aristocrazia investita di funzioni sacerdotali. Tutto questo non implica indifferenza da parte pagana. Implica una diversa concezione del ruolo della religione come fatto pubblico, comunitario e quindi fondamento della vita civile. Questa concezione prevedeva l’inclusione, non l’esclusione, di culti diversi, l’accettazione della distinzione tra la fede personale, o l’agnosticismo, e la religione della comunità imperiale cui si apparteneva. Non era il problema della fede che divideva le élite di governo. Se si osservano i comportamenti dei senatori di cui si conosce l’appartenenza cristiana, si vede che nella vita pubblica essi non sono distinguibili dai loro colleghi. La scelta religiosa non appare nelle iscrizioni note, se non nell’epitaffio di Petronio Probo, e anche in questo caso il tono è quello di chi ritiene di essersi ulteriormente innalzato nella gerarchia sociale e politica con la conversione24. Non vi sono valori cristiani in quanto tali che vengono rivendicati negli elogi dei magistrati convertiti, e pochissime conversioni ebbero la pubblicità di quella, ad esempio, di Mario Vittorino25. Pare quasi che la scelta di fede non rappresentasse un valore politico da spendere o esibire. Abbiamo solo casi sporadici di comportamenti di magistrati cristiani legati esplicitamente alla loro scelta religiosa, e come tali pubblici: Maecius Gracchus, prefetto urbano nel 376/377, è ricordato da Girolamo per aver voluto distruggere un mitreo prima di essere battezzato26. Ma il caso più clamoroso fu quello di Maternus Cynegius, che durante la sua prefettura del pretorio nel 384/388 scatenò una campagna di distruzione di alcuni templi, con la complicità di funzionari imperiali e monaci, provocando le proteste di Libanio, che richiamò nell’occasione la tolleranza dei predecessori di Teodosio27. I pagani, dal canto loro, continuarono a rivendicare la loro appartenenza, ricordando i sacerdozi rivestiti, i soldi spesi per restaurare edifici, l’azione svolta, in genere, per la salvaguardia di un patrimonio di culti e simboli. Queste iniziative erano, forse, meno clamorose e frequenti; esse non esprimevano un conflitto religioso ingaggiato dagli ultimi pagani, ma sembra riduttivo considerarle solo manifestazioni esteriori di uno status, espresso attraverso l’elenco di tutti gli onori, compresi i sacerdozi pagani, di cui sono un esempio rilevante le iscrizioni nel Phrygianum28. L’affermazione della propria identità religiosa, che implicava il rifiuto della religione dell’imperatore, era un atto che andava oltre l’esibizione di status. Essa si comprende se si pensa che, da un lato, il governo imperiale considerava l’alleanza con quell’aristocrazia come prioritaria rispetto alla sua conversione, e dall’altra che la conversione stessa non era un fattore decisivo nelle politiche imperiali, in particolare rivolte a quel gruppo. In effetti, come si è visto, le conversioni di senatori non mutavano la sostanza degli equilibri politici. Il fatto, tuttavia, che vi fossero pagani importanti, e con un largo seguito, disturbava gli ambienti cristiani: alla morte di Pretestato, Girolamo si lasciò andare a una pesante invettiva, e il Carmen contra paganos fu un duro controcanto alle pubbliche lodi tributate al grande aristocratico29. L’appartenenza religiosa poteva non essere importante per l’imperatore, e probabilmente non era decisiva per la formazione del seguito di qualunque aristocratico, ma lo era per la Chiesa e per i cristiani, che ormai erano un gruppo di potere, con problemi molto seri al loro interno.
In ogni caso, queste reazioni mostrano come la presenza di aristocratici pagani non rappresentasse solo un fatto di rispetto formale della tradizione, ma in alcuni ambienti importanti non potesse essere ignorata, poiché si trattava di una concezione antitetica a quella cristiana del rapporto tra religione e istituzioni. Data la rilevanza dei personaggi, tale presenza non era certo marginale, né a Roma né nelle province italiche e occidentali, specie nell’Africa, dove essi avevano forti interessi e svolgevano una parte consistente delle loro funzioni pubbliche.
In realtà, governare da cristiani, e con i cristiani, poneva nuovi e complicati problemi, ben oltre la conversione di un gruppo di aristocratici, per quanto ricchi e potenti, ed esponenti di un’istituzione essenziale come il Senato di Roma.
La nuova religione era fondata su una dottrina complessa, che comportava un’adesione esclusiva. Essa, solo pochi anni prima della conversione di Costantino, era stata perseguitata – l’unico caso di repressione religiosa di vasto respiro – con la motivazione della sua incompatibilità con i culti dell’Impero. La decisione di Costantino e Licinio a Milano sanciva, nel riconoscere la liceità del cristianesimo, un principio, quello della libertà religiosa, che assumeva un significato ben diverso e più generale di quello praticato nell’Impero fino ad allora. Le conseguenze di tale decisione furono enormi, anche se non immediatamente percepite. Infatti la libertà dei cristiani, man mano che la loro religione e la Chiesa diventavano forti, implicava la coesistenza con i culti che essi rifiutavano. La libertà religiosa poteva dunque essere praticata solo se si ammettevano questi culti, e dunque se si promuoveva una politica di tolleranza; il che poneva le premesse per una contraddizione profonda30.
Un secondo problema, anch’esso concernente le concrete politiche imperiali ma riguardante soprattutto, e in modo drammatico, il mondo cristiano e la Chiesa, era quello delle eresie. Tolleranza, conversione, affermazione dell’ortodossia erano tutti aspetti nuovi che ridefinirono il rapporto tra religione e politica; essi sono ancora attivi al giorno d’oggi.
Gli imperatori cristiani dovevano governare un mondo in cui erano diffuse altre religioni e si praticavano, spesso da parte di cristiani, i culti tradizionali, soprattutto quello imperiale. Si è visto che la soluzione di Costantino e Costanzo fu pragmatica: leggi contro i culti pagani, ma moderazione e rispetto della tradizione aristocratica. Solo con Giuliano il problema si pose in modo acuto. Infatti gli stessi pagani, come Ammiano Marcellino, non approvarono la politica religiosa giulianea, che contraddiceva una lunga tradizione di accettazione della convivenza religiosa a garanzia della pace sociale. Gioviano nel suo breve regno e soprattutto Valentiniano considerarono importante allontanarsi dal programma giulianeo; risale a Valentiniano la famosa definizione della sua politica tollerante, richiamata sopra. Tale formulazione fu chiosata con favore dallo stesso Ammiano31. Si sono già ricordate la posizione di Simmaco nella relatio sull’altare della Vittoria e quella di Libanio. Una testimonianza rilevante è data da Temistio, uomo di grande spessore intellettuale, legatissimo a Costanzo, che in alcuni discorsi pronunciati al tempo di Gioviano e Valentiniano difese a sua volta la tolleranza di religioni diverse32. Si trattava di politiche concrete, le cui motivazioni non vanno intese come un’anticipazione delle moderne teorie sulla tolleranza. Il principio della libertà di culto come diritto individuale del cittadino, che lo Stato deve garantire con altri diritti, è una conquista moderna, estranea alla mentalità e alla pratica politica romane. Sarebbe però sbagliato considerare le formulazioni citate solo come frutto di opportunismo politico o di indifferenza religiosa. L’esigenza di rispondere alla nuova situazione prodottasi col cristianesimo dopo le persecuzioni e la conversione imperiale provocò l’adozione consapevole di una politica la cui motivazione non era ideologica, ma che concretamente portava a fare della tolleranza un modo di governare possibile, e tale da rappresentare una soluzione a problemi nuovi. Questo esito non deve essere sottovalutato. Durò pochi decenni, poiché non vi erano i presupposti, teorici e pratici, per una sua permanente acquisizione. Tuttavia fu una politica consapevolmente praticata, e difesa da pagani e cristiani, e in questo senso rappresentò un punto di incontro di notevole importanza. Il fondamento era la civilitas, la consapevolezza di dover garantire la convivenza come antidoto alla violenza, fosse essa religiosa o politica o militare. Si trattava anche della salvaguardia dei privilegi di aristocrazie di governo e non di un principio di libertà avente valore assoluto; ma fu pur sempre uno sforzo notevole di adattamento delle politiche religiose a una situazione del tutto inedita per il governo imperiale, e per la tradizione romana in generale.
La questione delle eresie impose, a sua volta, la ricerca di soluzioni politiche e normative del tutto nuove. Il problema aveva aspetti dottrinari, e quindi squisitamente religiosi, relativi a giurisdizione e potere di coercizione, ma anche patrimoniali, sociali e di ordine pubblico. L’adozione del cristianesimo come religione dell’imperatore determinò conseguenze immediate in un ambito che prima aveva riguardato solo la Chiesa e il mondo cristiano. La questione fondamentale dell’ortodossia aveva conseguenze in contesti diversi: ora le chiese potevano possedere beni, ricevevano privilegi come esenzioni fiscali e l’uso del cursus publicus. La presenza di eretici e scismatici poneva il problema della possibilità per costoro di godere di questi privilegi, dando luogo spesso a scontri violenti. Occorreva decidere attraverso quali procedure, e con quali competenze, le autorità laiche ed ecclesiastiche potessero definire l’eresia.
Le politiche imperiali furono il risultato di una serie di elementi. Le personali convinzioni degli imperatori giocarono un ruolo a volte determinante: Costantino finì per imporre la dottrina che fu detta nicena contro l’arianesimo, e inaugurò la pratica dell’intervento imperiale nelle sinodi, convocate spesso dallo stesso imperatore. Tuttavia egli intervenne duramente soprattutto per reprimere lo scisma donatista in Africa, e questo su pressione della Chiesa locale. Questioni dottrinarie, di ordine pubblico, di equilibri locali si mescolavano a creare situazioni di estrema complessità33. La pratica del contemporaneo esercizio della giurisdizione ecclesiastica e di quella laica era anche determinata dal fatto che la Chiesa non aveva i mezzi, prima ancora che i poteri, per attuare provvedimenti coercitivi. L’intervento del magistrato era quindi obbligato, ma le modalità e i limiti non sempre erano chiari e molto dipendeva dalla sua personalità e dalla volontà imperiale.
Costanzo, ariano, fu il protagonista di una politica molto attiva di ingerenza nelle questioni ecclesiastiche; egli fu responsabile di persecuzioni e vessazioni nei confronti del clero ortodosso, e determinò l’esito di concili, come quello di Rimini nel 359, per piegarli a posizioni compatibili con le sue convinzioni. Condannò Lucifero di Cagliari, che gli aveva indirizzato alcuni scritti e i cui seguaci, in una petizione indirizzata a Teodosio molti anni dopo, nel 382, percorsero la storia delle persecuzioni dei niceni con accenti drammatici. Per questo imperatore preoccupato della fede la questione dell’ortodossia era, dunque, un problema ben più attuale e importante della repressione dei culti tradizionali34.
Graziano a sua volta dovette affrontare la questione delle eresie, soprattutto dopo la morte di Valentiniano e il riemergere di fratture profonde nella Chiesa romana. Fu un periodo nel quale alcune procedure si definirono tra molte contraddizioni, ridisegnando il rapporto tra potere politico e Chiesa. In un caso, isolato ma significativo per l’importanza delle persone coinvolte, un Anicius Bassus, prefetto urbano nel 382/383, rifiutò di giudicare come eretici i seguaci di Lucifero di Cagliari, che pure erano stati accusati da Damaso ed erano comunque una setta scismatica in Roma, con propri vescovi. Damaso era stato investito dallo stesso Graziano di un’autorità regalis, secondo l’accusa dei suoi nemici, e agiva contro questi usando lo strumento dell’accusa di eresia35.
Egli, appena nel 380, era stato indicato da Teodosio come il depositario dell’ortodossia cattolica in Occidente. È possibile che questa legge, destinata all’Oriente, non fosse stata resa nota nell’altra parte dell’Impero, anche se ciò pare improbabile. Comunque si trattava pur sempre del vescovo di Roma, e la giurisdizione del magistrato sulle questioni di fede era subordinata al giudizio ecclesiastico. Conferma il carattere empirico delle scelte imperiali il fatto che solo nel 384, poco tempo dopo la legge del 380, Teodosio, in risposta alla petizione dei luciferiani, sconfessasse Damaso, indicando come depositario dell’ortodossia in Occidente Gregorio, vescovo di Cordova, un difensore degli stessi luciferiani36.
Si coglie qui un aspetto delicato di transizione nell’espletamento dei compiti magistratuali. Pretestato, pagano, era intervenuto nella disputa tra Ursino e Damaso per ragioni di ordine pubblico, dopo che vi erano stati numerosi morti nello scontro tra le opposte fazioni. Nell’azione di Pretestato non appare alcuna motivazione religiosa, anche se a quel tempo erano già attivi diversi gruppi aristocratici che si contendevano l’influenza sulle elezioni papali e in genere sulla comunità cristiana romana. Bassus, appartenente a una delle famiglie di più antica cristianizzazione, aveva fondato la sua decisione avversa a Damaso sulla base di una valutazione dottrinaria, una cosa che solo un cristiano poteva pensare di fare e che era, probabilmente, una forzatura procedurale. La forte personalità di Damaso, e gli avvenimenti che si addensarono nel suo episcopato, rappresentano la prima vera manifestazione della strada percorsa nei rapporti tra Impero e Chiesa. Graziano pochi anni prima, sollecitato dai protagonisti delle lotte nella Chiesa romana, era intervenuto con alcune leggi nel tentativo di stabilire procedure certe per il giudizio sui reati comuni commessi dal clero; questo competeva all’autorità imperiale, mentre la giurisdizione in materia religiosa era affidata al vescovo di Roma e ai vescovi metropolitani secondo precise regole, largamente mutuate dal diritto romano. Era la sanzione di un’autonomia della Chiesa, che tuttavia non risolveva il problema dei giudizi di eresia e lasciava ampi margini di ambiguità37. Dal 380, dopo la costituzione sull’ortodossia nicena, Teodosio emanò ripetute leggi antiereticali: esse furono reiterate e continuamente estese alle varie sette sino ai primi decenni del V secolo. L’autorità imperiale stabiliva, in definitiva, quali fossero le eresie da perseguire, determinava le pene e ne affidava l’esecuzione ai magistrati. La Chiesa si pronunciava attraverso le decisioni sinodali, ma era il potere dell’imperatore a sanzionare il reato con leggi apposite. Il riconoscimento del cristianesimo come religione pubblica, dunque, ebbe come conseguenza la necessità di definire, e continuamente ridefinire, l’eresia come reato: un fatto impensabile, ovviamente, per i culti pagani38.
La condanna a morte di Priscilliano, nel 385, da parte di un tribunale laico, su pressione di alcuni vescovi, mostra la complessità e la sostanziale indeterminatezza del rapporto tra autorità laiche e Chiesa in materia di giurisdizione, nonché l’ambiguità del concetto stesso di eresia. Infatti la dottrina di Priscilliano era stata condannata nel 380 da una sinodo di vescovi di Spagna e Aquitania. A seguito di vicende assai intricate, che videro coinvolti Damaso e Ambrogio, Massimo volle la pena di morte con l’accusa di maleficium, probabilmente per mostrarsi cattolico fervente. La Chiesa si divise e uomini come Ambrogio e Martino di Tours presero le distanze dalla decisione. Tuttavia la possibilità dell’intervento laico in materia di fede mostrava la sua drammatica concretezza, motivato dalla natura stessa dei rapporti tra Impero e Chiesa39.
Si trattava di un’evoluzione del tutto estranea alla concezione della religione imperiale fino al IV secolo; la fede, intesa come verità dottrinaria, era garantita dall’istituzione imperiale. Gli eretici erano puniti, ma anche invitati a pentirsi e ad aderire alla vera fede. In definitiva, la pratica della tolleranza, qualunque ne fosse la ragione, era ormai vanificata dalla sanzione imperiale dell’esistenza di un’unica religione e della sua ortodossia. Nei primi decenni del V secolo la cristianizzazione dell’Impero dispiegò i suoi effetti in vario modo, in una situazione politica che stava mutando profondamente.
Il problema dei pagani rimasti nell’aristocrazia romana divenne, come si è accennato, del tutto marginale: il loro modo di concepire il rapporto tra religione e Impero era stato irrimediabilmente superato, prima ancora che sconfitto. Quando sentiamo parlare di pagani, come i Ceionii a cavallo dei secoli IV e V, li vediamo dialogare con Agostino e altri su problemi religiosi quali, ad esempio, la Trinità.
La religione politeista era un insieme di culti e riti praticati come un aspetto istituzionale della vita pubblica; la religione cristiana era fondata sull’adozione di una fede che escludeva ogni altra, e dettava alla comunità dei fedeli regole di comportamento in concorrenza con le istituzioni laiche; ma la religione cristiana si identificava con la comunità dell’Impero romano, e dunque la Chiesa esercitava la sua autorità su di essa.
Nel corso del V secolo alcuni episodi mostrano come questa concezione della religione permeasse la vita pubblica e definisse il quadro entro il quale si svolgevano gli eventi. Mostrano, altresì, come la partecipazione attiva di masse cristianizzate avesse modificato radicalmente le pratiche di governo in materia di religione.
La Chiesa aveva una dimensione locale e una dimensione universalistica che ne faceva una componente fondamentale dell’Impero, ancora sentito come un’istituzione sovranazionale. A livello locale, fin dai primi decenni del V secolo, un’accesa lotta per l’elezione del vescovo di Roma, nel 418-419, mise in evidenza i mutamenti intervenuti dopo Teodosio. Siamo in un mondo molto diverso da quello che aveva visto lo scontro tra Damaso e Ursino, circa mezzo secolo prima. Il prefetto urbano era un Simmaco, ancora un esponente della vecchia aristocrazia. Tutto si giocava all’interno di una corte cristiana e tra cristiani. Onorio, da Ravenna, dopo aver sanzionato l’elezione di Eulalio, cambiò idea in seguito alle pressioni esercitate dai seguaci di Bonifacio. È difficile dire quali fossero gli schieramenti e in base a quali logiche si fossero formati. Eulalio aveva, pare, l’appoggio dell’alto clero e quindi di una parte dell’aristocrazia, Bonifacio avrebbe rappresentato la parte più popolare. Queste divisioni, quasi meccaniche nella loro schematicità, sono probabilmente più complesse di quanto le nostre fonti non ci facciano intravvedere. Basti pensare che Bonifacio fu il precettore di Paola, una bambina della famiglia di Melania, e dunque operante nel cuore stesso dell’aristocrazia. Nel caso specifico, le lettere scambiate tra Simmaco, Onorio, Costanzo e la moglie Galla Placidia mostrano un coinvolgimento non di fazioni, che pure dovevano esservi, ma dei proceres in quanto membri del Senato, chiamato a mantenere l’ordine dal prefetto urbano prima e da Onorio poi. Posizioni nei confronti di problemi attuali del cristianesimo, come il pelagianesimo, potrebbero aver avuto un peso; nella sostanza, tuttavia, ciò che appare chiaro è l’intreccio tra potere laico e Chiesa, e il coinvolgimento del primo richiesto dalle stesse fazioni ecclesiastiche; inoltre il coinvolgimento del Senato in quanto istituzione, prima ancora che di singoli gruppi di senatori40.
Nel corso del V secolo intervennero alcuni mutamenti importanti. La fine della sede occidentale dell’Impero, dopo il 476, creò una situazione inedita e ricca di conseguenze nel rapporto tra politica e religione. Il papato aveva acquistato sempre maggiore peso, anche per l’azione di grandi vescovi come Leone; l’aristocrazia senatoria era ormai sempre più legata a Roma e all’Italia, dopo che l’Impero aveva perso le province galliche, ispaniche e africane. Ancora ricca, depositaria di un sapere politico e amministrativo, e di una cultura legata alla tradizione classica, ma anche religiosa, quest’aristocrazia era capace di giocare un ruolo locale, romano e italico, e anche mondiale; dopo il 476 essa divenne l’interlocutore del vescovo di Roma e dell’imperatore di Bisanzio, mentre si legava in modo ormai organico alla corte regia, rivestendo incarichi palatini. L’imperatore bizantino, dal canto suo, coltivava l’idea dell’Impero universale, e la componente religiosa di questa ideologia era essenziale. Le differenze in materia dottrinaria, mai risolte, divenivano questioni politiche e davano luogo a lotte di potere di straordinaria durezza e complessità. Interessi diversi si intrecciavano in giochi spesso inestricabili. Il Senato, composto ormai da poche famiglie, cercava di controllare le elezioni dei vescovi di Roma, e di mantenere il controllo dei patrimoni donati alle chiese titolari. Nel 483 un’assemblea di senatori, forse alla presenza di qualche esponente del clero, stabilì che il Senato doveva ratificare l’elezione del pontefice e introdusse una serie di limiti nell’uso dei beni della Chiesa. Fu una decisione subito contestata, e Gelasio (492-496) e Simmaco (498-514), due papi di grande personalità, la vanificarono. Nuove lotte per l’elezione papale si scatenarono alla fine del V secolo, provocando fratture profonde nella Chiesa e tra gli aristocratici41. Tuttavia queste vicende, ormai quasi municipali, si accompagnarono a una dimensione internazionale: gli stessi aristocratici che lottavano per il potere a Roma erano i protagonisti di ambasciate in Oriente, proponendosi come interlocutori privilegiati anche in materia di fede; una situazione non sempre condivisa dal vescovo di Roma, che pure di quegli ambasciatori si serviva, e che coinvolgeva il re goto. La questione principale era costituita dall’Henotikon dell’imperatore Zenone, non accolto in Occidente, e dallo scisma provocato dal patriarca Acacio. Intorno a questa vicenda si combatté una lotta per la supremazia tra il potere imperiale e il vescovo di Roma che coinvolse aspetti religiosi e politici. Gelasio, con alcuni famosi interventi, sancì nell’occasione il principio della divisione dei poteri e della subordinazione dell’imperatore al vescovo di Roma. Fu un pronunciamento legato alla questione acaciana e quindi in parte contingente, che tuttavia avrebbe avuto enorme rilievo in seguito. Solo la riconquista bizantina dell’Italia, con Giustiniano, e la sua volontà di imporre le proprie convinzioni dottrinarie come base per l’unità politica e religiosa dell’Impero avrebbero posto fine a questa situazione. Dopo, quel mondo sarebbe stato molto diverso.
1 Per il periodo in generale cfr. E. Stein, Histoire du Bas-Empire, 2 voll., Paris 1949-1959; A.H.M. Jones, The Later Roman Empire (284-602). A Social, Economic and Administrative Survey, 3 voll., Oxford 1964; per il rapporto tra pagani e cristiani cfr. R. MacMullen, Paganism in the Roman Empire, New Haven-London 1981; Id., Christianizing the Roman Empire (A.D. 100-400), New Haven-London 1984; Id., Christianity & Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, New Haven-London 1997; Id., The Second Church. Popular Chistianity, A.D. 200-400, Atlanta 2009; R. Lane Fox, Pagans and Christians, London 1986; A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1999; P. Brown, La formazione dell’Europa cristiana, Roma-Bari 2006; per le aristocrazie nel tardo impero si veda M.T.W. Arnheim, The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire, Oxford 1972; J. Matthews, Western Aristocracies and Imperial Court, A.D. 364-425, Oxford 1975; M. Kahlos, Debate and Dialogue. Christian and Pagan Cultures, c. 360-430, Aldershot 2007; Al. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011; importanti per alcuni dei temi qui trattati i saggi raccolti in Ch. Pietri, Roma Christiana: Recherches sur l’Église de Rome, 2 voll., Roma 1976; La parte migliore del genere umano. Aristocrazie, potere e ideologia nell’occidente tardo antico, a cura di S. Roda, Torino 1994; Istituzioni, carismi ed esercizio del potere, cit.; Pagans and Christians in the Roman Empire: The Breaking of a Dialogue (IVth-VIth Century A.D.), Proceedings of the International Conference at the Monastery of Bose (Bose 20-22 October 2008), ed. by P. Brown, R. Lizzi Testa, Wien-Zürich-Berlin-Münster 2011; Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico, Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze 24-26 settembre 2009), a cura di G.A. Cecconi, C. Gabrielli, Bari 2011.
2 Su Senato e ordine equestre tra III e IV secolo posizioni diverse in F. Jacques, L’ordine senatorio attraverso la crisi del III secolo, in Società romana e impero tardoantico, a cura di A. Giardina, I, Roma-Bari 1986, pp. 81-225; M. Christol, Essai sur l’évolution des carrières sénatoriales dans la seconde moitié du IIIe siècle ap. J.C., Paris 1986; A. Chastagnol, Le Sénat romain à l’époque impériale. Recherches sur la composition de l’Assemblée et le statut de ses membres, Paris 1992; sul Senato in generale L. Cracco Ruggini, Il Senato tra due crisi (III-VI secolo), in Il Senato nella storia, I, Il Senato nell’età romana, a cura di E. Gabba, Roma 1998, pp. 223-375; P. Heather, Senators and Senates, in The Cambridge Ancient History, XIII, The Late Empire, A.D. 337-425, ed. by Al. Cameron, P. Garnsey, Cambridge 1998, pp. 184-210; per alcuni dei temi qui trattati cfr. Le trasformazioni delle élite in età tardoantica, Atti del convegno internazionale (Perugia 15-16 marzo 2004), a cura di R. Lizzi Testa, Roma 2006.
3 Cod. Theod. VI 2,13.
4 Questa è, nella sostanza, la posizione di P. Brown, Aspects of the Christianization of the Roman Aristocracy, in Journal of Roman Studies, 51 (1961), pp. 1-11, ora in Id., Religione e società nell’età di Sant’Agostino, Torino 1975, pp. 151-171; M.R. Salzman, The Making of a Christian Aristocracy: Social and Religious Change in the Western Roman Empire, Cambridge (MA) 2002.
5 Per il cosiddetto editto di Milano cfr. Lact., mort. pers. 48,3; Eus., h.e. X 5; per la legge di Costanzo cfr. Cod. Theod. XVI 10,2 («quicumque contra legem divi principis parentis nostri […] ausus fuerit sacrificia celebrare»); sull’aruspicina domestica e la magia si vedano Cod. Theod. IX 16,1-2 (320?); XVI 10,1 (320/321); IX 16,3 (321). Per la politica religiosa di Costantino cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano, Napoli 1977; si vedano le diverse posizioni in S. Bradbury, Constantine and the Problem of Anti-Pagan Legislation in the Fourth Century, in Classical Philology, 89 (1994), pp. 120-139, e J. Curran, Constantine and the Ancient Cults of Rome: The Legal Evidence, in Greece & Rome, 43 (1996), pp. 68-80; cfr. ora, con ampia discussione e bibliografia, M. Kahlos, Forbearance and Compulsion. The Rhetoric of Religious Tolerance and Intolerance in Late Antiquity, London 2009, pp. 56-64; T.D. Barnes, Constantine: Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Oxford 2011, la più argomentata discussione a favore di una precoce politica antipagana di Costantino.
6 In generale si veda R.M. Errington, Roman Imperial Policy from Julian to Theodosius, Chapel Hill 2006; importante la recente discussione dei problemi in M. Kahlos, Rhetoric and Realities: Themistius and the Changing Tides in Imperial Religious Policies in the Fourth Century, in Politiche religiose, cit., pp. 287-304; per i problemi della legislazione tardoantica cfr. J. Matthews, Laying Down the Law. A Study of the Theodosian Code, New Haven 2000.
7 Sui sacrifici cfr. Cod. Theod. XVI 10,2; XVI 10,5 (353) sui sacrifici notturni; XVI 10,6 (356); XVI 10,4 (356?); sulla magia e l’aruspicina cfr. XI 36,7 (344); IX 42,2 (356); IX 16,5 (356); IX 16,6 (357); IX 16,4 (357); IX 42,4 (358).
8 Su Giuliano si vedano almeno G.W. Bowersock, Julian the Apostate, Cambridge (MA) 1978; P. Athanassiadi-Fowden, Julian and Hellenism. An Intellectual Biography, Oxford 1981; per la lettera di Giuliano al Senato di Roma, le accuse a Costantino e Costanzo, e la risposta dell’assemblea cfr. Amm., XXI 7-8.
9 Per il decreto di Giuliano si veda Iul., Ep. 61, che integra Cod. Theod. XIII 3,5 (362), dalla quale è stata omessa la disposizione anticristiana; per le posizioni polemiche di cristiani e pagani contemporanei cfr. Amm., XXII 10,7 e XXV 4,20; Gr. Naz., or. 4,5,100-105.
10 Cod. Theod. IX 16,9 (371). Sulle problematiche qui accennate è fondamentale R. Lizzi Testa, Senatori, popolo, papi. Il governo di Roma al tempo dei Valentiniani, Bari 2004.
11 Cod. Theod. X 1,8 (restituzione dei beni); XVI 2,18 (abolizione dei provvedimenti di Giuliano); XVI 2,20 (sulle vedove e gli orfani); IX 16,8-10 (aruspicina e maleficii). Sulla vicenda di Damaso e Ursino Collectio Avellana I-XIII raccoglie un dossier con documenti antidamasiani, fra cui i Gesta inter Liberium et Felicem episcopos; antidamasiano è anche il Libellus precum, Collectio Avellana II 49-58 e 79-86; Amm. XXVII 3,12 e 9,8. Per un’ampia discussione cfr. R. Lizzi Testa, Senatori, cit., pp. 130-206.
12 Su Pretestato una esauriente biografia in M. Kahlos, Vettius Agorius Praetextatus. Senatorial Life in Between, Rome 2002.
13 Si segue nel testo l’impostazione di P. Brown, Christianization and Religious Conflict, in The Cambridge Ancient History, cit., pp. 632-664, e R. Lizzi Testa, Le relazioni tra pagani e cristiani: nuove prospettive su un antico tema, in Cristianesimo nella Storia, 31 (2009), pp. 255-276; Id., Legislazione imperiale e reazione pagana: i limiti del conflitto, in Pagans and Christians, cit., pp. 467-491, in dissenso soprattutto con la posizione di Al. Cameron, The Last Pagans of Rome, in The Transformation of Urbs Roma in Late Antiquity, Proceedings of a Conference held at the University of Rome ‘La Sapienza’ and at the American Academy in Rome (Rome February 13-15 1997), ed. by W.V. Harris, Portsmouth (RI) 1999, pp. 109-121, e ora in Id., The Last Pagans, cit.; per i provvedimenti di Graziano e i problemi della fine dei culti pagani e dei sacerdozi si veda R. Lizzi Testa, Christian Emperor, Vestal Virgins, and Priestly Colleges: Reconsidering the End of Roman Paganism, in Antiquité Tardive, 15 (2007), pp. 251-262; Id., Augures et Pontifices: Public Sacral Law in Late Antique Rome (Fourth to Fifth Centuries AD), in The Power of Religion in Late Antiquity, ed. by A. Cain, N. Lenski, Ashgate 2009, pp. 251-278; S. Orlandi, Gli ultimi sacerdoti pagani di Roma: analisi della documentazione epigrafica, in Pagans and Christians, cit., pp. 426-466; J. Rüpke, Individual Appropriations and Institutional Changes: Roman Priesthoods in the Later Empire, in Politiche religiose, cit., pp. 261-274.
14 Symm., rel. III 10.
15 I documenti sulla questione dell’altare della Vittoria: Symm., rel. III (traduzione e commento in D. Vera, Commento storico alle Relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981, pp. 12-23) e Ambr., epist. 17-18 (traduzione inglese e commento in Ambrose of Milan: Political Letters and Speeches, ed. by J.H.W. Liebeschuetz, C. Hill, Liverpool 2005, pp. 61-94). Si veda N.B. McLynn, Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, Berkeley 1994; in un senso diverso da quello seguito qui Al. Cameron, The Last Pagans, cit., pp. 39-51.
16 Cod. Theod. XVI 1,2 e 2,25.
17 Cod. Theod. XVI 10,10.
18 Cod. Theod. XVI 10,11; per la legge indirizzata a Rufino Cod. Theod. XVI 10,12; A. Baldini, Problemi della tradizione sulla ‘distruzione’ del Serapeo di Alessandria, in Rivista storica dell’Antichità, 15 (1985), pp. 97-152.
19 Una recente messa a punto sul Frigido e i problemi connessi in M.R. Salzman, Ambrose and the Usurpation of Arbogastes and Eugenius: Reflections on the Pagan-Christian Conflict Narratives, in Journal of Early Christian Studies, 18 (2010), pp. 191-223; Al. Cameron, The Last Pagans, cit., pp. 93-131, per la tesi dell’assenza di motivazioni religiose nell’usurpazione e nell’azione di Flaviano.
20 Cod. Theod. XVI 10,13 (395); XVI 10,14 (396); XV 1,36 (397), distruzione dei templi; XVI 10,16 (399), distruzione dei templi rurali; XVI 10,17-18 (399), rispetto dei templi e delle feste; XVI 10,15 (399), rispetto delle opere d’arte; Cod. Iust. XI 70,4 (397), Cod. Theod. X 3,5 (400), XV 1,41 (401), X 10,24 (405), X 10,32 (425), XI 20,6 (430) sui beni dei templi; XVI 10,20 (415) sul culto provinciale in Africa; XVI 10,23-24 (423), interdizione dei sacrifici; XVI 10,25 del 435 riprende le disposizioni per la distruzione dei templi eventualmente rimasti; XVI 10,24 del 423 dispone che i pagani tranquilli non vengano molestati.
21 Geront., v. Mel. IV 50-55; PLRE II, s.v. Rufius Antonius Agrypnius Volusianus 6, pp. 1184-1185.
22 A. Momigliano, The Disadvantages of Monotheism for a Universal State, in Id., On Pagans, Jews and Christians. Collected Essays, Middletown 1987, pp. 142-158; sulle religioni nell’Impero cfr. M. Beard, J.A. North, S. Price, Religions of Rome, 2 voll., Cambridge 1998; Pagan Monotheism in Late Antiquity, ed. by P. Athanassiadi, M. Frede, Oxford 1999.
23 Il rescritto di Spello in CIL XI 5265 = ILS 705.
24 L’epitafio in CIL VI 1756b = ILCV 63; J. Matthews, Western Aristocracies, cit., pp. 195-197.
25 Al. Cameron, The Last Pagans, cit., pp. 218-220; in generale ivi, pp. 173-205 per un’interpretazione delle conversioni pagane nell’aristocrazia. Si veda M.R. Salzman, The Making of a Christian Aristocracy, cit.
26 Hier., epist. 107,2. J. Matthews, Western Aristocracies, cit., p. 23.
27 Lib., Or. 30 (Pro Templis); J. Matthews, Western Aristocracies, cit., pp. 142-144; cfr. N. McLynn, Genere Hispanus: Theodosius, Spain and Nicene Orthodoxy, in Hispania in Late Antiquity. Current Perspectives, ed. by K. Bowes, M. Kulikowski, Leida 2005, pp. 121-149. L’attacco di Libanio a Cynegius fu molto duro, e il successore di Cynegius fu un pagano, Tatianus: segno di una politica non sistematica, nella quale c’era spazio anche per la polemica di Libanio, che del resto trovò riscontro nelle leggi di Teodosio a tutela dei templi, pochi anni dopo.
28 Cfr. n. 13. Per quanto riguarda il Phrygianum e il significato delle iscrizioni, Al. Cameron, The Last Pagans, cit., pp. 142-148, ne limita il valore nel quadro di una consapevole affermazione religiosa.
29 Per il Carmen fondamentale L. Cracco Ruggini, Il paganesimo romano fra religione e politica (384-394 d.C.): per una reinterpretazione del “Carmen contra paganos”, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 23,1 (1979), Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, Memorie, VIII, pp. 1-144, e ulteriori argomenti a favore dell’identificazione del destinatario in Pretestato in Al. Cameron, The Last Pagans, cit., pp. 273-319.
30 Sulla tolleranza cfr. M. Kahlo, Forbearance, cit.; per una recente impostazione del problema nei suoi termini concettuali Politiche religiose, cit.: G.A. Cecconi, Introduzione, ivi, pp. 7-19, con bibliografia aggiornata; V. Arena, Tolerance, Intolerance, and Religious Liberty at Rome: an Investigation in the History of Ideas, ivi, pp. 147-164, con osservazioni importanti anche per il periodo qui considerato.
31 Valentiniano: Cod. Theod. IX 16,9 cit.; Amm. XXX 9,5. È significativo che lo storico critichi Giuliano, che in generale ammira, e lodi Valentiniano, che disapprova fortemente, per la politica religiosa. La tolleranza era un bene in assoluto per alcuni ambienti, pagani e cristiani.
32 Them., Or. 5 e 6, a Gioviano e Valentiniano, entrambe del 364. Da ultimo M. Kahlos, Rhetoric, cit., pp. 287-304, con discussione e bibliografia.
33 S. Calderone, Costantino e il cattolicesimo, I, Firenze 1962, rimane importante.
34 Importanti contributi su Costanzo in Eglise et l’empire au IVe siècle. Sept exposé suivis de discussions, éd. par A. Dihle, (Entretiens sur l’Antiquité Classique, 34), Genève 1989; P. Barceló, Constantius II. und seine Zeit. Die Anfänge des Staatskirchentums, Stuttgart 2004; da ultimo B. Scardigli, Tolleranza religiosa di Costanzo II?, in Politiche religiose, cit., pp. 275-285.
35 Collectio Avellana II 84-85; per la regalis auctoritas II 83,4-8; R. Lizzi Testa, Senatori, cit., pp. 171-203.
36 Collectio Avellana IIa, il rescritto indirizzato al prefetto del pretorio Cynegius, assente nel Codice Teodosiano.
37 Cod. Theod. XVI 5,4 (376); XVI 5,5 (379).
38 Cod. Theod. XVI 5,6-24, tra il 381 e il 394, per le leggi teodosiane. Il libro XVI del Codice Teodosiano elenca le leggi antiereticali successive. Cfr. E. Volterra, Appunti intorno all’intervento del vescovo nei processi contro gli eretici, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 1 (1934), pp. 453-468; L. De Giovanni, Chiesa e Stato nel Codice Teodosiano. Saggio sul libro XVI, Napoli 1980; Id., Ortodossia, eresia, funzione dei chierici. Aspetti e problemi della legislazione religiosa tra Teodosio I e Teodosio II, in Politica ecclesiastica e legislazione religiosa dopo l’editto di Teodosio I del 360 d.C., VI Convegno internazionale (Spello, Perugia, Acquasparta, Tuoro, Orvieto 12-15 ottobre 1983), Città di Castello 1986, pp. 59-76; G. Barone-Adesi, Eresie «sociali» ed inquisizione teodosiana, ivi, pp. 119-166; G. Puglisi, Giustizia criminale e persecuzioni antieretiche: Priscilliano e Ursino, Ambrogio e Damaso, in Siculorum Gymnasium, 43 (1990), pp. 91-137; M.V. Escribano Paño, La construction de l’image de l’hérétique dans le Code Théodosien XVI, in Empire chrétien et Église aux IVe et Ve siècles. Integration ou «concordat»? Le temoignage du Code Théodosien, Actes du Colloque international (Lyon 6-8 octobre 2005), éd. par J.-N. Guinot, F. Richard, Paris 2008, pp. 390-412; L. Cracco Ruggini, Il Codice Teodosiano e le eresie, in Droit, réligion et société dans le Code Théodosien, Troisièmes journées d’Etude sur le Code Théodosien (Neuchâtel 15-17 février 2007), éd. par J.-J. Aubert, P. Blanchard, Ginevra 2009, pp. 21-37.
39 M.V. Escribano Paño, Iglesia y Estado en el certamen priscilianista. Causa ecclesiae y iudicium publicum, Zaragoza 1988; da ultimo C. Gabrielli, Legislazione conciliare e priscillianesimo, in Politiche religiose, cit., pp. 319-337.
40 Collectio Avellana 14-37 è la fonte rilevante. Per gli eventi cfr. S.I. Oost, Galla Placidia Augusta. A Biographical Essays, Chicago-London 1968, pp. 166-168.
41 La scriptura in Acta Synodorum III 4 (MGH AA XII), pp. 445-446; si veda G.B. Piccotti, Sulle relazioni fra Re Odoacre, il Senato e la chiesa di Roma, in Rivista Storica Italiana, s. 5, 4 (1959), pp. 363-386; per le lotte per l’elezione del vescovo di Roma tra Simmaco e Lorenzo Ch. Pietri, Le Sénat, le peuple chrétien et les partis du cirque à Rome sous le pape Symmaque (498-514), in Mélanges d’archéologie et d’histoire, 78 (1966), pp. 123-139, ora in Id., Christiana Respublica. Élements d’une enquête sur le christianisme antique, II, Roma 1997, pp. 771-787; per i rapporti tra Chiesa e aristocrazia, il Senato, le ambascerie in Oriente Id., Aristocratie et société cléricale dans l’Italie chrétienne au temps d’Odoacre et de Théodoric, in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 93 (1981), ora in Id., Christiana Respublica, cit., pp. 1007-1057; un’analisi delle famiglie senatorie del periodo in S. Orlandi, Epigrafia anfiteatrale dell’Occidente romano, VI, Roma. Anfiteatri e strutture annesse, con una nuova edizione e commento delle iscrizioni del Colosseo, Roma 2004. Per gli avvenimenti in generale O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 69-82; J. Moorhead, Theodoric in Italy, Oxford 1992, pp. 195-207; P. Armory, People and Identity in Ostrogothic Italy, 489-554, Cambridge 1997, pp. 128-209.