di Antonio Villafranca
La posizione tedesca per uscire dalla crisi è sempre stata piuttosto chiara: rimettere i conti pubblici in ordine e approfittare della situazione per fare quelle riforme da troppo tempo rimandate da diversi paesi dell’Eurozona, soprattutto quelli del sud.
In linea di principio è difficile non essere d’accordo con Berlino, stante, ad esempio, l’esorbitante debito pubblico italiano che ha toccato il 135% circa del pil e la necessità di avviare delle riforme, come quella del lavoro, che la Germania ha già realizzato dieci anni fa. Corollario di questa ricetta è un cauto utilizzo delle misure monetarie straordinarie da parte della Banca centrale europea, i cui effetti sull’economia reale potrebbero risultare di breve durata e comunque incapaci di riportare i paesi dell’eurozona verso un sentiero di crescita stabile e sostenibile nel tempo.
Coerentemente con questa impostazione, l’Unione Europea è di certo chiamata a fare la propria parte, ma solamente nella misura in cui essa agevoli la riduzione del deficit degli stati, grazie ad un più stretto coordinamento delle politiche di bilancio (da qui il ‘Fiscal Compact’ e i pacchetti legislativi denominati ‘six pack’ e ‘two pack’) ed attraverso uno sprone all’avvio delle riforme e alla riduzione della divergenza economica nell’area euro (tramite strumenti come il semestre europeo – soprattutto nell’ambito del Programma nazionale di riforma - e la procedura per gli squilibri macroeconomici). All’Eu viene inoltre chiesto di garantire la stabilità bancaria e finanziaria attraverso l’unione bancaria, ovvero avviando una vigilanza comune affidata alla Ecb(ma che, per volere tedesco, non coinvolge direttamente le piccole e indebitate Landesbank) oltre che un meccanismo comune di risoluzione delle crisi bancarie e, seppure in forma piuttosto embrionale, una garanzia comune dei depositi. La vigilanza comune dovrebbe peraltro rendere più difficile lo scoppio di bolle immobiliari come quelle che si sono formate in Spagna e Irlanda.
Tra le poche concessioni a questa ricetta fondata sul rigore c’è la creazione di nuovi strumenti come il Meccanismo europeo di stabilità che, per quanto modesto in termini di ‘potenza di fuoco’, potrebbe aiutare temporaneamente eventuali paesi in difficoltà, a patto che questi accettino forti vincoli europei all’azione del loro governo.
Ma dopo anni di austerità, i frutti iniziano davvero a maturare? Alcuni segnali positivi sembrano in effetti provenire da Irlanda, Spagna e Portogallo, ma il ritorno ad una crescita sostenibile non sembra ancora a portata di mano. Anzi, il perdurare di una bassa crescita, che per paesi come l’Italia si è tradotta in aperta recessione, sembra deprimere ulteriormente le aspettative degli operatori economici, includendo sia le imprese che i consumatori, e spingere verso una spirale deflattiva e di stagnazione. La stessa Germania, la cui crescita dipende fortemente dalle esportazioni dentro e fuori l’Eu, ne risulta colpita e deve rivedere al ribasso le proprie prospettive di crescita.
Ma, probabilmente, l’aspetto su cui questa situazione di prolungata difficoltà economica e di altissima disoccupazione (soprattutto giovanile) impatta maggiormente è la sua sostenibilità politica. In altri termini, anni di crisi rischiano di spingere sempre più i cittadini a ritenere inaccettabile la ricetta dell’austerity e a guardare con sospetto all’Unione Europea. Da qui alla crescita di sentimenti populisti e apertamente euroscettici (fino al punto di sostenere l’uscita dall’euro) il passo è breve. Il rischio è quello di svuotare di voti proprio quei partiti che intendono seguire la ricetta tedesca tenendo i conti pubblici sotto controllo e mettendo in cantiere le riforme richieste. Un pericoloso boomerang, quindi, che va evitato non tanto negando del tutto l’austerity - soprattutto quando questa si traduce nel taglio di sprechi decennali - ma aggiungendovi un elemento di speranza, ovvero il ritorno alla crescita e il calo della disoccupazione.
Da questo punto di vista, gli investimenti giocano un ruolo cruciale, al punto che il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ne ha fatto un suo cavallo di battaglia fin da quando era candidato a questa carica. In effetti, diversi studi hanno rivelato che in Europa mancano all’appello ben 500 miliardi di investimenti all’anno, che invece ci sarebbero stati se fosse stato mantenuto il trend di crescita pre-crisi. Si potrebbe anche obiettare che è giusto non raggiungere questi livelli in quanto gli investimenti pre-crisi includevano anche quelli nel settore immobiliare, che tanto hanno contribuito allo scoppio della crisi stessa. Ma pur scorporando questa parte, gli investimenti in Europa languono, e da troppo tempo. Non è un caso che l’Imf - che non aveva mancato di sottolineare l’opportunità delle misure di austerity – abbia recentemente evidenziato che, per un paese in crisi, un aumento degli investimenti dell’1% del pil si tradurrebbe in una crescita tra l’1,5% e il 3% entro successivi quattro anni. E tutto questo non peggiorando i conti pubblici, ma anzi migliorando il rapporto debito/pil del paese.
In realtà è diffuso in Germania e in altri paesi del nord Europa il timore che con l’uscita dalla crisi venga meno la pressione sui governi per attuare le riforme. Si tratta, in pratica, di un problema di fiducia che è tuttavia possibile attenuare. La stessa Commissione europea ha, ad esempio, avanzato l’ipotesi di realizzare dei ‘contratti’ tra le istituzioni europee e i singoli stati membri tramite i quali ‘scambiare’ nuovi investimenti con un impegno irrevocabile dei governi beneficiari a proseguire sul sentiero delle riforme
Non bisognerebbe quindi rifiutare tout court la ricetta tedesca, ma adoperarsi per aggiungervi altri ingredienti che le impediscano di risultare troppo insipida.