Abstract
Il tema della ricerca scientifica viene affrontato, sulla base dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 9 e 33 Cost. e dei relativi svolgimenti legislativi, nelle sue coessenziali e faticosamente conciliabili prospettive di libertà personale fondamentale che l’ordinamento deve garantire e di attività che l’azione pubblica deve promuovere.
La ricerca scientifica - l’investigazione sulla natura e sull’uomo, condotta con metodo scientifico, al fine di produrre un avanzamento delle conoscenze, e la scienza, che ne costituisce il prodotto - è per il suo stesso dinamismo un potente fattore di destabilizzazione dell’assetto sociale, capace di alimentare sia aspettative sia paure. Al difficile incontro tra scienza e vita sociale, beni, poteri pubblici, corrisponde l’incontro, non meno complesso, tra scienza e diritto. Questo, man mano che la scienza diviene il più potente tra i fattori di innovazione sociale, si infittisce e si intrica, mentre reciprocamente si assottiglia la possibilità di una reciproca indifferenza tra le due sfere. La necessaria, fatale, interferenza può dispiegarsi tuttavia nei modi più disparati, anche se la socializzazione (in senso lato) della scienza attraverso il diritto trova un limite invalicabile nel carattere umano, personale, e quindi libero, della ricerca scientifica, che costituisce la condizione della sua stessa esistenza.
D’altra parte la storia dello Stato moderno e quella della moderna ricerca scientifica sono quelle di una reciproca interferenza e coessenzialità. La scienza, dal momento in cui essa si emancipa, grazie al processo di secolarizzazione, dal dommatismo religioso, può svilupparsi solo grazie alla protezione, diretta e indiretta, di un potere pubblico che ne intuisce i vantaggi per la produzione, i traffici, la guerra (finanziamenti, commesse, premi, concessione di privative sullo sfruttamento delle opere d’ingegno, ecc.). Col liberalismo e la rivoluzione industriale al sostegno della mano pubblica si affianca, in termini destinati a divenire prevalenti, quello del mercato, reso possibile dalla nascita di una nuova apposita branca privatistica del diritto (il diritto industriale). Con lo Stato pluriclasse, parallelamente all’espansione dell’azione pubblica in campi che sono insieme sociali e tecnici (servizi pubblici come sanità, ferrovie, telecomunicazioni, ecc.), l’interventismo della mano pubblica riprende vigore, nella chiara percezione dei limiti di uno sviluppo scientifico e tecnico affidato alle sole forze del mercato e della necessità di integrare unitariamente in una politica generale, attraverso appositi organi (i consigli nazionali delle ricerche), azioni pubbliche e private, ricerca di base e ricerca industriale, ecc.).
L’inclusione nella Carta fondamentale, in termini assai prossimi a quelli dell’art. 146 della Costituzione di Weimar, di un quadro di importanti norme riguardanti la scienza e la ricerca (artt. 9, 33, co. 1, nonché, a seguito della riforma del 2001, art. 117, co. 3, Cost.), corrisponde all’esigenza di razionalizzare i termini del rapporto tra scienza e diritto, scienza e società, scienza ed economia, attraverso la fissazione di elementi ordinatori della azione dei pubblici poteri capaci di corrispondere ai bisogni di un ordinamento di democrazia sociale e pluralistica. In primo luogo, vi si riconosce il valore fondativo della scienza e della cultura nella formazione del pensiero critico che è, con la libertà di parola, alla base della democrazia (la parresia degli ateniesi: esercitare il potere attraverso il dire - e l’indagare - il vero) (v. Haberle, P., Per una dottrina della Costituzione come scienza della cultura, Roma, 2001, passim; Bilancia, F., La libertà della scienza e della ricerca: attualità della riflessione di Andrea Orsi Battaglini, in Dir. pubbl., 2016, 177 ss.). In secondo luogo, si asserisce una ontologica libertà della ricerca, ancora più forte (rafforzata) che non la stessa libertà di manifestazione del pensiero, rispetto ai rischi di asservimento e di soffocamento da parte di poteri pubblici e privati. In terzo luogo si postula (non solo si consente) un intervento promozionale pubblico, senza il quale la libertà della ricerca si esaurirebbe in una vana declamazione, dal momento che la ricerca richiede non solo libertà, ma anche ingenti risorse.
È certamente un pregio della Costituzione l’aver affrontato il tema della scienza in modo aperto, a trama larga, nella memoria del passato (dall’Ulisse di Dante al Dialogo di Galileo), nella consapevolezza dei temi del presente (la scienza e la tecnica nello stato pluriclasse novecentesco), e nella previsione dei futuri sconfinati approdi della conoscenza.
Questi elementi ordinatori riguardanti la scienza e la ricerca si estendono all’arte e, più ampiamente, alla cultura (da cui per molti aspetti però li distinguono), ma soprattutto si inquadrano in una Costituzione lunga nella quale molti altri nodi della vita sociale sono illuminati e scanditi. È nel confronto con tutto questo insieme di proposizione che la libertà e la promozione della scienza acquistano risalto ed assumono connotazioni che vengono a differenziarle dalle proposizioni che si rinvengono, con formulazioni linguistiche identiche o simili, nell’ambito di altre Costituzioni, come pure della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 13).
Il perimetro della libertà della ricerca scientifica è di difficile delimitazione sul piano giuridico, in quanto solo la scienza stessa può distinguere, con molte difficoltà, cosa è scientifico da cosa non è tale (autoreferenzialità ontologica, analogamente a quanto avviene nel caso di religione, cultura, sport, ecc.), tanto più in quanto la stessa possibilità di attingere dalla scienza la sua definizione urta col fatto che il pluralismo delle opinioni della scienza sui metodi scientifici (il cd. relativismo scientifico) impedisce di pervenire ad indicazioni univoche e stabili, facendole coincidere con quelle della maior o sanior pars della comunità scientifica. Il rischio di sprofondare nelle sabbie mobili è dunque elevatissimo, anche se per le impellenti necessità della vita sociale non può essere aggirato e dev’essere affrontato con le opportune cautele (v. al riguardo gli esempi offerti da C. cost., 26.5.1998, n. 185 e 26.6.2002, n. 282). Nella riflessione giuridica si tende a scomporre la libertà di ricerca scientifica in più elementi costitutivi: la determinazione dell’an e del quid del ricercare, la scelta del metodo, la sperimentazione delle risultanze, la comunicazione degli esiti, l’insegnamento (questo, direttamente nominato dall’art. 33, co. 1, Cost.), la disponibilità degli esiti della ricerca da parte del suo autore, nell’intento di individuare nuclei di maggiore o minore “durezza”, ai fini della graduazione di possibili limiti.
Viene da molti sottolineato che il nucleo essenziale della libertà sta nella scelta del metodo, relativamente al quale il ricercatore, se è immunizzato dal condizionamento politico, è però condizionato dalla comunità scientifica (v. Rimoli, F., Le libertà culturali, in I diritti costituzionali, a cura di R. Nania, P. Ridola, 2006, Torino, III, 899 ss.; Bin, R., La libertà della ricerca in campo genetico (Freedom of scientific research in the field of genetics), in Biotech innovations and fundamental rights, a cura di R. Bin, S. Lorenzon, N. Lucchi, Milano, 2012, 131 ss.). Altre partizioni distinguono la ricerca di base “pura”, diretta a scoprire o confermare leggi e teorie, dalla ricerca interessata alle applicazioni della scienza (“ricerca e sviluppo”), la ricerca libera (curiosity oriented) dalla ricerca che risponde a sollecitazioni (pubbliche o private) esterne. Pacifico è, comunque, che scienza e ricerca non riguardano le sole scienze esatte e sperimentali, ma anche quelle umane.
Quanto alla titolarità del diritto, la netta affermazione della libertà della scienza, sicuramente riconducibile alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 Cost. (con le conseguenze che ciò comporta, in termini di limiti della revisione costituzionale) porta a riconoscerne il carattere universalistico: la libertà di fare scienza è di tutti (Esposito, C., La libertà di manifestazione del pensiero nell’Ordinamento italiano, Milano, 1958, passim; Orsi Battaglini, A., Libertà scientifica, libertà accademica e valori costituzionali, in Nuove dimensioni nei diritti di libertà, Scritti in onore di P. Barile, Padova, 1990, 89 ss.), con la esclusione di ogni aprioristica ed esclusiva incorporazione in categorie privilegiate. Il suo carattere eminentemente personalistico non preclude la possibilità che essa riguardi, oltre che i singoli, anche le formazioni sociali: le università e le accademie, in primo luogo, ma anche le associazioni, le fondazioni, gli enti, le imprese che intendano avvalersene.
Ovviamente il diritto delle formazioni sociali di fare scienza può collidere col diritto nella sua prospettiva individuale, e di fatto questa seconda trova una protezione solo nel settore pubblico, quando le leggi o la contrattazione collettiva (come nel caso di università e di alcuni enti di ricerca) prevedano degli statuti di garanzia, mentre nella ricerca privata la salvaguardia è del tutto assente (Giannini, M.S., L’organizzazione della ricerca scientifica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 59 ss.; Orsi Battaglini, A., op. loc. ultt. citt.): la libertà di ricerca si esaurisce in questi ambiti nel suo risvolto negativo, e cioè nella possibilità di non ricercare.
L’affermazione della libertà della ricerca non implica inoltre alcuna riserva di tale campo d’azione ai privati, e non preclude la possibilità per le amministrazioni pubbliche di intraprendere programmi di ricerca strumentali alla loro attività o di commissionare ricerche a terzi o la facoltà di istituire enti di ricerca non strumentale. Al contrario, in ragione del dovere della Repubblica di istituire scuole di tutti gli ordini e gradi (art. 33, co. 2, Cost.), tra le quali rientrano anche le università, viene a configurarsi un assetto della ricerca nel quale devono essere necessariamente presenti soggetti pubblici e privati.
L’affermazione della libertà della scienza ha poi una ricaduta, in termini più attenuati, anche su coloro che non fanno scienza, ma ne sono fruitori: il diritto di accedere alla scienza ed il diritto di vivere in un contesto sociale fecondato dalla scienza e di partecipare dei benefici sociali (in termini espliciti v. art. 15, co. 1, lett. b, del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali dell’ONU del 1966). A tali aspettative si connette il dovere della Repubblica di promuovere la scienza affermato all’art. 9 Cost.
Nel dettato costituzionale non figurano, al riguardo della scienza e della ricerca, limitazioni espresse. Il tema dei limiti della libertà della scienza non si presta, tuttavia, a semplificazioni. Dopo il progetto Manhattan, che simbolizza la definitiva perdita dell’innocenza della scienza, non è certo sufficiente trincerarsi dietro lo schema delle cd. libertà negative, che non consentono funzionalizzazioni ed ingerenze di sorta, o dietro la distinzione tra pensiero ed atto: una scienza che costituisce un valore assoluto in sé, in quanto espressione di una sacra ed inesauribile sete umana di sapere, e le sue applicazioni, che possono essere invece perniciose. Neanche pare sufficiente applicarsi, pur meritoriamente, nella individuazione delle situazioni, sempre più ricorrenti, in cui può configurarsi un conflitto drammatico tra frontiere della ricerca scientifica e beni individuali e collettivi (vita, dignità, riservatezza, ambiente, ecc.) che richiedono delicati bilanciamenti legislativi.
Gli ordinamenti costituzionali non forniscono la soluzione di un problema tanto grave, ma consentono di inquadrarlo. Un punto di riferimento basilare, forse trascurato, può essere individuato nell’art. 2 Cost.: se la ricerca scientifica è un diritto inviolabile, anche esso trova il suo limite interno nel dovere di solidarietà che lo stesso art. 2 richiede (Merusi, F., Commento dell’art. 9, in Comm. Cost. Branca, Artt. 1-12, Bologna-Roma, 1975, 436 ss.). Solidarietà equivale a responsabilità, ed esprime sul piano giuridico un principio di dovere assai prossimo al principio di responsabilità quale enunciato, sul piano etico-filosofico, da Hans Jonas («agisci in modo tale che gli effetti delle tue azioni siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana», in Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Francoforte, 1979). Responsabilità, dunque, da intendersi non versus libertà della ricerca, come suo depotenziamento, ma, all’opposto, come sua umanizzazione. Di tale responsabilità devono farsi prioritariamente carico proprio i depositari della libertà, e cioè i ricercatori, che, se è necessario, devono rinunciare ai loro programmi, rinviarli, o circondarli di tutte le opportune cautele.
Nel principio di responsabilità sta anche l’impegno degli scienziati a contrastare il pericolo di un uso autoritario (e per ciò stesso antiscientifico) del sapere scientifico per l’adozione delle scelte pubbliche. Ma il principio di responsabilità può essere svolto, se le circostanze lo giustificano, anche dalla collettività e dalla legge, attraverso l’imposizione di bandi, di moratorie, di cautele. Esempi in tal senso sono offerti dalla (pur criticatissima e parzialmente caducata dalla giurisprudenza costituzionale) legge 19.2.2004, n. 40 sulla procreazione assistita, ed in particolare nel suo capo dedicato alla tutela dell’embrione.
In qualche importante caso del principio di responsabilità si fa carico la comunità internazionale: un limite della libertà di ricerca, nella forma di un bando, è sancito dalle Convenzioni internazionali in materia di proliferazione degli armamenti nucleari e di armi di distruzione di massa, nei punti in cui esse vietano agli Stati aderenti (ma di riflesso a tutti coloro che operano in tali ordinamenti) ogni attività di ricerca in questi campi. La Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina del 1997 detta una estesa serie di prescrizioni che la ricerca, nella sua libertà, deve comunque rispettare (art. 15) e vieta la possibilità di interventi volti a modificare il genoma dei discendenti (art. 13), nonché la costituzione di embrioni umani per fini di ricerca (art. 18). Il divieto di clonazione riproduttiva di esseri umani figura anche nell’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il dovere di solidarietà inteso come responsabilità non può giustificare limitazioni legislative, ma funge da essenziale cerniera e canone di ponderazione degli interessi che con la libertà di ricerca devono trovare bilanciamento. Il bilanciamento deve corrispondere, anche in questa materia, ai test di ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, ma in una forma aggravata, “stretta”, richiesta sia dal livello “alto” della tutela costituzionale della libertà della scienza e dalla sua delicatezza, sia dal fatto che il potere politico, per entrare nel campo della scienza, deve impiegare conoscenze che possono provenire solo dalla scienza stessa (v. le pronunce della Corte costituzionale in tema di vivisezione, 7.6.2004, n. 166, e di procreazione assistita, 1.4.2009, n. 151; 11.11.2015, n. 229 e 22.3.2016, n. 84, e gli ampi commenti che le hanno accompagnate).
Può convenirsi comunque che nel bilanciamento dovrebbe farsi riferimento prudente a valori “impalpabili” come la dignità umana (Bin, R., op. loc. ultt. citt.); che il bilanciamento dovrebbe essere content neutral - immune cioè da ogni pretesa di imporre agli altri le proprie opinioni politiche, religiose, scientifiche -, come nel caso della manifestazione del pensiero, per non intaccare il “nocciolo duro” della libertà della ricerca (Bin, R., op. loc. ultt. citt.); che il legislatore, a pena di violazione del principio di ragionevolezza, dovrebbe, pur conservando la sua autonomia, tener debito conto delle valutazioni della comunità scientifica (C. cost., 11.2.1998, n. 114 e 19.6.2002, n. 282). È appena da aggiungere, infine, che la ricerca scientifica, come ogni attività umana, soggiace al principio generale del neminem laedere. Lo svolgimento di un’attività scientifica non costituisce cioè una esimente rispetto alla regola della responsabilità, in tutte le sue forme giuridiche.
La libertà della ricerca non è subordinata al fatto che il suo esercizio non contrasti con l’utilità sociale (che è cosa diversa dalla solidarietà). La sua utilità sociale è cioè ontologica, sta nel fatto stesso di essere praticata. Ciò non esclude che una utilità sociale della ricerca, in rapporto ad interessi sociali specifici (salute, ambiente, sviluppo, ecc.), possa ben sussistere, e nemmeno che la ricerca scientifica possa, all’opposto, perseguire l’utilità privata del suo autore. La libertà della ricerca e della scienza hanno poi ricadute essenziali in termini di regime giuridico dei prodotti della ricerca.
Libertà della scienza non significa solo libertà di ricercare, ma anche che le conoscenze (ed i progressi relativi) siano libere, nel senso di disponibili a tutti, alla generale comunità degli studiosi, come a chi non ricerca: non se ne possono dunque appropriare né i privati, né il potere pubblico. La scienza costituisce un pubblico dominio per necessità sociale e non per intrinseca inappropriabilità (le tecniche giuridiche volte a rendere appropriabili beni immateriali sono in costante evoluzione).
Anche questo diritto di tutti a fruire di tale dominio, che ha una sicura base costituzionale, incontra tuttavia limiti che condizionano enormemente l’intera attività di ricerca. Tali limiti discendono sia dalla stessa libertà della ricerca, individualisticamente intesa, che, come si è prima notato, include la disponibilità per l’autore dell’opera del suo ingegno, sia al fatto che la ricerca scientifica si intreccia con l’attività economica (v. C. cost., 2.2.1978, n. 20 sulla brevettabilità dei farmaci). È proprio la privatizzabilità dei prodotti della ricerca, attraverso il diritto d’autore ed il brevetto, ciò che permette di fare della ricerca un oggetto di investimento economico privato, e dunque di fare affluire nella ricerca le risorse necessarie per il suo sviluppo. Il principale contro-limite a tale impostazione sta nel ridurre la durata di questi diritti esclusivi, nella duplice prospettiva di restituire alla collettività, nel più breve tempo possibile, la pienezza del dominio pubblico delle conoscenze, ed in quella di non alterare il mercato con la legittimazione di immeritevoli rendite, sia ragguagliando la durata della riserva di diritti esclusivi al tempo strettamente necessario per compensare i costi della ricerca e per assicurare un equo profitto, sia contrastando i comportamenti abusivi.
Si può dunque affermare che la libertà della ricerca (specie quando si intreccia con la tutela del diritto alla salute) trovi oggi uno dei fattori principali di protezione nella legislazione antitrust (Ghidini, G., Profili evolutivi del diritto industriale: proprietà intellettuale e concorrenza, Milano, 2008, passim; Ghidini, G.-Cavani, G.-Piserà, P.F., Abuso del diritto al brevetto e abuso di posizione dominante: il caso Pfizer, in Italian Antitrust Review, 2014, n. 3, 133 ss.). È tuttavia ben noto che le imprese sviluppano strategie sofisticatissime e sempre nuove, nell’intento di perpetuare, di diritto o di fatto, le loro privative, e che i rischi di privatizzazione di ambiti rilevanti del sapere scientifico divengono gravissimi allorché la ricerca, in settori chiave, è nelle mani di monopoli o di oligopoli mondiali.
L’interventismo pubblico nel campo della ricerca scientifica costituisce una costante che, in forme varie, accompagna, come si è ricordato nelle premesse, il percorso dello Stato moderno e della scienza moderna. La Carta costituzionale non si sottrae alla necessità di chiarire le finalità ed i limiti di tale interventismo, che investe la ricerca in tutte le sue forme: libera, finalizzata, industriale. Questo incontra il suo limite primario nel fatto di riferirsi ad una attività umana “di sostanza fine” (Cerri, A., Arte e scienza (libertà di), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1 ss.; Id., Diritto e scienza: indifferenza, interferenza, protezione, promozione, limitazione, in Scienza e diritto nel prisma del diritto comparato, a cura di G. Comandé, G. Ponzanelli, Torino, 2004, 365 ss.) che è dall’ordinamento qualificata nell’art. 33, co. 1, Cost. come una libertà del livello più elevato. Si comprende dunque perché la Carta preveda che l’interventismo non sia coperto dalla generale autorizzazione dell’azione volta ad assicurare l’eguaglianza sostanziale nel godimento dei diritti, operata dall’art. 3, co. 2, Cost., o dal regime dei programmi e dei controlli volti ad indirizzare l’attività economica di cui all’art. 41, ult. co., Cost., ma debba essere particolarmente delicato, assumendo la forma della «promozione» prescritta dall’art. 9 Cost. e riservato alla legge. L’interventismo, in questa forma rispettosa, non deve né offendere la libertà della ricerca, né svuotarla, ma al contrario garantirla (Chieffi, L., Ricerca scientifica e tutela della persona, Napoli, 1993, passim).
La scienza può dunque essere (come sempre) un affare di Stato e non una questione privata, ma non può diventare una scienza di Stato. Ma il diavolo sta nei dettagli. Si è opportunamente rimarcato che il mecenatismo pubblico produce inevitabilmente l’«indiretto costringimento della libertà del ricercatore, anche ove avvenga nelle forme più trasparenti, imparziali e democratiche» (Cerri, A., Arte e scienza (libertà di), cit., 6). La promozione di una libertà da parte della mano pubblica (per non dire di una promozione affidata al mercato) rischia cioè costantemente di scivolare, anche nel migliore dei mondi possibili, in un ossimoro. Il carattere “rispettoso” dell’interventismo (che investe la problematica delle procedure decisionali e degli strumenti di azione, ed ancor prima quello delle risorse, nel confronto tra il potere pubblico che promuove e la scienza che viene promossa) lascia comunque aperto il problema, ulteriore, delle ragioni e degli intenti dell’azione pubblica di «promozione». L’art. 9 non risponde all’intento di scandire il ruolo del pubblico e del privato nella ricerca scientifica (come si è già visto in precedenza, la ricerca scientifica è un campo aperto all’uno ed all’altro) e lascia dunque spazio alla possibilità di intendere la promozione secondo prospettive politiche ed ideologiche tra loro molto differenti. Si può, nella tradizione romagnosiana, ritenere (Merusi, F., op. loc. ultt. citt.; Orsi Battaglini, A., op. loc. ultt. citt.) in una prospettiva minima (di cultura liberale, ma, si badi, estranea all’esperienza storica dello Stato liberale) che «le istituzioni pubbliche debbono fornire soltanto le condizioni, i presupposti, per il libero sviluppo della cultura» (Merusi, F., op. cit., 435), ma si può anche ritenere che la promozione, senza offendere la libertà della ricerca, o quantomeno cercando di non offenderla, possa avere un ruolo assai più corposo. Ad es. si può ritenere che la promozione debba assicurare una qualche coerenza tra politiche di sviluppo economico e sociale, spesa pubblica e sviluppo della ricerca; che essa includa una azione diretta o indiretta della mano pubblica volta a sopperire ai fallimenti inevitabili del mercato, nel finanziamento di quelle ricerche che, sebbene di fondamentale interesse, per la scienza e per la società, non risultano ad esso appetibili (la ricerca di base, la ricerca applicata non remunerativa); che essa debba mirare a sostenere al livello crescente gli investimenti pubblici e privati nella ricerca in rapporto al PIL; che essa debba favorire il pluralismo degli indirizzi scientifici (le aree minoritarie), la diffusione, la concentrazione delle attività di ricerca nel territorio, la specializzazione, il travaso delle conoscenze nell’insegnamento, la internazionalizzazione, la possibilità di accedere alla scienza e di parteciparne dei vantaggi, ecc. La promozione della scienza, in tutte queste varie accezioni, può essere comunque concepita in un esteso arco di modi compreso tra due poli, che comportano comunque rischi per la libertà della ricerca: quello che la associa prevalentemente alla spesa pubblica, e quello per il quale il motore della ricerca viene dall’investimento privato e dal mercato. Sta al potere politico trovare la via mediana, tenendo però debito conto della tradizione e della storia della ricerca, che escludono la possibilità di un interventismo o di un astensionismo pubblico à la carte e la completa fungibilità tra finanziamento pubblico e finanziamento privato.
La promozione della ricerca da parte della Repubblica ha un carattere doveroso ed insieme polimorfo, in ragione del pluralismo e della complessità del sistema della ricerca, nel quale convergono soggetti pubblici e privati, ricerca libera, ricerca funzionale, ricerca industriale. In questa sede è possibile tracciare solo un quadro sommario delle modalità in cui l’azione pubblica si articola presentemente, in esito ad una tormentata azione riformatrice imperniata su principi quali la programmazione, il decentramento, la responsabilità, la valutazione. La politica della ricerca ha una origine relativamente recente che può farsi risalire alla creazione nel 1963 di un Ministro senza portafoglio che avrebbe dovuto porre sotto una regia unica azioni disperse tra molte amministrazioni. Attualmente essa fa capo al CIPE, al MIUR ed al Ministero delle attività produttive (per alcuni aspetti della ricerca industriale). Il MIUR è affiancato da organi collegiali consultivi (il Comitato di esperti per la politica della ricerca, Cepr; sei Consigli scientifici nazionali rappresentativi della comunità scientifica; il Consiglio nazionale universitario, CUN, che rappresenta le componenti universitarie), che dovrebbero arginare, indirizzare e bilanciare la pressione della politica sulla ricerca. Gli strumenti principali di tale politica, in una prospettiva di indirizzo e coordinamento compatibile con la libertà della ricerca, sono il Piano triennale della ricerca (PTR) ed i relativi Programmi annuali attuativi, approvati dal CIPE ed elaborati, attraverso procedure partecipative, dal MIUR, i quali definiscono gli indirizzi e le attività strategiche ed il quadro delle risorse finanziarie, in raccordo con gli indirizzi generali di politica finanziaria.
La politica della ricerca, oltre che pianificare obbiettivi strategici e risorse, stanzia e distribuisce finanziamenti ed incentiva investimenti nella ricerca. Tale distribuzione è operata principalmente dallo Stato, in qualche caso attraverso alcuni enti nazionali di ricerca (CNR, ENEA, ASI). I finanziamenti, indirizzati alla ricerca sia pubblica, sia privata, possono essere non selettivi, quando operano una provvista di fondi alle comunità scientifiche, senza vincoli specifici di destinazione, o selettivi, riferiti cioè ad obbiettivi individuati dal finanziatore o proposti dal finanziato. I finanziamenti non selettivi salvaguardano meglio la libertà della ricerca, ma rischiano di alimentare la dispersione delle risorse, mentre l’inverso può verificarsi nel caso di quelli selettivi. La politica di finanziamento della ricerca, tradizionalmente molto più parca di quella degli altri Paesi sviluppati, ha registrato negli anni più recenti una duplice tendenza. Per un verso, sono stati operati drastici “tagli” universalmente deprecati, spesso lineari, e cioè indiscriminati, nel nome delle esigenze generate dalla crisi della finanza pubblica, i cui effetti si sono cumulati con altre misure di contenimento della spesa, come il blocco del turn over nelle università e negli enti di ricerca. Per l’altro, sono stati abbandonati i finanziamenti non selettivi a favore di quelli selettivi, allestendo, in funzione di correzione e di garanzia, meccanismi di valutazione e di partecipazione delle comunità scientifiche e di selezione obbiettiva.
Il finanziamento della ricerca propriamente detto (da non confondere con le risorse del Fondo di finanziamento ordinario, FFO, delle università e col Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, FOE, finanziate dal MIUR, destinate a coprire le spese istituzionali, di funzionamento e del personale) fa capo presentemente ad un unico fondo, istituito presso il MIUR, il Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (FIRST) istituito dall’art. 1, co. 870, l. 27.12.2006, n. 296. Le risorse coprono sia la ricerca di base che quella industriale e possono essere acquisite da tutti i segmenti che compongono il sistema della ricerca (università, enti pubblici e privati, consorzi, ecc.) attraverso procedure concorsuali che variano a seconda della destinazione (artt. 60-63 d.l. 22.06.2012, n. 83, conv. con mod. dalla l. 7.8.2012, n. 134). Nel caso dei programmi di ricerca di base di università ed enti di ricerca i criteri di selezione e la valutazione sono affidate al Comitato nazionale dei garanti della ricerca ed a comitati di selezione, composti da esperti di livello internazionale (artt. 20 e 21 l. 30.12.2010, n. 240; d.m. 26.7.2016, n. 594), secondo la prassi internazionale della peer review. Le risorse per la ricerca industriale sono disciplinate dal d.m. 26.7.2016, n. 593, secondo procedure di carattere valutativo e negoziale.
Ulteriore essenziale capitolo della politica della ricerca è rappresentato dalla valutazione dei risultati della ricerca finanziata con risorse pubbliche, introdotta in modo stabile solo recentemente dall’art. 4 del d.lgs 5.6.1998, n. 204. La valutazione corrisponde ad una chiara esigenza di accountability del finanziatore nei confronti dei contribuenti, del finanziato nei confronti del finanziatore, dei ricercatori nei confronti della comunità scientifica.
A questa funzione se ne aggiunge una seconda, ancora più delicata, che è quella di indirizzare la successiva allocazione delle risorse, in una prospettiva di obbiettività e di meritocrazia, arginando gli “scambi al ribasso” tra la politica ed il mondo accademico ed all’interno dello stesso mondo accademico. L’ANVUR, istituita dall’art. 2, co. 138, d.l. 3.10.2006, n. 262, conv. dalla l. 24.11.2006, n. 286 ed operativa dal 2011 «sovrintende al sistema nazionale di valutazione della qualità delle università e degli enti di ricerca e, sulla base di un programma almeno annuale approvato dal ministro cura, ai sensi dell’articolo 3, la valutazione esterna della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici; indirizza le attività di valutazione demandate ai nuclei di valutazione interna degli atenei e degli enti di ricerca; valuta l’efficienza e l’efficacia dei programmi pubblici di finanziamento e di incentivazione alle attività di ricerca e di innovazione» (art. 2, co. 2, d.P.R. 1.2.2010, n. 76).
La valutazione della ricerca ben si inquadra nella cornice della libertà della ricerca e della sua promozione, ed anzi può configurarsi come un suo elemento necessario. I pericoli (Pinelli, C., Autonomia universitaria, libertà della scienza e valutazione dell’attività scientifica, in Riv. AIC, 2011, n. 3, 27.9.2011, passim) vengono da una insufficiente indipendenza dei valutatori rispetto alla ricerca come rispetto alla politica (la valutazione dovrebbe far capo ad un organismo pienamente indipendente e non ad una agenzia semi-autonoma del governo) e dalla difficoltà di individuare parametri di valutazione credibili, condivisi e corrispondenti alla grande varietà della attività di ricerca e non grossolani (come quelli dei deprecati indicatori “bibliometrici”). In queste condizioni, la valutazione rischia di divenire lo strumento di una nuova mediazione burocratica, in forme apparentemente meritocratiche, tra politica ed apparati di potere accademico, a scapito della libertà della ricerca.
La forma di promozione della ricerca da parte della mano pubblica più forte è rappresentata dalla gestione diretta della attività di ricerca da parte di soggetti pubblici e con risorse pubbliche. Tale presenza, oltre che storicamente data è, in realtà, imprescindibile, alla luce della già ricordata prescrizione costituzionale che impone l’istituzione di università pubbliche, ed è di assoluta preminenza, se si considera che, di fatto, la generalità della ricerca di base, in Italia, come ovunque, può essere svolta in una cornice di libertà della ricerca solo in quanto radicata nelle università (qualificate dall’art. 1, l. n. 240/2010 come sedi primarie di libera ricerca e garantite dalla autonomia ad esse riconosciuta dall’art. 33, ult. co., Cost.) e dagli enti di ricerca pubblici non strumentali (cd. seconda rete, comprendente CNR, INFN, INGV), istituiti in funzione integrativa della ricerca libera pubblica e privata e provvisti di statuti di autonomia che sussumono la libertà della ricerca. La proliferazione delle università pubbliche e la moltiplicazione di quelle private registratesi negli ultimi decenni apparentemente dovrebbero aver comportato una estensione della rete della ricerca di base: ma può dubitarsi che ipertrofia universitaria equivalga a maggiore e migliore ricerca. Sotto altro profilo, indirizzi legislativi consolidati hanno promosso da un trentennio l’autonomia statutaria, amministrativa, finanziaria e contabile delle università e degli enti di ricerca, con l’effetto di accrescerne la responsabilità e di ridurre in modo complementare gli spazi di ingerenza della politica (v. per le università la l. n. 240/2010 e per gli enti pubblici di ricerca il d.lgs. 25.11.2016, n. 218). Va aggiunto che la gestione diretta della ricerca da parte della mano pubblica è, ulteriormente, sempre consentita allorché le amministrazioni pubbliche avvertano l’esigenza, per le loro finalità istituzionali, di disporre di attività di ricerca strumentale (v. ENEA ed ASI).
L’assetto della politica della ricerca testé riassunto non ha subito mutamenti sostantivi in conseguenza della attribuzione alle regioni ordinarie, nell’ambito della riforma del titolo V della Costituzione operata nel 2001, di una potestà concorrente in materia di ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione nei settori produttivi. In realtà già l’assetto preesistente alla riforma consentiva alle Regioni, in quanto elementi costitutivi della Repubblica, di partecipare alla promozione della ricerca, in relazione alle esigenze connesse alla gestione delle materie di propria competenza sia nella forma dell’organizzazione e del sostegno della ricerca strumentale, sia in quella della creazione di ambienti favorevoli (parchi scientifici, parchi tecnologici). La preoccupazione che, in conseguenza di un’infelice formulazione normativa, si fosse aperta la prospettiva dell’incomprensibile regionalizzazione tout-court di una attività, quale la ricerca, coincidente con una libertà fondamentale e per sua natura “stretta” anche nella dimensione nazionale, si è dissolta grazie al contributo della dottrina (Merloni, F., Ricerca scientifica (organizzazione e attività) in Enc. dir., XL, 1989, 393 ss.; Id., Autonomia, responsabilità, valutazione nella disciplina delle università e degli enti di ricerca non strumentale, in Dir. pubbl., 2004, 581 ss.; Endrici, G., La ricerca scientifica, in Tratt. Cassese, Milano, 2003, II, 1417 ss.) e della giurisprudenza costituzionale. La ricerca universitaria (che copre larga parte della ricerca libera) è infatti oggetto di un decentramento a favore della autonomia universitaria, in attuazione dell’art. 33, ult. co., Cost. ed è dunque esclusa dal decentramento a favore di un ente politico come la regione prescritto dall’art. 117 Cost.; inoltre la riserva di legge contenuta nell’art. 33, ult. co., Cost. va intesa come riserva alla legge statale (C. cost., 23.11.1998, n. 383). Quanto alla ricerca libera svolta dagli enti di ricerca nazionali, l’eventualità di una loro regionalizzazione confliggerebbe con la dimensione nazionale dell’interesse curato e con il principio di adeguatezza, sicché si determinerebbe la necessità di rendere compartecipi Stato e Regioni attraverso gli strumenti della leale cooperazione. Quanto all’esercizio dei poteri legislativi, il coinvolgimento di un valore costituzionalmente protetto, come la libertà della ricerca, renderebbe comunque ammissibile un intervento autonomo statale anche quando si riflette su una materia di competenza concorrente (C. cost., 12.1.2005, n. 31 e 18.4.2011, n. 153). Nel caso della ricerca strumentale, si tratta di un potere implicito connesso alle competenze amministrative ed è localizzabile ai diversi livelli territoriali (C. cost., 16.12.2004, n. 423). In conclusione, la ricerca si configura come una materia trasversale: «in buona sostanza la ricerca scientifica, quando si delimiti l’ambito su cui verte e si individuino le finalità perseguite, riceve da questa la propria connotazione» (C. cost., 23.3.2006, n. 133).
Fonti normative
Artt. 2, 9, 33, 117 Cost.; d.lgs. 25.11.2016, n. 218; artt. 1, 20 e 21 l. 30.12.2010, n. 240; art. 1, co. 870, l. 27.12.2006, n. 296; l. 24.11.2006, n. 286; art. 4 d.lgs 5.6.1998, n. 204; art. 2, co. 2, d.P.R. 1.2.2010, n. 76; d.m. 26.7.2016, n. 593.
Bibliografia essenziale
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