La riduzione fenomenologica e la questione dell’amore
Dall’esperienza alla coscienza dell’esperienza
In ogni indagine filosofica il punto decisivo è l’inizio: infatti una volta che ci si è avviati è impossibile eliminarlo, in quanto la correzione stessa del punto di partenza ne conferma comunque l’anteriorità. E la difficoltà si raddoppia quando non si tratta di iniziare da una questione che impone un punto di vista particolare (un’aporia della vita pratica, una cosa sconosciuta nel campo della tecnica, nella scienza ecc.), ma da quella di un inizio radicale – quello della filosofia stessa. La fenomenologia si caratterizza così, come ogni altra grande impresa filosofica, per l’originalità della propria decisione riguardo all’origine: l’inizio diviene radicale soltanto mediante una riduzione.
In che modo opera la riduzione? Come si sa, essa tenta, quali che siano le varie formulazioni che ne ha proposto Edmund Husserl (1859-1938), di ricondurre l’esperienza alla coscienza dell’esperienza, vale a dire a quel che io ne provo realmente, senza assumere niente altro che quel che io ne provo. La riduzione tenta di ‘ridurre’ quel che mi perviene a quel che realmente mi avviene, eliminando quel che l’attitudine naturale mi fa ricevere come acquisito quando invece non lo è affatto. In tal senso, la riduzione si rivela sempre una riduzione al dato. Il vissuto della coscienza, che risulta dalla riduzione in quanto non può separarsi dalla mia coscienza e dunque non può diventare incerto, non trae comunque il suo privilegio dal fatto di identificarsi con me stesso, ma dal suo carattere di dato radicale, inammissibile, inalienabile. Che sia vero di un’altra cosa (fuori di me) o no, esso è me, in quanto dato e dato significa dato a me. Beninteso, ci si può sempre interrogare su quel che voglia dire dato: dato significa sentito nel senso dell’empirismo, conosciuto con un’intuizione (sensibile, intellettuale, categoriale?), provato dal sé che sente sé stesso? La polemica contro il supposto ‘mito del dato’ si gioca entro tali specificazioni. Tuttavia almeno un punto resta indiscutibile: è possibile contestare l’immediatezza e la certezza del dato soltanto a partire dal dato stesso, o perlomeno da un’altra e più immediata intesa del dato. Infatti, se si argomenta che tale dato non ha effettivamente niente di immediato, né dunque di propriamente dato, ma che risulta sempre da una costruzione, bisogna comunque appoggiarsi ancora a un dato, supposto come indubitabile, non fosse altro che per condurre tale polemica contro ciò cui si contesta lo statuto di dato. Questo altro dato, assunto come paradigma, è riconducibile (nella maggior parte dei casi) alla formalità e non all’empirico o al sensibile, e ciò non modifica alcunché del suo carattere di dato. La formalità non sfugge al carattere e al privilegio di dato più di quanto il concetto non sfugga al privilegio della (presa di) coscienza. Una filosofia del concetto resta sempre una filosofia della coscienza (non fosse altro che della coscienza di questo concetto stesso), allo stesso modo in cui un pensiero formale resta, innanzitutto, un pensiero della formalità originariamente data. Ne consegue una prima conclusione: ogni riduzione tende ad arrivare a un primo dato irriducibile – nel senso proprio che nessuna altra riduzione potrà ridurlo e ricondurlo a un dato più originale. Ma la riduzione ammette (e impone) anche un secondo termine: non riconosce il dato come irriducibile se non in quanto essa lo ha ricondotto verso un punto fisso e ultimo, l’io (o il me, il sé ecc.). Non si tratta tanto di istituire, o anche soltanto di riconoscere, la priorità di un soggetto, ossia di un’istanza psichica che abbia il ruolo di un substratum (queste due istanze, in effetti, pongono più difficoltà di quanto non offrano soluzioni), quanto di designare il luogo della donazione stessa del dato. Infatti, se i vissuti sono dati, è necessario che essi vengano rilasciati in e si attestino a un luogo di apparizione, a un’istanza di recezione. Il termine io (mi o me e sé) diventa semplicemente una delle approssimazioni, o addirittura prestanome del luogo del dato. Giungiamo a una seconda conclusione: ogni riduzione tende a raggiungere il luogo dei suoi dati.
Se si pretende di raggiungere un inizio originario con una riduzione, dunque di praticare una riduzione che sia essa stessa originaria, è necessario che il dato e il luogo di questa riduzione risultino essi stessi altrettanto irriducibili a una qualsiasi altra riduzione. Si può praticare (e questa è stata la strada più frequentemente seguita, anche se sotto formulazioni diverse, da Husserl) una riduzione epistemica: di ciò che si dà nell’attitudine naturale come una cosa apparentemente costituita, ma in effetti indistinta e indecisa, la coscienza conserva soltanto i vissuti che possono darsi in modo tale che essa possa costituirli in un oggetto. Si tratta di vissuti che hanno essi stessi i caratteri dell’oggettività, vissuti suscettibili di quantificazione e di misura, di modellizzazione (i due criteri della mathesis universalis di René Descartes: ordo et mensura), così da potersi ripetere identici o quasi, o addirittura (nel caso di oggetti tecnici) ri-prodursi identici o quasi. Tale riduzione permette di conoscere oggetti e può essere chiamata epistemica; ma, poiché permette di conoscerli soltanto in quanto essa ne costituisce la possibilità, la riduzione merita anche il titolo di trascendentale. Resta da sapere se è possibile riconoscergli il titolo di riduzione originaria. Senza dubbio no, principalmente per due ragioni. Innanzitutto perché questa riduzione arriva solamente a conoscere oggetti, senza determinare niente del loro modo di essere. Inoltre perché considerando tali oggetti unicamente come conosciuti in teoria (oggetti sussistenti nella permanenza, vorhanden), ne ignora gli altri modi di fenomenalità, innanzitutto il loro modo di apparizione in quanto si offrono all’uso, alla manipolazione, alla finalizzazione (zuhanden). Tale riduzione resta ontologicamente restrittiva e, anche per gli oggetti della teoria, ontologicamente cieca.
A causa di questo stesso limite, essa indica un’altra riduzione, che si può chiamare ontologica. La riduzione ontologica non conduce i vissuti della coscienza alla costituzione di oggetti della conoscenza, privilegiando esclusivamente il loro statuto teorico (Vorhandenheit), ma li restituisce alla manifestazione delle cose stesse, come enti nel loro essere. Richiedendo il modo d’essere dell’ente che si dà nei vissuti della sua manifestazione, questa riduzione è attenta non soltanto all’eventuale sussistenza permanente (vorhanden) del fenomeno, ma anche all’utilità che lo rinvia a un altro fenomeno d’uso (zuhanden), e così di seguito fino a una finalità (Bewandtnis) fissata, in ultima analisi, dal rinvio del Dasein. I vissuti, se si può ancora dire così quando si tratta del Dasein e non della coscienza, rinviano ormai meno a un oggetto che a un ente, dispiegato nella molteplicità dei suoi modi di essere (da cui la Vorhandenheit, ma anche e innanzitutto la Zuhandenheit). Il fenomeno si manifesta come un ente nel suo o nei suoi modi di essere. L’analogia più netta di una riduzione interviene nel caso della Stimmung più fondamentale, quella dell’angoscia: gli enti vi si trovano come in preda alla nullità e si cancellano nella bruma che squalifica in generale ogni uso dell’ente vorhanden; tale naufragio lascia il Dasein solo e solitariamente assegnato di fronte al nulla dell’étantité, dunque, paradossalmente dell’essere come tale. Questa riduzione, che si chiamerà dunque ontologica in senso radicale (e più decisivo di quello dell’ontologia nella metafisica), non offre comunque una radicalità originaria almeno per due ragioni. Da una parte, presuppone ancora che essere o non essere resti l’interrogativo ultimo, in modo tale da dover diventare per così dire muto non appena il nichilismo, la noia o la vanitas mundi squalifichino l’essere dispiegando il sospetto che domanda «a che pro»/Umsonst? Poi perché essa stessa deve ammettere (come d’altronde la riduzione epistemica nel caso dell’oggetto) che l’ente è sempre già determinato innanzitutto come un dato, prima di apparire come un ente (o un oggetto). Affinché la cosa stessa diventi un fenomeno, è necessario in primis che essa e i suoi abbozzi assumano lo statuto di dato (gegeben), dunque che entrino nell’orizzonte della donazione (Gegebenheit).
A partire da questo momento, le prime due riduzioni devono cedere a una terza, la riduzione al dato. Tale donazione sottostà al principio «tanta riduzione, altrettanta donazione», tratteggiato da Husserl a partire da Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen (1907). Questo principio stabilisce che niente è veramente ridotto (letteralmente: irriducibile), se non è ricondotto a un puro dato, senza residuo, in modo tale che in esso possa sussistere ancora il minimo scarto fra l’apparire e l’apparente; ma anche, inversamente, che niente sia realmente dato, se non è interamente ricondotto alla pura immanenza. Quando un vissuto fenomenale si rivela alla luce di una ricerca più approfondita parzialmente immanente (certo), ma anche parzialmente inverificabile, costruito e assunto senza prova, ciò deriva dal fatto che non ha subito una riduzione completa che l’avrebbe in effetti ricondotto al solo dato in sé. E la riduzione al dato può pretendere di raggiungere l’irriducibile, perché rifiuta di assumere precedentemente qualsiasi limitazione o condizione che definisca a priori il fenomeno. In particolare, essa non lo inscrive entro un orizzonte nel quale dovrebbe apparire di primo acchito nella figura di un oggetto, o in quella di un ente. La donazione non apre (e non si limita a) alcun orizzonte, al contrario dell’oggettità, in quanto può non essere senza smettere di apparire. Da ciò la possibilità per una fenomenalità della donazione di raggiungere ogni possibilità, senza prima accettare i limiti di un’impossibilità. Questa riduzione al dato, oltre al campo fenomenale che scopre in generale, si orienta comunque, in particolare, verso la questione dell’intersoggettività, e anzi più precisamente dell’intersoggettività dell’amore. Ciò avviene per almeno due ragioni principali.
Innanzitutto, la donazione implica che il vissuto di coscienza si dia a ciò che non bisogna più chiamare un io sotto forma di ciò che egli riceve radicalmente. Radicalmente vuol dire: il dato si dà a colui che lo riceve senza che questo ultimo preceda tale avvenimento, ma in modo tale che lui stesso si riceva da quel che riceve, o perlomeno nel momento in cui lo riceve. Si tratta allora non di un recettore già disponibile prima dell’invio e della ricezione, ma di un adonné, cioè di un contemporaneo del dato, ricevuto esso stesso nello stesso tempo di ciò che si dà. L’adonné, che si sostituisce in tal modo all’Io, abbandonando ogni postura trascendentale, definisce una quasi-soggettività originariamente non-originale. Ma l’aggiornamento dell’adonné lascia anche sorgere una nuova ipotesi: come descrivere la situazione in cui un adonné, in luogo di ricever(-si) (da) un dato venuto dal mondo, si confronterà con un altro adonné? Una fenomenalità dell’adonné dandosi a un adonné definirebbe infatti la questione dell’intersoggettività, ma questa volta rivista in termini di donazione. Sorge allora l’ipotesi di una fenomenologia dell’amore, in cui l’altro non resterebbe più incastonato nei presupposti dell’oggettività (Jean-Paul Sartre), o addirittura dell’ente (Martin Heidegger). Anche un’altra ragione lega la riduzione della donazione alla questione dell’amore: la possibilità. In effetti, la riduzione al dato può pretendere di rilasciare il fenomeno da tutte le condizioni di possibilità affrancandosi da orizzonti predefiniti (oggettità, essere). Ma il proprio dell’amore consiste anche, fra l’altro, nel non dipendere da alcuna ragione sufficiente e nel non aver bisogno di alcuna causa per amare. Al punto da definirsi come l’impossibilità in sé dell’impossibilità. Questa comune libertà rende così la terza riduzione originariamente orientata verso la riduzione erotica.
La costruzione della riduzione erotica
Il pensiero metafisico ritiene di aver compiuto tutti i suoi doveri speculativi fornendoci una certezza, promettendoci, ancora di più, tutta la certezza pensabile. La metafisica crede di compiere un’incomparabile prodezza raggiungendo la certezza dell’oggetto ed estendendo questa, in seguito, anche all’ego. Ora, questo risultato attesta inevitabilmente il suo fallimento e la sua cecità. Di fatto, la metafisica non mantiene la sua promessa consegnandoci sotto forma di certezza, e nella migliore delle ipotesi, solo quella degli oggetti (anzi soltanto di alcuni oggetti), certezza che, giustamente, non ci riguarda in alcun modo. In tutti i casi non riguarda me che non sono un oggetto, perché lascia nel silenzio quel tipo di certezza che per me avrebbe significato, quella che concerne precisamente ciò che a me importa in primo luogo: me stesso. Gli oggetti della scienza, le proposizioni della logica e le verità della filosofia potranno ben godere di tutta la certezza del mondo, cosa posso farmene io che non sono né un oggetto della scienza, né una proposizione logica, né una verità filosofica? La sola indagine il cui risultato mi potrebbe importare veramente, dovrebbe legarsi alla possibilità di stabilire una qualche certezza su di me: la mia identità, il mio statuto, la mia storia, il mio destino, la mia morte, la mia nascita e la mia carne, in breve, la mia ipseità irriducibile. Non si può certo rimproverare alla metafisica e alle scienze che la declinano di pervenire più a delle incertezze che a delle certezze – dopo tutto, esse hanno fatto ciò che hanno potuto e deplorano più di chiunque altro l’ambiguità dei loro risultati. Non è possibile nemmeno biasimarle per il fatto di aver sempre ridotto la ricerca della sapienza all’indagine sulla verità e l’indagine sulla verità alla conquista della certezza. Niente ha prodotto, infatti, tanti risultati oggettivi quanto questa doppia restrizione, ed è semplice comprendere che il suo prestigio seduca. Ma noi dobbiamo legittimamente obiettare loro di avere sempre mirato a una certezza secondaria e derivata, estranea e in fin dei conti futile (quella degli oggetti, dei loro saperi, della loro produzione e del loro maneggio), trascurando o ignorando (poco importa) la sola certezza che mi/ci concerne: la certezza di me. Perché anche e soprattutto quando è ridotta agli oggetti che io non sono, la certezza non resta indenne da ogni sospetto. Essa si espone a una contro-prova che può squalificarla tanto più radicalmente di quanto non la contesti come semplice certezza, presa al primo grado. Basta che io rivolga a questa certezza una semplice questione: quella che le chiede «a che pro?». Il calcolo logico, le operazioni matematiche, i modelli dell’oggetto e le sue tecniche di produzione offrono una perfetta certezza, una ‘qualità totale’ e allora? In che cosa tutto questo mi concerne, escludendo il fatto che sono inserito nel loro mondo, che sono inscritto nello spazio intramondano? Dal momento che, malgrado tutto, io resto altro, altrimenti e altrove rispetto a essi, una frontiera porosa dispone i nostri scambi: io intervengo nel mondo degli oggetti certi, ma non vi resto, tuttavia, in pianta stabile, perché ho il terribile privilegio di aprire loro un mondo che, senza di me, essi non potrebbero procurarsi da soli. La loro certezza non mi riguarda, perché è solo di passaggio che io abito il loro mondo, facendovi, di tanto in tanto, il giro del proprietario che però risiede altrove. Io posso, dunque o, meglio, io non posso non-provare, di contro a questa certezza di un altro mondo (di fatto, del mondo a cui non mi riduco), l’irreprimibile tonalità della sua vanità: di questa certezza mondana, a supporre che la si possa ottenere, non mi importa; essa non mi riguarda né mi raggiunge, perché io non sono di questo mondo. Volgarmente, si dirà che il progresso della tecnica non migliora né la mia vita, né la mia capacità di vivere bene, né la mia conoscenza di me stesso. Più filosoficamente, si penserà che la certezza intramondana non decide niente dell’ego, il solo ad aprire questo mondo agli oggetti, agli enti, e ai fenomeni. Ne va della certezza del mondo degli enti come dell’‘appello dell’essere’: non mi toccano se non nella misura in cui sono io a volerlo; ora, dal momento che essi non mi raggiungono in alcun modo nelle mie opere vive, dal momento che non mi dicono niente (niente di me), inevitabilmente soccombono sotto il verdetto della vanità. La vanità squalifica la certezza degli oggetti: indubbiamente essi restano sicuri e certi, ma questa sicurezza non mi rassicura per niente su di me, non mi certifica niente: certezza inutile e vana.
Tuttavia, si potrà obiettare, la metafisica l’ha ben compreso e, per questo, ha voluto ed è riuscita a estendere la certezza delle cose del mondo anche all’ego, che apre a esse nella misura in cui si esclude da esse. Niente è più certo della mia esistenza a condizione che il più spesso possibile io la pronunci o la pensi. La certezza del mondo può anche affondare ma, quanto più sprofonda, tanto più io che la penso e la rifiuto mi penso e, dunque, sono in modo certo. Indubbiamente questa risposta dimostra la certezza dell’ego ma sempre in piena vanità, poiché essa si limita a estendere all’ego, che resta estraneo al loro mondo, lo stesso tipo di certezza che conviene agli oggetti e agli enti intramondani. Il fatto che io sia certo come loro, anzi più di loro, in che cosa mi riguarda intimamente? Che questa certezza non mi raggiunga ancora, non raggiunga ancora me in quanto ego irrimediabilmente individuato, è quanto confermano svariati argomenti.
In primo luogo, questa certezza di perseverare nell’esistenza, quando e quanto a lungo io lo desideri, mi accade solo come un effetto del mio pensiero, come uno dei miei prodotti, come il mio primo artefatto, come l’artefatto per eccellenza, perché mobilita la più originale fra le arti che posseggo, la mia cogitatio; essa non mi è, dunque, originaria ma deriva dalla mia cogitatio, la sola ad assicurare originariamente che io sono quando voglio assicurarmi di essere. Tutto dipende da ciò che io cogito, dunque dalla mia volontà pensante. Ma se si tratta appunto di una decisione della cogitatio, si impone immediatamente la domanda «a che pro?»: se io sono soltanto nella misura in cui voglio produrre la certezza della mia esistenza, infatti, potrò essere sempre nella condizione di volerlo? Non posso sempre ritorcere la domanda «a che pro?» davanti alla possibilità di produrre la mia certezza di essere? Quale ragione certa mi assicura di volere senza incrinature né riserve questa stessa certezza? Per quale motivo assolutamente incrollabile dovrei produrmi nella certezza piuttosto che non? Perché, dopo tutto, volere essere piuttosto che non essere? Nessuno, oggi che il nichilismo fa epoca, prenderebbe più questo argomento per una stravaganza. Dietro l’evidenza della cogitatio di sé spunta, dunque, l’ombra di una decisione – quella di produrre o no la mia certezza. È proprio qui che si installa senza resistenza la domanda che chiede «a che pro?». La certezza della cogitatio non risale fino all’origine, già occupata da una decisione più primitiva; essa non fa che assicurare una verità che la vanità potrà sempre annullare.
In secondo luogo, una certezza che io posso (o non posso) produrre a volontà, non resta essenzialmente contingente, derivata e dunque ancora a me estranea? Se la mia certezza dipende da me, questa stessa sicurezza, che io devo produrre e decidere, non può rassicurarmi dal momento che, anche se compiuta, avrà me come origine, questo me che bisognerebbe a sua volta assicurare. O si tratta, dunque, di un’autofondazione, di un circolo logico, condannato a mimare senza successo la causa sui presunta divina (e già insostenibile); o si tratta di una semifondazione, di un evento empirico dalla pretesa trascendentale che la temporalità ricondurrà sempre a un’irrimediabile contingenza. Di fatto, questa presunta prima certezza marca, al contrario, uno scarto insuperabile: da una parte, ciò che resta di mio dominio, io senza altra assicurazione che me, e, d’altra parte, ciò che, solamente, potrebbe offrirmi una rassicurazione su me stesso – e cioè una certezza che mi proviene da altrove e che mi precede. O io sono soltanto in virtù di me stesso, ma la mia certezza non è originaria; ovvero la mia certezza è, sì, originaria, ma essa non proviene da me. La certezza di sé potrà, dopo tutto, proclamarsi in modo forte e altisonante, ma essa si scoprirà, tuttavia, provvisoria, nell’attesa illusoria che un altro principio, Dio senza dubbio, giunga, infine, ad assicurarla veramente. Un tale ricorso metafisico dell’ego a Dio ben riconosce che la certezza autarchica dell’ego è insufficiente ad assicurarlo pienamente.
Niente mi espone all’attacco devastante della vanità più della dimostrazione metafisica dell’esistenza dell’ego, più della mia certezza di essere a titolo di ego, perché la certezza attesta il suo fallimento nello stesso istante della sua riuscita: indubbiamente io acquisisco una certezza, ma, come quella degli enti del mondo che riduco a rango di oggetti certificati dalle mie cure, essa mi rinvia alla mia iniziativa, dunque a me, operaio arbitrario e indeciso di ogni certezza, anche della mia. Soprattutto della mia. Assicurarmi da solo della mia certezza non mi rassicura affatto, ma mi espone allucinato davanti alla vanità in persona. «A che pro» la mia certezza, se essa dipende ancora da me? «A che pro» io, se sono solo grazie a me?
La riduzione erotica
La vanità squalifica, dunque, ogni certezza, sia che essa verta sul mondo, sia che essa verta, soprattutto, su me stesso. Bisogna rinunciare, allora, ad assicurarsi di sé, a essere rassicurati rispetto a ogni assalto della vanità? L’impossibilità di rispondere alla questione «a che pro?», persino a tollerarla, non mostra la vanità per eccellenza – l’eccellenza spietata della vanità? Niente resiste alla vanità, perché essa può ancora aggirare e annullare ogni evidenza, ogni certezza, ogni resistenza.
A meno che per assicurare realmente l’ego di sé stesso non occorra rinunciare al paradigma della certezza, che viene dal mondo e che al mondo si rivolge, all’assurda ambizione di autogarantirmi la misera certezza di un’esistenza ricevuta alla stessa stregua di un oggetto o di un ente del mondo. Perché nel mio caso, nel mio solo caso, l’assicurazione chiede molto di più di un’esistenza certa, molto di più di una certezza. Essa richiede che in questa esistenza io mi consideri come liberato dalla vanità, affrancato dal dubbio di inutilità, indenne dall’«a che pro?». Per affrontare questa esigenza non si tratta più di ottenere la certezza di essere, ma di ottenere la risposta a un’altra questione: «qualcuno mi ama?».
La certezza compete agli oggetti e, più generalmente, agli enti del mondo, perché per loro essere equivale a sussistere nella presenza effettiva e l’effettività può essere certificata. Ma questo modo d’essere non riguarda me. In primo luogo non mi riguarda perché io non sono a misura della mia effettività, ma della mia possibilità; se io dovessi permanere nello stato effettivo in cui mi trovo, certo ben sarei ciò che sono, ma si avrebbe ragione a considerarmi un ‘morto’; per essere quello che sono mi occorre, inversamente, aprire una possibilità di diventare altro da quello che sono, di proiettarmi nell’avvenire, di non perseverare nel mio essere, ma in un’altra condizione dell’essere; in breve, per essere quello che sono (e non un oggetto o un ente del mondo), io devo essere in quanto possibilità, in quanto possibilità, dunque, di essere altrimenti. Ora, nessuna possibilità si lascia afferrare dalla certezza; la possibilità si definisce, infatti, anche per la sua irriducibilità alla certezza. Secondo il mio modo d’essere possibile, dunque, io non dipendo dalla certezza. In seguito, l’effettività certificabile non mi concerne per un’altra ragione, più radicale: perché io non mi riduco a un modo d’essere, sia pure a quello della possibilità. Infatti, non mi basta essere per rimanere quello che sono: mi occorre anche e soprattutto che qualcuno mi ami.
Una controprova lo verifica: ipotizziamo che ci venga proposto di essere in modo certo (effettivamente) per una durata indeterminata, ma molto lunga, all’espressa condizione di rinunciare definitivamente alla possibilità (nemmeno all’effettività) che qualcuno possa mai amarci, chi accetterebbe? Appare chiaro come il giorno che nessun io, nessun ego, di fatto nessun umano, e soprattutto nemmeno il più grande cinico del mondo (che pensa soltanto a questo) accetterebbe, perché il fatto di rinunciare anche solo alla possibilità di essere amato, opererebbe su di me una sorta di castrazione trascendentale e mi abbasserebbe al rango di un’intelligenza artificiale, di un calcolatore meccanico o di un demone; in breve, verosimilmente più in basso dell’animale, che almeno mima l’amore. E, di fatto, quelli fra i miei simili che hanno rinunciato – è vero in parte ed esclusivamente sotto un certo profilo – alla possibilità che li si amasse, hanno perduto, in misura proporzionale alla rinuncia, la loro umanità. Rinunciare a porsi la domanda «qualcuno mi ama?», rinunciare soprattutto alla possibilità di una risposta positiva, vuol dire rinunciare all’umano in sé.
Un’obiezione potrebbe qui apparire forte: la domanda concernente il fatto che qualcuno possa amarmi non presuppone che io innanzitutto sia? Altrimenti detto: per essere felici bisognerebbe innanzitutto essere, semplicemente. O ancora: essere amato (o amabile) resterebbe il semplice correttivo ontico di un carattere ontologico più originale. In breve, la questione dell’amore possiederebbe tutta la correttezza e la pertinenza volute, ma, nella migliore delle ipotesi, sarebbe oggetto di una filosofia seconda fra le altre (come l’etica, la politica ecc.). In realtà si tratta di un puro sofisma, che dà per acquisito ciò che deve, invece, essere mostrato, e cioè che il modo d’essere (o di non essere) dell’ego possa ridursi al modo d’essere degli oggetti e degli enti del mondo e venire compreso a partire da sé stesso. Ora, sono proprio questi oggetti e questi enti che, per essere nella forma del ben-essere, devono innanzitutto essere e, parimenti, per essere, devono, anzitutto, sussistere. Al contrario, invece, io posso essere solo secondo la possibilità, dunque innanzitutto secondo l’avvenire; dunque, ancora, secondo l’eventualità che qualcuno mi ami o potrebbe un giorno amarmi. In ogni altro caso diverso dal mio, ‘essere amato’ può venir inteso come un enunciato sintetico, in cui ‘amato’ si aggiunge dall’esterno al suo presupposto ‘essere’. Ma, nel mio caso, per me, l’io, ‘essere amato’ diventa un enunciato analitico, perché io non potrei essere, né tollerare di essere senza che sia aperta la possibilità che da un momento all’altro qualcuno mi ami. Essere per me non significa niente meno che essere-amato. L’inglese sembra suggerirlo a modo suo: to be loved può dirsi, in una parola, beloved. Perché non posso accettare di essere se non all’espressa condizione che qualcuno mi ami? Perché, nella misura in cui sono, io resisto all’assalto della vanità solo sotto la protezione di questo amore, o, almeno, della sua possibilità.
Bisogna, dunque, farla finita con ciò che produce la certezza degli oggetti del mondo, la riduzione epistemica, che della cosa conserva solo ciò che in essa resta ripetibile, permanente e come in pianta stabile sotto lo sguardo dell’anima. Bisogna prendere le distanze anche dalla riduzione ontologica, che della cosa mantiene soltanto il suo statuto di ente, per ricondurlo, infine, all’essere, o, eventualmente, per inquisirlo, fino a ravvisarvi l’essere stesso. Non resta, allora, che tentare una terza riduzione: perché io possa apparire come un fenomeno a pieno titolo, non basta che mi riconosca al pari di un oggetto certo, o come un ente propriamente essente; occorre, invece, che io mi riconosca quale fenomeno donato (cioè proveniente da una donazione, e, di conseguenza, adonné), in grado di assicurarsi come un dato libero dalla vanità. Ma quale istanza potrebbe donare una simile assicurazione? In questa fase del percorso, non sappiamo né qual è e neanche se è; possiamo solo delinearne l’importante ruolo: si tratta di assicurarmi contro la vanità del mio proprio fenomeno donato (e adonné) rispondendo a una nuova questione: non più «sono certo?», ma «malgrado tutta la mia certezza, sono forse invano?». Ora, chiedere di assicurare la mia certezza di essere contro il grigio assalto della vanità, non vuol dire altro che domandare «qualcuno mi ama?». Ci siamo: la forma di assicurazione che può dirsi appropriata all’ego donato (e adonné) mette in opera una riduzione erotica.
Io sono. Questa eventuale certezza, anche se supposta incrollabile, anche se eretta a principio primo dalla metafisica, la quale non trova niente di più elevato, vale, tuttavia, ben poco se non perviene ad assicurarmi contro la vanità, ad assicurarmi, dunque, di essere amato. Perché potrò sempre e comunque non curarmi completamente di essere, fino a diventare indifferente al fatto che sono, non considerarlo mio affare, anzi odiarlo. Non basta che io sappia di essere in modo certo e senza restrizione alcuna per sopportare questo stesso fatto d’essere, per accettarlo o amarlo. La certezza di essere, al contrario, può anche soffocarmi come una gogna, invischiarmi come melma, imprigionarmi come una cella. Per ogni ego, essere o non essere può diventare la posta in gioco di una libera scelta, senza che la risposta positiva sia scontata. E non si tratta qui necessariamente di suicidio, ma sempre e innanzitutto della supremazia della vanità; perché quando essa regna, io posso ben riconoscere «penso, dunque sono» in modo assoluto ma, al contempo, posso annullare questa certezza chiedendomi «a che pro?». La certezza della mia esistenza non basta mai a rendere questa stessa esistenza giusta, buona, bella o desiderabile: in breve, non basta ad assicurarla. La certezza della mia esistenza mostra solamente la potenza solitaria di stabilirmi per conto mio nell’essere, attraverso la mia propria e intima decisione; ora, una certezza prodotta dal mio proprio atto di pensiero resta ancora e sempre una mia iniziativa, una mia opera, un mio affare, certezza autistica, assicurazione narcisistica di uno specchio che guarda solo un altro specchio, un vuoto ripetuto. Ottengo l’esistenza più desolata, che è puro prodotto del dubbio iperbolico, senza intuizione, senza concetto e senza nome; essa resta un deserto, il fenomeno più povero, che non dona niente altro che la sua inutilità. Io sono, certezza immune da dubbio, ma al prezzo dell’assenza di ogni dato. Io sono, ultimo fiore del dubbio stesso piuttosto che verità prima. Io dubito, e almeno questo dubitare è certo. Sono certo, ma di una certezza così vuota e di un fenomeno così povero che si rivela subito impossibile che di questa certezza mi importi, che essa mi riguardi veramente e non sprofondi, invece, davanti alla vanità che chiede «a che pro?». Mimo minimalista della causa sui, la certezza inchioda l’ego a un quantum di esistenza sufficiente per subire, senza difesa alcuna, lo shock della vanità. Perché io sia non solo in modo certo, ma sia contraddistinto da una certezza di cui mi importa, mi occorre essere di più e altrimenti rispetto a quanto di me potrei garantire da solo: mi occorre, cioè, essere a partire da un essere che mi assicura dal di fuori. La mia certezza di essere posso indubbiamente produrmela e riprodurmela, ma non posso assicurarla da solo contro la vanità. Soltanto un altro può assicurarmela, come una guida in montagna assicura il suo cliente, perché l’assicurazione non va confusa con la certezza. La certezza risulta dalla riduzione epistemica (e perfino dalla riduzione ontologica) e si gioca fra l’ego, il dominante, e il suo oggetto, il dominato; anche se l’ego diventa certo della sua esistenza, soprattutto se ne resta il padrone prima di Dio, egli la conosce solo come il suo proprio oggetto, un oggetto derivato, dunque, benché primo, interamente esposto alla vanità. Da parte sua, l’assicurazione risulta dalla riduzione erotica; essa si gioca fra l’ego, la sua esistenza, la sua certezza e i suoi oggetti da una parte, e, d’altra parte, un’istanza qualunque e ancora indeterminata, ma sovrana, visto che risponde alla questione «qualcuno mi ama?» e permette di far fronte all’obiezione «a che pro?». L’ego produce la certezza mentre l’assicurazione la oltrepassa radicalmente, perché giunge all’ego dall’esterno e lo libera dal peso schiacciante dell’autocertificazione, del tutto inutile e disarmata davanti alla domanda «a che pro?». Il fatto di certificarmi l’esistenza dipende dal mio pensiero, dunque da me. Il fatto di ricevere l’assicurazione contro la vanità della mia esistenza certa, non dipende, invece, da me, ma richiede che io apprenda da fuori che sono e che sono libero dalla vanità di essere. Tenere testa alla vanità, e cioè ottenere da fuori la giustificazione di essere, vuol dire che io non sono nella misura in cui sono (anche grazie a me), ma sono in quanto amato (dunque dal di fuori).
Di quale altrove può trattarsi? A questa domanda non ho evidentemente ancora i mezzi per rispondere. Ma non ho neanche bisogno di stabilirli. Perché si compia la riduzione erotica, basta comprendere quello che (mi) chiedo: non una certezza di sé tramite lo stesso sé, ma un’assicurazione venuta da altrove. Questo altrove ha inizio non appena comincia a cedere la chiusura onirica del sé su sé stesso e in essa affiora un’istanza che non sono io e da cui, secondo modalità variabili e ancora indefinite, io mi ricevo. Non importa, dunque, che questo altrove possa identificarsi con un altro neutro (la vita, la natura, il mondo), o con un altro generale (il gruppo, la società), o, ancora, con un altro specifico (uomo o donna, il divino, persino Dio); importa unicamente che a me giunga da fuori, così nettamente da non poter non avere importanza per me, dal momento che si installa in me. Il suo anonimato, lungi dall’indebolirne l’impatto, lo rafforzerebbe: infatti, se resta anonimo, l’altrove mi accadrà precisamente senza annunciarsi, dunque senza lasciarmi prevedere niente; e se mi prende alla sprovvista, mi sorprenderà, mi raggiungerà tanto più al cuore, toccandomi profondamente. Ma toccandomi in modo così radicale, l’altrove anonimo interviene come un evento. Ora, solo un evento radicale può dissipare l’indifferenza della vanità di essere ed estenuare l’«a che pro?». Il letargo che insinua il «che importa?» viene dissipato nel momento in cui l’altrove si installa in me e diventa ciò che mi importa. L’evento anonimo mi dona, dunque, un’assicurazione su di me (che sono grazie all’altrove), nella stessa misura in cui mi toglie ogni certezza su di lui (sulla sua identità). Dell’altrove non bisogna dunque ricercare immediatamente l’identità, perché il suo stesso anonimato fa in modo che di esso mi importi di più.
A suo riguardo, conviene innanzitutto comprendere come giunga a rivelarsi importante per me e a rimpiazzare la domanda «sono?» con la questione «sono amato?»: in breve, come giunga a compiere la riduzione erotica.
In prima approssimazione si dirà: poiché l’altrove anonimo, nel momento stesso in cui mi accade, mi assicura, rompendo l’autismo della certezza di sé autoprodotta dal sé, esso mi espone, allora, alla sua presenza, e determina originariamente ciò che sono attraverso ciò in vista di cui (o in vista di che cosa) sono. Di conseguenza, essere significa, per me, essere secondo la venuta dell’altrove, essere verso e per ciò che io non sono, quale che esso sia. Io sono, ma non più perché lo voglio (lo penso o lo divento performativamente), ma a partire da ciò che mi si vuole dall’esterno. Ma cosa mi si può volere, del resto? Bene o male, nel senso più stretto, da femmina a maschio, da uomo a uomo, da gruppo a gruppo; ma anche, persino innanzitutto in senso più largo, extramorale, quale anche le cose inanimate possono darne prova rispetto a me (perché il mondo può diventarmi ospitale o inospitale, il paesaggio ingrato o sorridente, la città aperta o chiusa, la compagnia dei semplici esseri animati accogliente o ostile ecc.). Io sono, dunque, nella misura in cui mi si vuole bene o male, nella misura in cui posso sentirmi accolto o non, amato o non, odiato o non. Io sono nella misura in cui posso chiedermi «cosa mi si vuole?»; io sono nella misura in cui divento suscettibile di una decisione, che non mi appartiene ma che mi determina anteriormente, perché mi giunge da un luogo fuori di me, una decisione che mi rende amabile o non. Così, l’assicurazione decide, al di là della certezza (che improvvisamente per me diventa non originaria), che non saprò essere se non in quanto amato o non. In quanto amato da fuori e non in quanto mi autopenso come ente. Essere, per me, si trova sempre determinato da una tonalità originaria, essere in quanto amato o odiato, da fuori.
Non si potrebbe tuttavia obiettare a questa figura dell’ego in situazione di riduzione erotica, che essa consacri senza riserve un egoismo radicale, dunque ingiusto? No, perché se si prende alla lettera il termine egoismo, vale la pena di farne l’elogio. Perché al contrario della certezza di sé che giunge all’ego da sé stesso, l’assicurazione non può mai essere autoprodotta, ma proviene sempre da fuori: da ciò consegue un’alterazione, quasi un’alterità radicale dell’ego rispetto a sé stesso e originariamente. Inteso in questo senso stretto, l’‘egoismo’ di un ego eroticamente ridotto merita allora un privilegio etico. Egoismo dunque? Egoismo, certamente, ma a condizione di averne i mezzi e la risoluzione. Perché questo egoismo consapevole e istruito è l’unico ad avere l’audacia di non rimanere bloccato nella neutralità trascendentale in cui l’‘io penso’ s’inganna sulla certezza come se essa lo assicurasse, come se egli non dovesse nient’altro a sé stesso, come se potesse, infine non dovere niente a nessun altrove.
L’egoismo della riduzione erotica ha, invece, il coraggio di non sminuire il terrore che minaccia ogni ego non appena affronta il dubbio della sua vanità, di non distrarre lo sguardo dallo spavento silenzioso diffuso da un semplice «a che pro?». Perché, infine, se l’ego fosse solo ciò che si illude di essere – l’esistenza astratta di cui si vuole così poveramente certo – da dove trarrebbe la forza, ostinata e inconfessata di rimanere sé stesso, da dove trarrebbe la legittimità di sopportare la sua penuria senza assicurazione? Limitarsi a essere un ego pensante, strettamente ristretto alla sua neutralità falsamente trascendentale, chi potrebbe rassegnarsi a questo senza paura, quando arriva l’ora tetra non più del dubbio sulla certezza, ma della vanità senza assicurazione? Né io né altri – salvo a pretenderci ipocritamente incoscienti di questa prova – possiamo agire come se non intervenisse alcuna differenza a seconda del fatto che qualcuno ci ami o no, come se la riduzione erotica non aprisse una differenza cardinale, come se essa non differisse di più rispetto a tutte le altre differenze e non le rendesse tutte indifferenti. Chi può seriamente sostenere che la possibilità di trovarsi amato o odiato non lo riguardi affatto? Se ne faccia la prova: il più grande metafisico del mondo, non appena cammina su questo filo cede alla vertigine (e che dire dei piccoli filosofi e di coloro che si improvvisano filosofi?). E, del resto, quale coerenza c’è nel pretendersi modestamente non egoisti davanti alla riduzione erotica, vantandosi senza esitazione né timore di esercitare la funzione imperiale di un ego trascendentale? Inversamente, con quale diritto tacciare di egoismo l’ego che si riconosce onestamente mancante di assicurazione e si espone senza riserve a un altrove che può non conoscere e che non deve, in ogni caso, mai padroneggiare?
Bisogna, dunque, smetterla con la vanità al secondo grado che sta nel pretendere di non sentirsi toccati al cuore dalla vanità di ogni certezza, ivi compresa la vanità di questa certezza desertica, che mi conferisco pensandomi. Quale ingiustizia c’è nel volere che da fuori qualcuno mi ami? La giustizia e la correttezza della ragione non esigono, al contrario, che io mi assicuri da me stesso, quel me stesso, senza di cui nessuna cosa al mondo saprebbe né donarsi né mostrarsi? E chi, dunque, più di me, ha il dovere di preoccuparsi della mia assicurazione erotica – la sola possibile –, dato che io per primo porto il peso di me stesso? E soprattutto, potrei rinunciarvi solo cedendo senza combattere e senza gloria alla vanità: senza l’egoismo e il coraggio razionali di compiere la riduzione erotica, io lascerei sprofondare l’ego in me. Nessun obbligo etico, nessun altruismo, nessuna sostituzione mi si potrebbero imporre, se il mio ego non fosse in grado di resistere da solo alla vanità e al suo «a che pro?», dunque se io non chiedessi in primo luogo e senza condizioni, per me, un’assicurazione da fuori. Alla luce della riduzione erotica, l’egoismo stesso esige un’alterità originaria e da solo rende, dunque, eventualmente possibile la prova d’altri.
L’amante
Il mondo non può fenomenalizzarsi se non dandosi a me e rendendomi il suo adonné. Il mio posto al sole – al sole erotico che mi assicura come amato o odiato – non ha niente di ingiusto, di tirannico, e neppure alcunché di disprezzabile: pretenderlo, anzi, mi si impone come primo dovere.
Un’altra obiezione potrebbe, di ritorno, fermarmi. Sostituire all’ego pensante, l’ego amato o odiato, potrebbe significare indebolirlo, per due ragioni. Innanzitutto perché dipende dall’ego cogitans il fatto di pensarsi da solo e dunque di produrre la sua certezza in perfetta autonomia, mentre, configurandomi secondo la riduzione erotica, io mi pongo, di fatto, solo la questione «qualcuno mi ama?», ancora sprovvista di risposta. Questa domanda mi fa dipendere da un altrove anonimo che per definizione io non posso padroneggiare; essa mi espone, dunque, all’incertezza radicale di una risposta sempre problematica e forse impossibile. Ormai dovrò elaborare il mio lutto dell’autonomia, questa ininterrogata ossessione. Secondariamente, perché anche se un’eventuale conferma erotica (che non posso autonomamente accordare a me stesso) mi giungesse da fuori, io rimarrei ancora inchiodato a un’incertezza definitiva.
Di fatto, l’assicurazione da fuori non verrebbe mai ad aggiungersi alla certezza di sé allo scopo di confermarla; nella migliore delle ipotesi, essa verrebbe a compensarne la lacuna, dopo averla essa stessa provocata, ferendo l’ego con un’alterità per lui più originaria di sé stesso. Entrando nella riduzione erotica, io perderei, dunque, me stesso, perché il mio carattere ormai determinante – ‘amato (oppure odiato)’ – non mi apparterrà mai più in proprio (come accadeva prima relativamente a ‘pensante’); esso non mi ricondurrà più a me stesso, al contrario mi esporrà a un’istanza indecidibile, che tuttavia deciderà di tutto, e soprattutto di me. In breve, l’ego si indebolisce a causa di un’eteronomia di diritto, poi di fatto. Questo doppio indebolimento non può essere in effetti contestato, e l’obiezione ha pieno successo.
Bisogna ammettere come un dato ormai acquisito che la riduzione erotica raggiunge intimamente l’ego destituendolo definitivamente da ogni autoproduzione nella certezza e nell’esistenza. Se, per caso, dovesse liberarsi una risposta alla questione «qualcuno mi ama?», essa si iscriverebbe sempre in questa dipendenza come nel suo orizzonte ultimo, senza ristabilire mai – neanche come accenno desiderato o come ideale della ragione – l’autonomia della certezza ottenuta attraverso la cogitatio. Ma questo risultato destituente non equivale tanto a una perdita secca, quanto a un’acquisizione ancora oscura. Perché, se, sotto il colpo della riduzione erotica, io non posso ricevermi con certezza se non in quanto amato (o odiato), dunque come un amato solo in potenza (un amabile), entro, allora, in un terreno assolutamente nuovo. Non si tratta neanche più di esserci in quanto amato, di esserci, amato o odiato con lo scopo di pervenire a essere o non essere, ma di apparire a me stesso direttamente al di là di ogni statuto di ente eventuale, come amato potenziale e come amabile. Ormai, ‘amato’ non gioca più il ruolo di un aggettivo o di un mezzo per essere, perché in regime di riduzione erotica, la sola a far fronte alla vanità, non si può più assumere senza precauzioni, come fa la metafisica, che «essere o non essere, questo è il problema». La questione «qualcuno mi ama?» che a essa si sostituisce definitivamente non mira più all’essere e non si preoccupa più dell’esistenza. Essa mi introduce in un orizzonte – se questo concetto può ancora andar bene – in cui il mio statuto di amato o di odiato, in breve, di amabile, rinvia solo a sé stesso. Chiedendo se da un altrove qualcuno mi ama, io non devo neanche più informarmi sulla mia assicurazione: entro nel regno dell’amore, in cui ricevo immediatamente il ruolo di colui che può amare, che è possibile amare e che crede che lo si debba amare: l’amante.
L’amante si oppone, dunque, al cogitante. Innanzitutto perché destituisce la ricerca della certezza con quella dell’assicurazione; perché sostituisce alla questione «sono?» (dunque anche alla sua variante «sono amato?»), la domanda ridotta «qualcuno mi ama?»; perché non è in quanto pensa, ma, a supporre che debba ancora essere, è solo in quanto amato. E soprattutto, mentre il cogitante cogita in vista di essere ed esercita il suo pensiero come un mezzo per certificare il suo essere, l’amante non ama tanto per essere, ma per resistere a ciò che annulla l’essere: la vanità che chiede «a che pro?». L’amante mira a superare l’essere, per non soccombere con lui a ciò che lo destituisce. Dal punto di vista dell’amante, di fatto dal punto di vista della riduzione erotica, l’essere e i suoi enti appaiono come contaminati e intoccabili, irradiati dal sole nero della vanità. Si tratta di amare, perché in regime di riduzione erotica niente che non sia amato o amante resiste. Passando dal cogitante (dunque anche da colui che dubita, ignora e comprende, vuole e non vuole, immagina e sente) all’amante, la riduzione erotica non modifica la struttura dell’ego per raggiungere, con altri mezzi, lo stesso scopo: certificare il suo essere. Essa destituisce la questione «essere o non essere?», depone la questione dell’essere dalla sua supremazia, esponendola alla domanda «a che pro?» e la prende seriamente in considerazione dal punto di vista della vanità. Una volta dispiegata la riduzione erotica, là dove ne va dell’amante, la questione «cos’è l’ente (nel suo essere)?» perde il suo privilegio di questione più antica, sempre ricercata e sempre mancata. L’aporia della questione dell’essere non concerne innanzitutto il fatto che la si è sempre mancata, ma il fatto che la si è sempre e nuovamente posta in primo luogo, mentre essa rimane – nel migliore dei casi – una questione derivata, seconda, condizionale. Né prima né ultima, anch’essa è espressione di una filosofia seconda, almeno nel momento in cui un’altra questione – «a che pro?» – l’affligge, e una filosofia più radicale chiede «qualcuno fuori di me mi ama?». Questa inversione dell’attitudine naturale – naturalmente ontologica, dunque naturalmente metafisica (qui, almeno) – può da sola compiere una riduzione di tipo nuovo, che abbiamo identificato come riduzione erotica.
Bibliografia
M. Henry, Phénoménologie de la vie, i° vol. De la phénoménologie, 4° cap., Paris 2003.
J.-L. Marion, Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, Paris 20042, pp. 303 e sgg.
J.-L. Marion, Etant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Paris 20055, pp. 23 e sgg. (trad. it. Torino 2002).
Il saggio riprende in parte i contenuti della conferenza dal titolo La questione dell’amore e la riduzione fenomenologica, tenuta da Jean-Luc Marion a Sassuolo il 18 settembre 2005 nell’ambito del Festival di filosofia e pubblicata nel 2006 dalla Fondazione Collegio San Carlo di Modena in un’edizione fuori commercio.