La resistenza del paganesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra IV e V secolo la legislazione imperiale si fa sempre più rigida contro le forme di culto tradizionali. Il regno di Giuliano costituisce solo una parentesi, e la querelle sull’altare della Vittoria sembra dimostrare l’ineluttabilità del processo. Il paganesimo tuttavia resisterà ancora per alcuni secoli, per quanto sempre più confinato a circoli di sapore esoterico o a zone marginali e isolate.
Costantino non mira affatto a soppiantare le forme di culto tradizionali e al massimo si muove contro pratiche pagane considerate immorali: in particolare, sono distrutti o chiusi alcuni templi di Afrodite in Fenicia, dov’è praticata la prostituzione rituale. Passi più decisi vengono intrapresi dai suoi figli e successori: nel 341 Costante proibisce i sacrifici cruenti e Costanzo II, rimasto ben presto unico padrone dell’impero, emana leggi finalizzate a far chiudere i templi.
Questa tendenza subisce una battuta d’arresto in seguito alla reazione di Giuliano che, per quanto circoscritta nel tempo, mostra come il paganesimo non sia stato ancora definitivamente sconfitto. Non è un caso che Valentiniano I, ancora nel 371, abbia prudentemente autorizzato i culti tradizionali e l’aruspicina, con la sola esclusione dei riti magici e delle cerimonie notturne. Le misure antipagane riprendono però vigore intorno agli anni Ottanta del IV secolo, in particolare ad opera di Graziano e Teodosio, influenzato dal vescovo Ambrogio di Milano. Benché formalmente il culto tradizionale resti autorizzato, il suo svolgimento regolare viene compromesso prendendo di mira i sacerdoti, privati delle sovvenzioni statali e dichiarati incapaci di ereditare; nel 383 Graziano rinuncia anche al tradizionale titolo di pontefice massimo, visto come troppo compromettente. La situazione si fa ancora più pesante nel decennio successivo fino ad arrivare ad una costituzione dell’8 novembre 392 che proibisce, in tutto il territorio dell’impero, le visite ai templi, i sacrifici, e in definitiva ogni tipo di omaggio agli idoli. Anche sotto i successori di Teodosio (i figli Arcadio e Onorio, il nipote Teodosio II) sono reiterate queste misure, alle quali se ne aggiungono altre: nel 396 vengono proibiti i misteri eleusini (le Olimpiadi sono state interrotte già nel 394); i pagani risultano esclusi dall’esercito e dalle funzioni pubbliche; nel 423 i pagani restanti ("benché non ce ne debbano più essere") sono sanzionati con la confisca dei beni e l’esilio, e nel 435 si ordina la distruzione dei templi rimanenti.
Questa serie di misure appare, nel suo insieme, assolutamente impressionante; tuttavia, la stessa proliferazione di queste norme e la loro reiterazione (che non si conclude affatto nel V secolo: ulteriori misure antipagane verranno ribadite ancora cent’anni dopo da Giustiniano) dimostra che, in realtà, il paganesimo non è stato affatto estirpato dai territori imperiali. La resistenza dei culti tradizionali è documentata, in forme più o meno evidenti, sia per l’Oriente sia per l’Occidente, ed arriva anche a coinvolgere la stessa figura dell’imperatore nella persona di Giuliano, detto l’Apostata.
Figlio di un fratellastro di Costantino, Flavio Claudio Giuliano nasce a Costantinopoli nel 331 e trascorre buona parte della sua giovinezza nell’ombra, affidato alle cure di un vescovo ariano. Convertitosi segretamente al neoplatonismo, continua a mantenere una posizione defilata finché nel 355 non viene nominato cesare dal cugino Costanzo II, che gli affida la Gallia e la Britannia. Si rivela un abile generale e nel 361 è proclamato augusto dalle proprie truppe; la morte improvvisa di Costanzo evita la guerra civile e lo lascia unico padrone dell’impero. A quel punto, Giuliano non ha più remore e rivela apertamente la propria adesione al paganesimo, che cerca di riorganizzare nel corso dei due anni del suo breve regno.
Le misure prese da Giuliano, per quanto chiaramente ostili al cristianesimo, non sono improntate alla violenza e rivelano anzi una sottile comprensione delle cause che stanno alla base del crescente successo della nuova religione. Giuliano cerca di contrapporre una gerarchia pagana all’organizzazione che caratterizza la Chiesa, e si sforza anche di limitare il ruolo sociale del cristianesimo, proibendo ai suoi adepti di insegnare la letteratura e la filosofia, e al contempo incoraggiando i sacerdoti pagani a dedicarsi a opere di carità. L’imperatore, nella sua volontà di contrastare la nuova religione, si mostra benevolo anche nei confronti degli ebrei. In particolare, alla vigilia della spedizione contro la Persia nella quale avrebbe trovato la morte concepisce anche il progetto di ricostruire il Tempio di Gerusalemme, per il quale vengono effettivamente avviati i lavori: in questo proposito si nasconde forse anche la volontà di confutare la profezia neotestamentaria attribuita a Gesù, per il quale del Tempio non sarebbe rimasta "pietra su pietra". Per quanto Giuliano si mostri abile ed energico, il suo tentativo di riforma del paganesimo, tuttavia, non è compreso da molti degli strati della popolazione che pure coltivavano ancora l’antica religione, e viene abbandonato subito dopo la sua morte. La sua visione intellettualistica e organizzata era probabilmente troppo distante dalle pratiche tradizionali, caratterizzate per loro natura da individualismo e localismo, e non fa presa salvo che in alcuni circoli di corte. Il paganesimo sopravviverà ancora per secoli, ma in una forma polarizzata che, in definitiva, lo condanna ad essere sempre più marginalizzato: da un lato, presso poche grandi famiglie di lignaggio senatorio o in circoli più o meno esoterici dove si pratica una rarefatta filosofia neoplatonica; dall’altro, in ambienti rurali remoti ed isolati.
Soprattutto nella città di Roma, sempre più messa in ombra dalla nuova capitale di Costantinopoli, il paganesimo si identifica con le venerande tradizioni della res publica e non stupisce che in ambito senatorio molte famiglie si attacchino, con nobile devozione, ai suoi simboli, in una sorta di orgogliosa contrapposizione con le sedi del potere effettivo. Il caso più celebre è quello della vera e propria querelle che contrappone nel 384 il prefetto della città, Quinto Aurelio Simmaco, al vescovo di Milano, Ambrogio.
Augusto aveva collocato, nel 29 a.C., un celebre altare della Vittoria nell’aula del senato. Quest’altare viene rimosso una prima volta da Costanzo II; ricollocato da Giuliano, è allontanato una seconda volta dalla curia nel 382, per opera di Graziano. Simmaco a quel punto si reca a Milano per perorare la restituzione dell’altare, e nel suo discorso, che è conservato, sostiene la possibilità della convivenza tra le due religioni, descritte come due strade che conducono entrambe alla medesima divinità: "non è possibile, infatti, che un mistero tanto elevato possa essere raggiunto in una sola maniera". Le parole concilianti di Simmaco non fanno presa sul nuovo imperatore, Valentiniano II, che invece presta orecchio alle raccomandazioni di Ambrogio, pronto a sottolineare l’assoluta incompatibilità tra la fede cristiana dell’imperatore e la presenza di un altare pagano nel senato. L’ara della Vittoria, peraltro, in seguito viene reinstallata in maniera effimera nel corso dell’usurpazione di Eugenio, un retore proclamato augusto dal potente magister militum Arbogaste, di origine franca.
Benché personalmente di fede cristiana, Eugenio si affida a membri delle casate più in vista dell’aristocrazia pagana senatoria, appartenenti in particolare alla famiglia dei Nicomachi, dei quali appoggia l’attività in favore del culto tradizionale. Questo, peraltro, gli rende profondamente ostili sia Ambrogio sia soprattutto Teodosio, all’epoca in Oriente, che nel 394 lo sconfigge annientando così l’ultimo tentativo politico di rivalsa da parte del partito pagano. Agostino, scrivendo qualche anno dopo, ricorda che, nel tentativo di bloccare Teodosio, sulle Alpi sono state collocate statue di Giove incantate secondo riti teurgici: questo sembra indicare che il paganesimo delle famiglie senatorie di Roma, pur aderendo ai moduli della religione tradizionale, è comunque influenzato dal neoplatonismo, esattamente come avveniva nei circoli filosofici orientali. Non si deve peraltro pensare che in Occidente i pagani siano limitati a una casta di magnati nostalgici: la Vita di Martino scritta da Sulpicio Severo testimonia, ad esempio, come ancora nella seconda metà del IV secolo le campagne della Gallia pullulino di villaggi pagani i cui abitanti praticavano l’antica religione (per esempio il culto degli alberi) e reagiscono anche violentemente ai tentativi di cristianizzazione: la presenza pagana nelle regioni rurali è destinata a protrarsi ancora a lungo.
In Oriente l’ambito filosofico neoplatonico costituisce il principale baluardo dell’antica religione, peraltro sempre più caratterizzata dal ricorso a pratiche magiche, tese in particolare ad attivare la presenza divina all’interno di statue o talismani (si tratta della cosiddetta "teurgia"), che hanno negli oracoli caldaici il loro principale "testo sacro". La scuola di Atene resisterà fino al 529, quando verrà chiusa da Giustiniano. Questa lunga sopravvivenza, oltre che al quasi millenario prestigio della sede, può essere attribuita anche alla posizione relativamente decentrata della città e alla sua lontananza dai grandi patriarcati, caratterizzati spesso da un atteggiamento attivo e militante.
È il caso, ad esempio, di Alessandria: le tensioni tra le masse cristianizzate e gli altolocati circoli pagani sfociano, secondo l’interpretazione corrente, nell’uccisione della filosofa Ipazia, avvenuta nel 415. Ancora a lungo (fino a tutta l’epoca bizantina) sospetti di "criptopaganesimo" sarebbero periodicamente emersi nei confronti dei cultori della filosofia platonica in Oriente, dove peraltro, specie in zone remote, risultano attestati veri e propri focolai di resistenza della religione tradizionale. Il tempio di Iside sull’isola di File, all’estremo sud dell’Egitto, rimane attivo (anche grazie a trattati internazionali: è infatti molto venerato dal confinante popolo dei Blemmi, di cui si temono le incursioni) fino al tempo di Giustiniano; e sempre fino al VI secolo nell’oasi libica di Augila viene praticato il culto di Alessandro Magno. Nella città di Harran infine, l’antica Carre, il culto mesopotamico degli astri, venato di neoplatonismo ed ermetismo, sopravvive anche alla conquista islamica e continua ad essere praticato fino al Mille.