Vedi La responsabilita medica dell'anno: 2016 - 2018
La responsabilità medica
Attesa da tempo, la l. n. 24/2017 disciplina per la prima volta la responsabilità civile dei medici e degli ospedali, intervenendo sui criteri di accertamento della colpa, su quelli di liquidazione del danno, sull’obbligo di assicurazione, sulla disciplina delle azioni di regresso e surrogazione, e dettando altresì varie norme di diritto processuale. Nonostante tale aspirazione generalista, la legge consegna all’interprete vari ordini di problemi: principalmente di diritto intertemporale e di coordinamento con la cornice normativa in cui le nuove regole si inseriscono. Il contributo intende fornire al lettore un quadro generale delle novità introdotte dalla legge, evidenziandone i caratteri di novità rispetto al passato, e segnalarne talune criticità.
Il vecchio adagio errata medicorum terra tegit ormai da trent’anni era divenuto nel nostro Paese un ricordo.
Lungi dal restare invisibili, gli errori (veri e presunti) dei sanitari e degli ospedali a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso iniziarono a dar vita ad un contenzioso che crebbe con progressione geometrica1.
Giuristi, sociologi ed attuari hanno provato a spiegare il fenomeno con varie ragioni, tra le quali si è segnalato:
a) una più consapevole presa di coscienza dei propri diritti da parte degli utenti del servizio “sanità”;
b) l’attività di sensibilizzazione compiuta dalle associazioni di difesa dei diritti del malato;
c) l’accresciuta scolarizzazione della popolazione, che produce una maggiore attenzione ai propri diritti;
d) l’evoluzione dei mezzi di cura e diagnosi, che ha consentito sia un più approfondito controllo ab externo sull’attività del medico, sia l’esposizione di quest’ultimo al rischio derivante dal controllo e dal governo di strumentazioni assai sofisticate;
e) la diffusione – per un certo periodo di tempo – dell’assicurazione di responsabilità civile di medici ed ospedali, che dava ai danneggiati la certezza di poter fare affidamento su un debitore solvibile;
f) la crescita esponenziale degli importi liquidati a titolo di risarcimento del danno, specie nel caso di danno da morte.
Tutte queste spiegazioni saranno anche esatte, ma è innegabile che il più potente incentivo alla crescita del contenzioso in tema di responsabilità medica è stata l’elaborazione giurisprudenziale di regole ad hoc per questo tipo di responsabilità.
A partire dal 1989, infatti, la giurisprudenza iniziò a forgiare regole pretorie per giudicare la responsabilità dei sanitari: sia in tema di colpa, sia in tema di nesso di causa, sia in tema di riparto dell’onere della prova.
Queste regole agevolarono la posizione dell’attore (di norma, il danneggiato), generando così una reazione a catena, in virtù della quale la crescita del contenzioso ha favorito il consolidarsi di interpretazioni favorevoli all’attore, ed il consolidarsi di interpretazioni favorevoli all’attore ha favorito la crescita del contenzioso.
La crescita del contenzioso e dei risarcimenti, a sua volta, produsse una serie di effetti collaterali imprevisti ed imprevedibili: la classe medica iniziò a sentirsi – a torto o a ragione – “sotto assedio”, sospettando intenti persecutòri; le società di assicurazione si ritirarono a poco a poco dal mercato dalla r.c. professionale, a causa della intollerabile divaricazione della loss ratio tra premi raccolti ed indennizzi pagati; si iniziò a favoleggiare di “medicina difensiva”, ovvero di atteggiamenti diagnostici e terapeutici concepiti non al fine di curare il malato, ma al fine di evitare per quanto possibile contestazioni di sorta al medico (ad esempio, disporre ogni sorta di esami, anche inutili, per evitare l’accusa di negligenza). Una situazione, insomma, della quale il Parlamento non poteva più continuare a far finta di niente.
Vediamo ora quali furono queste regole create dai giudici, attraverso le quali divenne così problematica la posizione dei medici convenuti in giudizio.
In punto di diritto, esse furono principalmente cinque:
i) consentire al paziente di invocare la presunzione di colpa di cui all’art. 1218 c.c., anche quando non sia stato concluso nessun contratto tra questi ed il medico2;
ii) ritenere configurabile l’esistenza del nesso causale anche quando vi sia incertezza circa l’effettiva causa del danno, a condizione che il medico abbia posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno3;
iii) ravvisare la colpa del medico non solo quando non sia stato diligente nell’esecuzione dell’intervento, ma anche quando il paziente non sia stato da lui diligentemente informato della natura e dei rischi della prestazione medica; con la conseguenza che, in difetto di informazione, il medico potrà essere chiamato a rispondere delle conseguenze sfavorevoli dell’intervento, anche se non gli sia addebitabile alcuna colpa nell’esecuzione di questo4;
iv) un quarto, apprezzabile scostamento del “sistema” della responsabilità medica rispetto ai princìpi della responsabilità civile è rappresentato dall’estensione della colpa per omissione. In ambito extracontrattuale, ognuno ha l’obbligo di astenersi dal violare l’altrui sfera giuridica (neminem laedere), ma nessuno può essere costretto ad attivarsi per preservare gli altrui beni. Il medico invece, anche quando opera al di fuori di un rapporto contrattuale, è tenuto a conformare la propria condotta agli stessi princìpi di correttezza e buona fede che presiedono all’adempimento delle obbligazioni contrattuali, ed ha l’obbligo di attivarsi, anche ben oltre il limite dell’apprezzabile sacrificio, per accertare e curare non solo le patologie per le quali il paziente sia stato ricoverato, ma anche qualsiasi altra patologia dalla quale il paziente sia affetto, ove obbiettivamente riscontrabile. A tal riguardo sono molti anni, ormai, che la Corte di cassazione viene ripetendo che la diligenza esigibile dal medico deve essere «superiore alla media»5, e che la diligenza che «deve impiegare nello svolgimento [della] professione è quella del regolato ed accorto professionista, ossia del professionista esercente la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale»6;
v) il coronamento di questa giurisprudenza “protettiva” verso il paziente fu, infine, l’emersione ed il consolidamento della nozione di «danno da perdita delle chance di guarigione o sopravvivenza»7.
Ammettendo, infatti, che costituisca “danno” per il paziente non solo il peggioramento delle condizioni di salute dovuto ad un errore del medico, ma anche la perdita della sola possibilità di migliorare o guarire, la responsabilità medica si trasforma in qualcosa di molto simile ad una responsabilità oggettiva, o di posizione che dir si voglia: se, infatti, il paziente provava il nesso di causa tra condotta medica e danno, il medico veniva condannato; se il paziente, non la provava, il medico veniva condannato lo stesso, sul presupposto che il paziente aveva comunque perduto una chance di guarire8.
Quelle appena elencate erano, come detto, regole pretorie sì, ma pur sempre ormai consolidate. La materia della responsabilità medica, tuttavia, era anche afflitta da vari e tormentati contrasti: ad esempio, sul riparto dell’onere della prova del nesso di causa (addossato da talune decisioni al paziente9, da altre al medico10); oppure sulla validità della clausola claim’s made inserita in tutti i contratti di assicurazione della responsabilità civile sanitaria11.
Che la materia richiedesse dunque un provvido intervento del legislatore, era fuor di dubbio: sia perché la giurisprudenza, come s’è detto, cercando di rafforzare la posizione della parte debole (il paziente), senza avvedersene aveva finito non già per equilibrare le posizioni di attore e convenuto, ma per capovolgerle, rendendo “parte debole” del rapporto il sanitario o l’ospedale; sia perché permanevano comunque troppe incertezze, come sempre fomite di liti.
Per quanto detto in precedenza, i problemi sul tappeto, per i quali un intervento del legislatore sarebbe potuto essere risolutore, erano dunque principalmente tre:
i) dettare regole chiare sul nesso causale, e sul riparto della relativa prova;
ii) dettare regole chiare sull’accertamento della colpa, e sul riparto della relativa prova;
iii) adottare misure idonee a rianimare l’esanguemercato dell’assicurazione della r.c. sanitaria.
Di questi tre obiettivi, il primo è stato completamente trascurato dalla l. n. 24/2017; il secondo è stato regolato da norme in larga parte problematiche; il terzo è stato affrontato con misure delle quali appare incerta l’idoneità al raggiungimento dello scopo.
La l. n. 24/2017 contiene disposizioni raggruppabili in quattro insiemi: norme di diritto amministrativo, norme sulla responsabilità civile e penale, norme di diritto processuale, norme di diritto assicurativo.
Prima di esaminarle in dettaglio, riassumerò le principali novità introdotte da ciascun uno di questi gruppi di norme.
Norme di diritto amministrativo sono contenute negli artt. 1-5 della legge.
Queste norme introducono quattro nuovi istituti: il garante regionale per il diritto alla salute; i Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente; l’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità; il Sistema nazionale delle linee guida (SNLG). Il primo di tali organi ha limitati poteri di informazione e controllo; il secondo il terzo hanno il compito di raccogliere e gestire i dati sul cosiddetto “rischio clinico”; il quarto è una banca dati, gestita dal Ministero della salute, nella quale confluiranno le leges artis messe a punto dalle varie organizzazioni professionali di categoria.
Il quadro delle norme di diritto amministrativo è completato dalla espressa previsione di un diritto degli interessati ad ottenere dalla struttura sanitaria il rilascio della cartella clinica entro un termine assai breve (art. 4) (per l’esame più approfondito delle norme di diritto amministrativo introdotte dalla l. n. 24/2017, v. in questo volume Diritto amministrativo, 5.1.1 La responsabilità amministrativa del sanitario).
Norme di diritto sostanziale civile e penale sono contenute invece negli artt. 5, 6, 7, 9.
Tali norme introducono, sul piano penale, una causa (definita) di “non punibilità”, per i reati di omicidio colposo commessi dal medico, a condizione che egli «abbia agito con imperizia e si sia attenuto alle linee guida».
Sul piano civile, in estrema sintesi la responsabilità del medico viene dalla legge così disciplinata:
a) la colpa del medico pubblico dipendente, ovvero che abbia causato un danno nell’esercizio dell’attività cosiddetta intra moenia, non si presume ma deve essere provata dall’attore;
b) la colpa del medico libero professionista si presume ai sensi dell’art. 1218 c.c.;
c) la colpa dell’ospedale pubblico o privato si presume «ai sensi degli articoli 1218 o 1228 c.c.»;
d) le azioni di regresso (art. 1299 c.c.), di surrogazione assicurativa (art. 1916 c.c.) e di responsabilità contabile per danno erariale vengono assoggettate a rigorosi limiti quanto ai presupposti per la loro esperibilità, alle decadenze, ed all’importo massimo che il medico può essere condannato a pagare.
Norme di diritto assicurativo sono contenute negli artt. 10, 11, 12, 14.
Tali norme introducono assai limitati obblighi assicurativi: assicurarsi resta una facoltà per le strutture sanitarie pubbliche e private; il medico pubblico dipendente ha l’obbligo di stipulare una polizza che copre unicamente la propria responsabilità per colpa grave; il solo medico libero professionista ha l’obbligo di assicurare la propria responsabilità civile per qualsiasi tipo di colpa. La legge introduce altresì un «Fondo di garanzia» che, ad onta del nome, non avrà affatto il compito di indennizzare le vittime di errori causati da medici privi di assicurazione, ma potrà intervenire solo in limitati casi tassativamente elencati dalla legge.
Regole processuali, infine, sono contenute negli artt. 8, 12, 13, 15, 16. Tali disposizioni contengono una congerie di norme eterogenee, i punti salienti delle quali sono riassumibili come segue:
i) la domanda di risarcimento del danno nei confronti del medico o dell’ospedale viene assoggettata ad una condizione di improcedibilità, rappresentata alternativamente o dal promovimento di un procedimento di consulenza tecnica preventiva (c.t.p.) con finalità conciliativa (art. 696 bis c.p.c.), ovvero dall’esperimento dell’istituto della mediazione di cui al d.lgs. 4.3.2010, n. 28;
ii) la domanda di regresso o di surrogazione proposta dall’ospedale, dall’assicuratore, o dalla procura regionale presso la Corte dei conti nei confronti del medico che ha commesso l’errore, è sottoposta ad un duplice termine di decadenza;
iii) alla vittima di un danno commesso da un medico o del quale debba rispondere un ospedale che abbia stipulato un’assicurazione della responsabilità civile, viene attribuita un’azione diretta nei confronti dell’assicuratore della responsabilità civile del responsabile;
iv) viene introdotta una limitazione al novero delle prove utilizzabili dai poteri dell’autorità giudiziaria: vengono infatti dichiarati non utilizzabili in alcun tipo di processo (e dunque né in sede penale, né in sede civile, né in sede contabile, né in sede amministrativa) gli atti interni compiuti dagli organi di gestione del rischio della struttura sanitaria (art. 16);
v) viene imposto al giudice civile l’obbligo di nominare consulenti tecnici di comprovata esperienza (art. 15): norma che – come si dirà meglio a suo tempo –, a seconda di come la si interpreti, non esce dall’alternativa: o è inutile, o è inapplicabile.
La l. n. 24/2017 è comunque ancora una legge incompleta.
Essa contiene una serqua di deleghe all’esecutivo, incaricato di emanare una raffica di regolamenti di attuazione, in assenza dei quali la legge non è suscettibile di immediata applicazione. In particolare, la legge delega all’esecutivo il compito di regolamentare:
i) l’istituzione dell’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità (art. 3, co. 1);
ii) l’elenco delle istituzioni scientifiche abilitate a emanare linee guida in materia sanitaria (art. 5, co. 1);
iii) la gestione del Sistema nazionale per le linee guida (art. 5, co. 3);
iv) i criteri e le modalità dello svolgimento delle funzioni di vigilanza e controllo da parte dell’IVASS sulle società di assicurazione che assicurino la responsabilità sanitaria (art. 10, co. 5);
v) i requisiti minimi delle polizze di assicurazione della responsabilità civile sanitaria, ed i relativi massimali (art. 10, co. 6);
vi) «i requisiti minimi di garanzia e le condizioni di operatività delle misure di assunzione diretta del rischio» (art. 10, co. 6, penultimo periodo);
vii) il funzionamento del Fondo di garanzia per i danni derivati da responsabilità sanitaria (att. 14, co. 2);
viii) la misura del contributo dovuto dalle imprese assicuratrici al suddetto Fondo di garanzia (art. 14, co. 4).
A tali deleghe deve aggiungersi quella contenuta nell’art. 4, co. 2, la quale demanda alle strutture sanitarie pubbliche e private di adeguare, entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge, ai propri regolamenti interni concernenti il diritto all’accesso agli atti.
Dei regolamenti appena indicati ne è stato emanato finora (settembre 2017) uno soltanto, quello concernente l’elenco delle istituzioni scientifiche abilitate ad emanare le linee guida (d.m. 2.8.2017, in G.U. 10 agosto 2017, n. 186), sebbene il termine previsto dalla legge per la loro emanazione sia vanamente scaduto il 1° luglio 2017.
Definito, nei termini che precedono, il quadro della legge nel suo complesso, proviamo ora a d’esaminarne più in dettaglio le singole disposizioni. Dapprima, proveremo a dare conto della portata normativa di alcune di esse (che, come si vedrà, in molti casi è inesistente); successivamente, ci soffermeremo in special modo su alcuni autentici rompicapo che la legge qui in esame ha consegnato agli interpreti.
La l. n. 24/2017 si apre (art. 1, co. 1) con l’affermazione di un principio generale: «la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività».
Ora, a prescindere dal banale rilievo che un diritto soggettivo non ha “parti costitutive”, poiché esso o c’è, o non c’è, preme osservare come questa disposizione non abbia alcun reale contenuto precettivo.
Anche se essa non esistesse, infatti, nessuno potrebbe dubitare che l’attività diagnostica e terapeutica debba svolgersi in modo da garantire la sicurezza del paziente.
Parrebbe dunque alquanto inesatto affermare (come si legge in alcuni passaggi dei lavori parlamentari) che la disposizione in esame abbia attribuito ai pazienti “nuovi diritti”, di cui in precedenza essi non godevano.
Il diritto alla salute, per come è stato ricostruito negli ultimi cinquant’anni dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione, per tacere delle giurisdizioni sovranazionali, si articola in due aspetti: uno che potremmo definire “pretensivo”, ovvero il diritto ad ottenere l’assistenza sanitaria; l’altro che potremmo definire “oppositivo”, ovvero il diritto alla non ingerenza altrui nella sfera della propria salute senza il proprio consenso.
Tanto il primo, quanto il secondo di tali aspetti del diritto alla salute recano con sé, quale imprescindibile corollario, l’esigenza che l’attività diagnostica, terapeutica, di profilassi, sia svolta in modo da garantire il rispetto della salute del paziente, e dunque in modo “sicuro”. Insomma, per dirla in una parola, l’art. 1, co. 1, in esame parrebbe una norma meramente declamatoria, che non attribuisce alcun nuovo diritto a chicchessia, in aggiunta a quelli già esistenti.
Menda analoga è ravvisabile nei co. 2 e 3 dell’art. 1 in esame: vi si afferma infatti, con prosa circonvoluta, che i medici e gli ospedali devono evitare che ... il paziente sia curato in modo pericoloso per la sua salute!
L’art. 2 l. n. 24/2017 attribuisce alle regioni la facoltà di attribuire al difensore civico regionale la funzione di “garante per il diritto alla salute”, che ai sensi del successivo art. 18 dovrà avvenire «nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuove maggiori oneri per la finanza pubblica».
A questa indefinita figura di “garante regionale” la legge attribuisce il compito di ricevere da chiunque vi abbia interesse «la segnalazione di disfunzioni nel sistema dell’assistenza sanitaria»; quello di acquisire «gli atti relativi alla segnalazione pervenuta», e quello di «intervenire a tutela del diritto leso».
Ovviamente si tratta di previsioni assolutamente generiche, che solo la legislazione regionale attuativa potrà colmare di contenuti. Tuttavia, allo stato, appare ben difficile immaginare che la nuova figura del garante regionale possa assolvere a seri compiti di prevenzione o di deflazione del contenzioso in materia di responsabilità medica.
Infatti l’unico diritto che può essere leso da un errore commesso dal medico non può che essere il diritto alla vita o quello alla salute, per definizione tutt’e due insuscettibili di riparazione in forma specifica; di conseguenza l’unica “tutela del diritto leso”, nel caso di lesione del diritto alla salute od alla vita, non può che consistere nel risarcimento del danno, ma va da sé che al garante regionale non potranno essere certo attribuite le funzioni dell’autorità giudiziaria, e non potrà certo liquidare alcuna somma a titolo di risarcimento del danno. Parrebbe pertanto non azzardato prevedere che ben difficilmente il garante regionale potrà offrire una seria ed efficace tutela ai diritti dei pazienti danneggiati da errori di medici o di strutture sanitarie.
Il combinato disposto degli artt. 2 e 3 l. n. 24/2017 istituisce un sistema multilivello di acquisizione dei dati «sui rischi ed eventi avversi e sul contenzioso» relativo.
Il meccanismo, in estrema sintesi, dovrebbe essere il seguente: ogni ASL e ogni azienda ospedaliera trasmettono i dati relativi agli errori commessi dai propridipendenti al Centro regionale per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, che ogni regione dovrà istituire. I Centri regionali trasmettono i dati così ricevuti all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, presso il Ministero della salute.
Quest’ultimo, sulla base dei dati raccolti, avrà il compito di individuare misure organizzative per evitare che gli errori segnalati più frequentemente possano ripetersi, emanando linee di indirizzo ed individuando «idonee misure per la prevenzione del rischio».
Il ministro della salute, infine, ogni anno trasmetterà alle Camere una relazione sull’attività svolta dal suddetto Osservatorio.
Anche in questo caso, tuttavia, è impossibile qualsiasi serio giudizio sull’efficacia di questi strumenti, prima che siano state emanate le norme regionali e nazionali di attuazione. In ogni caso l’istituzione dei Centri regionali e dell’Osservatorio nazionale potrà riverberare effetti indiretti nell’accertamento della responsabilità sanitaria. Se, infatti, un medico dovesse incorrere in un errore già tante volte avvenuto, e per prevenire il quale l’Osservatorio nazionale aveva emanato linee di indirizzo, ai sensi dell’art. 3, co. 2, le quali non risultino essere state rispettate nel caso specifico, la condotta di quel medico dovrà ritenersi per ciò solo colposa, perché violativa di precetti che il medico diligente, di cui all’art. 1176, co. 2, c.c., avrebbe certamente dovuto osservare.
L’art. 4 l. n. 24/2017 accomuna sotto la rubrica Trasparenza dei dati tre previsioni non del tutto omogenee.
La prima riguarda il diritto di accesso dei pazienti; la seconda riguarda l’ostensione al pubblico delle informazioni in possesso delle strutture sanitarie; la terza riguarda il cosiddetto “riscontro diagnostico”, ovvero l’autopsia.
Sotto il primo profilo la legge, dopo aver ribadito che «le prestazioni sanitarie sono soggette all’obbligo di trasparenza», impone agli ospedali pubblici e privati di rilasciare ai soggetti aventi diritto la cartella clinica o la documentazione sanitaria in loro possesso entro sette giorni dalla richiesta. La norma è dettata dal lodevole intento di porre fine all’autentico Calvario che, come qualsiasi modesto conoscitore della realtà giudiziaria sa, i pazienti ed i loro congiunti sono costretti a sopportare per entrare in possesso della cartella clinica. È notorio, infatti, che il rilascio di tale documento può richiedere anche diversi mesi. La legge, tuttavia, non è accompagnata da alcuna misura sanzionatoria o di coazione indiretta: di talché, nel caso in cui l’ospedale non dovesse rilasciare la cartella clinica nei sette giorni stabiliti dalla legge, l’unico rimedio pensabile non potrebbe che essere la denuncia per omissione di atti d’ufficio, ai sensi dell’art. 328 c.p.: una misura, dunque, dalla percorribilità più teorica che reale.
La seconda previsione introdotta dalla legge è quella per cui sia gli ospedali pubblici, sia gli ospedali privati, sia le aziende sanitarie, dovranno dotarsi (ove non l’abbiano già fatto) di un sito web, sul quale pubblicare «i dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell’ultimo quinquennio».
Non è facile intuire la ratio di una simile norma.
Possiamo solo immaginare che, nelle intenzioni del legislatore, grazie a questa previsione il paziente potrà scegliere la struttura sanitaria più efficiente, evidentemente ritenendo che se l’ospedale ha liquidato un minor numero di risarcimenti, i suoi medici dovrebbero essere più bravi.
La disposizione desta tuttavia varie perplessità.
In primo luogo, infatti, la norma potrebbe condurre ad un effetto paradossale: ad esempio, premiare gli ospedali più negligenti e morosi. Immaginiamo infatti due diversi ospedali: uno causa moltissimi danni, ma ha una amministrazione renitente e morosa, la quale nega le proprie colpe, non adempiere le proprie obbligazioni, e non dà esecuzione alle sentenze di condanna. Sul sito web di questo ospedale, dunque, dovrebbe apparire che l’ospedale non ha pagato alcun risarcimento.
Per contro, un ospedale che abbia causato pochissimi danni, ma la cui amministrazione sia efficiente e zelante, e li abbia perciò tutti prontamente risarciti, metterà in mostra sul proprio sito web l’esistenza di questi pagamenti: con la conseguenza che l’ignaro utente, mettendo a confronto le informazioni sui due ospedali, non potrà che concludere per la maggiore efficienza dell’ospedale in realtà più “pericoloso”.
In ogni caso, anche la previsione in esame non è accompagnata da alcuna misura sanzionatoria.
La terza previsione contenuta nell’art. 4 modifica il regolamento di polizia mortuaria (d.P.R. 10.9.1990, n. 285), attribuendo non solo al direttore sanitario, ma anche ai familiari o agli altri «aventi titolo» della persona deceduta in ospedale la facoltà di «concordare con il direttore sanitario l’esecuzione del riscontro diagnostico».
Anche questa norma appare incompleta.
In primo luogo, infatti, la norma attribuisce ai congiunti della vittima la facoltà di «concordare» con il direttore sanitario l’esecuzione dell’autopsia. Ciò vuol dire che i suddetti congiunti non hanno un vero e proprio diritto soggettivo assoluto a pretendere che l’autopsia sia eseguita; di talché, ove il direttore sanitario opponga il proprio rifiuto, i congiunti della vittima non hanno alcuno strumento per pretenderne l’esecuzione.
In secondo luogo la legge attribuisce il diritto di «concordare» l’autopsia ai congiunti e agli altri «aventi titolo del deceduto».
Non è chiaro come debba intendersi l’espressione «aventi titolo»; l’avente titolo può essere infatti anche un creditore del defunto. In ogni caso, immaginando che con questa espressione il legislatore abbia inteso far riferimento agli eredi, varrà la pena osservare che se l’ammalato decede dopo aver fatto testamento, e dopo aver istituito erede – poniamo – un’istituzione benefica, stando alla lettera della legge anche quest’ultima potrà domandare l’esecuzione dell’autopsia.
Il combinato disposto degli artt. 5 e 7 l. n. 24/2017 disciplina la responsabilità civile del medico e dell’ospedale.
Per comprendere appieno queste norme occorre brevemente ricordare qual era “lo stato dell’arte” della giurisprudenza circa i criteri di accertamento della colpa medica. Per la giurisprudenza di legittimità, fino all’entrata in vigore della l. n. 24/2017, la colpa del medico, pubblico o privato che fosse, era sempre presunta ai sensi dell’art. 1218 c.c. Per vincere questa presunzione, il medico doveva dare la prova di avere tenuto una condotta diligente, ai sensi dell’art. 1176, co. 2, c.c.. La «diligenza» di cui all’art. 1176, co. 2, c.c., consiste nel tenere la medesima condotta che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto un medico “medio”: con la precisazione che il medico “medio” di cui al co. 2 dell’art. 1176 c.c. non è il medico “mediocre”, ma è un medico bravo: quello che la giurisprudenza definisce l’homo eiusdem generis et condicionis.
Per stabilire quale fosse la condotta che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto l’homo eiusdem generis et condicionis, la giurisprudenza faceva ricorso al concetto di leges artis. Riteneva, pertanto, diligente il medico che si era attenuto ai dettami e alle prescrizioni generalmente condivise dalla scienza medica.
Naturalmente le leges artis degli atti medici non sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale: con la conseguenza che, fino all’entrata in vigore della nuova legge, qualunque seria e condivisa opinione poteva costituire una lex artis alla stregua della quale valutare la diligenza o negligenza del medico convenuto in giudizio: così, ad esempio, poteva costituire lex artis il testo universitario scritto da un medico di chiara fama; ma anche l’articolo apparso su una rivista scientifica; così come le linee guida diffuse da una associazione professionale elaborate da un congresso di professionisti.
Sicché, riassumendo: per la giurisprudenza dominante la colpa del medico si valutava ai sensi dell’art. 1176 c.c.; ed ai sensi di questa norma era in colpa il medico che non si era attenuto alle leges artis, mentre era esente da colpa il medico che vi si era attenuto.
La l. n. 24/2017 interviene ora in questo sistema sotto tre profili: le regole di riparto dell’onere della prova, le regole di accertamento della colpa e le regole di liquidazione del danno.
Per quanto riguarda le regole di riparto dell’onere della prova, la legge capovolge il sistema previgente: mentre in precedenza, per quanto detto, la giurisprudenza riteneva sempre presunta la colpa del medico12, anche nelle ipotesi in cui questi non fosse legato al paziente da un vero proprio contratto (come nel caso del medico pubblico dipendente), ora l’art. 7, co. 3, l. n. 24/2017 stabilisce che il medico pubblico dipendente risponda del proprio operato nei confronti del paziente «ai sensi dell’art. 2043 c.c.». Il richiamo alla norma sulla responsabilità aquiliana non lascia dubbi sul fatto che, per effetto della riforma, sarà il paziente a dover provare non solo il nesso di causa fra la condotta del medico e l’evento di danno, ma anche la colpa del sanitario, ed in ogni caso alla responsabilità del sanitario si applicherà il termine di prescrizione quinquennale, salvo naturalmente l’applicazione del più lungo termine di prescrizione previsto per il reato, se l’atto del medico ne integra gli estremi (ma vale la pena ricordare che le pene previste per l’omicidio colposo e per le lesioni colpose fanno sì che i relativi reati si prescrivano in sei anni, di talché, anche quando l’atto medico integri gli estremi di un reato, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno potrà crescere di un solo anno rispetto alla misura ordinaria quinquennale).
Per quanto riguarda, invece, i criteri di accertamento della colpa, la legge ricalca nella sostanza l’impianto della giurisprudenza. Stabilisce, infatti, l’art. 5, co. 1, che il medico nello svolgimento della sua attività «si attiene alle raccomandazioni previste dalle linee guida», e che il giudice, nella determinazione del risarcimento, «tiene conto» del fatto che il medico si sia attenuto a quelle linee guida.
La legge tuttavia introduce anche un sistema di raccolta, catalogazione e aggiornamento delle linee guida: il medico, infatti, dovrà attenersi non già a ogni e qualsiasi linea guida od opinione, ma solo a quelle presenti nel «Sistema nazionale per le linee guida (SNLG)», ovvero un grande archivio gestito dal Ministero della salute nel quale tutte le associazioni professionali, che abbiano ottenuto l’iscrizione in un apposito elenco, avranno diritto di far confluire le leges artis da essi elaborate. In sostanza, per effetto della riforma, il primo parametro di valutazione della condotta del medico deve essere la conformità di essa alle linee guida debitamente raccolte nel Sistema nazionale per le linee guida; e per poter affermare la responsabilità di un medico che a quelle linee guida si sia attenuto, sarà necessario dimostrare che il caso concreto presentava specificità tali da suggerire o addirittura imporre uno scostamento dalle linee guida “ufficiali”.
Per quanto attiene, infine, al risarcimento del danno, il co. 4 dell’art. 7 della legge stabilisce che i danni causati dal medico dall’ospedale dovranno essere risarciti con i criteri stabiliti dal codice delle assicurazioni (artt. 138 e 139 c. assicurazioni) per la liquidazione del danno alla persona causato da sinistri stradali.
Tuttavia che la liquidazione dei danni causati da medici, e consistiti in lesioni guarite con postumi micropermanenti, dovessero essere liquidati con i criteri previsti per i danni derivati da sinistri stradali, non è affatto una novità: essa era stata già introdotta, infatti, nel nostro ordinamento dal d.l. 13.9.2012, n. 158 (cd. decreto Balduzzi). Quanto al rinvio ai criteri dettati dal codice delle assicurazioni per la liquidazione dei danni alla persona guariti con postumi macropermanente (ovvero comportanti invalidità superiori al 9%) la previsione è, allo stato, inapplicabile così per i casi di colpa medica, come per i casi di sinistri stradali: il legislatore, infatti, non ha mai dato attuazione nemmeno dopo 12 anni dalla sua entrata in vigore, alla delega contenuta nell’art. 138 c. assicurazioni, la quale demandato al Governo l’emanazione di una tabella contenente le percentuali di invalidità, e di una seconda tabella contenente i valori monetari di ogni singolo punto di invalidità. Sicché, in assenza di tali tabelle, la liquidazione del danno con postumi macropermanenti è impossibile.
L’art. 7, co. 1 e 2, l. n. 24/2017, si occupa della responsabilità civile delle strutture sanitarie pubbliche e private. L’art. 7, co. 1, stabilisce che l’ospedale risponde dell’operato del medico del quale si sia avvalso «nell’adempimento della propria obbligazione», anche se il medico sia stato scelto dal paziente, a nulla rilevando che egli non sia un dipendente dell’ospedale.
Queste previsioni in realtà non introducono novità di rilievo, in quanto esse elevano al rango di norma di legge principi che già da tempo erano stati affermati dalla giurisprudenza di legittimità. La vera novità consiste invece, ad avviso di chi scrive, nella estensione della responsabilità dell’ospedale pubblico anche ai danni causati dal medico ed arrecati nell’esercizio di attività professionale svolta intra moenia (co. 2). L’attività svolta intra moenia dal medico, infatti, non costituisce un’attività imputabile alla struttura, né può ritenersi che la struttura la quale si avvalga del medico che lavori in regime di intra moenia adempia, per il tramite di lui, le obbligazioni proprie nei confronti dei pazienti.
L’art. 6 l. n. 24/2017 introduce nel codice penale un nuovo reato: quello di Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario (art. 590 sexies c.p.). Si tratta di una delle norme più ambigue e problematiche dell’intera legge: essa infatti stabilisce, in estrema sintesi, che il medico il quale uccida o ferisca un paziente per imperizia, non è punibile se si è attenuto alle linee guida.
Tuttavia, per risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale, l’imperizia del medico consiste giustappunto nel violare le leges artis, ovvero le linee guida. Sicché la norma, ove ci si volesse attenere alla sua lettera, contiene un’autentica aporia zenoniana.
Essa infatti è come se dicesse: il medico che ha tenuto una condotta perita non è punibile se ha causato un danno per imperizia!
La Cassazione penale si è tuttavia già occupata di questa previsione, e ne ha adottato una lettura che, se in qualche misura fa violenza al testo, tuttavia le restituisce un senso che, così com’è, non avrebbe mai potuto avere.
Secondo la Cassazione penale, in particolare, la norma va interpretata nel senso che la colpa penale del medico consiste nello scostamento dalle linee guida, salvo le specificità del caso concreto; sicché quando si tratta di accertare la responsabilità penale del medico occorrerà in primo luogo confrontare la condotta da questi concretamente tenuta con la condotta prescritta o consigliata dalle linee guida “ufficiali” presenti nel Sistema nazionale per le linee guida13. Con l’avvertenza, però, che le suddette linee guida costituiscono pur sempre un parametro di riferimento, e non un letto di Procuste; pertanto anche il medico che si sia attenuto alle linee guida “ufficiali” potrà essere ritenuto in colpa, se nel caso concreto esistevano specificità che imponevano di discostarsene.
Come noto, il danno causato dal medico può dover essere risarcito da un soggetto tenuto a rispondere con lui (ad esempio, un membro dell’équipe che abbia concorso nella causazione del danno, ex art. 1299 c.c.); o per lui (ad esempio, l’ospedale ex art. 1228 c.c., o l’assicuratore dell’ospedale ex art. 1916 c.c.). Inoltre, quando l’errore sia stato commesso da un medico pubblico dipendente, e sia stato risarcito dall’ospedale o dalla ASL, la condotta del medico causa per tal via un danno erariale, che spetta alla procura regionale presso la Corte dei conti recuperare, attraverso l’azione erariale di danno di cui all’art. 13 r.d. 12.7.1934, n. 1214.
La l. n. 24/2017, volendo disciplinare queste ipotesi, le ha tutte affastellate nell’art. 9. Si tratta di una disposizione contenente evidenti imprecisioni terminologiche: per un verso, infatti, parla impropriamente di «responsabilità amministrativa» invece che di responsabilità erariale (noto essendo che la responsabilità amministrativa è quella in cui incorre chi commette un illecito amministrativo, punito con una sanzione amministrativa); per altro verso accomuna le azioni recuperatorie previste dal codice civile (regresso e surrogazione) e l’azione di danno erariale prevista dalla legislazione speciale sotto il lemma generico di «rivalsa», sicché il primo problema che questa norma pone all’interprete è comprendere esattamente a quali azioni essa debba applicarsi.
Ovviamente non vi è dubbio che la legge, pur impropriamente parlando di “responsabilità amministrativa”, abbia inteso disciplinare l’azione di responsabilità contabile, promossa dalla procura presso la Corte dei conti e decisa dal giudice contabile. Debbono pertanto ritenersi ormai risolti i dubbi che in passato avevano diviso la giurisprudenza, circa la possibilità per la struttura sanitaria pubblica di recuperare le somme pagate al paziente danneggiato in conseguenza di un errore del medico, proprio dipendente, promuovendo l’ordinaria azione di regresso ex art. 1299 c.c. Il co. 5 dell’art. 9 lascia chiaramente intendere che il denaro speso dalle strutture sanitarie pubbliche per risarcire i pazienti potrà essere recuperato nei confronti del medico solo attraverso un giudizio di responsabilità contabile dinanzi alla Corte dei conti.
Del pari riterrei non dubitabile che l’art. 9 in esame disciplini anche l’ordinaria azione di regresso fra condebitori. Tanto si desume dal co. 6, ove si prevede l’ipotesi in cui sia accolta la domanda proposta dal danneggiato nei confronti della clinica privata, e questa intenda proporre una «rivalsa». Infatti la clinica privata, in quanto coobbligato solidale ex art. 2055 c.c. nei confronti del paziente, verso il medico autore del danno non può che esperire l’azione di regresso fra condebitori, ex art. 1299 c.c..
Altrettanto indubitabile è l’applicabilità dell’art. 9 in questione all’azione di surrogazione spettante, ai sensi dell’art. 1916 c.c., all’assicuratore dell’ospedale, che fosse stato chiamato a rispondere per il fatto del medico suo dipendente od incaricato. L’assicuratore dell’ospedale, infatti, per effetto del pagamento dell’indennizzo, si surroga nella posizione che l’ospedale aveva verso il responsabile del danno, ed acquista perciò il diritto a recuperare nei confronti del medico l’importo pagato. Tanto si desume chiaramente dal co. 6 già ricordato, nel quale si fa espresso riferimento alla «surrogazione richiesta dall’impresa di assicurazione ai sensi dell’art. 1916 c.c.».
Tutte e tre queste azioni (giudizio contabile, regresso, surrogazione) sono assoggettate dalla nuova legge ad una serie di paletti per quanto attiene a presupposti, tempi, modalità ed effetti.
Sul piano dei presupposti, tutte e tre le azioni suddette (che d’ora innanzi chiameremo genericamente “azioni recuperatorie”) sono consentite soltanto nell’ipotesi di dolo o colpa grave.
Per quanto attiene i tempi, le suddette azioni recuperatorie sono soggette ad un duplice termine di decadenza.
Il primo termine di decadenza si applica soltanto nell’ipotesi in cui il medico «non sia stato parte del giudizio di risarcimento del danno», ed è di un anno decorrente dall’avvenuto pagamento del risarcimento.
L’inciso «nell’ipotesi in cui il medico non sia stato parte del giudizio di risarcimento», in verità, appare superfluo: se, infatti, il medico è stato parte del giudizio di risarcimento, delle due l’una:
a) se nei suoi confronti è stata proposta una domanda di regresso o surrogazione, e questa è stata rigettata, nessun problema si può porre di azioni ecuperatorie, perché manca la responsabilità del medico;
b) oppure in quel giudizio la domanda nei confronti del medico è stata formulata ed accolta, con la conseguenza che anche in questo caso non è pensabile una nuova e ulteriore azione recuperatoria.
Il suddetto inciso, pertanto, appare avere un limitatissimo campo di applicazione: e cioè nell’ipotesi in cui il medico abbia partecipato al giudizio di risarcimento del danno proposto dal danneggiato, ma nei suoi confronti sia stata chiesta unicamente una sentenza di accertamento e non di condanna. In tal caso, non essendosi formato nei suoi confronti un titolo esecutivo, è ben immaginabile un’azione recuperatoria, la quale però per quanto detto non sarà soggetta al termine di decadenza annuale.
Il successivo art. 13 prevede poi un’ulteriore ipotesi di «decadenza» dal diritto di promuovere l’azione recuperatoria, costituito dalla mancata comunicazione al medico dell’inizio di un giudizio nei confronti dell’ospedale o dell’avvio di trattative col paziente.
La norma, come meglio si dirà in seguito, pare introdurre, più che una decadenza, una inammissibilità della domanda di regresso o di surrogazione, particolarmente problematica a causa della ristrettezza del termine previsto.
Un terzo limite all’esercizio delle azioni recuperatoria riguarda il quantum. Nel caso in cui il medico abbia commesso il danno con dolo, regresso e surrogazione non incontrano limiti. Se, invece, il danno è stato commesso con colpa grave (come si ricorderà, per l’ipotesi di colpa semplice non è dato né regresso, né surrogazione), la condanna nei confronti del medico a rivalere l’ospedale, o l’erario o l’assicuratore incontra il limite del reddito annuo del responsabile «moltiplicato per il triplo». È plausibile ritenere che il legislatore avesse pensato a un limite rappresentato dal triplo del reddito; nondimeno, poiché le norme vanno interpretate per quella che è la sintassi della lingua italiana, la legge ha introdotto un limite quantitativo alle azioni recuperatorie così elevato da non avere alcuna reale efficacia pratica. «Moltiplicato per il triplo», infatti, in italiano significa che il reddito annuo del medico responsabile del danno deve essere moltiplicato per se stesso elevato al cubo: sicché il limite introdotto dalla legge consiste in una cifra astronomica.
Tuttavia il 20 settembre 2017 è stato presentato ed approvato un emendamento al disegno di legge C-3868 (recante Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali, nonché disposizioni per l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute), mirante ad introdurre nel suddetto d.d.l. un art. 8 bis, per effetto del quale l’espressione «moltiplicato per il triplo», che compare nell’art. 9 l. n. 24/2017, sarà sostituito dall’espressione «il triplo». Se questo d.d.l. dovesse divenir legge, passeremmo tuttavia da un eccesso all’altro: il triplo dello stipendio d’un medico pubblico dipendente infatti, quand’anche si trattasse d’una figura apicale, di norma è largamente inferiore rispetto alle cifre ordinariamente liquidate dai nostri tribunali per risarcire i danni da macrolesioni od i danni da morte.
Infine, la legge detta regole sulle prove utilizzabili nelle azioni recuperatorie, ed anche qui ci troviamo al cospetto di previsioni alquanto sorprendenti.
Il combinato disposto dei co. 3 e 7 dell’art. 9 l. n. 24/2017 in esame detta infatti due regole:
i) la prima stabilisce che la sentenza pronunciata all’esito del giudizio di danno (quello proposto dal paziente nei confronti dell’ospedale) non fa stato nei confronti del medico nel giudizio di rivalsa, se il medico non ha preso parte al primo dei suddetti giudizi;
ii) la seconda stabilisce che le prove raccolte nel giudizio di danno possono essere liberamente utilizzate dal giudice nel giudizio di rivalsa, se il medico ha preso parte al primo di essi.
Di ambedue tali norme, come accennato, non si capisce bene quale sia l’utilità: se, infatti, il medico non ha preso parte al giudizio di danno, la sentenza pronunciata all’esito di esso non potrà ovviamente avere alcuna efficacia nei suoi confronti, in virtù del principio della limitazione soggettiva degli effetti del giudicato (res inter alios iudicata tertio neque nocet neque prodest).
Allo stesso modo e inversamente, se il medico ha preso parte al giudizio di danno, gli accertamenti ivi compiuti faranno stato anche nei suoi confronti, sicché nel successivo giudizio di rivalsa su quegli accertamenti non vi sarà necessità di alcuna attività istruttoria, e dunque non si comprende come possa il giudice trarre argomenti di prova su questioni in merito alle quali non vi è alcunché da provare.
Sebbene l’art. 10 della legge sia rubricato Obbligo di assicurazione, in realtà esso non introduce alcun obbligo in tal senso, che già non preesistesse. Infatti:
a) ospedali pubblici e privati hanno la scelta o di assicurarsi contro i rischi della responsabilità civile, ovvero di adottare «altre analoghe misure», che nessuno sa bene cosa siano (co. 1); dunque l’assicurazione di r.c. per le strutture sanitarie è una facoltà e non un obbligo; nondimeno, se l’ospedale o la ASL decidono di stipulare un’assicurazione della r.c., essa deve coprire obbligatoriamente sia la responsabilità dell’ospedale per fatto proprio; sia quella per fatto altrui; sia la responsabilità del medico: si tratterà dunque d’una polizza multirischio, che nella parte in cui copre la responsabilità del medico va qualificata come assicurazione per conto altrui, ai sensi dell’art. 1891 c.c.;
b) il medico operante in regime di extra moenia ha l’obbligo di assicurare la propria responsabilità civile (co. 2) «ai sensi dell’art. 3, comma 5, d.l. 13.8.2011 n. 138 e 3, comma 2, d.l. 13.9.2012 n. 158»; tale obbligo esisteva già da sei anni, ma more italico, anzi more parlamentorum è tuttora inattuabile, non essendo mai stato emanato il regolamento esecutivo previsto dalle norme appena ricordate, cui la legge demandava il compito di stabilire i contenuti minimi essenziali del contratto;
c) il medico pubblico dipendente ha l’obbligo di stipulare una polizza di assicurazione «al fine di garantire efficacia alle azioni di cui agli artt. 9 e 12»: vale a dire alle azioni di rivalsa, di cui si è detto in precedenza, limitata all’ipotesi di colpa grave (co. 3): una polizza, dunque, della quale di fatto beneficeranno ospedali ed assicuratori di questi ultimi, non certo i pazienti.
Il sistema della legge è completato dall’attribuzione al danneggiato d’una azione diretta nei confronti dell’assicuratore, e dall’istituzione di un Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria.
Tuttavia ambedue tali novità hanno un campo d’applicazione limitato.
L’azione diretta è prevista solo nei confronti dell’assicuratore della struttura sanitaria e dei liberi professionisti, non nei confronti dell’assicuratore del medico pubblico dipendente (il quale, come s’è detto, ha l’obbligo solo di assicurare la propria responsabilità rispetto alle azioni di rivalsa).
Quanto al Fondo di garanzia, di esso è previsto l’intervento in soli tre casi:
i) nel caso di incapienza del massimale previsto dalla polizza stipulata dal responsabile;
ii) nel caso il responsabile sia assicurato con un’impresa posta in liquidazione coatta amministrativa;
iii) nel caso il responsabile sia privo di assicurazione, ma solo a causa del recesso dell’assicuratore dal contratto precedentemente stipulato, ovvero per la cancellazione dell’impresa dall’albo delle società assicuratrici.
Si tratta, dunque, di un fondo di garanzia che garantirà ben poco, dal momento che se il responsabile del danno è privo di assicurazione per non averla mai stipulata, l’intervento del Fondo non è previsto.
Un “oggetto misterioso”, infine, sono le «altre analoghe misure» che è facoltà delle strutture sanitarie adottare, ove non vogliano assicurarsi. Esse dovranno infatti essere disciplinate da un regolamento di attuazione, per il quale la legge non detta alcun criterio direttivo, salvo uno: che i fondi eventualmente accantonati a tal fine saranno impignorabili anche presso terzi, «anche in caso di notifica di pignoramento o di pendenza di procedura esecutiva nei confronti dell’ente, senza necessità di previa pronuncia giurisdizionale», in applicazione dell’art. 1, co. 5 e 5-bis, del d.l. 18.1.1993, n. 9, espressamente richiamati dall’art. 10, co. 6, l. n. 24/2017.
Di alcune delle norme processuali introdotte dalla l. n. 24/2017 s’è già detto in precedenza (azione diretta, limiti alla rivalsa, efficacia delle prove).
Resta ora da dire, tra gli altri, di due gruppi di previsioni: quelle concernenti la proponibilità della domanda, e quelle concernenti la consulenza tecnica d’ufficio.
Quanto alle prime, l’art. 8 prevede che, a pena di improcedibilità, la domanda di risarcimento del danno nei confronti del medico, dell’ospedale o dell’assicuratore (quando sia concessa l’azione diretta) debba essere preceduta alternativamente o da una c.t.p. con finalità conciliative, ex art. 696 bis c.p.c., oppure dal tentativo di mediazione ex art. 5 d.lgs. n. 28/2010.
Queste sono le uniche certezze ricavabili dall’art. 8 della legge: le ulteriori previsioni gettano l’interprete in una ridda di dubbi.
In particolare, la legge prevede che se l’accertamento tecnico non riesca, la domanda di danno vada introdotta entro sessanta giorni dal deposito della relazione, e comunque entro sei mesi dell’avvio della procedura sommaria, e con le forme del rito sommario, ex art. 702 bis c.p.c. Sicché non è dato sapere:
a) se il rito sommario sia necessario anche quando l’attore scelga di tentare la strada della mediazione, e non quella della c.t.p. (riterrei di sì, a pena di irragionevoli discriminazioni);
b) se, una volta decorso il sessantesimo giorno dal deposito della relazione nell’ambito della c.t.p., per potere introdurre il giudizio sia necessario rinnovare la c.t.p. (il che sarebbe contrario ad ogni principio di economia processuale);
c) se il giudice conservi la facoltà di ordinare il mutamento del rito (riterrei di sì, dal momento che la legge dichiara applicabili «gli artt. 702 bis e seguenti del codice di procedura civile», e quindi anche il potere di ordinare il mutamento del rito).
Non minori problemi sorgono nel caso in cui il giudizio venga introdotto senza che siano state validamente assolte le due suddette ed alternative condizioni di procedibilità.
Sebbene esse siano due (c.t.p. omediazione), la legge prevede unicamente l’ipotesi in cui «il procedimento ex art. 696 bis c.p.c. non è stato espletato» (art. 8, co. 2) e stabilisce che in tal caso il giudice fissa un termine alle parti per presentare l’istanza di c.t.p. dinanzi a lui.
Ma a parte la stranezza d’un giudice che deve per legge chiedere alle parti di sollecitarlo a fare quel che potrebbe fare comunque d’ufficio (nominare un consulente), resta il fatto che se le parti hanno la facoltà di scegliere tra c.t.p. e mediazione prima del giudizio, tale facoltà dovrebbe venir loro conservata anche dopo l’inizio del giudizio, quando non vi abbiano provveduto.
Pertanto la norma dovrebbe intendersi nel senso che, se non siano state adempiuti gli oneri richiesti a pena di improcedibilità, il giudice dovrebbe fissare alle parti un termine affinché, a loro scelta, o presentino l’istanza di c.t.p., ovvero introducano un tentativo di mediazione, ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 28/2010.
Alquanto blande, infine, appaiono le norme dettate dall’art. 15 l. n. 24/2017 in tema di consulenza tecnica.
Tale disposizione prevede infatti che negli albi dei consulenti debbano essere «documentate le specializzazioni degli iscritti», il che avviene già da danni; e soggiunge poi che il giudice deve nominare un consulente «in possesso di adeguate e comprovate competenze», il che sarebbe dovere di ogni giudice, senza che una legge glielo ricordi. Peccato però che anche in questo caso una scelta per così dire infelice da parte del magistrato resta senza conseguenze, e varrà la pena ricordare che per il giudice di legittimità la nomina di un consulente tecnico inesperto od inadeguato non costituisce di per sé causa di nullità del processo (sui profili processuali v. in questo volume Diritto processuale civile, 1.1.4 Responsabilità sanitaria e processo).
I problemi sollevati dalla l. n. 24/2017 sono così tanti e così complessi che, dati i limiti di spazio imposti al presente scritto, è possibile fare una cosa sola: elencare i più evidenti.
Il primo problema sorge dalla previsione secondo cui il medico ospedaliero risponde ex art. 2043 c.c. dei danni da lui commessi, mentre l’ospedale nel quale lavora ne risponde ai sensi dell’art. 1228 c.c. Ora, l’affermazione della responsabilità per fatto altrui, ex art. 1228 c.c., per orientamento pacifico della giurisprudenza presuppone l’accertamento di un fatto, colposo o doloso, commesso dalla persona incaricata dal debitore14. Ove il giudice di legittimità dovesse tener fermo questo orientamento, si perverrebbe perciò al seguente paradosso: che ove il paziente convenisse in giudizio l’ospedale, la colpa dell’ospedale potrà sì affermarsi in via presuntiva, ma a condizione che sia accertata in facto una condotta colposa del medico. E questo secondo accertamento non potrà che avvenire secondo le nuove regole della responsabilità del medico, e dunque con onere dell’attore di provare la colpa, giusta l’art. 2043 c.c. In tal guisa il beneficio per il paziente di poter contare sulla colpa presunta dell’ospedale diverrebbe solo apparente, perché in tutti i casi di domande proposte contro l’ospedale, il paziente avrà l’onere di provare il fatto colposo del medico.
Un secondo problema posto dalla l. n. 24/2017 scaturisce dal co. 3 dell’art. 7, ove è previsto che il giudice tenga conto del rispetto o meno, da parte del medico, delle leges artis, «nella determinazione del risarcimento del danno».
Ora, lo scostamento da parte del medico rispetto alle linee guida generalmente condivise dalla scienza medica costituisce una condotta colposa. Ma la maggiore o minore gravità della colpa non incide certo nella liquidazione del danno: l’amputazione del piede destro invece che del sinistro dà luogo pur sempre ad una invalidità del 40%, che sia stata commessa con dolo, con colpa grave o con colpa lieve. La lettera della legge potrebbe pertanto indurre a pensare che, nelle intenzioni del legislatore, il risarcimento possa crescere o diminuire seconda del maggiore o minore grado di colpa in cui sia incorso il medico.
Una lettura di questo tipo, tuttavia, non sarebbe condivisibile, ed esporrebbe la norma a sospetti di illegittimità costituzionale. La salute, infatti, non può che essere uguale per tutti, ed a parità di lesioni deve di conseguenza spettare, a persone che abbiano lo stesso sesso e la stessa età, un risarcimento eguale.
Ove, invece, si ammettesse che l’art. 7, co. 3, secondo periodo, l. n. 24/2017 consentisse di diminuire il risarcimento a fronte di condotte lievemente colpose, si perverrebbe all’inaccettabile risultato di risarcire con somme inferiori persone che hanno avuto danni anche gravi, per il solo fatto che l’autore del danno abbia agito con colpa lieve anziché grave. Riterrei dunque che la norma debba essere letta in senso costituzionalmente orientato, e cioè come se dicesse che il giudice tiene conto del rispetto, da parte del medico, delle leges artis inserite nel Sistema nazionale per le linee guida, non già «nella determinazione del danno», ma nell’accertamento della colpa.
Un terzo problema posto dalla sintassi della legge è stabilire quale sia il grado di vincolatività delle linee guida che, predisposte dalle associazioni iscritte nell’elenco tenuto dal Ministero della salute, confluiscano nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG).
Si è visto infatti che, fino ad oggi, la giurisprudenza civile ha ritenuto sempre colposa la condotta del medico che non si fosse attenuto alle opinioni e alle raccomandazioni generalmente condivise dalla comunità scientifica. Tuttavia non vi era alcuna distinzione tra le varie opinioni scientifiche: la scuola di Vienna non era certo considerata dai giudici meno quotata della scuola di Boston, con la conseguenza che, nel caso di contrasti tra diverse correnti di pensiero, il fatto che un medico avesse aderito ad una piuttosto che ad un’altra opinione scientifica non veniva mai di per sé considerato un errore, né i giudici hanno mai pensato di istituire gerarchie tra le varie opinioni scientifiche.
L’unico limite a questa libertà scientifica del medico era costituito dal puro azzardo, ovvero dalla scelta di aderire a opinioni assolutamente isolate, criticate e non sufficientemente sperimentate.
La nuova legge, invece, istituisce un sistema nel quale apparentemente avremo linee guida di serie A e linee guida di serie B: il medico, infatti, parrebbe avere l’obbligo di rispettare non già l’opinione scientifica che ritiene preferibile, ma solo le linee guida e le opinioni scientifiche confluite nel SNLG: delle linee guida in, insomma, “col bollino blu”.
Non credo, tuttavia, che una simile interpretazione possa essere condivisa. Dal punto di vista dell’interpretazione letterale, infatti, è la legge stessa ad imporre al medico di attenersi alle linee guida inserite nel SNLG «fatte salve le specificità del caso concreto»: e tra le specificità del caso concreto a mio avviso deve rientrare anche la circostanza che le linee guida contenute nel SNLG siano divenute obsolete, a causa del progresso scientifico compiuto in altri Paesi.
Anche dal punto di vista dell’interpretazione sistematica, ritenere che il medico possa andare esente da colpa per il solo fatto di essersi attenuto alle linee guida contenute nel SNLG, produrrebbe il seguente effetto paradossale: mandare esenti da responsabilità proprio i medici meno zelanti e studiosi, i quali dimostrino di ignorare gli studi più avanzati e le ricerche più recenti compiuti a livello mondiale, e non ancora confluiti, per il tramite delle associazioni professionali nazionali, nel SNLG.
1 Sia consentito il rinvio, per l’analisi della crescita del contenzioso in materia di r.c. medica, a Rossetti, M., Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti (preoccupate considerazioni sull’inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica), in Giust. civ., 2010, I, 2218.
2 La sentenza capostipite in tal senso è Cass., 22.1.1999, n. 589, in Corr. giur., 1999, 441, con nota di Di Majo, A., L’obbligazione senza prestazione approda in cassazione, in seguito sempre conforme.
3 Cass., 13.9.2000, n. 12103, in Dir. giust., 2000, fasc. 34, 33; Cass., 21.7.2003, n. 11316; Cass., 27.4.2010, n. 10060; cfr. altresì, sull’obbligo di tenuta della cartella clinica, Cass., 18.9.2009, n. 20101.
4 Cass., 14.3.2006, n. 5444; Cass., 24.9.1997, n. 9374, in Resp. civ. prev., 1998, 78, con nota di Martorana, C., Brevi osservazioni su responsabilità professionale ed obbligo di informazione, nonché in Riv. it. med. leg., 1998, IV, 821, con nota di Introna, F., Consenso informato e rifiuto ragionato. L’informazione deve essere dettagliata o sommaria?
5 Così per la prima volta, parrebbe, Cass., 15.12.1972, n. 3616, in Resp. civ. prev., 1973, 243. Il principio non è stato però sempre incontrastato: secondo Cass., 18.10.1994, n. 8470, in Foro it. Rep., 1994, voce Professioni intellettuali, n. 107, ad esempio, «la disciplina generale di cui all’art. 1176 c.c. ... importa [per il medico] l’obbligo di usare la diligenza del buon padre di famiglia».
6 Principio affermato per la prima volta già da Cass., 8.3.1979, n. 1441, in Giur. it., 1979, I, 1, 1494, e da Cass., 22.2.1988, n. 1847, in Arch. civ., 1988, 684, poi divenuto tralatizio.
7 Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Dir. giust., 2004, fasc. 14, 38.
8 Così, testualmente, Cass., 19.5.2004, n. 9471, in Dir. giust., 2004, fasc. 25, 32, ove si ammette candidamente che «la responsabilità medica giunge a sfiorare, capovolgendo la situazione originaria di protezione «speciale» del professionista, una dimensione paraoggettiva della responsabilità o, quantomeno, una dimensione comunque «aggravata”».
9 Cass., 9.10.2012, n. 17143, in Giust. civ., 2013, I, 1794; Cass., 11.5.2009, n. 10743, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 1276.
10 Ad esempio da Cass., 30.9.2014, n. 20547, o da Cass, 12.9.2013, n. 20904, in Danno e resp., 2014, 33.
11 In passato negata, e di recente ammessa da Cass., 28.4.2017, n. 10506, in Contratti, 2017, 383, con nota di Carnevali, U., La clausola claims made e le sue alterne vicende nella giurisprudenza di legittimità.
12 A partire dalla nota sentenza pronunciata da Cass, 22.1.1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294.
13 Cass. pen., 20.4.2017, n. 28187, in Dir. pen. cont., con nota di Cupelli, C., La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio, 13 giugno 2017; Cass. pen., 16.3.2017, n. 16140, ivi, con nota di Cupelli, C., La legge Gelli-Bianco approda in Cassazione: prove di diritto intertemporale, 26 aprile 2017.
14 Così, tra le tante, Cass., 24.5.2006, n. 12362, nella cui motivazione si legge che «il positivo accertamento della responsabilità [dell’ospedale] postula, pertanto, (pur trattandosi di responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di onere della prova, che grava, per l’effetto, sull’istituto stesso e non sul paziente), pur sempre la colpa del medico esecutore dell’attività che si assume illecita, non potendo detta responsabilità affermarsi in assenza di tale colpa (fatta salva l’operatività di presunzioni legali in ordine al suo concreto accertamento), poiché sia l’art. 1228 che il successivo art. 2049 cod. civ. presuppongono, comunque, un illecito colpevole dell’autore immediato del danno, cosicché, in assenza di tale colpa, non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale del committente per il fatto illecito dei suoi preposti».