La religione romana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A Roma essere religiosi significa onorare gli dèi con atti di culto tradizionali. Tale attenzione alla pratica cultuale caratterizza la religione romana come “ritualista” (termine che non è usato in questo contesto con una connotazione negativa). La religione romana è inoltre civica e comunitaria. La pietas che contraddistingue un Romano consiste nel rispetto degli dèi, della patria e della famiglia.
Il termine latino religio ha un significato profondamente diverso rispetto al moderno concetto di “religione”. I Romani lo interpretano sulla base di diverse etimologie, cioè spiegazioni dell’origine della parola. Anche se spesso queste opinioni non suscitano il consenso dei linguisti attuali, esse sono ugualmente importanti perché ci permettono di conoscere il significato che la cultura romana attribuisce a questo termine. Per Cicerone ad esempio (De natura deorum, 2, 72) religio deriva da relegere, cioè “raccogliere”. In un altro passo sempre Cicerone (De inventione 2, 161) definisce la religio come ciò che spinge gli uomini a occuparsi con cura degli dèi e che assicura che vengano compiuti i riti in loro onore. In questa prospettiva, possiamo inserire le riflessioni di uno studioso moderno, Emile Benveniste (Le vocabulaire des institutions indo-européennes vol. 2, 2001, pp. 267-272, prima ed. 1969). Secondo lui infatti la religio sarebbe una disposizione d’animo che “trattiene” dal compiere qualcosa, piuttosto che uno stimolo a compiere un’azione. Relegere avrebbe il significato di “riprendere per fare una nuova scelta, ritornare su una procedura anteriore”. Da quest’accezione si passa facilmente all’idea di “scrupolo” religioso, ben attestata dagli autori antichi. Essere religens secondo Benveniste significherebbe dunque “preoccuparsi” delle cose, mentre essere religiosus significa essere eccessivamente scrupoloso. Potremmo dunque affermare che la religio per i Romani è propriamente lo “scrupolo”, la “cura” adoperati nel culto divino. Usato in questo senso, il termine religio si ritrova del resto, già all’epoca arcaica, anche al di fuori dell’ambito religioso. Il personaggio di una commedia plautina (Curculio, 350) ad esempio, per rifiutare un invito a cena, si esprime in questo modo: “Vocat me ad cenam; religio fuit, denegare nolui”, una frase che significa letteralmente “mi vuole invitare a cena, ho uno scrupolo, ho voluto rifiutare”. Tale “scrupolo” è concepito come qualcosa che trattiene dal comportarsi con leggerezza. Nella stessa direzione (la religio come qualcosa che “trattiene”) va anche un’altra etimologia antica, quella proposta da Masurio Sabino (giurista di epoca augustea) citato da Aulo Gellio (Noctes Atticae 4, 9, 8-9) secondo cui religio viene da relinquere (“lasciare”). Sabino precisa: “È ‘religioso’ ciò che per la sua sacralità è lontano e separato da noi. La parola deriva dal verbo relinquere […] Stando a questa spiegazione di Sabino templi e santuari ai quali si deve accedere non alla rinfusa né alla leggera ma in condizione di purezza e con cerimonia religiosa, sono oggetto di reverenza e sacro timore piuttosto che di volgarizzazione”.
Diversa è invece l’interpretazione che fa derivare religio da religare (“legare”), una spiegazione che incontra il favore in particolare degli autori cristiani. Lattanzio (Institutiones divinae 4, 28, 12) per esempio sostiene che religio proviene dal “legame di pietà” col quale Dio “ha legato l’uomo a sé e l’ha condotto alla pietà”. Questo tipo di rapporto è proprio della concezione cristiana secondo la quale l’uomo è legato al dio unico da un vincolo esclusivo di fedeltà. Lattanzio come altri autori cristiani riprende la riflessione degli autori classici sul termine religio cercando di adattarla ai valori della nuova fede.
Il termine religio dovrà attraversare ancora molti cambiamenti e riaggiustamenti durante il Medioevo, il Rinascimento e le epoche moderne, prima di assumere il senso di “sistema di credenze” che gli attribuiamo oggi. In questa lunga storia il passaggio dalla concezione “politeista” a quella cristiana segna una tappa fondamentale. È a questo punto infatti che religio subisce una svolta fondamentale: da “cura nel compiere i riti” diventa “legame verso un unico dio”.
Per i Romani ogni popolo ha la propria religio, cioè la propria maniera di onorare gli dèi. Essere religiosi non significa possedere l’unica chiave per raggiungere gli dèi, ma avere una delle chiavi possibili, che corrisponde, per ogni comunità, a quella fissata dalla tradizione, cioè alla regola degli antenati (il mos maiorum). Festo (De verborum significatu p. 146, ed. W. M. Lindsay, Stuttgart, 1997=1913) spiega che “mos è l’‘istituzione dei padri’; cioè il ricordo delle regole antiche soprattutto a proposito delle questioni religiose e dei riti antichi”.
La religione romana è a volte definita dagli studiosi come “ritualista”, perché il rito vi riveste un’importanza fondamentale. Non esistono né l’idea di dogma né il concetto di peccato. La purezza richiesta dal compimento di certi riti non riguarda né lo stato d’animo del celebrante né le sue idee. Essere puri infatti può significare semplicemente avere dei vestiti puliti, non essersi macchiati di nessun crimine, o anche essersi astenuti da atti sessuali in un periodo immediatamente precedente il rito.
Il concetto espresso dall’aggettivo “ritualista” non significa che la religione romana consista in una serie di pratiche senza senso che si ripetono automaticamente. Al contrario, il “credo” dei romani si esplica nell’esecuzione rituale di gesti che sono di per se stessi portatori di senso. Compiere un sacrificio per esempio significa fare un’offerta solenne, gesto attraverso il quale si affermano l’esistenza degli dèi, la loro superiorità e il loro accordo con il popolo romano. Il rito dunque consiste in una serie di gesti che hanno “senso” all’interno della cultura di riferimento (cfr. le ricerche di John Scheid, in particolare “Le sens des rites. L’exemple romain”, in Rites et croyances dans les religions du monde romain, a cura di John Scheid, Entretiens sur l’Antiquité, Fondation Hardt, vol. 53, Genève 2007, 39-71).
Quest’aspetto ritualista della religione romana non significa che essa sia incompatibile con le emozioni. Al contrario, il termine religio è spesso usato in combinazione con metus, cioè il “timore” reverenziale che gli uomini provano al contatto con le divinità. Le epifanie divine così come i prodigi suscitano forti reazioni emotive. Sulla religione privata abbiamo meno informazioni, ma possiamo facilmente immaginare un quadro analogo. Le donne che si recano al tempio di una dea per implorare la sua protezione per i bambini che nasceranno, per esempio, non lo fanno in modo macchinale, senza lasciarsi coinvolgere dalle emozioni. Anche i luoghi di culto degli dèi protettori della medicina, come quello di Esculapio sull’Isola Tiberina, sono certamente teatro di manifestazioni emozionali come la paura di non ottenere la guarigione o la gioia per sintomi attestanti che le preghiere sono state esaudite.
A Roma come in Grecia si appartiene alla religione per nascita, nel senso che non esistono riti d’iniziazione alla religione civica o di conversione come il battesimo. Essere cittadini significa anche avere dei doveri religiosi verso la propria città, il proprio quartiere e la propria famiglia. Esistono riti d’iniziazione per alcuni culti particolari (i cosiddetti “culti a mistero”), ma quest’iniziazione non è esclusiva. Un cittadino che esce da un mitreo, cioè un santuario dedicato a Mitra, può recarsi subito dopo nel tempio di Giove, oppure può rivolgersi nell’ambito dello stesso mitreo alle altre divinità che vi risiedono. Proprio perché si onorano più divinità, la religione romana è stata definita “politeista” prima da ebrei e cristiani, in seguito dai moderni in generale.
La religione romana pubblica è collettiva. Compiere una cerimonia significa riunirsi e assistere al rito celebrato dal rappresentante del gruppo (generalmente la persona di livello sociale più alto, cioè un magistrato), che fa da intermediario tra la comunità degli uomini e quella degli dèi. Questo non significa che non esista una religiosità personale, ma essa rientra nella sfera delle pratiche private, come le offerte depositate nei templi e le preghiere recitate nelle case.
Il diritto che si occupa di questioni religiose è lo ius sacrum che costituisce un capitolo dello ius publicum (“diritto pubblico”), perché la religione a Roma non è separata dalle altre sfere della vita della comunità, ma ne fa parte.
Un’altra caratteristica che distingue la religione romana da altre religioni (come per esempio quelle che pratichiamo oggi) è l’importanza dell’escatologia, cioè delle aspettative che il credente nutre sulla sua sorte nell’aldilà. Se la preoccupazione per la vita dopo la morte sembra essere al primo posto per un cristiano, essa non lo è certo per un Romano, per il quale anche i funerali sono un modo per celebrare la vita nell’“aldiqua” piuttosto che quella nell’aldilà. La principale finalità della religione romana è quella di mantenere una buona relazione con gli dèi (pax deorum) condizione indispensabile per assicurare la prosperità allo stato romano e la serenità dei cittadini. La speranza di una vita migliore dopo la morte svolge al contrario un ruolo importante nei culti “a mistero” che si diffondono a Roma accanto ai culti civici.
Abbiamo detto che lo scopo della religione è di assicurare la pax deorum, cioè la benevolenza degli dèi nei confronti dei Romani. Tutto ciò che può turbare questo “quieto vivere” deve essere represso. Il caso più noto è quello dello “scandalo dei Baccanali” (186 a.C.) quando un gruppo di cittadini, uomini e donne di tutte le estrazioni sociali, si riunisce per celebrare un culto in onore del dio Bacco (il greco Dioniso). Le autorità romane intervengono per impedire queste riunioni mettendo a morte buona parte dei partecipanti. Si tenta così di evitare il pericolo che si crei una comunità nella comunità. Le persecuzioni dei cristiani si spiegano in parte in base allo stesso principio. In entrambi i casi, le autorità romane non sono preoccupate perché i loro concittadini o gli abitanti dell’impero si dedicano a una religione falsa e nociva per gli individui, ma piuttosto perché queste organizzazioni religiose possono rappresentare un pericolo per lo stato romano.
Il termine pietas ha un significato che non è esattamente corrispondente al termine moderno “pietà”, in quanto esso designa piuttosto il sentimento di rispetto che si ha verso gli dèi, la patria e la famiglia. L’esempio per eccellenza della pietas romana è costituito dal personaggio di Enea, che parte da Troia trasportando il padre sulle spalle e recando con sé le effigi degli dèi patrii e il figlio per fondare una nuova patria.
Il mito di fondazione del tempio della dea Pietas chiarisce ulteriormente come i Romani concepiscono questo legame verso i genitori.
Valerio Massimo
Dicta et facta memorabilia, Libro V, cap. IV, 7
Un pretore, dopo aver condannato a morte nel suo tribunale una donna di nobile casato, la consegnò al triumviro perché ne curasse l’esecuzione capitale nel carcere. Il capo degli addetti alla custodia la prese in consegna, ma, mosso da pietà, non la fece strangolare subito: anzi permise che la figlia, diligentemente perquisita ad evitare che introducesse cibo, s’incontrasse con lei, sicuro che la condannata sarebbe morta di fame. Erano trascorsi parecchi giorni e il carceriere si domandava con che mai ella si sostentasse così a lungo, quand’ecco, osservata con maggiore attenzione la figlia, si accorse che costei, denudata la mammella, placava la fame della madre con il suo latte. Riferito il fatto ammirevole dal carceriere al triumviro, dal triumviro al pretore, dal pretore al collegio dei giudici, la sua novità valse la remissione della pena. Dove non giunge o che cosa non sa escogitare l’amor filiale, che scoprì un inusitato sistema per salvare una madre nel carcere! Che cosa più strano, che più inaudito di una madre allattata da una figlia? Si potrebbe pensare ad un fatto contro natura se prima legge di natura non fosse amare i genitori.
Valerio Massimo, Dicta et facta memorabilia, trad. it. R. Faranda, Milano, UTET, 1971
L’empietà consiste al contrario nel mancato rispetto delle regole che determinano il culto divino, come per esempio compiere attività lavorative in un giorno riservato al culto degli dèi. Se questo è fatto in buona fede, si può rimediare facendo delle offerte agli dèi, mentre se la trasgressione è cosciente, allora l’empietà resta inespiabile.
I Romani indicano le loro pratiche religiose con il termine generico di sacra cioè “cose sacre, cose che appartengono agli dèi”. Il termine caerimonia si può tradurre come “rito”, mentre il termine latino ritus non ricopre esattamente lo stesso campo semantico. In senso letterale, infatti, ritus indica la maniera di compiere le cerimonie. È passato solo più tardi a significare l’atto religioso in se stesso.
Il termine “culto” deriva da cultus e da colere, termini che indicano due concetti in origine legati tra loro, cioè “abitare” e “coltivare”. In un certo senso, dunque, colere significa “coltivare gli dèi” con atti che li onorano. Cicerone lo usa spesso nel senso di “onorare”: nel De natura deorum (1, 119) afferma che si è soliti onorare (colere), pregare (precari) e venerare (venerari) gli uomini divinizzati. Nello stesso trattato (2, 71) presenta le caratteristiche principali del culto: “Il culto migliore degli dèi e anche il più casto, il più santo, il più devoto, consiste nel venerare sempre gli dèi con mente e con voce pure, integre e incorrotte”. Questo concetto di culto coincide con quello di religio proprio della cultura romana di cui abbiamo discusso in apertura.
Marco Tullio Cicerone
De natura deorum, Libro II, 8
E se vogliamo confrontare la nostra cultura con quella delle popolazioni straniere, risulterà che siamo uguali o anche inferiori sotto ogni altro aspetto, ma che siamo molto superiori per quello che concerne la religione, cioè il culto degli dèi.
Cicerone, De natura deorum, trad. it. C. M. Calcante, Milano, BUR, 1996